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IL RACCONTO
Berlino, quella notte
che cambiò la Storia
di BERNARDO VALLI
A volte un dettaglio, un gesto o una parola, a
provocare un avvenimento storico decisivo: ben
inteso un avvenimento già maturo, ma ritardato,
trattenuto dalla convenienza politica. Ad affrettare la
caduta del Muro fu l'incauta battuta di un funzionario
la sera del 9 novembre 1989. Poche sillabe,
semplici, in apparenza innocue ("von jetzt": "da
adesso"), che si rivelarono una formula magica ed
ebbero un effetto dirompente. Furono pronunciate
alle 18,57 di quel giorno di mite autunno prussiano: e, in quell'istante, si chiuse
un'epoca, fu la fine geopolitica del secolo, in anticipo rispetto al calendario
gregoriano.
Il nuovo capo di Berlino Est, Egon Krenz, voleva dimostrare la sua adesione alla
glasnost, la politica della trasparenza promossa a Mosca da Gorbaciov. Era
appena succeduto a Erich Honecker e ci teneva a distinguersi dall'esponente
della vecchia guardia, troppo fedele al comunismo di guerra per adeguarsi a un
comunismo che si voleva liberale, quindi in disarmo. Per questo Krenz aveva
consentito la trasmissione in diretta delle conferenze stampa serali, le quali
erano seguite da milioni di tedeschi. In tempi di crisi ritmati da sempre più
imponenti manifestazioni di protesta, erano spettacoli carichi di suspense.
Guenter Schabowski aveva debuttato da poco come portavoce di Krenz e non
era certamente un esperto della comunicazione. Quella sera annunciò un nuovo
"decreto sui viaggi". Disse che d'ora in poi i permessi per recarsi nella Berlino
occidentale, attraverso i varchi del Muro, sarebbero stati rifiutati soltanto in casi
eccezionali. Era chiaro che il governo allentava le redini sotto la pressione
popolare. Le quotidiane disubbidienze di massa e l'assenza delle rituali
repressioni rivelavano la fragilità del potere. I quattrocentomila soldati sovietici,
acquartierati dal 1945 nella Germania Orientale, non intervenivano più per
ripristinare la sovranità limitata nel paese satellite: pensavano piuttosto a come
sbarcare il lunario, poiché nella madre patria c'era un clima da bancarotta e i
soldi per le paghe e la sussistenza arrivavano in modo irregolare da Mosca. In
quanto ai soldati tedeschi, neppure loro osavano puntare le armi contro i
connazionali da quando Gorbaciov si era installato al Cremlino e aveva escluso
l'uso della violenza per imporre l'ordine nell'impero.
L'annuncio di Schabowski si iscriveva in questa nuova realtà. Non c'era bisogno
di ulteriori spiegazioni. Il regime barcollava e cedeva terreno. Fu un anziano
cronista a porre con candore, senza rendersene conto, una domanda esplosiva.
Chiese al portavoce di Krenz a partire da quando quel decreto sarebbe entrato
in vigore. Schabowski esitò a rispondere, poi disse quasi sottovoce: "Da adesso,
se sono ben informato". A quelle parole, "da adesso", milioni di tedeschi
sobbalzarono. Se era necessaria un'autorizzazione, sia pur facile da ottenere, il
decreto non poteva essere valido da quell'istante, in quell'ormai tarda sera.
L'irrazionalità della risposta assomigliava a una resa incondizionata o era un
sintomo del panico in cui ormai affondava il governo.
In realtà Egon Krenz pensava di rendere operativo il decreto soltanto l'indomani,
facendo rispettare i tempi burocratici, quindi frenando, disciplinando l'apertura a
Ovest. Ma il suo portavoce, per imprudenza, travolse i ritmi stabiliti, e accelerò
probabilmente i successivi tempi che condussero al crollo della Ddr e quindi alla
riunificazione.
Appena ascoltate le parole sfuggite a Schabowski, i
tedeschi orientali cominciarono a discuterne il
significato, prima davanti ai televisori, in famiglia, poi
al telefono con gli amici, e più tardi sulle piazze.
"Cosa vuol dire quel 'da adesso'? Che possiamo
attraversare il Muro subito, stasera? "Perché non
proviamo?" Alle 21 gruppi di giovani si presentarono
al passaggio del Muro, sulla Potsdamerplatz.
L'esercito non aveva ordini precisi. Che fare? I giovani passarono indisturbati.
Dietro di loro si formarono code interminabili. Alle 22,50 di quella stessa sera,
l'Ard, una tv occidentale, aprì il telegiornale annunciando che gruppi di tedeschi
orientali avevano potuto superare il Muro "senza complicazioni". A quella notizia
Berlino Est si illuminò, la gente uscì dalle case e s'incamminò verso la parte
occidentale della città. E' raro capire l'importanza degli avvenimenti mentre si
svolgono sotto i tuoi occhi. In quelle ore non si potevano avere dubbi: il
comunismo reale aveva ammainato la bandiera a Berlino, settantadue anni dopo
averla issata su Pietrogrado, durante la Rivoluzione d'Ottobre. Nel frattempo, da
emblema di un'utopia quella bandiera si era trasformata in un muro di cemento,
stile carcerario, lungo centosessanta chilometri. Certo, adesso, dieci anni dopo,
con il senno di poi, uno vede tutto chiaro, e può spiegare che quel giorno si
concluse un'interminabile dramma europeo. Un dramma estesosi via via al resto
del mondo.
Era cominciato con la Grande Guerra, nel 1914, e poi era proseguito durante
tutto il secolo con spettacolari, tragici colpi di scena: il naufragio sanguinoso
della Russia zarista, l'avvento dei Soviet, il crollo dell'impero tedesco, l'incendio
del Reichstag, Auschwitz, il gulag, la guerra fredda, l'Europa divisa: e
all'improvviso, nel 1989, crollava come un fondale di cartapesta il simbolo
concreto di quella divisione, ossia della sfida tra le due opposte concezioni del
mondo emerse nel '900.
Quel giorno segnava la fine di una lunga serie di avvenimenti concatenati uno
all'altro, ma benché saltasse agli occhi il significato essenziale, non era ancora
misurabile l'ampiezza storica di quel che accadeva. L' Urss restava in piedi e la
Germania restava formalmente spaccata in due. Il polverone che si alzava dalle
macerie del comunismo era troppo fitto per intravedere il nuovo panorama.
Le capitali dell'Occidente europeo speravano in una frenata: la celebre battuta di
Fran[e7]ois Mauriac, "Amo tanto la Germania da preferire che ce ne siano due",
veniva ripetuta o pensata a Londra, a Parigi, a Roma. Non soltanto a Berlino
Est, anche a Bonn si puntava su un processo di riavvicinamento controllato. Il
Muro era stato uno dei pilastri portanti del Continente diviso, il suo crollo poteva
provocare imprevedibili mutamenti. L'Europa Occidentale l'aveva condannato e
vituperato ma aveva prosperato alla sua ombra; l'Europa Orientale l'aveva
costruito e ufficialmente venerato, ma al suo riparo era deperita fino al collasso. I
comunisti lo definivano un baluardo contro il fascismo, mentre era di fatto una
barriera per impedire un'evasione di massa dal comunismo, o se si vuole una
corsa sfrenata verso il consumismo. Doveva essere una trincea e risultò un
monumento funebre. La caduta del Muro dissanguava l'Est e scaricava sull'
Ovest il pesante onere del recupero postcomunista. I sentimenti erano esaltanti,
i calcoli finanziari e politici molto meno. Dove la Kurfuerstendamm, chiamata più
brevemente Ku'damm, la più divertente ed elegante strada di Berlino, esplode
nei grandi magazzini, migliaia di coppie, di famiglie, con bambini e zaini in
spalla, e la pianta della città tenuta come una bussolo nella giungla, guardavano
estasiate, ipnotizzate, le vetrine, le scarpe, le mutande, le calze, i magnetofoni,
le fotografie di un Erotische Filmprogramme, i giornali esposti nelle edicole, i
libri, i reggiseni, le Porsche parcheggiate lungo i marciapiedi, il berretto del vigile
urbano, le insegne luminose, tutto quel che si muoveva o era immobile nella città
della cuccagna, l'ambulanza che passava a sirene spiegate come il semaforo
spento in segno di rassegnazione nel caos del traffico ingovernabile. Questa era
Berlino Ovest nelle ore che seguirono la caduta del Muro. Era come se la
popolazione frustrata di una lontana, remota periferia si fosse abbattuta sul
centro della metropoli.
Sotto gli occhi dei tedeschi arrivati da Berlino Est sfilavano infatti cose e persone
scrutate avidamente per decenni sui teleschermi, seguendo tutte le sere, nel
segreto delle famiglie, i programmi occidentali, a lungo vietati e poi via via
tollerati e infine permessi da Honecker, il guardiano dell'ortodossia comunista,
ormai nell'impossibilità di impedire alle trasmissioni di scavalcare il Muro.
La caduta del Muro, nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1989, fu improvvisa: ma
il fulmine non lacerò un cielo sereno. La tempesta era in arrivo da tempo.
Altrimenti la barriera eretta nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961, nel cuore
della vecchia capitale del Reich, non sarebbe crollata tanto facilmente. Dal'47,
dall'inizio della guerra fredda, l' Urss vigilava sull'ordine europeo uscito dalla
Seconda Guerra mondiale. La dottrina della sovranità limitata aveva legittimato
numerosi interventi armati: nel '53 a Berlino Est, nel '56 a Varsavia e a
Budapest, nel '68 a Praga: e garantiva la presenza delle truppe del Patto di
Varsavia, ossia sovietiche, sul territorio dei paesi satelliti, chiamati democrazie
popolari. Ma nel mezzo degli anni Ottanta l' Urss di Mikhail Gorbaciov era
sull'orlo del collasso di fronte all'America di Ronald Reagan. Il fallimento era
anzitutto economico, ma numerose sconfitte politico-militari avevano aggravato
la situazione: in Angola nell'81, in Nicaragua nell'89, e nello stesso anno in
Afganistan. A questi insuccessi bisognava aggiungere il ben più grave ritiro
incondizionato (22 luglio 1987) dei missili nucleari sovietici a medio raggio
installati in Europa. Una decisione che equivaleva a una resa nella corsa agli
armamenti diventata insostenibile per Mosca. Le riforme economiche
(perestroika) e la liberalizzazione politica (glasnost) decise da Gorbaciov, nel
disperato tentativo di cambiare la natura del regime, ossia di governare con il
consenso invece che con la repressione, erano apparsi nell'Europa Orientale
evidenti segni di debolezza del centro dell'impero. Segni che consentivano un
più vasto terreno di manovra a paesi come la Polonia e l'Ungheria, i quali
avevano anticipato l'evoluzione in corso nell'Urss. A Budapest, nella primavera
dell'88, era stato sbalzato di sella Janos Kadar, e si era acceso un rude
confronto tra i sostenitori di una netta svolta in direzione della democrazia e
dell'economia di mercato e i più prudenti sostenitori di riforme graduali, nello stile
promosso da Gorbaciov. Nell'aprile dell '89, in Polonia, il compromesso della
"tavola rotonda" aveva ratificato la vittoria di Solidarnosc; e le prime libere
elezioni avevano portato, in settembre, a un governo presieduto dal cattolico
Mazowiecki. Il tutto era avvenuto senza minacce militari interne o esterne.
Quello che sarà chiamato l'autunno dei popoli poteva dunque cominciare. Non
c'era il pericolo che sulle piazze europee si ripetesse quel che era accaduto in
giugno a Pechino, sulla Tienanmen.
Il comunismo prussiano sembrava un'isola immune da ogni contagio. In ottobre,
in occasione del quarantesimo anniversario della Repubblica Democratica, a
Berlino Est, sulla Unter den Linden, migliaia di giovani in camicia azzurra
avevano sfilato davanti a Honecker e a Gorbaciov. E c'era stata una parata
militare, al passo dell'oca, sulla Karl Marx Allee. Sembrava un trionfo ed era
invece un funerale. Quello del regime.
Nell'estate migliaia di tedeschi orientali avevano raggiunto la Germania
Occidentale aggirando il Muro e attraversando l'Ungheria che aveva aperto i
confini. Honecker voleva dimostrare all'ospite che, nonostante quelle evasioni di
massa, il paese non era un laeger dal quale tutti volevano fuggire. La gioventù
giurava fedeltà sulla Unter den Linden e l'esercito garantiva la stabilità
esibendosi sulla Karl Marx Allee. In realtà Honecker era il regista di una farsa.
Appena svestita la camicia azzurra del comunismo prussiano i giovani andarono
a gonfiare le manifestazioni di protesta: e appena smesso il passo dell'oca le
forze armate si decomposero come quelle di una repubblica delle banane.
(9 novembre 1999)
Nel 1989 la caduta del muro di Berlino rivelò che il sistema
aveva costruito un gigante d'argilla
CROLLO DEL MURO
E DIETRO C'ERA QUASI NIENTE
di ALESSANDRO FRIGERIO
Sembra l'eco di un'epoca ormai sepolta ma sono passati solo poco più di dieci anni - era la
metà degli anni Ottanta - da quando la Repubblica Democratica Tedesca (Rdt), per bocca
dell'onnipotente segretario HONEKER, condannava i più o meno contemporanei tentativi
riformistici che stavano avendo luogo negli altri paesi del blocco sovietico.
Gli accordi di Helsinki per il rispetto dei diritti umani, la crisi polacca del 1980 e il
successivo riconoscimento di Solidarnosc, i timidi tentativi di aggiornamento
amministrativo e sociale in Ungheria avevano suscitato grosse aspettative in tutta l'Europa
centrorientale. Ma secondo Honeker non avrebbero condotto da nessuna parte, perché i
propositi di riforma inevitabilmente "sboccavano in una situazione di anarchia e
riducevano i partiti comunisti a nient'altro che dei club di discussione". In questo modo,
mutuando dal calcio l'adagio "squadra che vince non si cambia", la Rdt rimase
ostinatamente fedele a sé stessa fino al crollo del 1989.
Non si cambia un sistema vincente: così Honeker metterà a tacere per più di vent'anni le
timide critiche provenienti dai partner del blocco e dal mondo occidentale. E a rileggere
acriticamente oggi i dati ufficiali relativi all'ultimo decennio di vita dell'economia tedesco
orientale sembra proprio che il sistema funzionasse. Certo, non in rapporto alle economie
occidentali, indiscutibilmente più avanzate non solo quanto a beni di consumo, ma anche
nel settore dell'innovazione, della modernizzazione e della crescita delle risorse. Il sistema
pareva funzionare se confrontato con la realtà delle altre democrazie popolari.
Primo tra i paesi socialisti per produzione industriale pro capite, il 75% della popolazione
tedesco orientale era impiegata nel trainante settore industriale. I settori metallurgici,
siderurgici e dell'industria chimica erano i poderosi cavalli da tiro di un'economia il cui
prodotto lordo era fornito al 90% da imprese esclusivamente statali. Poco prima del
collasso finale la Rdt si faceva vanto di figurare tra i dieci paesi più industrializzati al
mondo. L'apparente senso di stabilità economica e di efficienza amministrativa, la
pressoché totale mancanza di contestazione interna da più di trent'anni, gli accordi di buon
vicinato e relativo riconoscimento reciproco con i fratelli della Germania occidentale, e gli
innumerevoli successi in campo sportivo lasciavano finalmente sperare in un successo del
sistema autoritario di stampo sovietico a ovest dell'Oder-Neisse. Il codice genetico
comunista pareva così aver prodotto i migliori effetti con il forzato innesto sull'austera e
disciplinata stirpe teutonica. Ma la strada che aveva condotto a tali successi di facciata non
era stata rettilinea. La realtà era ben diversa. Sotto lo smalto di un rigido efficientismo si
nascondevano le tare di uno Stato la cui consistenza non andava oltre quella della
metternichiana "espressione geografica".
Tare storico-culturali, sociali ed economiche avevano minato fin dall'inizio il corpo della
Rdt. Combinandosi tra loro, infettandosi reciprocamente, incancrenendosi, porteranno,
nell'inverno 1989/90, al repentino dissolvimento dell'ultima nata tra le democrazie popolari.
La Repubblica Democratica Tedesca era stata creata il 7 ottobre 1949 sul territorio della
zona di occupazione sovietica della Germania, in seguito alla rottura fra le potenze
vincitrici e in risposta alla fondazione della Repubblica Federale Tedesca avvenuta poco
meno di cinque mesi prima, il 13 maggio 1949. Sotto la stretta tutela dell'URSS, che mai si
sarebbe lasciata sfuggire il controllo su un paese dalle notevoli capacità industriali, la
Germania orientale fu subito uniformata allo standard monopartitico sovietico.
I comunisti tedeschi, guidati da Wilhelm PIECK e Walther ULBRICHT, già dirigenti prima del
1933 e sopravvissuti alle epurazioni staliniane durante il loro esilio moscovita, inglobarono
rapidamente i socialisti, dando vita al Partito di Unità Socialista (Sed) con segretario
Ulbricht. La Rdt non nacque quindi per una reale esigenza storica del popolo tedesco. Non
sorse sull'onda dello slancio patriottico di un popolo oppresso che voleva così sancire la
propria specificità storica o culturale. La Rdt fu un prodotto di laboratorio, scaturito dallo
spirito di contrapposizione e di competizione con l'altra Germania. Più che per una sua
specificità si caratterizzò per il suo essere contro: contro il prussianesimo, contro il
nazismo, contro il capitalismo. Priva di una sua mitologia fondatrice - se non quella di una
presunta opposizione patriottica al nazismo che in realtà non era mai avvenuta -, la
Germania orientale fu solo uno dei primi frutti della guerra fredda. Ma le deficienze storico-
culturali da sole non bastano a descrivere la facilità con cui avvenne la dissoluzione finale.
Altrettanto importante era l'ambiguo rapporto con gli operai, la cui coscienza di classe era
ben più salda di quella degli operai russi e quindi meno manipolabile. Loro avrebbero
dovuto essere gli unici beneficiari dell'istituzione di uno stato proletario fortemente
centralizzato. Forte di know-how industriale di tutto rispetto, la Germania orientale si
incamminò così sulla china di una pianificazione industriale che si sperava l'avrebbe
portata nel giro di pochi anni a raggiungere e superare l'economia della Germania ovest. Il
tutto però senza preventivarne i costi sociali - orari di lavoro degni da prima rivoluzione
industriale e stipendi da fame - che alla lunga si riveleranno insostenibili. La misura si
colmò nel giugno del 1953.
Da diversi mesi serpeggiava un diffuso malcontento per la situazione economica e per il
lento tasso di ripresa industriale. Il partito stesso aveva riconosciuto di essere incorso in
gravi errori nella transizione verso un sistema socialista. Nello stesso tempo, la morte di
Stalin nel marzo 1953 aveva fatto sorgere dovunque voci di liberalizzazioni e cambiamenti
nella politica estera sovietica, che potevano, si pensava, alterare i rapporti fra le due metà
della Germania e produrre una distensione generale in Europa. In questa atmosfera di
attesa, il governo tedesco orientale annunciò agli operai, già stanchi ed esasperati per il
duro lavoro che si pretendeva eseguissero senza respiro dalla fine della guerra - anzi, da
prima - che la durata della giornata lavorativa e le norme di produzione dovevano essere
ulteriormente elevate. L'annunzio provocò a Berlino e in altre città della zona est uno
sciopero generale e imponenti dimostrazioni contro il regime. Per la prima volta un paese
del blocco sovietico visse così l'esperienza dei carri armati russi che attaccavano gli
operai.
Le fonti governative parleranno poi di 25 vittime, quelle occidentali di una repressione
costata la vita a 200-400 persone. Da allora il 17 giugno 1953 verrà ricordato nella Germania
dell'est come il giorno in cui fu sventato il "putsch organizzato da agenti imperialisti" che
avevano cercato di carpire subdolamente la buona fede degli operai comunisti. In tutta
risposta, più di 2 milioni di persone da quel momento e fino al 16 agosto 1961 quando fu
costruito il muro di Berlino, abbandoneranno la patria tedesca del socialismo reale.
Gli anni Settanta e Ottanta saranno quelli del consolidamento politico ed economico della
Rdt. Solo in parte sfiorata dalle tensioni Est-Ovest (neanche da quelle provocate nel
settembre 1980 dalla nascita del sindacato polacco SOLIDARNOSC), forte di un consenso
interno dovuto anche alla riabilitazione di figure storiche fino a pochi anni prima oggetto di
condanna, la Germania dell'est visse la sua stagione migliore anche sotto il profilo del
consenso interno. "Molti cittadini della Repubblica democratica - scriveva nel 1985 lo
storico anglosassone Timothy Garton Ash, uno dei più efficaci osservatori sul campo e
testimone oculare del tracollo delle democrazie popolari - apprezzano effettivamente il
modesto tenore di vita che assicura un efficiente Stato poliziesco di benessere. Il suo
sempre più esplicito riconoscimento della sua indiscussa "germanicità", con la statua
equestre di Federico il Grande ripristinata in Unter den Linden e perfino con la parziale
riabilitazione di Bismarck, ha contribuito anch'esso a questa fedeltà condizionata allo
Stato". Furono ampiamente positivi anche i risultati in politica estera.
Tra il 1972 e il 1973 i governi di Bonn e di Pankow firmarono dei trattati di distensione che
sancirono ufficialmente il riconoscimento occidentale della Rdt e ne consentirono di
conseguenza l'ingresso all'assemblea delle Nazioni Unite. La normalizzazione di rapporti
tra le due Germanie fu uno dei più grandi successi di Honeker (e di BRANDT sull'altra
sponda), da poco succeduto a ULBRICHT alla guida del Paese. Un successo che arrivava a
interrompere la politica dell'Abgrenzung, ovvero la politica della "delimitazione", intesa
come netta separazione dalla Rft, che dal 1949 i dirigenti della Rdt stavano ossessivamente
praticando. Pure l'economia sembrava andare a gonfie vele, grazie anche alle sovvenzioni
elargite dalla Germania occidentale, pari circa a due miliardi di marchi all'anno. Il prodotto
nazionale lordo pro capite negli anni Ottanta era il più elevato tra tutti i paesi del Comecon
(circa 9300 dollari nel 1988) ma ciò era dovuto non tanto alla bontà del sistema economico
quanto dall'Ostpolitik praticata da Bonn, che aveva fatto della Repubblica democratica uno
dei suoi principali interlocutori economici.
"Così - scrive lo storico François Fejto - la Rdt era diventata di fatto il tredicesimo membro
della Cee e i suoi prodotti avevano libero accesso ai mercati comunitari". I problemi in
realtà erano più nascosti, e da congiunturali avevano ormai assunto il carattere di difetti
strutturali: costante calo della produttività della manodopera, calo del tasso di accumulo
dei capitali, crisi degli alloggi e scarsissima redditività degli investimenti erano le tare
economiche di un sistema che anche agli occhi dei pianificatori appariva difficilmente
riformabile. A lungo rappresentata come icona del socialismo reale efficiente e produttivo -
a differenza delle economie degli altri paesi del blocco, che si sapevano essere in grave
crisi - gli effetti del rigido dirigismo pianificatore della Rdt si faranno vedere in tutta la sua
drammaticità con il crollo del muro.
Se vogliamo, il paradosso del fallimento della Germania orientale consiste nel fatto che, a
differenza di quello delle altre democrazie popolari, il suo non fu annunciato.
Stato privo di una sua identità nazionale, ma forte del conformismo dei tedeschi dell'est,
che accettarono oltre ad una rigida pianificazione economica anche l'istituzione di un
controllo poliziesco sulla vita dei singoli cittadini al cui confronto quello nazista era poco
più di un bluff, fu vittima di un'implosione su se stesso. Creato a tavolino per essere la
vetrina del comunismo da esporre agli occhi della società consumistica occidentale, oggi
possiamo ricordarla come esempio fallimentare dei tanti laboratori ideologici del nostro
secolo.
di ALESSANDRO FRIGERIO

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  • 1. IL RACCONTO Berlino, quella notte che cambiò la Storia di BERNARDO VALLI A volte un dettaglio, un gesto o una parola, a provocare un avvenimento storico decisivo: ben inteso un avvenimento già maturo, ma ritardato, trattenuto dalla convenienza politica. Ad affrettare la caduta del Muro fu l'incauta battuta di un funzionario la sera del 9 novembre 1989. Poche sillabe, semplici, in apparenza innocue ("von jetzt": "da adesso"), che si rivelarono una formula magica ed ebbero un effetto dirompente. Furono pronunciate alle 18,57 di quel giorno di mite autunno prussiano: e, in quell'istante, si chiuse un'epoca, fu la fine geopolitica del secolo, in anticipo rispetto al calendario
  • 2. gregoriano. Il nuovo capo di Berlino Est, Egon Krenz, voleva dimostrare la sua adesione alla glasnost, la politica della trasparenza promossa a Mosca da Gorbaciov. Era appena succeduto a Erich Honecker e ci teneva a distinguersi dall'esponente della vecchia guardia, troppo fedele al comunismo di guerra per adeguarsi a un comunismo che si voleva liberale, quindi in disarmo. Per questo Krenz aveva consentito la trasmissione in diretta delle conferenze stampa serali, le quali erano seguite da milioni di tedeschi. In tempi di crisi ritmati da sempre più imponenti manifestazioni di protesta, erano spettacoli carichi di suspense. Guenter Schabowski aveva debuttato da poco come portavoce di Krenz e non era certamente un esperto della comunicazione. Quella sera annunciò un nuovo "decreto sui viaggi". Disse che d'ora in poi i permessi per recarsi nella Berlino occidentale, attraverso i varchi del Muro, sarebbero stati rifiutati soltanto in casi eccezionali. Era chiaro che il governo allentava le redini sotto la pressione popolare. Le quotidiane disubbidienze di massa e l'assenza delle rituali repressioni rivelavano la fragilità del potere. I quattrocentomila soldati sovietici, acquartierati dal 1945 nella Germania Orientale, non intervenivano più per ripristinare la sovranità limitata nel paese satellite: pensavano piuttosto a come sbarcare il lunario, poiché nella madre patria c'era un clima da bancarotta e i soldi per le paghe e la sussistenza arrivavano in modo irregolare da Mosca. In quanto ai soldati tedeschi, neppure loro osavano puntare le armi contro i connazionali da quando Gorbaciov si era installato al Cremlino e aveva escluso l'uso della violenza per imporre l'ordine nell'impero. L'annuncio di Schabowski si iscriveva in questa nuova realtà. Non c'era bisogno di ulteriori spiegazioni. Il regime barcollava e cedeva terreno. Fu un anziano cronista a porre con candore, senza rendersene conto, una domanda esplosiva. Chiese al portavoce di Krenz a partire da quando quel decreto sarebbe entrato in vigore. Schabowski esitò a rispondere, poi disse quasi sottovoce: "Da adesso, se sono ben informato". A quelle parole, "da adesso", milioni di tedeschi sobbalzarono. Se era necessaria un'autorizzazione, sia pur facile da ottenere, il decreto non poteva essere valido da quell'istante, in quell'ormai tarda sera. L'irrazionalità della risposta assomigliava a una resa incondizionata o era un sintomo del panico in cui ormai affondava il governo. In realtà Egon Krenz pensava di rendere operativo il decreto soltanto l'indomani, facendo rispettare i tempi burocratici, quindi frenando, disciplinando l'apertura a Ovest. Ma il suo portavoce, per imprudenza, travolse i ritmi stabiliti, e accelerò probabilmente i successivi tempi che condussero al crollo della Ddr e quindi alla riunificazione. Appena ascoltate le parole sfuggite a Schabowski, i tedeschi orientali cominciarono a discuterne il significato, prima davanti ai televisori, in famiglia, poi al telefono con gli amici, e più tardi sulle piazze. "Cosa vuol dire quel 'da adesso'? Che possiamo attraversare il Muro subito, stasera? "Perché non proviamo?" Alle 21 gruppi di giovani si presentarono al passaggio del Muro, sulla Potsdamerplatz.
  • 3. L'esercito non aveva ordini precisi. Che fare? I giovani passarono indisturbati. Dietro di loro si formarono code interminabili. Alle 22,50 di quella stessa sera, l'Ard, una tv occidentale, aprì il telegiornale annunciando che gruppi di tedeschi orientali avevano potuto superare il Muro "senza complicazioni". A quella notizia Berlino Est si illuminò, la gente uscì dalle case e s'incamminò verso la parte occidentale della città. E' raro capire l'importanza degli avvenimenti mentre si svolgono sotto i tuoi occhi. In quelle ore non si potevano avere dubbi: il comunismo reale aveva ammainato la bandiera a Berlino, settantadue anni dopo averla issata su Pietrogrado, durante la Rivoluzione d'Ottobre. Nel frattempo, da emblema di un'utopia quella bandiera si era trasformata in un muro di cemento, stile carcerario, lungo centosessanta chilometri. Certo, adesso, dieci anni dopo, con il senno di poi, uno vede tutto chiaro, e può spiegare che quel giorno si concluse un'interminabile dramma europeo. Un dramma estesosi via via al resto del mondo. Era cominciato con la Grande Guerra, nel 1914, e poi era proseguito durante tutto il secolo con spettacolari, tragici colpi di scena: il naufragio sanguinoso della Russia zarista, l'avvento dei Soviet, il crollo dell'impero tedesco, l'incendio del Reichstag, Auschwitz, il gulag, la guerra fredda, l'Europa divisa: e all'improvviso, nel 1989, crollava come un fondale di cartapesta il simbolo concreto di quella divisione, ossia della sfida tra le due opposte concezioni del mondo emerse nel '900. Quel giorno segnava la fine di una lunga serie di avvenimenti concatenati uno all'altro, ma benché saltasse agli occhi il significato essenziale, non era ancora misurabile l'ampiezza storica di quel che accadeva. L' Urss restava in piedi e la Germania restava formalmente spaccata in due. Il polverone che si alzava dalle macerie del comunismo era troppo fitto per intravedere il nuovo panorama. Le capitali dell'Occidente europeo speravano in una frenata: la celebre battuta di Fran[e7]ois Mauriac, "Amo tanto la Germania da preferire che ce ne siano due", veniva ripetuta o pensata a Londra, a Parigi, a Roma. Non soltanto a Berlino Est, anche a Bonn si puntava su un processo di riavvicinamento controllato. Il Muro era stato uno dei pilastri portanti del Continente diviso, il suo crollo poteva provocare imprevedibili mutamenti. L'Europa Occidentale l'aveva condannato e vituperato ma aveva prosperato alla sua ombra; l'Europa Orientale l'aveva costruito e ufficialmente venerato, ma al suo riparo era deperita fino al collasso. I comunisti lo definivano un baluardo contro il fascismo, mentre era di fatto una barriera per impedire un'evasione di massa dal comunismo, o se si vuole una corsa sfrenata verso il consumismo. Doveva essere una trincea e risultò un monumento funebre. La caduta del Muro dissanguava l'Est e scaricava sull' Ovest il pesante onere del recupero postcomunista. I sentimenti erano esaltanti, i calcoli finanziari e politici molto meno. Dove la Kurfuerstendamm, chiamata più brevemente Ku'damm, la più divertente ed elegante strada di Berlino, esplode nei grandi magazzini, migliaia di coppie, di famiglie, con bambini e zaini in spalla, e la pianta della città tenuta come una bussolo nella giungla, guardavano estasiate, ipnotizzate, le vetrine, le scarpe, le mutande, le calze, i magnetofoni, le fotografie di un Erotische Filmprogramme, i giornali esposti nelle edicole, i libri, i reggiseni, le Porsche parcheggiate lungo i marciapiedi, il berretto del vigile urbano, le insegne luminose, tutto quel che si muoveva o era immobile nella città della cuccagna, l'ambulanza che passava a sirene spiegate come il semaforo
  • 4. spento in segno di rassegnazione nel caos del traffico ingovernabile. Questa era Berlino Ovest nelle ore che seguirono la caduta del Muro. Era come se la popolazione frustrata di una lontana, remota periferia si fosse abbattuta sul centro della metropoli. Sotto gli occhi dei tedeschi arrivati da Berlino Est sfilavano infatti cose e persone scrutate avidamente per decenni sui teleschermi, seguendo tutte le sere, nel segreto delle famiglie, i programmi occidentali, a lungo vietati e poi via via tollerati e infine permessi da Honecker, il guardiano dell'ortodossia comunista, ormai nell'impossibilità di impedire alle trasmissioni di scavalcare il Muro. La caduta del Muro, nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1989, fu improvvisa: ma il fulmine non lacerò un cielo sereno. La tempesta era in arrivo da tempo. Altrimenti la barriera eretta nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961, nel cuore della vecchia capitale del Reich, non sarebbe crollata tanto facilmente. Dal'47, dall'inizio della guerra fredda, l' Urss vigilava sull'ordine europeo uscito dalla Seconda Guerra mondiale. La dottrina della sovranità limitata aveva legittimato numerosi interventi armati: nel '53 a Berlino Est, nel '56 a Varsavia e a Budapest, nel '68 a Praga: e garantiva la presenza delle truppe del Patto di Varsavia, ossia sovietiche, sul territorio dei paesi satelliti, chiamati democrazie popolari. Ma nel mezzo degli anni Ottanta l' Urss di Mikhail Gorbaciov era sull'orlo del collasso di fronte all'America di Ronald Reagan. Il fallimento era anzitutto economico, ma numerose sconfitte politico-militari avevano aggravato la situazione: in Angola nell'81, in Nicaragua nell'89, e nello stesso anno in Afganistan. A questi insuccessi bisognava aggiungere il ben più grave ritiro incondizionato (22 luglio 1987) dei missili nucleari sovietici a medio raggio installati in Europa. Una decisione che equivaleva a una resa nella corsa agli armamenti diventata insostenibile per Mosca. Le riforme economiche (perestroika) e la liberalizzazione politica (glasnost) decise da Gorbaciov, nel disperato tentativo di cambiare la natura del regime, ossia di governare con il consenso invece che con la repressione, erano apparsi nell'Europa Orientale evidenti segni di debolezza del centro dell'impero. Segni che consentivano un più vasto terreno di manovra a paesi come la Polonia e l'Ungheria, i quali avevano anticipato l'evoluzione in corso nell'Urss. A Budapest, nella primavera dell'88, era stato sbalzato di sella Janos Kadar, e si era acceso un rude confronto tra i sostenitori di una netta svolta in direzione della democrazia e dell'economia di mercato e i più prudenti sostenitori di riforme graduali, nello stile promosso da Gorbaciov. Nell'aprile dell '89, in Polonia, il compromesso della "tavola rotonda" aveva ratificato la vittoria di Solidarnosc; e le prime libere elezioni avevano portato, in settembre, a un governo presieduto dal cattolico Mazowiecki. Il tutto era avvenuto senza minacce militari interne o esterne. Quello che sarà chiamato l'autunno dei popoli poteva dunque cominciare. Non c'era il pericolo che sulle piazze europee si ripetesse quel che era accaduto in giugno a Pechino, sulla Tienanmen. Il comunismo prussiano sembrava un'isola immune da ogni contagio. In ottobre, in occasione del quarantesimo anniversario della Repubblica Democratica, a Berlino Est, sulla Unter den Linden, migliaia di giovani in camicia azzurra avevano sfilato davanti a Honecker e a Gorbaciov. E c'era stata una parata militare, al passo dell'oca, sulla Karl Marx Allee. Sembrava un trionfo ed era invece un funerale. Quello del regime.
  • 5. Nell'estate migliaia di tedeschi orientali avevano raggiunto la Germania Occidentale aggirando il Muro e attraversando l'Ungheria che aveva aperto i confini. Honecker voleva dimostrare all'ospite che, nonostante quelle evasioni di massa, il paese non era un laeger dal quale tutti volevano fuggire. La gioventù giurava fedeltà sulla Unter den Linden e l'esercito garantiva la stabilità esibendosi sulla Karl Marx Allee. In realtà Honecker era il regista di una farsa. Appena svestita la camicia azzurra del comunismo prussiano i giovani andarono a gonfiare le manifestazioni di protesta: e appena smesso il passo dell'oca le forze armate si decomposero come quelle di una repubblica delle banane. (9 novembre 1999) Nel 1989 la caduta del muro di Berlino rivelò che il sistema aveva costruito un gigante d'argilla CROLLO DEL MURO E DIETRO C'ERA QUASI NIENTE di ALESSANDRO FRIGERIO Sembra l'eco di un'epoca ormai sepolta ma sono passati solo poco più di dieci anni - era la metà degli anni Ottanta - da quando la Repubblica Democratica Tedesca (Rdt), per bocca dell'onnipotente segretario HONEKER, condannava i più o meno contemporanei tentativi riformistici che stavano avendo luogo negli altri paesi del blocco sovietico. Gli accordi di Helsinki per il rispetto dei diritti umani, la crisi polacca del 1980 e il successivo riconoscimento di Solidarnosc, i timidi tentativi di aggiornamento amministrativo e sociale in Ungheria avevano suscitato grosse aspettative in tutta l'Europa centrorientale. Ma secondo Honeker non avrebbero condotto da nessuna parte, perché i propositi di riforma inevitabilmente "sboccavano in una situazione di anarchia e riducevano i partiti comunisti a nient'altro che dei club di discussione". In questo modo,
  • 6. mutuando dal calcio l'adagio "squadra che vince non si cambia", la Rdt rimase ostinatamente fedele a sé stessa fino al crollo del 1989. Non si cambia un sistema vincente: così Honeker metterà a tacere per più di vent'anni le timide critiche provenienti dai partner del blocco e dal mondo occidentale. E a rileggere acriticamente oggi i dati ufficiali relativi all'ultimo decennio di vita dell'economia tedesco orientale sembra proprio che il sistema funzionasse. Certo, non in rapporto alle economie occidentali, indiscutibilmente più avanzate non solo quanto a beni di consumo, ma anche nel settore dell'innovazione, della modernizzazione e della crescita delle risorse. Il sistema pareva funzionare se confrontato con la realtà delle altre democrazie popolari. Primo tra i paesi socialisti per produzione industriale pro capite, il 75% della popolazione tedesco orientale era impiegata nel trainante settore industriale. I settori metallurgici, siderurgici e dell'industria chimica erano i poderosi cavalli da tiro di un'economia il cui prodotto lordo era fornito al 90% da imprese esclusivamente statali. Poco prima del collasso finale la Rdt si faceva vanto di figurare tra i dieci paesi più industrializzati al mondo. L'apparente senso di stabilità economica e di efficienza amministrativa, la pressoché totale mancanza di contestazione interna da più di trent'anni, gli accordi di buon vicinato e relativo riconoscimento reciproco con i fratelli della Germania occidentale, e gli innumerevoli successi in campo sportivo lasciavano finalmente sperare in un successo del sistema autoritario di stampo sovietico a ovest dell'Oder-Neisse. Il codice genetico comunista pareva così aver prodotto i migliori effetti con il forzato innesto sull'austera e disciplinata stirpe teutonica. Ma la strada che aveva condotto a tali successi di facciata non era stata rettilinea. La realtà era ben diversa. Sotto lo smalto di un rigido efficientismo si nascondevano le tare di uno Stato la cui consistenza non andava oltre quella della metternichiana "espressione geografica". Tare storico-culturali, sociali ed economiche avevano minato fin dall'inizio il corpo della Rdt. Combinandosi tra loro, infettandosi reciprocamente, incancrenendosi, porteranno, nell'inverno 1989/90, al repentino dissolvimento dell'ultima nata tra le democrazie popolari. La Repubblica Democratica Tedesca era stata creata il 7 ottobre 1949 sul territorio della zona di occupazione sovietica della Germania, in seguito alla rottura fra le potenze vincitrici e in risposta alla fondazione della Repubblica Federale Tedesca avvenuta poco meno di cinque mesi prima, il 13 maggio 1949. Sotto la stretta tutela dell'URSS, che mai si sarebbe lasciata sfuggire il controllo su un paese dalle notevoli capacità industriali, la Germania orientale fu subito uniformata allo standard monopartitico sovietico. I comunisti tedeschi, guidati da Wilhelm PIECK e Walther ULBRICHT, già dirigenti prima del 1933 e sopravvissuti alle epurazioni staliniane durante il loro esilio moscovita, inglobarono rapidamente i socialisti, dando vita al Partito di Unità Socialista (Sed) con segretario Ulbricht. La Rdt non nacque quindi per una reale esigenza storica del popolo tedesco. Non sorse sull'onda dello slancio patriottico di un popolo oppresso che voleva così sancire la propria specificità storica o culturale. La Rdt fu un prodotto di laboratorio, scaturito dallo spirito di contrapposizione e di competizione con l'altra Germania. Più che per una sua specificità si caratterizzò per il suo essere contro: contro il prussianesimo, contro il nazismo, contro il capitalismo. Priva di una sua mitologia fondatrice - se non quella di una
  • 7. presunta opposizione patriottica al nazismo che in realtà non era mai avvenuta -, la Germania orientale fu solo uno dei primi frutti della guerra fredda. Ma le deficienze storico- culturali da sole non bastano a descrivere la facilità con cui avvenne la dissoluzione finale. Altrettanto importante era l'ambiguo rapporto con gli operai, la cui coscienza di classe era ben più salda di quella degli operai russi e quindi meno manipolabile. Loro avrebbero dovuto essere gli unici beneficiari dell'istituzione di uno stato proletario fortemente centralizzato. Forte di know-how industriale di tutto rispetto, la Germania orientale si incamminò così sulla china di una pianificazione industriale che si sperava l'avrebbe portata nel giro di pochi anni a raggiungere e superare l'economia della Germania ovest. Il tutto però senza preventivarne i costi sociali - orari di lavoro degni da prima rivoluzione industriale e stipendi da fame - che alla lunga si riveleranno insostenibili. La misura si colmò nel giugno del 1953. Da diversi mesi serpeggiava un diffuso malcontento per la situazione economica e per il lento tasso di ripresa industriale. Il partito stesso aveva riconosciuto di essere incorso in gravi errori nella transizione verso un sistema socialista. Nello stesso tempo, la morte di Stalin nel marzo 1953 aveva fatto sorgere dovunque voci di liberalizzazioni e cambiamenti nella politica estera sovietica, che potevano, si pensava, alterare i rapporti fra le due metà della Germania e produrre una distensione generale in Europa. In questa atmosfera di attesa, il governo tedesco orientale annunciò agli operai, già stanchi ed esasperati per il duro lavoro che si pretendeva eseguissero senza respiro dalla fine della guerra - anzi, da prima - che la durata della giornata lavorativa e le norme di produzione dovevano essere ulteriormente elevate. L'annunzio provocò a Berlino e in altre città della zona est uno sciopero generale e imponenti dimostrazioni contro il regime. Per la prima volta un paese del blocco sovietico visse così l'esperienza dei carri armati russi che attaccavano gli operai. Le fonti governative parleranno poi di 25 vittime, quelle occidentali di una repressione costata la vita a 200-400 persone. Da allora il 17 giugno 1953 verrà ricordato nella Germania dell'est come il giorno in cui fu sventato il "putsch organizzato da agenti imperialisti" che avevano cercato di carpire subdolamente la buona fede degli operai comunisti. In tutta risposta, più di 2 milioni di persone da quel momento e fino al 16 agosto 1961 quando fu costruito il muro di Berlino, abbandoneranno la patria tedesca del socialismo reale. Gli anni Settanta e Ottanta saranno quelli del consolidamento politico ed economico della Rdt. Solo in parte sfiorata dalle tensioni Est-Ovest (neanche da quelle provocate nel settembre 1980 dalla nascita del sindacato polacco SOLIDARNOSC), forte di un consenso interno dovuto anche alla riabilitazione di figure storiche fino a pochi anni prima oggetto di condanna, la Germania dell'est visse la sua stagione migliore anche sotto il profilo del consenso interno. "Molti cittadini della Repubblica democratica - scriveva nel 1985 lo storico anglosassone Timothy Garton Ash, uno dei più efficaci osservatori sul campo e testimone oculare del tracollo delle democrazie popolari - apprezzano effettivamente il modesto tenore di vita che assicura un efficiente Stato poliziesco di benessere. Il suo sempre più esplicito riconoscimento della sua indiscussa "germanicità", con la statua equestre di Federico il Grande ripristinata in Unter den Linden e perfino con la parziale
  • 8. riabilitazione di Bismarck, ha contribuito anch'esso a questa fedeltà condizionata allo Stato". Furono ampiamente positivi anche i risultati in politica estera. Tra il 1972 e il 1973 i governi di Bonn e di Pankow firmarono dei trattati di distensione che sancirono ufficialmente il riconoscimento occidentale della Rdt e ne consentirono di conseguenza l'ingresso all'assemblea delle Nazioni Unite. La normalizzazione di rapporti tra le due Germanie fu uno dei più grandi successi di Honeker (e di BRANDT sull'altra sponda), da poco succeduto a ULBRICHT alla guida del Paese. Un successo che arrivava a interrompere la politica dell'Abgrenzung, ovvero la politica della "delimitazione", intesa come netta separazione dalla Rft, che dal 1949 i dirigenti della Rdt stavano ossessivamente praticando. Pure l'economia sembrava andare a gonfie vele, grazie anche alle sovvenzioni elargite dalla Germania occidentale, pari circa a due miliardi di marchi all'anno. Il prodotto nazionale lordo pro capite negli anni Ottanta era il più elevato tra tutti i paesi del Comecon (circa 9300 dollari nel 1988) ma ciò era dovuto non tanto alla bontà del sistema economico quanto dall'Ostpolitik praticata da Bonn, che aveva fatto della Repubblica democratica uno dei suoi principali interlocutori economici. "Così - scrive lo storico François Fejto - la Rdt era diventata di fatto il tredicesimo membro della Cee e i suoi prodotti avevano libero accesso ai mercati comunitari". I problemi in realtà erano più nascosti, e da congiunturali avevano ormai assunto il carattere di difetti strutturali: costante calo della produttività della manodopera, calo del tasso di accumulo dei capitali, crisi degli alloggi e scarsissima redditività degli investimenti erano le tare economiche di un sistema che anche agli occhi dei pianificatori appariva difficilmente riformabile. A lungo rappresentata come icona del socialismo reale efficiente e produttivo - a differenza delle economie degli altri paesi del blocco, che si sapevano essere in grave crisi - gli effetti del rigido dirigismo pianificatore della Rdt si faranno vedere in tutta la sua drammaticità con il crollo del muro. Se vogliamo, il paradosso del fallimento della Germania orientale consiste nel fatto che, a differenza di quello delle altre democrazie popolari, il suo non fu annunciato. Stato privo di una sua identità nazionale, ma forte del conformismo dei tedeschi dell'est, che accettarono oltre ad una rigida pianificazione economica anche l'istituzione di un controllo poliziesco sulla vita dei singoli cittadini al cui confronto quello nazista era poco più di un bluff, fu vittima di un'implosione su se stesso. Creato a tavolino per essere la vetrina del comunismo da esporre agli occhi della società consumistica occidentale, oggi possiamo ricordarla come esempio fallimentare dei tanti laboratori ideologici del nostro secolo. di ALESSANDRO FRIGERIO