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ISBN 978-88-6843-687-2
e 28,00
www.donzelli.it
La figura di Antigone, figlia di Edipo e sorella di Eteocle e Poli-
nice, è stata al centro della grande riflessione filosofica otto e
novecentesca: a lei, e alla tragedia di Sofocle che tratta della sua storia,
hanno dedicato pagine memorabili autori come Hegel, Kierkegaard,
Hölderlin, Heidegger e Bultmann.
In questo volume, Pietro Montani riunisce per la prima volta gli
episodi fondamentali della moderna riflessione filosofica sull’Antigone:
ciascuno di questi classici contributi, decisivi per la comprensione del
pensiero dei rispettivi autori, è seguito da un saggio che contiene gli ele-
menti necessari per affrontarne la lettura con un appropriato corredo di
precisi presupposti teorici e chiare informazioni critiche. In tal modo il
libro può aspirare a raggiungere un pubblico altrettanto vasto di quel-
lo che si suppone possa raccogliersi nell’ascolto delle parole di Sofocle.
Completano l’opera quattro ampi saggi che fanno il punto su altre im-
portanti letture filosofiche dell’Antigone: quelle di Nussbaum, Lacan,
Zambrano, Irigaray, Cavarero, Ricœur, Derrida. La ricognizione non è
certo completa, né avrebbe potuto ambire ad esserlo, tanto è pervasiva
la presenza di Antigone nel pensiero filosofico moderno. Di certo, pe-
rò, è una ricognizione che legittima una tesi audace e qualificante: con-
tro l’idea che vi siano tante Antigoni quanti sono i pensatori che l’han-
no interrogata, qui emerge con chiarezza che la straordinaria comples-
sità del testo sofocleo finisce per imporre la sua essenziale unità solo
sullo sfondo di un coinvolgimento esplicito dell’esperienza estetica nel-
l’orizzonte della filosofia pratica
a
cura
di
Pietro
Montani
’
Antigone
e
la
filosofia
130
Testi di
G. W. F. Hegel
S. Kierkegaard
F. Hölderlin
M. Heidegger
R. Bultmann
Antigone
e la filosofia
A cura di
Pietro Montani
donzelli
virgola
,
In copertina: Frederick Sandys, Studio per Antigone.
Pietro Montani ha insegnato Estetica presso La Sapienza Università di Roma. Ha
introdotto per Donzelli l’edizione di Che cos’è l’arte? di Lev Tolstoj. Tra le sue pub-
blicazioni: Il debito del linguaggio. Il problema dell’autoriflessività estetica nel segno,
nel testo e nel discorso (1985); Estetica ed ermeneutica. Senso, contingenza, verità
(1996); Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea. Un’introduzione al-
l’estetica (con A. Ardovino e D. Guastini, 2002); L’estetica contemporanea. Il destino
delle arti nella tarda modernità (2004); Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nel-
l’età della globalizzazione (2007); L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigu-
rare, testimoniare il mondo visibile (2010); Tecnologie della sensibilità. Estetica e im-
maginazione interattiva (2014); Tre forme di creatività. Tecnica, arte, politica (2017).
ANTIGONE E LA FILOSOFIA
V
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117
Indice
Presentazione
di Pietro Montani
Techne e Polis
Postilla 2017
di Pietro Montani
Hegel
Il mondo etico e la tragedia
(Fenomenologia dello spirito, capoversi 7-39 e 62-79)
L’Antigone di Hegel
di Paolo Vinci
Kierkegaard
Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno
L’Antigone di Kierkegaard
di Ettore Rocca
Hölderlin
Il significato delle tragedie
Lettera a Casimir Ulrich Böhlendorff del 4 dicembre 1801
Lettera a Casimir Ulrich Böhlendorff del novembre 1802
Coro dall’Antigone
Coro dei vecchi Tebani
Note all’Edipo
Note all’Antigone
Lettera a Friedrich Wilmans del 28 settembre 1803
Lettera a Friedrich Wilmans dell’8 dicembre 1803
Lettera a Leo von Seckendorf del 12 marzo 1804
L’Antigone di Hölderlin
di Andrea Mecacci
Heidegger
La poesia tragica come apertura essenziale dell’essere-uomo.
Interpretazione del primo coro dell’Antigone di Sofocle
in tre movimenti
L’Antigone di Heidegger
di Adriano Ardovino
Bultmann
Polis e Ade nell’Antigone di Sofocle
L’Antigone di Bultmann
di Gaetano Lettieri
Altre Antigoni
L’Antigone di Lacan: il limite del desiderio
di Alberto Luchetti
L’Antigone di Martha Nussbaum. La tragedia della phronesis
di Daniele Guastini
L’alterità inassimilabile. Letture femminili di Antigone
di Katrin Tenenbaum
La filosofia e il tragico.
Le «Antigoni» di Paul Ricœur e Jacques Derrida
di Edoardo Ferrario
Gli autori
Montani, Antigone e la filosofia
VI
119
141
157
215
227
269
287
307
327
371
Antigone e la filosofia
Dedicato alla memoria di Edoardo Ferrario
«Mio padre e mia madre riposano nell’Ade
e rifiorire di fratelli non mi è dato»
μητρὸς δ᾽ ἐν Ἅιδου καὶ πατρὸς κεκευθότοιν
οὐκ ἔστ᾽ ἀδελφὸς ὅστις ἂν βλάσ τοι ποτέ
(Antigone, vv. 911-912)
Presentazione
Salta subito agli occhi, nelle letture filosofiche di Antigone presentate e di-
scusse in questo libro, l’eccezionale ampiezza dello spettro problematico che
la tragedia sofoclea ha saputo offrire al pensiero. Uno spettro così ampio che i
suoi confini estremi potrebbero perfino apparire incommensurabili: da un la-
to, infatti – ed è, esemplarmente, la posizione di Heidegger, ma non solo la
sua – in Antigone ne andrebbe di una domanda sulle cose ultime (chi è l’uo-
mo? che cos’è l’esistente?); dall’altro – e qui è Nussbaum ad assumere un ri-
lievo che non è tuttavia una sua esclusiva – l’interrogazione dell’opera sofo-
clea verterebbe sulla flessibilità, e dunque sul carattere non mai ultimativo,
della saggezza pratica (in che modo trovare la giusta misura per inserire
l’azione nell’imprevedibilità del contingente?). Da un lato una scena ontologi-
ca e un teatro monologico (o tutt’al più corale) dell’essere; dall’altro una scena
politica e un teatro plurivoco dell’azione e dell’eudaimonia (cioè di quella for-
ma dell’essere, non calcolabile e intimamente plurale, che è il bene-essere, la
felicità). È stato Jacques Taminiaux, in un saggio fondamentale1
, a far valere
questa opposizione e a suddividere in due grandi direttrici la moderna erme-
neutica filosofica del tragico e della tragedia: la direttrice metafisica o «plato-
nica» (di gran lunga dominante, da Schelling a Heidegger) e quella politica o
«aristotelica» (limitata all’ultimo Hölderlin, secondo la proposta per più versi
innovativa di Taminiaux). Ma se l’opposizione non sembra mediabile, allora
che cosa dobbiamo pensare del caso Antigone? Come dobbiamo valutare,
cioè, la circostanza per cui Antigone ci si presenta di fatto come un testo che
ha legittimato criteri di lettura eterogenei quando non addirittura antagonisti?
Certo, quella di offrirsi a interpretazioni sempre rinnovate è una proprietà
che volentieri riconosciamo alle grandi opere d’arte; ma anche deponendo
ogni riserva circa la tenuta e l’esplicatività di un tale convincimento oltre i
confini dell’esperienza moderna dell’arte, è certo che qualunque lettore o
spettatore di Antigone si accontenterà difficilmente della mera registrazione
di questa sua presunta o reale multiformità di significati2
. Tanto più quando il
1
Cfr. J. Taminiaux, Le théâtre des philosophes. La tragédie, l’être, l’action, Millon, Gre-
noble 1995.
2
È questo, forse, il limite del saggio, peraltro insostituibile, di George Steiner su Le
Antigoni, trad. it. Garzanti, Milano 1990.
IX
ANTIGONE E LA FILOSOFIA
conflitto delle interpretazioni percorre, come nel nostro caso, il territorio del-
la riflessione filosofica, dal quale sembra lecito aspettarsi indicazioni per una
comprensione unitaria.
Il problema su cui occorre far chiarezza è dunque quello che riguarda i
rapporti tra filosofia e tragedia: e sono rapporti che bisognerà cercare di con-
figurare in un quadro di riferimento sufficientemente perspicuo e coerente se
vorremo render conto del fatto che le diverse interpretazioni filosofiche pre-
sentate e discusse in questo libro appaiano non solo legittime ma anche, per
così dire, coreferenziali, in quanto esse colgono qualcosa di essenziale nel me-
desimo testo o, se si vuole, vi pensano qualcosa che il testo dà effettivamente
da pensare.
Muoviamo allora da una domanda ingenua: dire che la tragedia (se non
addirittura il «tragico») interessa la filosofia vale quanto dire che a interessare
la filosofia può essere precisamente Antigone? Forse qui si profila un diverso
discrimine; forse nella semplicità di questa alternativa si apre l’orizzonte di
un’interrogazione non banale. Chiediamoci: ci aspetteremmo davvero che
una filosofia del tragico possa dirci a proposito di Antigone qualcosa che non
valga anche per Edipo re o per le Coefore? Cercheremmo, poniamo, in Scho-
penhauer i criteri per differenziare l’azione di Antigone da quella di Edipo o
di Oreste? Evidentemente no; evidentemente è dell’altro che cercheremmo –
e troveremmo – in Schopenhauer (o in Schelling). Le cose invece cambiano,
in modo netto e in equivoco, se ci volgiamo a Hegel. Non solo, infatti, non
avrebbe senso che la sezione della Fenomenologia dello spirito dedicata al
«Mondo etico»3
si riferisse a una tragedia «in generale», ma forse si potrebbe
arrivare a dire che senza Antigone quella medesima sezione non sarebbe stata
possibile. E tuttavia neanche Hegel ci conforterebbe nel nostro desiderio di ri-
conoscere in Antigone differenze che appaiano significative per la filosofia sot-
to il profilo specifico dell’azione drammaturgica, ed è piuttosto a Hölderlin
che dovremmo rivolgerei per saperne di più, visto che nelle sue Note su Sofocle4
Hölderlin si interessa proprio al fatto che Edipo e Antigone inseriscono la ri-
spettiva azione in una struttura compositiva molto diversa.
Con ciò abbiamo sommariamente evocato tre diversi paradigmi del rap-
porto tra la tragedia e la filosofia. Proviamo a esplicitarli e a trarne qualche in-
dicazione volta a farci meglio comprendere – al di là della persuasività singo-
larmente esibita dalle diverse interpretazioni qui discusse – la legittimità dello
spazio di riflessione specificamente dischiuso da Antigone secondo una così
sconcertante latitudine.
Il primo paradigma è quello dell’interesse metafisico assoluto della trage-
dia. Esso coincide con la tesi secondo cui il compito della filosofia (o della
3
Cfr. infra, pp. 1-29.
4
Cfr. infra, pp. 101-4.
Pietro Montani
X
psicoanalisi, se si concede che in questo paradigma va in larga parte ricondot-
to il complesso contributo di Lacan)5
consiste nel pensare in modo dispiegato
quanto nell’opera tragica è detto in modo figurato mostrando che il tragico è
una delle grandi risposte alla domanda sul senso delle cose, e massimamente
su quel senso che non appare perché piuttosto è ciò che consente al mondo di
apparire e all’uomo di abitarvi (lo si chiami, poi, libertà, come fa Schelling, o
volontà, come fa Schopenhauer o pulsione di morte, come fa Lacan). È evi-
dente che, quali che ne siano i pregi o le manchevolezze, quale che ne sia la
capacità di favorire un’effettiva azione di chiarimento reciproco tra pensiero e
poiesis tragica, tale paradigma per funzionare dev’essere metastorico. Tutto
questo ne misura, d’un colpo, la distanza incolmabile che esso fa registrare nei
confronti del secondo, che abbiamo riconosciuto in primo luogo in Hegel.
Hegel non cerca in Antigone la conferma di una tesi teorica già saldamen-
te posseduta dal pensiero, né ve ne scopre una che il pensiero dovrebbe sol-
tanto esplicitare: è vero piuttosto che, nella lettura hegeliana, Antigone confi-
gura sensibilmente un contenuto e, al tempo stesso, ne legittima il supera-
mento in una figura di pensiero, cioè in qualcosa d’altro dal sensibile. Antigo-
ne, in altri termini, offre alla Fenomenologia un’immagine da pensare – il ca-
rattere immediato e sostanziale dell’eticità e il conflitto incomponibile che ne
discende – e insieme legittima la stessa Fenomenologia come il modo corretto
di pensare la verità di quell’immagine. Nei due casi, però, il termine «pensa-
re» dice cose diverse: nella prima occorrenza dice che il raffigurato del mythos
tragico trova il suo necessario correlato in un pensiero (e dunque dice che
l’uno non sarebbe senza l’altro e viceversa); nella seconda occorrenza dice che
in ultima analisi quel raffigurato si risolve senza residui nel pensiero che, solo,
ne dispiega la verità. Proprio per questo, del resto, esso è qualcosa di storico e
di determinato (e non alcunché di «tragico in generale»). Per lo stesso motivo,
inoltre, la tragedia deve restare per noi moderni «un che di passato»6
, un mo-
do di accadere della verità che si motiva – e lo motiva – nel processo che con-
duce lo spirito all’autotrasparenza. Donde, infine, l’attrazione irresistibile con
cui qualsiasi autentica riflessione filosofica sulle riprese moderne della trage-
dia mostra di non potersi sottrarre dal gravitare intorno alla tesi di Hegel7
.
5
Cfr. infra, pp. 269-86. Nella sua riflessione, tipicamente digressiva, su Antigone in realtà
Lacan tocca molti altri problemi, anche relativi al versante «politico» dell’interpretazione.
Resta netta tuttavia l’impressione che il suo sia un procedimento cumulativo la cui tenuta è
affidata alla centralità del tema della pulsione di morte, di cui viene argomentata una
comprensione essenzialmente ontologica.
6
Mi riferisco alla ben nota definizione hegeliana dell’arte come «qualcosa di passato», cioè
come un modo di accadere della verità destinato ad essere «tolto» da un accadere più mediato.
7
È il caso, per restare ai testi qui discussi, di Kierkegaard (cfr. infra, pp. 49-73) e di
Zambrano (cfr. infra, pp. 308-13), ma la situazione si potrebbe largamente generalizzare,
tanto risulta vincolante per il pensiero filosofico lo sforzo ermeneutico impegnato da Hegel
su Antigone. Non è un caso, del resto, che sia Kierkegaard sia Zambrano si mettano in
Presentazione
XI
Il secondo paradigma soddisfa dunque l’esigenza di salvaguardare la de-
terminatezza e la storicità del testo, ma lo fa infliggendo all’opera il prezzo di
un’esorbitante esposizione sistematica: Antigone dialoga davvero con la filo-
sofia (hegeliana) solo lasciandosi ricondurre a un profilo essenziale (Antigone
versus Creonte, le leggi del sangue versus le leggi della polis), la cui pertinenza
è tanto forte quanto lo è il sacrificio che la sua messa in rilievo ha dovuto far
sopportare alla complessità della poiesis testuale. Inutilmente si chiederebbe a
Hegel una parola significativa sugli altri personaggi del dramma e anzi la sola
idea di far uscire l’interpretazione dal suo assetto bipolare rischia di disper-
derne d’un colpo i benefici esplicativi (a dire il vero difficilmente sottovaluta-
bili). In nessun momento, inoltre, ci si sentirebbe autorizzati a interrogare
Hegel sui dettagli della composizione del testo (sul suo calcolato prendere-in-
sieme molte cose eterogenee) e la ragione è evidente: non è che Hegel ne sot-
tovaluti gli effetti, al contrario è proprio il tratto compositivo, la systasis, ciò
che gli interessa, solo che quel comporre diventa per lui significativo nella mi-
sura esatta in cui è «tolto» alla poiesis e «ripetuto» come pensiero, cioè resti-
tuito al movimento sistematico che di quella poiesis dice la verità e solo così la
onora; proprio come si onora – estinguendolo – un debito pregresso8
.
Le cose stanno diversamente in Hölderlin. Si può certo dubitare che Höl-
derlin sia arrivato davvero a disinteressarsi della posta ontologica del gioco
tragico per restituire piena dignità alla dimensione «politica» della tragedia (è
la tesi, già ricordata, di Taminiaux), ma un fatto resta accertato ed evidente:
Hölderlin dimostra un’attenzione costante nei confronti dell’aspetto compo-
sitivo della poiesis tragica che inutilmente cercheremmo in Hegel, e in questo
consiste la sua primaria fedeltà alla lezione della Poetica di Aristotele.
Lo stile filosofico di Hölderlin ci costringe a un lavoro di ricostruzione
non solo arduo ma anche ingrato, perché lo sforzo che ci costa il suo chiari-
mento non smette di farsi sentire come inadeguato al pensiero che vi si vor-
rebbe infine raggiunto ed esplicitato, e tuttavia non pare illegittimo conside-
rare acquisito almeno questo punto: la riflessione di Hölderlin sulla tragedia
si concentra innanzitutto sull’assoluta salienza dell’operazione compositiva
condizione di interloquire con Hegel inscenando un’altra Antigone che, in entrambi casi,
toglie all’eroina sofoclea ciò che nell’interpretazione hegeliana ne costituisce l’essenza, vale
a dire il tratto dell’eticità sostanziale, il suo far coincidere senza residui la legge con
l’immediatezza di un’azione che deve rivoltarsi, nel riconoscimento fatale di un’altra e
opposta eticità, contro l’attore.
8
Dunque l’arte è «un che di passato» anche dal punto di vista dell’economia del dar da
pensare – che è proprio del mythos e in generale dell’immagine sensibile – e del pensare in
senso stretto – che è proprio del logos e in generale della ragione. Il testo hegeliano – e in
modo del tutto particolare il suo costante ritorno sulla figura di Antigone – potrebbe però
suggerire anche una diversa interpretazione della «passatezza» dell’arte, nella quale il
pensiero potrebbe arrivare a riconoscere non tanto un debito da estinguere quanto piuttosto
un dono già sempre ricevuto. Si tornerà su questo punto nelle battute conclusive.
Pietro Montani
XII
grazie a cui l’opera tragica riesce a costituirsi come uno spazio capace di con-
durre a rappresentazione ciò che non è dell’ordine del rappresentabile (donde
la sua vocazione all’ontologico, ma anche – e si dovrà tornare su questo – la
sua attitudine a intrecciare l’ontologico e il politico). Di questo costante inte-
resse filosofico per la composizione (non estraneo, naturalmente, al progetto
poetico che lo affianca) ci rende testimonianza non solo la peculiare termino-
logia della riflessione hölderliniana sulla tragedia – la «legge», il «calcolo», la
«cesura», la «mechane» – ma anche e innazitutto il suo presupposto: non si
rappresenta l’originario (l’intuizione intellettuale, l’assoluto, il nulla, il «segno
= 0») a meno di una macchina formidabile che si sia posta in grado di com-
porre, di prendere-insieme quell’originario con qualcosa d’altro (la struttura
della scena, l’azione, la peripezia, i pathe e così via). In altri termini: la posta
in gioco è talmente alta perché il gioco stesso ha dato mostra di potersi man-
tenere a quell’altezza senza esplodere o precipitare nel silenzio.
Il terzo paradigma ci fa fare un progresso notevole nella comprensione del
nostro problema: se Hölderlin ha ragione a porre l’accento sulla salienza e
sull’irriducibilità della composizione non ci si dovrebbe più stupire del fatto
che Antigone offra al pensiero un ambito di riflessione ai cui confini siamo
autorizzati a riconoscere, con pari diritto, la potenza della deinotes – l’inquie-
tudine spaesante che afferra la sperimentazione originaria dell’esserci greco –
e la sobrietà della phronesis – lo sguardo dolente e avveduto rivolto alle incer-
tezze dell’azione pratica e alla «fragilità del bene». La scena dell’essere e insie-
me la scena del politico. Non ci si dovrebbe più stupire di questa latitudine e
di questo intrecciarsi e bisognerebbe piuttosto, seguendo l’intuizione «aristo-
telica» di Hölderlin, ripensarne in modo adeguato le condizioni compositive.
Si vedrebbe così che Antigone merita davvero, ma per motivi diversi, lo stu-
pore di Hegel che vi vedeva «la più compiuta delle opere d’arte»9
.
Dunque la nostra attenzione deve rivolgersi alla composizione dello spa-
zio tragico secondo un’accezione che, aristotelica quanto agli intendimenti
profondi, si dispieghi necessariamente oltre Aristotele quanto alla sua capaci-
tà di reintegrare nell’atto del comporre una più ampia istanza del prendere-
insieme (quella stessa che Kant attribuiva alla facoltà riflettente di giudizio)10
.
Ma a chi affidare il compito di illuminare questa scena teorica? È verosimile
che il candidato più accreditato debba essere, tra i filosofi che si sono interes-
sati alla tragedia, quello che più di ogni altro si è posto nell’apertura di pensie-
ro dischiusa da Hölderlin: Friedrich Nietzsche.
9
Riprendo qui la celebre definizione dal corso di Estetica pronunciato da Hegel nel
1823, che sintetizza mirabilmente l’interpretazione dell’Antigone (cfr. G. W. F. Hegel,
Lezioni di Estetica, a cura di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 297).
10
Il nesso tra la systasis aristotelica e la riflessione dispiegata da Kant nella terza Critica
è indicato limpidamente e magistralmente sviluppato da Paul Ricœur in Tempo e racconto,
3 voll., Jaca Book, Milano 1986-88, in part. vol. I, pp. 111-3, 233.
Presentazione
XIII
La nascita della tragedia è un libro complesso e intimamente travagliato
da un congedo ineluttabile – quello da Schopenhauer e da Wagner – non an-
cora pienamente consumato. L’originalità del suo disegno teorico fondamen-
tale, tuttavia, si impone con la più grande chiarezza11
: ciò che interessa Nietz-
sche è precisamente l’atto compositivo che, nella tragedia attica, avrebbe pro-
dotto per la prima volta le condizioni estetiche per un disvelamento integrale
dell’esistente. La definizione, più volte ripresa da Nietzsche nel corso del-
l’opera, secondo cui «solo come fenomeno estetico l’esistenza (Dasein), e con
essa il mondo (Welt), appare giustificata (gerechtfertigt erscheint)»12
dev’esse-
re infatti intesa in senso letterale e radicale e riferita innanzitutto all’azione re-
ciproca con cui apollineo e dionisiaco costituiscono lo spazio tragico (l’unità
di coro e scena) come uno spazio in cui giunge a integrale manifestazione (Er-
scheinung) la verità dell’esistente. Nella tragedia attica, in altri termini, ver-
rebbe a compimento un lungo processo di emancipazione dell’immagine rap-
presentata (cioè della mimesis in senso aristotelico) tale che per la prima volta
l’ordinato apparire delle forme non si costituirebbe più come un velo di belle
apparenze teso sul fondo abissale dell’esistenza ma arriverebbe ad assumere
in sé il segno «inquietante» (unheimlich)13
di uno sguardo che si mantiene in
un rapporto costante e necessario con il traboccamento informe di tutto ciò
che ha la forza di irrompere da solo nella presenza. Lo spazio tragico, dun-
que, compone la sobrietà apollinea con l’ebbrezza dionisiaca (la techne con la
physis), ma in questa inedita unificazione è il senso stesso dell’apparire
11
Quanto all’attendibilità filologica delle tesi nietzscheane, la dura polemica che, com’è
noto, la investì fin da subito non si è mai chiusa con un giudizio definitivo. Ancora di recente,
per esempio, una specialista come Nicole Loraux ha potuto scrivere a proposito della Nascita
della tragedia che si tratta di un’opera «dont je ne crains pas de dire aujourd’hui que son
auteur avait, au plus haut point, raison contre Ulrich von Wilamowitz-Möllendorf», il
prestigioso capofila dei critici di Nietzsche (cfr. N. Loraux, La voix endeuillée, Gallimard,
Paris 1999, p. 138).
12
Cfr. F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie, in Nietzsche Werke, Kritische Gesamt-
ausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, III, 1, de Gruyter, Berlin-New York 1972, pp.
43, 148; trad. it. La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1977, pp. 45, 159.
13
Ibid., p. 45. Unheimlich, com’è noto, è il termine adottato da Heidegger (cfr. infra,
pp. 139-55) per tradurre il deinon di Sofocle. Fino a che punto l’interpretazione
heideggeriana dell’opera d’arte sia in debito con Nietzsche, e in che cosa precisamente se ne
distacchi, si può facilmente verificare comparando con attenzione il testo del corso
heideggeriano del 1936 su «La volontà di potenza come arte» (trad. it. a cura di F. Volpi, in
M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, pp. 21-215) con il saggio, di poco
precedente, sull’«Origine dell’opera d’arte» (trad. it, a cura di P. Chiodi, in M. Heidegger,
Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 3-69). Qui basterà accennare al fatto
che la coppia heideggeriana terra/mondo converte nei termini di una comprensione
ontologica ciò che nella coppia dionisiaco/apollineo Nietzsche penserebbe (stando a
Heidegger) in termini ancora metafisici. Nei due casi, peraltro, è netta la presa di distanza
dal modo in cui Hegel introduce l’unità di sensibile e ideale (vale a dire l’accadere della verità
come arte) nel contesto di uno storicizzarsi teleologico, e cioè come uno stadio, necessario
ma provvisorio, del processo con cui lo spirito perviene all’autotrasparenza.
Pietro Montani
XIV
(Schein) a cambiare di segno: da strumento illusorio e ingannevole, adoperato
per sopportare la vita, l’immagine rappresentata si trasforma in autentica ma-
nifestatività del vero e in affermazione della vita.
A ben guardare, il movimento radicalmente «fenomenologico» che sem-
bra necessario cogliere nella definizione nietzscheana sopra riportata ci pre-
senta lo spazio della composizione tragica come uno schema (nel senso kan-
tiano) della verità intesa come a-letheia, disvelamento che lascia essere il fon-
do oscuro e ingovernabile (la lethe) a partire dal quale l’ente si pro-duce in un
apparire. Da questo punto di vista, allora, lo spazio tragico è, per eccellenza,
teatro ontologico, luogo di enunciazione dell’essere dell’esistente. E per nes-
suna ragione, pertanto, ci si dovrà stupire che in esso ne vada, in modo tema-
tico, di una domanda che mira a «giustificare» integralmente l’esserci e il
mondo: è quanto accade nel primo stasimo dell’Antigone, dove a quella do-
manda il coro risponde illustrando lo stra-ordinario della deinotes, cioè giu-
stificando l’esistenza umana e il mondo nel loro svelarsi – nel loro aletheuein
– come alcunché di massimamente inquietante (deinotaton)14
.
Ma lo spazio tragico in quanto schema dell’a-letheia è anche (e sempre nel
senso kantiano) una composizione di fatti, un prendere-insieme molte cose,
una sy-stasis dell’eterogeneo. Non è per nulla ininfluente, in altri termini, che
l’evento compositivo in cui il fenomenizzarsi originario (l’aletheia) si fa, per
quel che è possibile, immagine rappresentata si annunci, nella divisione di co-
ro e scena, come azione drammatica e come riflessione sul senso dell’agire. E
allora non dovrà nemmeno stupire che in esso ne vada, in modo parimenti te-
matico, di una domanda che mira a «giustificare» l’esserci e il mondo dal pun-
to di vista della mimesis praxeos e della sua irriducibile pluralità: è quanto ac-
cade, nell’intero testo dell’Antigone, all’azione che contrappone Antigone a
Creonte e che, proprio in forza della sua estrema polarizzazione, rende altresì
«giustificata» la diversità delle figure intermedie che possono integrarvisi, da
Ismene a Emone, dalla guardia a Tiresia, da Euridice al messaggero fino all’in-
tima plurivocità del coro dei vecchi tebani che col suo prendere in diverse oc-
casioni le parti dell’uno o dell’altro non fa che «giustificare» il carattere essen-
zialmente plurale della praxis15
.
Per quanto Nietzsche appaia indubbiamente meno interessato a questo se-
condo tratto della composizione tragica, l’impianto teorico della Nascita della
tragedia non potrebbe prescinderne senza rilevanti ripercussioni sulla sua pie-
na intelligibilità. In nessun altro modo, infatti, e per tenerci a un solo aspetto
decisivo, si lascerebbe coerentemente comprendere il tema della «saggezza si-
lenica» su cui Nietzsche insiste a più riprese. È la consapevolezza degli orrori
dell’esistenza, scrive Nietzsche, ciò che dobbiamo riconoscere nella sentenza
14
È questa la lettura che ne offre Heidegger (cfr. infra, pp. 139-55).
15
È questa la lettura che ne offre Nussbaum (cfr. infra, pp. 287-305).
Presentazione
XV
di Sileno, secondo cui «la cosa migliore per l’uomo» è per lui «irraggiungibile»
essendo quella di «non essere mai nato, non essere, essere niente»16
. Sulla scena
aperta dell’ontologico il detto silenico (non a caso presente anche nell’Edipo a
Colono) non farebbe altro che aggiungere alla deinotes dell’uomo il tratto della
pulsione di morte17
. Ma in che misura, allora, quel detto apparterrebbe alla
«saggezza popolare»? Anche se Nietzsche non lo dice, è evidente che la rispo-
sta non potrebbe cercarsi che sulla scena, coessenziale, della mimesis praxeos:
l’orrore della vita è innanzitutto determinato dalla consapevolezza che l’azione
umana è costitutivamente esposta al caso e all’imprevedibilità delle contingen-
ze ovvero all’errore e all’ineluttabile. In entrambi i casi l’uomo si scopre come
un essere senza difese, fragile e vulnerabile. E tuttavia, la difesa migliore, quella
più sicura e garantita è qualcosa di «irraggiungibile»: è il paradosso di non es-
ser mai nati. Se ne dovrà concludere che se il detto di Sileno non allude soltan-
to alla pulsione di morte ma anche e coessenzialmente a una «saggezza popo-
lare», in esso bisognerà sentir risuonare la richiesta potenziale di un estremo
gesto di affermazione: non solo l’uomo deve giungere ad accettare la sua fragi-
lità, egli deve anche arrivare ad affermarla per quello che è, un bene prezioso
da «giustificare» proprio nella sua totale esposizione al contingente. Ma una
tale giustificazione, infine, non potrebbe compiersi in un teatro ontologico
perché, piuttosto, essa richiede la scena aperta del politico18
, l’irriducibile plu-
ralità dei casi singolari e della doxa.
Se questo sviluppo nietzscheano19
ci ha messi, come crediamo, sulla strada
giusta se ne dovrà concludere che il quadro appena tracciato risulta compiuta-
mente esibito da una tragedia come Antigone, nella quale – forse non in modo
esclusivo ma certo in modo assolutamente esemplare e con evidente intenzio-
nalità – l’azione compositiva mostra di voler prendere-insieme la deinotes e la
phronesis sollecitando il lettore (o lo spettatore) a riconoscerne ed esplorarne
gli innumerevoli luoghi di incrocio. È proprio in quanto Antigone realizza in
sommo grado l’intreccio di ontologico e politico, allora, che l’eccezionale am-
16
Cfr. Nietzsche, La nascita della tragedia cit., p. 32.
17
È questa, come si è detto, la tesi centrale argomentata da Lacan (cfr. infra, pp. 269-86).
18
È in questo modo che si potrà leggere il testo di Bultmann (cfr. infra, pp. 213-25)
secondo una prospettiva al tempo stesso contrastiva e complementare nei confronti di quella
di Heidegger. La differenza principale è che Heidegger coglie in Antigone null’altro che
Dichtung, parola che nomina l’essenza e la fa accadere storicamente, laddove Bultmann vi
coglie un’immagine drammatica della costituzione della polis su qualcosa di non
padroneggiato. A meno di uno sfondo comune come quello che cerchiamo qui di mettere
in chiaro le due letture non potrebbero dialogare e resterebbero, certo, singolarmente
persuasive e documentate ma anche incomparabili.
19
Si tratta di uno sviluppo perché la composizione di deinotes e phronesis non si
potrebbe certo attribuire alle intenzioni di Nietzsche e, prima di lui, di Hölderlin. È la linea
di pensiero dischiusa da entrambi, tuttavia, a rendere ragione non solo della complessità ma
anche della specificità di una tragedia come l’Antigone.
Pietro Montani
XVI
piezza della sua produttività problematica dovrà essere considerata non solo
legittima ma specificamente necessaria.
Solo a queste condizioni, del resto, le diverse letture filosofiche presentate
e discusse in questo libro si prestano a disegnare un intreccio di relazioni si-
gnificative (e talora una vera e propria interlocuzione, effettiva o virtuale)20
e
dunque a corroborare l’impressione che mentre ciascuna di esse coglie nel te-
sto qualcosa di essenziale per la sua unità nessuna, per contro, ne potrebbe
cogliere la totalità. Quella totalità, infatti, non è dell’ordine del pensiero bensì
dell’ordine di ciò che dà da pensare. Non, dunque, poiesis (o mythos) che
contende al pensiero (o al logos) il primato nella manifestazione del vero, ma
poiesis che sollecita l’autonoma azione ordinatrice e consapevolmente delimi-
tante di molti pensieri e che solo in questa relazione dialogica si lascia infine
comporre in un’autentica e determinata esperienza di verità.
Questo libro nasce da un seminario tenuto all’Università «La Sapienza» di Roma
tra il marzo e il maggio 2000 nell’ambito di un corso dedicato ai rapporti tra estetica e
filosofia pratica. Agli studiosi – tutti specialisti – che vi parteciparono fu chiesto di con-
formare i rispettivi interventi alle esigenze di una destinazione prevalentemente didatti-
ca: si trattava infatti di offrire a un ampio uditorio di giovani studenti una guida affida-
bile per la corretta comprensione di testi di elevata densità teorica. Questo criterio volto
a introdurre alla lettura più che a problematizzame i contenuti è stato sostanzialmente
rispettato anche nella stesura definitiva dei testi nati dalla rielaborazione degli interventi
seminariali: in tal modo il libro può forse aspirare a raggiungere un pubblico altrettanto
vasto di quello che si suppone possa raccogliersi nell’ascolto delle parole di Sofocle.
Giudicherà il lettore se il proposito è stato adeguatamente realizzato: qui si trattava solo
di esplicitarlo.
I cinque autori antologizzati (Hegel, Kierkegaard, Hölderlin, Heidegger, Bult-
mann) documentano, con i rispettivi testi, gli episodi essenziali della moderna ricezione
filosofica dell’Antigone. A ciascuno di essi è coordinato un saggio (rispettivamente, di
Paolo Vinci, Ettore Rocca, Andrea Mecacci, Adriano Ardovino, Gaetano Lettieri) nel
quale si troveranno gli elementi necessari per affrontarne la lettura con un appropriato
corredo di premesse teoriche e informazioni critiche. I saggi di Daniele Guastini, Alber-
to Luchetti, Katrin Tenenbaum, Edoardo Ferrario fanno il punto su altre importanti in-
terpretazioni dell’Antigone che non è stato possibile antologizzare per la loro ampiezza.
Si tratta, rispettivamente, delle letture di Martha Nussbaum, Jacques Lacan, Maria Zam-
brano, Luce Irigaray, Adriana Cavarero, Paul Ricœur, Jacques Derrida.
La ricognizione non è certo completa, né avrebbe potuto ambire ad esserlo, tanto è
pervasiva la presenza di Antigone nella riflessione filosofica moderna, tanto appare co-
stante il suo rinnovato costituirsi come luogo di provocazione o addirittura d’origine
per il pensiero. Di certo, però, è una ricognizione fortemente rappresentativa del punto
20
Oltre ai casi, già segnalati, di Kierkegaard con Hegel e di Bultmann con Heidegger
(entrambi, peraltro, sprovvisti di prove filologiche) la rete delle relazioni significative si
distende su tutti i testi ben al di là delle riprese esplicite (come è il caso di Irigaray e Derrida
nei confronti di Hegel).
Presentazione
XVII
di vista adottato nel seminario e ripreso nel libro: ciò che Antigone dà da pensare, in-
fatti, non potrebbe essere adeguatamente ricevuto se non sullo sfondo di un coinvolgi-
mento esplicito dell’esperienza estetica nell’orizzonte della filosofia pratica. La quale, a
sua volta, e proprio in virtù di questa intersezione con l’estetico, viene sollecitata a ri-
mettersi in ascolto delle domande radicali che la rinviano a un fondamento ontologico.
È un punto di vista che delinea un’apertura troppo ampia? No, quando a profilarne il
tratto è la determinatezza di un’opera d’arte, con i vincoli di pertinenza interpretativa
che ne discendono.
P. M.
Pietro Montani
XVIII
XIX
Techne e Polis
Postilla 2017
di Pietro Montani
A distanza di sedici anni dalla prima edizione di questa antologia, avverto
il bisogno di aggiungere alcune considerazioni alla Presentazione che apre il
volume. Nella veste di coordinatore del seminario e di curatore del libro, in-
fatti, avevo deciso di astenermi dal prendere partito a fronte delle numerose e
autorevolissime letture del testo sofocleo antologizzate (Hegel, Kierkegaard,
Hölderlin, Heidegger, Bultmann) o presentate in singoli testi specifici (dedi-
cati nell’ordine a: Lacan, Nussbaum, Zambrano, Irigaray, Cavarero, Ricœur,
Derrida). E mi ero limitato a porre l’accento su due aspetti, che mi sembravano,
e mi sembrano ancora, decisivi. Il primo è che pur nella straordinaria ampiezza
dello spettro delle interpretazioni esaminate, netta restava l’impressione che cia-
scuna di esse avesse onorato l’impegno di mantenersi nell’apertura di senso di-
schiusa dal testo stesso, articolandola in modo originale ma mai arbitrario. Il se-
condo è che la specifica densità di Antigone si tende tra due poli, l’ontologico e
il politico, che vengono collegati attraverso una pluralità di percorsi, di cui oggi
aggiungerei che non sono tutti reversibili. Nel senso che dopo averne seguito fi-
no in fondo uno – raggiungendo, poniamo, il polo politico a partire dall’onto-
logico – non si potrebbe esser certi che, al ritorno, ritroveremmo lo stesso insie-
me di determinazioni concettuali che era stato fiduciosamente assunto all’ini-
zio. Direi, anzi, che questa capacità di rimodellare se stesso grazie a una specifi-
ca processualità si costituisce come un tratto dell’essenziale afferenza di un te-
sto alla famiglia dei mythoi, in quanto pertiene alla natura dei grandi racconti la
capacità di darsi un tempo che non solo non è mai un tempo rettilineo ma è an-
che un tempo che si presta a essere ri-conosciuto storicamente in costellazioni
semantiche che, secondo una celebre tesi di Walter Benjamin1
, ne ri-attualizza-
no la verità. Tornerò su questo punto nelle battute finali.
Mi sfuggiva tuttavia, all’epoca, o forse non mi sembrava così urgente (e te-
stualmente congrua) quale mi appare oggi, la presenza di una terza polarità,
irriducibile alle due che ho menzionato, e forse di volta in volta mediatrice tra
le due, anche se con modalità tutt’altro che automatiche, spesso anzi da met-
tere in carico alla sagacia dell’interprete. Mi riferisco alla questione della tecni-
1
Mi riferisco a W. Benjamin, Sul concetto di storia, trad. it. a cura di G. Bonola e M.
Ranchetti, Einaudi, Torino 1996.
ANTIGONE E LA FILOSOFIA
ca, che come tutti sanno è il tema del celebre primo Stasimo della tragedia –
nonché il centro propulsore della lettura heideggeriana qui presentata. La
quale lettura, tuttavia, resta prevalentemente concentrata sul polo ontologico,
e cioè sulla domanda: «Che cos’è l’ente nel suo complesso? E come dev’essere
pensato quell’ente particolare il cui tratto principale consiste nel porre la do-
manda sul senso dell’ente?»2
.
In realtà – è questo il tema che oggi avverto il bisogno di sviluppare –
Heidegger ci consegna un’ulteriore indicazione, intesa a relazionare l’ontolo-
gico e il politico passando precisamente per la questione della tecnica; anche
se non si tratta di un’indicazione di cui si possa dire che nelle sue riflessioni su
Antigone essa risulti testualmente articolata in modo specifico. Come del re-
sto non lo è nemmeno nel testo tragico stesso. Bisogna dunque tornare, anco-
ra una volta, al primo Stasimo e alle letture che ne propose Heidegger3
.
Ho appena detto che il tema del primo Stasimo è una domanda sulla tecni-
ca, aggiungendo che la cosa è notissima. Ciò non significa, tuttavia, che su di
essa si registri un generale consenso. Non risulta accertato, in particolare, se
nell’opinione dei vecchi tebani del coro il sapere e il fare tecnico, nell’esercizio
dei quali anthropos è maestro, siano considerati come una meravigliosa risorsa
per assicurarsi la vita (senza entrare, ancora, nel merito della «vita buona»), o
se essi non configurino piuttosto una mostruosa violenza esercitata contro l’or-
dinamento della physis. Il fatto che le interpretazioni del primo Stasimo si pos-
sano ripartire in due ampie famiglie, a seconda che si opti per la prima o per la
seconda valutazione, è di per sé molto meno interessante del rilievo secondo
cui, a certe condizioni su cui ora mi soffermerò, il testo sembra legittimarle en-
trambe. Tutto dipende, evidentemente, dal senso che si arriva a dare al superla-
tivo, deinoteron, che il coro attribuisce ad anthropos nel primo verso – Polla ta
deina kouden anthropou deinoteron pelei – cui segue l’elencazione dei princi-
pali ritrovati tecnici esperiti da questo vivente, tra tutti il più deinos. Ci sono
infatti eccellenti ragioni per tradurre deinos con «meraviglioso e straordina-
rio», ma altrettante per tradurlo con «mostruoso e inquietante».
Qui mi interessa richiamare in breve la decisione di Heidegger, il quale,
senza esitare, unifica i due vettori semantici dell’aggettivo, proponendo come
traduzione unheimilich («s-paesante», «che estromette dal tranquillizzante»),
2
Cioè la Leitfrage della metafisica, come l’ha chiamata Heidegger in diverse occasioni,
da non confondere con la Grundfrage, la domanda sull’essere, che sorregge la prima, per lo
più inavvertitamente.
3
Cfr. infra, pp. 139-212, inclusive dell’ampio e approfondito commento di Adriano
Ardovino nonché dell’importante appendice sul significato, e sulla traduzione, del termine
deinon (pp. 209-12). Su questo punto si veda ora E. Spinelli, «La filigrana filosofica di una
tragedia: Sofocle e il primo Stasimo dell’Antigone», in Scienze dell’antichità, III, Dell’arte
del tradurre. Problemi e riflessioni, a cura di A. M. Belardinelli, Quasar, Roma 2014, pp. 191-
206, che estende opportunamente a Hans Jonas le letture filosofiche della tragedia.
Pietro Montani
XX
per poi chiedere al testo del coro di confermare e specificare l’opzione. Il che
avviene, in particolare, nei due passaggi cardinali in cui il coro dice di anthro-
pos che costui è «pantoporos, aporos» (v. 360) e «hypsipolis, apolis» (v. 370).
Vale a dire (e senza entrare nel merito delle eventuali infrazioni filologiche
operate dall’interprete)4
che costui è versato in ogni sorta di espediente per
trarsi fuori d’impaccio (pantoporos) e al tempo stesso è privo di ogni risorsa
garantita (aporos); e inoltre che è dotato dello guardo di chi domina dall’alto
la polis, lo spazio dell’umano abitare, e se ne fa una mappa o una schema per
l’azione (hypsipolis) e al tempo stesso è privo di ogni cittadinanza e di ogni
luogo certo in cui sussistere stabilmente (apolis). Sta in questa potente ambi-
valenza l’essenziale deinotes di anthropos. E siccome la deinotes è innanzitut-
to esemplificata dal coro con il fenomeno della tecnica, in quanto è questo fe-
nomeno a caratterizzare prima di ogni altra cosa le condotte di anthropos, se
ne dovrà concludere che questa medesima potente ambivalenza riguarda an-
che il fenomeno della tecnica in quanto tale.
Del quale fenomeno, se decidiamo di seguire la lettura di Heidegger, pos-
siamo già mettere al sicuro almeno questo accertamento decisivo: che se nel-
l’essere-tecnico di anthropos sussiste un’insuperabile ambivalenza, ci sarà po-
co da affannarsi a dire che della tecnica si può fare un uso buono e virtuoso o
un uso cattivo e dannoso e che basterebbe decidersi una buona volta per il
primo e così via. Se la tecnica è, come ci dice il coro, la manifestazione essen-
ziale della deinotes di anthropos, è certo che questo vivente dovrà oscillare
stabilmente tra l’aspetto meraviglioso e quello mostruoso di questa sua con-
dizione ontologica. Dove «stabilmente», beninteso, significa che la giusta mi-
sura non sarà mai trovata perché, semplicemente, questa misura non esiste e
anthropos è condannato a ridarsela, o meglio a riconoscerla, sempre di nuovo,
assumendosi sempre nuovi rischi (tra i quali, certamente, quello supremo del-
lo snaturamento della sua essenza).
Ciò chiarito, che cosa ci autorizzerebbe a dire, come ho appena fatto, che
la deinotes dell’essere-tecnico è la «condizione ontologica» di anthropos?
Quale requisito aggiungerebbe, alla deinotes stessa, questa caratterizzazione
cui fa cenno la struttura medesima del primo Stasimo? E in secondo luogo:
che cosa c’entra Antigone con tutto questo? O, più precisamente: dove do-
vremmo cercare, e possibilmente trovare, quel tratto distintivo che ci consen-
tirebbe di agganciare Antigone a una riflessione sulla tecnica per ricavarne, se
possibile, ulteriori delucidazioni?
Ma procediamo con ordine.
Su un punto il pensiero del coro appare difficilmente equivocabile. Si sia o
meno partigiani della visione moderata o di quella radicale della tecnica, an-
4
Mi riferisco, in particolare, alla soppressione della punteggiatura (il punto alto tra i due
termini di ciascuna coppia), e alle motivazioni dell’autore, peraltro largamente persuasive.
Techne e Polis
XXI
thropos sembra comunque destinato a portare lo scompiglio nell’ordine natu-
rale delle cose, e ciò lo rende talmente minaccioso da meritarsi il bando che
risuona nella chiusa dello Stasimo: «Non divenga egli intimo del mio focolare,
né delle sue illusioni il mio sapere partecipe sia, colui da parte del quale si
compiono cose siffatte»5
– sulla quale chiusa, beninteso, si dovrà ritornare, se
è vero che essa non è per nulla pacifica (come invece sostiene Heidegger alla
fine del suo commento, cavandosela con quattro righe e mezza)6
.
Fa dunque parte dell’essere stesso di anthropos, e cioè della sua deinotes,
l’esercizio di una violenza sistematica nei confronti dell’ordinata compagine
dell’esistente, di quella dike, cioè, che pertiene all’ente che si conduce da sé
nella presenza: la physis. Anzi, l’irrompere di anthropos nel mezzo dell’ente è
talmente decisivo che ora quel medesimo ordine si fa presente, di colpo, per
quello che è (meglio: per quello che già era, nachträglich): vale a dire come al-
cunché di pre-dominante, e incomparabile nella sua pre-potenza.
In che cosa consisterebbe, più specificamente, questo carattere violentante
di anthropos? Questa sua coazione a «estromettere dal tranquillizzante»? La
risposta che vorrei formulare – anticipando che non si tratta di una risposta di
Heidegger – è che questo carattere violentante ha a che fare con i nomoi. E
forse, prima di tutto, con quelli agraphoi, di cui parla Antigone nella celeber-
rima battuta. Antigone, di cui dovremo prendere in carico anche quest’altro
aspetto: che di lei, a ragion veduta, il coro dice che è autonomos: una che i no-
moi, prima ancora di decidere di applicarli, o di violarli, se li è data da sola7
.
Ma di quali nomoi stiamo parlando? Proviamo a rispondere evidenzian-
do un tratto saliente di anthropos; o meglio un tratto saliente delle sue con-
dotte pratiche, anche a costo di collocarci nell’ordine di un’ontologia regio-
nale quale sarebbe quella definita da un approccio antropologico alla tecni-
ca. Il punto è questo: che nell’incontrare l’ente, anthropos non si limita al
5
Cito dall’edizione italiana della Einführung in die Metaphysik (1935) (ora in Gesamt-
ausgabe, XL, a cura di P. Jaeger, Klostermann, Frankfurt a.M. 1983; trad. it. Introduzione
alla metafisica, Mursia, Milano 1968), utilizzata in questa antologia, nella quale Heidegger
commenta lungamente il primo Stasimo di Antigone. Egli sarebbe ritornato sul testo sofocleo
nel corso «Hölderlins Hymne Der Ister» (1942), ora in Gesamtausgabe, XLVI, a cura di W.
Biemel, Klostermann, Frankfurt a.M. 1984; trad. it. L’inno di Hölderlin «Der Ister», Mursia,
Milano 2003.
6
Cfr. infra, p. 155: «Questa chiusa è tanto poco strana che ci dovremmo meravigliare
piuttosto della sua assenza. Essa costituisce, col suo atteggiamento protettivo, l’immediata
e piena conferma del carattere inquietante dell’essenza umana. Con questa chiusa il canto si
ricollega, nel suo dire, all’inizio».
7
Sull’irriducibile auto-nomia della decisione di Antigone, in questo speculare, sì, a
quella di Creonte, ma anche in qualche misura di rango superiore a quella proprio per il suo
appellarsi agli agraphoi nomoi, hanno richiamato l’attenzione sia R. Bultmann, «Polis e Ade
nell’Antigone di Sofocle», infra, pp. 213-65 (con il commento di G. Lettieri), che M. Cacciari,
nella sua Introduzione all’edizione Einaudi, Torino 2007, pur nell’ambito di due letture del
tutto divergenti.
Pietro Montani
XXII
dato empirico e a ciò che vi è contenuto analiticamente, perché, piuttosto,
egli vi aggiunge (anticipa, pre-vede) qualcos’altro. Che cosa? Vi aggiunge
dei nomoi: delle regole che, benché oggettive e sperimentabili, non sono di-
rettamente ricavabili dal dato empirico stesso in quanto non appartengono
all’ordine della sua dike. Maneggio un ramo flessibile ed ecco che sto già
pre-vedendo (o sin-tetizzando, ponendo-insieme) la regola secondo cui
quella medesima flessibilità può caricarsi di una forza che, a certe condizio-
ni, sarà rilasciata come potenza balistica. Quel ramo flessibile, che ora è già
un arco per lanciare frecce, è stato dunque condotto fuori dal suo tranquil-
lizzante lanthanein nell’ordine della flessuosità per essere sospinto nell’or-
dine inquietante che lo promuove a veicolo di un’altra regola, di un’altra di-
ke – che potrebbe anche essere una suprema adikia8
.
Ho mescolato le carte teoretiche del problema dei nomoi in modo del tut-
to intenzionale e con piena consapevolezza delle incompatibilità che avrei
eventualmente violato. Heidegger guardava con aria di sufficienza agli sforzi
degli antropologi (nella fattispecie, dei paleoantropologi) nella loro illusione
di ricavare qualcosa di decisivo dallo studio di ossa, crani e altri reperti. E an-
che nel caso della sintesi apriori kantiana (riconoscibile nella formulazione
con cui ho appena presentato il problema delle regole) ritenne di nobilitarla
iscrivendola nella tradizione delle domande schiettamente metafisiche – ben-
ché non ci fosse alcun rischio che Kant consentisse una qualsiasi confusione
della filosofia trascendentale con un’antropologia9
. Ho mescolato le carte non
solo perché mi sono convinto da un pezzo che la fedeltà al pensiero dei gran-
di filosofi (qui Kant e Heidegger) si realizzi al meglio facendoli dialogare ol-
tre ogni presunta ortodossia, ma anche perché, nella fattispecie, sarà proprio
una particolare cura per il piano ontico a metterci sulla buona strada per in-
travedere un collegamento possibile (non necessariamente esplicito) tra i con-
tenuti del primo Stasimo e l’azione tragica di Antigone.
C’è da chiedersi a questo punto dove e come avvenga questo collegamen-
to, supponendo che un collegamento debba esserci, tra la riflessione sulla tec-
nica esposta nel primo Stasimo e l’atto con cui Antigone viola l’editto emana-
to da Creonte in nome della sua autonoma decisione per un’altra forma della
legge, di cui ella dichiara che non ha la natura del documento scritto. Aggiun-
8
Ho qui proposto, come si vede, una versione intenzionalmente onticizzata dell’inter-
pretazione heideggeriana della aletheia – e della tecnica come un modo dell’aletheuein, del-
l’accadere storico della verità. Tornerò su questo punto, e sul ruolo non proprio paritario
che Heidegger accorda alla tecnica tra i diversi modi di storicizzarsi della verità.
9
Mi riferisco, naturalmente, al grande libro su Kant e il problema della metafisica (trad.
it. Laterza, Roma-Bari 1981), dove ciò che Heidegger evidenzia e valorizza nella sintesi kan-
tiana è il trattamento non convenzionale del tempo (e non, come pure sarebbe stato possibile,
lo schietto tratto fenomenologico individuabile nel modo in cui il soggetto umano anticipa
alcuni tratti dell’ente incontrato per assumerli nella sua prassi adattativa).
Techne e Polis
XXIII
gendo che nulla si sa circa la sua provenienza, ma anche che, proprio in forza
di queste due determinazioni negative, nessuna norma stabilita da un mortale
potrebbe arrogarsi il potere di violarla.
Di che cosa sta parlando Antigone? Su questo punto la mirabile interpre-
tazione consegnata da Hegel dapprima alla Fenomenologia dello spirito e
successivamente alle Lezioni di estetica10
continua a esercitare tutta la sua in-
fluenza, per certi versi addirittura istituzionalizzata, a cominciare dall’identi-
ficazione degli agraphoi nomoi, a cui si appella l’eroina tragica, con le leggi
del sangue. Le quali non hanno bisogno di essere scritte perché sono, per co-
sì dire, già sempre «iscritte», in modo sostanziale, nella ripartizione dei gene-
ri in seno al genos e competono alla linea femminile. E tuttavia, che l’ordine
della motivazioni che spingono Antigone all’azione sia senza residui ricon-
ducibile al contenuto identificato da Hegel – vale a dire alla sottrazione del-
l’evento della morte al suo carattere naturale e biologico e alla sua trasforma-
zione in «qualcosa di agito» e di sensato grazie a un rituale di riconoscimen-
to che ri-accoglie l’individualità del morto in seno alla famiglia – non rende
giustizia fino in fondo alle espressioni usate dall’eroina. Le quali, certo, allu-
dono a un contenuto determinato – il culto dovuto ai morti – e a un’azione
contingente – la sepoltura di Polinice – ma si preoccupano innanzitutto di
assicurare il rango di quel contenuto e di quell’azione al carattere straordina-
rio della legislazione – non scritta e di ignota provenienza – che avrebbe le-
gittimato l’autonomo decidersi dell’eroina per quella scelta contingentemen-
te lesiva di una legge della polis.
Detto altrimenti, Antigone sembra voler rivendicare il suo diritto di risali-
re fino alla condizione donde proviene la possibilità medesima della legge e
della sua cogenza, quella condizione alla quale è necessario fare ritorno tutte
le volte che un conflitto rischia di paralizzare la vita della polis e l’ordine vi-
gente dà segno di dover essere rifondato11
. Cosicché Antigone sarebbe in ulti-
ma analisi molto più sensibile agli interessi profondi della polis di quanto non
lo sia Creonte12
.
10
Cfr. infra, pp. 1-48, comprensive del commento di Paolo Vinci.
11
È questo, in buona sostanza, il senso della notevole interpretazione, elaborata in di-
verse occasioni da G. Zagrebelsky, nella quale la legislazione (Creonte) viene distinta dal di-
ritto (Antigone); un’interpretazione di cui andrà per lo meno osservato, senza che il punto
si possa approfondire qui, la collocazione diametrale, pur nell’apparente analogia, rispetto
al concetto schmittiano di «sovranità» e alla condizione dello «stato d’eccezione» che lo
fonda. È vero infatti che il diritto ha dei contenuti generalissimi (per es. quelli storicamente
definiti dalla Carta costituzionale di un paese), mentre lo «stato d’eccezione» coincide con
la vigenza della legge nella forma della sua sospensione – cioè con il ni-ente legislativo, donde
la simpatia di Heidegger. Una lectio magistralis di Zagrebelsky su Antigone si può seguire
al link: https://www.youtube.com/watch?v=GzIn8h1rzDc.
12
E si vedano, su questo punto, il testo di Bultmann già citato nonché il commento di
G. Lettieri.
Pietro Montani
XXIV
Questa direttrice ermeneutica, come si vede, ci ha condotti se non proprio
fuori dallo schema hegeliano, almeno in una posizione eccentrica rispetto al
suo modo di ridurre il conflitto tra Antigone e Creonte a quello tra le leggi
della polis e le leggi del sangue. Conflitto necessariamente speculare, se dob-
biamo prestar fede alla tesi di Hegel secondo cui l’intransigente esecuzione
dell’istanza dell’uno non può che condurre al riconoscimento dell’istanza del-
l’altro nella forma difettiva del limite e del non-conciliabile. Ma se fosse dav-
vero e fino in fondo così, avrebbe fatto notare Nussbaum13
, allora perché la
tragedia reca il nome dell’eroina e non anche quello del suo antagonista?
In realtà anche Heidegger, nella sua seconda e più completa lettura della
tragedia, si svincola dalla forza dell’interpretazione hegeliana prendendo sul
serio Antigone quando parla di agraphoi nomoi. Operazione tutt’altro che dif-
ficile per lui, occorre dirlo, se si considera che la condizione donde proviene la
possibilità medesima della legge e della sua cogenza, di cui ho parlato poco so-
pra, non potrebbe essere afflitta da nessun difetto ontico – mentre lo è, e fin
troppo, la contingente legislazione di Creonte – e dunque colloca l’eroina nella
zona della decisione che più di ogni altra si approssima al rango dell’ontologia
fondamentale (compresa, in questo caso, qualche convergenza con lo stato di
eccezione). Donde la conclusione, per certi versi automatica, che das Unheim-
lichste, il più inquietante, trova in Antigone il suo più accreditato rappresen-
tante. E che pertanto a lei sono rivolte le parole con cui gli anziani concludono
il primo Stasimo (e che personalmente continuo a considerare assai enigmati-
che, come ora proverò a chiarire): una che si è spinta fino alla regione donde
proviene la possibilità medesima della legge di certo non potrà essere accolta
presso il focolare, e anzi bisognerà bandirla da quel luogo.
Prima di tornare sulla chiusa dello Stasimo, nella quale i vecchi tebani inti-
mano al più inquietante – e dunque ad anthropos, e dunque a loro stessi – che
non accampi pretese sull’intimità del focolare (parestios: il luogo tra tutti più
prossimo alla terrestrità della terra, il non-sradicabile), vorrei tornare per un
attimo alla prima lettura heideggeriana, quella limitata allo Stasimo in que-
stione, per far notare che in quella sede si parla della tecnica proprio negli
stessi termini nei quali, nella seconda lettura, viene accordato ad Antigone il
rango ontologico che, ben oltre la colpa contingente di aver violato un editto,
le costa – lei consapevole – il bando e la morte.
Ecco il passo principale:
Techne non significa né arte né mestiere, per non parlare poi della tecnica nel
senso moderno. Traduciamo techne con «sapere»; il che abbisogna peraltro di spie-
gazione. Il sapere non è qui inteso come il risultato di semplici constatazioni al ri-
13
Cfr. M. Nussbaum, La fragilità del bene, il Mulino, Bologna 1966, su cui si veda D.
Giastini, «L’Antigone di Martha Nussbaum. La tragedia della phronesis», infra, pp. 287-305.
Techne e Polis
XXV
guardo di un sussistente prima sconosciuto. […] Questo [sapere], nel senso auten-
tico della techne, è l’originaria e costante prospettiva (Hinaussehen: il guardare
fuori, il guardare oltre) rivolta al di là del sussistente14
.
Rivolgersi al di là del sussistente significa orientare la propria Vor-sicht (la
propria attenzione anticipante)15
verso il luogo delle leggi non scritte (che per
Antigone si identifica con l’Ade); significa tenere in vista una condizione, tra-
scendente, della medesima possibilità della legge in genere. Un luogo e una
condizione, già iscritti almeno in parte nel nome stesso di Antigone, verso cui
l’eroina è già sempre rivolta: la condizione medesima del rivoltarsi, o della
Kehre (ovvero della dif-ferenza, o del trascendentale, si potrebbe anche dire,
ricorrendo ad altri vocabolari filosofici, altrettanto legittimi), la condizione
della auto-nomia in senso radicale e non soggettivistico, la condizione – nelle
sue parole – della sua appartenenza all’Ade. Ma nella tragedia che ne porta il
nome Antigone esercita la sua intransigente deinotes in un senso eminente-
mente politico: solo in virtù della sua azione di rivolta e del conseguente sacri-
ficio di sé la polis potrà infatti ritrovare l’equilibrio e richiamarsi di nuovo alla
phronesis, come fa puntualmente il corifeo nelle battute finali. Ma non andrà
in nessun momento dimenticato che nel primo Stasimo il coro si era preoccu-
pato di intonare questo medesimo tema della deinotes riferendolo in modo es-
senziale alla tecnica. Come se fosse innanzitutto la tecnica, ora lo vediamo
con più chiarezza, l’orizzonte manifestativo determinante sia della deinotes di
anthropos sia della sua phronesis (politica nella fattispecie).
È sullo sfondo di queste considerazioni che possiamo tornare, per conclu-
dere, alle battute finali del primo Stasimo, così poco problematiche, a sentire
Heidegger, da richiedere solo due parole di commento. Il punto è che Hei-
degger non ha messo nel conto il tratto processuale interno allo svolgimento
della tragedia, spettacolarmente attestato, per esempio, dai continui muta-
menti di fronte segnati dal coro, che ora si schiera con Antigone, ora col suo
antagonista. Nonché dalle funzioni testuali, molto accuratamente distribuite
da Sofocle, assolte dagli altri personaggi e in particolare da Emone, che non
smette di richiamare il padre a una maggiore flessibilità e a un ascolto più at-
tento delle ragioni degli altri. All’inizio ho parlato di una irreversibilità del
tempo testuale delle grandi opere di finzione, aggiungendo che alla seconda
lettura queste non potrebbero mai risultare le stesse della prima16
. Ora, speci-
14
Cfr. infra, p. 151.
15
Mi si dovrà passare questo riferimento – del tutto anacronistico, ma altrettanto giu-
stificato contestualmente – a un pensiero kantiano (riproposto, per di più, nella chiave più
congeniale ad Heidegger, quella di una temporalità non-sequenziale). E si veda anche la nota
successiva.
16
È stato Ricœur a fornire la più ampia e argomentata teorizzazione di questi giochi
col tempo, caratteristici della finzione letteraria. Cfr. P. Ricœur, Tempo e racconto, Jaca Book,
Milano 2007-16, 3 voll.
Pietro Montani
XXVI
ficando questo concetto generale, si dovrà riconoscere che il bando del «più
inquietante» dal focolare, sancito dal coro nel primo Stasimo, non potrebbe
più essere replicato nello stesso modo alla fine della tragedia, dopo che pro-
prio in forza della sua autonoma deinotes Antigone avrà dato prova agli an-
ziani del coro che il riordino della polis e la stessa possibilità che cittadini e
governanti possano accedere, quand’anche provvisoriamente, a diverse e nuo-
ve modalità della vita buona, richiede, nei passaggi critici più aspri, il compi-
mento di un’azione esemplare estrema come quella – il rifiutare, costi quel
che costi, una norma considerata ingiusta – di cui ella si è assunta la non ne-
goziabile responsabilità. L’estromissione dallo spazio giuridico della polis è, in
Antigone, il tratto della sua più essenziale inerenza alla vita della polis. Ed è
precisamente in questa medesima, estrema forma di esemplarità che la trage-
dia ci autorizza a concepire l’unico atteggiamento saggio che anthropos possa
tenere nei confronti della tecnica: non decretandone il bando né limitandosi
ad applicarla, ma assumendosene una responsabilità di cui è necessario pren-
dere sempre di nuovo le misure senza poterne mai acquisire una volta per tut-
te le regole.
Techne e Polis
XXVII

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Antigone E La Filosofia

  • 1. ISBN 978-88-6843-687-2 e 28,00 www.donzelli.it La figura di Antigone, figlia di Edipo e sorella di Eteocle e Poli- nice, è stata al centro della grande riflessione filosofica otto e novecentesca: a lei, e alla tragedia di Sofocle che tratta della sua storia, hanno dedicato pagine memorabili autori come Hegel, Kierkegaard, Hölderlin, Heidegger e Bultmann. In questo volume, Pietro Montani riunisce per la prima volta gli episodi fondamentali della moderna riflessione filosofica sull’Antigone: ciascuno di questi classici contributi, decisivi per la comprensione del pensiero dei rispettivi autori, è seguito da un saggio che contiene gli ele- menti necessari per affrontarne la lettura con un appropriato corredo di precisi presupposti teorici e chiare informazioni critiche. In tal modo il libro può aspirare a raggiungere un pubblico altrettanto vasto di quel- lo che si suppone possa raccogliersi nell’ascolto delle parole di Sofocle. Completano l’opera quattro ampi saggi che fanno il punto su altre im- portanti letture filosofiche dell’Antigone: quelle di Nussbaum, Lacan, Zambrano, Irigaray, Cavarero, Ricœur, Derrida. La ricognizione non è certo completa, né avrebbe potuto ambire ad esserlo, tanto è pervasiva la presenza di Antigone nel pensiero filosofico moderno. Di certo, pe- rò, è una ricognizione che legittima una tesi audace e qualificante: con- tro l’idea che vi siano tante Antigoni quanti sono i pensatori che l’han- no interrogata, qui emerge con chiarezza che la straordinaria comples- sità del testo sofocleo finisce per imporre la sua essenziale unità solo sullo sfondo di un coinvolgimento esplicito dell’esperienza estetica nel- l’orizzonte della filosofia pratica a cura di Pietro Montani ’ Antigone e la filosofia 130 Testi di G. W. F. Hegel S. Kierkegaard F. Hölderlin M. Heidegger R. Bultmann Antigone e la filosofia A cura di Pietro Montani donzelli virgola , In copertina: Frederick Sandys, Studio per Antigone. Pietro Montani ha insegnato Estetica presso La Sapienza Università di Roma. Ha introdotto per Donzelli l’edizione di Che cos’è l’arte? di Lev Tolstoj. Tra le sue pub- blicazioni: Il debito del linguaggio. Il problema dell’autoriflessività estetica nel segno, nel testo e nel discorso (1985); Estetica ed ermeneutica. Senso, contingenza, verità (1996); Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea. Un’introduzione al- l’estetica (con A. Ardovino e D. Guastini, 2002); L’estetica contemporanea. Il destino delle arti nella tarda modernità (2004); Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nel- l’età della globalizzazione (2007); L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigu- rare, testimoniare il mondo visibile (2010); Tecnologie della sensibilità. Estetica e im- maginazione interattiva (2014); Tre forme di creatività. Tecnica, arte, politica (2017).
  • 2. ANTIGONE E LA FILOSOFIA V p. IX XIX 3 31 51 75 91 92 94 97 99 101 108 115 116 117 Indice Presentazione di Pietro Montani Techne e Polis Postilla 2017 di Pietro Montani Hegel Il mondo etico e la tragedia (Fenomenologia dello spirito, capoversi 7-39 e 62-79) L’Antigone di Hegel di Paolo Vinci Kierkegaard Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno L’Antigone di Kierkegaard di Ettore Rocca Hölderlin Il significato delle tragedie Lettera a Casimir Ulrich Böhlendorff del 4 dicembre 1801 Lettera a Casimir Ulrich Böhlendorff del novembre 1802 Coro dall’Antigone Coro dei vecchi Tebani Note all’Edipo Note all’Antigone Lettera a Friedrich Wilmans del 28 settembre 1803 Lettera a Friedrich Wilmans dell’8 dicembre 1803 Lettera a Leo von Seckendorf del 12 marzo 1804
  • 3. L’Antigone di Hölderlin di Andrea Mecacci Heidegger La poesia tragica come apertura essenziale dell’essere-uomo. Interpretazione del primo coro dell’Antigone di Sofocle in tre movimenti L’Antigone di Heidegger di Adriano Ardovino Bultmann Polis e Ade nell’Antigone di Sofocle L’Antigone di Bultmann di Gaetano Lettieri Altre Antigoni L’Antigone di Lacan: il limite del desiderio di Alberto Luchetti L’Antigone di Martha Nussbaum. La tragedia della phronesis di Daniele Guastini L’alterità inassimilabile. Letture femminili di Antigone di Katrin Tenenbaum La filosofia e il tragico. Le «Antigoni» di Paul Ricœur e Jacques Derrida di Edoardo Ferrario Gli autori Montani, Antigone e la filosofia VI 119 141 157 215 227 269 287 307 327 371
  • 4. Antigone e la filosofia Dedicato alla memoria di Edoardo Ferrario «Mio padre e mia madre riposano nell’Ade e rifiorire di fratelli non mi è dato» μητρὸς δ᾽ ἐν Ἅιδου καὶ πατρὸς κεκευθότοιν οὐκ ἔστ᾽ ἀδελφὸς ὅστις ἂν βλάσ τοι ποτέ (Antigone, vv. 911-912)
  • 5.
  • 6. Presentazione Salta subito agli occhi, nelle letture filosofiche di Antigone presentate e di- scusse in questo libro, l’eccezionale ampiezza dello spettro problematico che la tragedia sofoclea ha saputo offrire al pensiero. Uno spettro così ampio che i suoi confini estremi potrebbero perfino apparire incommensurabili: da un la- to, infatti – ed è, esemplarmente, la posizione di Heidegger, ma non solo la sua – in Antigone ne andrebbe di una domanda sulle cose ultime (chi è l’uo- mo? che cos’è l’esistente?); dall’altro – e qui è Nussbaum ad assumere un ri- lievo che non è tuttavia una sua esclusiva – l’interrogazione dell’opera sofo- clea verterebbe sulla flessibilità, e dunque sul carattere non mai ultimativo, della saggezza pratica (in che modo trovare la giusta misura per inserire l’azione nell’imprevedibilità del contingente?). Da un lato una scena ontologi- ca e un teatro monologico (o tutt’al più corale) dell’essere; dall’altro una scena politica e un teatro plurivoco dell’azione e dell’eudaimonia (cioè di quella for- ma dell’essere, non calcolabile e intimamente plurale, che è il bene-essere, la felicità). È stato Jacques Taminiaux, in un saggio fondamentale1 , a far valere questa opposizione e a suddividere in due grandi direttrici la moderna erme- neutica filosofica del tragico e della tragedia: la direttrice metafisica o «plato- nica» (di gran lunga dominante, da Schelling a Heidegger) e quella politica o «aristotelica» (limitata all’ultimo Hölderlin, secondo la proposta per più versi innovativa di Taminiaux). Ma se l’opposizione non sembra mediabile, allora che cosa dobbiamo pensare del caso Antigone? Come dobbiamo valutare, cioè, la circostanza per cui Antigone ci si presenta di fatto come un testo che ha legittimato criteri di lettura eterogenei quando non addirittura antagonisti? Certo, quella di offrirsi a interpretazioni sempre rinnovate è una proprietà che volentieri riconosciamo alle grandi opere d’arte; ma anche deponendo ogni riserva circa la tenuta e l’esplicatività di un tale convincimento oltre i confini dell’esperienza moderna dell’arte, è certo che qualunque lettore o spettatore di Antigone si accontenterà difficilmente della mera registrazione di questa sua presunta o reale multiformità di significati2 . Tanto più quando il 1 Cfr. J. Taminiaux, Le théâtre des philosophes. La tragédie, l’être, l’action, Millon, Gre- noble 1995. 2 È questo, forse, il limite del saggio, peraltro insostituibile, di George Steiner su Le Antigoni, trad. it. Garzanti, Milano 1990. IX ANTIGONE E LA FILOSOFIA
  • 7. conflitto delle interpretazioni percorre, come nel nostro caso, il territorio del- la riflessione filosofica, dal quale sembra lecito aspettarsi indicazioni per una comprensione unitaria. Il problema su cui occorre far chiarezza è dunque quello che riguarda i rapporti tra filosofia e tragedia: e sono rapporti che bisognerà cercare di con- figurare in un quadro di riferimento sufficientemente perspicuo e coerente se vorremo render conto del fatto che le diverse interpretazioni filosofiche pre- sentate e discusse in questo libro appaiano non solo legittime ma anche, per così dire, coreferenziali, in quanto esse colgono qualcosa di essenziale nel me- desimo testo o, se si vuole, vi pensano qualcosa che il testo dà effettivamente da pensare. Muoviamo allora da una domanda ingenua: dire che la tragedia (se non addirittura il «tragico») interessa la filosofia vale quanto dire che a interessare la filosofia può essere precisamente Antigone? Forse qui si profila un diverso discrimine; forse nella semplicità di questa alternativa si apre l’orizzonte di un’interrogazione non banale. Chiediamoci: ci aspetteremmo davvero che una filosofia del tragico possa dirci a proposito di Antigone qualcosa che non valga anche per Edipo re o per le Coefore? Cercheremmo, poniamo, in Scho- penhauer i criteri per differenziare l’azione di Antigone da quella di Edipo o di Oreste? Evidentemente no; evidentemente è dell’altro che cercheremmo – e troveremmo – in Schopenhauer (o in Schelling). Le cose invece cambiano, in modo netto e in equivoco, se ci volgiamo a Hegel. Non solo, infatti, non avrebbe senso che la sezione della Fenomenologia dello spirito dedicata al «Mondo etico»3 si riferisse a una tragedia «in generale», ma forse si potrebbe arrivare a dire che senza Antigone quella medesima sezione non sarebbe stata possibile. E tuttavia neanche Hegel ci conforterebbe nel nostro desiderio di ri- conoscere in Antigone differenze che appaiano significative per la filosofia sot- to il profilo specifico dell’azione drammaturgica, ed è piuttosto a Hölderlin che dovremmo rivolgerei per saperne di più, visto che nelle sue Note su Sofocle4 Hölderlin si interessa proprio al fatto che Edipo e Antigone inseriscono la ri- spettiva azione in una struttura compositiva molto diversa. Con ciò abbiamo sommariamente evocato tre diversi paradigmi del rap- porto tra la tragedia e la filosofia. Proviamo a esplicitarli e a trarne qualche in- dicazione volta a farci meglio comprendere – al di là della persuasività singo- larmente esibita dalle diverse interpretazioni qui discusse – la legittimità dello spazio di riflessione specificamente dischiuso da Antigone secondo una così sconcertante latitudine. Il primo paradigma è quello dell’interesse metafisico assoluto della trage- dia. Esso coincide con la tesi secondo cui il compito della filosofia (o della 3 Cfr. infra, pp. 1-29. 4 Cfr. infra, pp. 101-4. Pietro Montani X
  • 8. psicoanalisi, se si concede che in questo paradigma va in larga parte ricondot- to il complesso contributo di Lacan)5 consiste nel pensare in modo dispiegato quanto nell’opera tragica è detto in modo figurato mostrando che il tragico è una delle grandi risposte alla domanda sul senso delle cose, e massimamente su quel senso che non appare perché piuttosto è ciò che consente al mondo di apparire e all’uomo di abitarvi (lo si chiami, poi, libertà, come fa Schelling, o volontà, come fa Schopenhauer o pulsione di morte, come fa Lacan). È evi- dente che, quali che ne siano i pregi o le manchevolezze, quale che ne sia la capacità di favorire un’effettiva azione di chiarimento reciproco tra pensiero e poiesis tragica, tale paradigma per funzionare dev’essere metastorico. Tutto questo ne misura, d’un colpo, la distanza incolmabile che esso fa registrare nei confronti del secondo, che abbiamo riconosciuto in primo luogo in Hegel. Hegel non cerca in Antigone la conferma di una tesi teorica già saldamen- te posseduta dal pensiero, né ve ne scopre una che il pensiero dovrebbe sol- tanto esplicitare: è vero piuttosto che, nella lettura hegeliana, Antigone confi- gura sensibilmente un contenuto e, al tempo stesso, ne legittima il supera- mento in una figura di pensiero, cioè in qualcosa d’altro dal sensibile. Antigo- ne, in altri termini, offre alla Fenomenologia un’immagine da pensare – il ca- rattere immediato e sostanziale dell’eticità e il conflitto incomponibile che ne discende – e insieme legittima la stessa Fenomenologia come il modo corretto di pensare la verità di quell’immagine. Nei due casi, però, il termine «pensa- re» dice cose diverse: nella prima occorrenza dice che il raffigurato del mythos tragico trova il suo necessario correlato in un pensiero (e dunque dice che l’uno non sarebbe senza l’altro e viceversa); nella seconda occorrenza dice che in ultima analisi quel raffigurato si risolve senza residui nel pensiero che, solo, ne dispiega la verità. Proprio per questo, del resto, esso è qualcosa di storico e di determinato (e non alcunché di «tragico in generale»). Per lo stesso motivo, inoltre, la tragedia deve restare per noi moderni «un che di passato»6 , un mo- do di accadere della verità che si motiva – e lo motiva – nel processo che con- duce lo spirito all’autotrasparenza. Donde, infine, l’attrazione irresistibile con cui qualsiasi autentica riflessione filosofica sulle riprese moderne della trage- dia mostra di non potersi sottrarre dal gravitare intorno alla tesi di Hegel7 . 5 Cfr. infra, pp. 269-86. Nella sua riflessione, tipicamente digressiva, su Antigone in realtà Lacan tocca molti altri problemi, anche relativi al versante «politico» dell’interpretazione. Resta netta tuttavia l’impressione che il suo sia un procedimento cumulativo la cui tenuta è affidata alla centralità del tema della pulsione di morte, di cui viene argomentata una comprensione essenzialmente ontologica. 6 Mi riferisco alla ben nota definizione hegeliana dell’arte come «qualcosa di passato», cioè come un modo di accadere della verità destinato ad essere «tolto» da un accadere più mediato. 7 È il caso, per restare ai testi qui discussi, di Kierkegaard (cfr. infra, pp. 49-73) e di Zambrano (cfr. infra, pp. 308-13), ma la situazione si potrebbe largamente generalizzare, tanto risulta vincolante per il pensiero filosofico lo sforzo ermeneutico impegnato da Hegel su Antigone. Non è un caso, del resto, che sia Kierkegaard sia Zambrano si mettano in Presentazione XI
  • 9. Il secondo paradigma soddisfa dunque l’esigenza di salvaguardare la de- terminatezza e la storicità del testo, ma lo fa infliggendo all’opera il prezzo di un’esorbitante esposizione sistematica: Antigone dialoga davvero con la filo- sofia (hegeliana) solo lasciandosi ricondurre a un profilo essenziale (Antigone versus Creonte, le leggi del sangue versus le leggi della polis), la cui pertinenza è tanto forte quanto lo è il sacrificio che la sua messa in rilievo ha dovuto far sopportare alla complessità della poiesis testuale. Inutilmente si chiederebbe a Hegel una parola significativa sugli altri personaggi del dramma e anzi la sola idea di far uscire l’interpretazione dal suo assetto bipolare rischia di disper- derne d’un colpo i benefici esplicativi (a dire il vero difficilmente sottovaluta- bili). In nessun momento, inoltre, ci si sentirebbe autorizzati a interrogare Hegel sui dettagli della composizione del testo (sul suo calcolato prendere-in- sieme molte cose eterogenee) e la ragione è evidente: non è che Hegel ne sot- tovaluti gli effetti, al contrario è proprio il tratto compositivo, la systasis, ciò che gli interessa, solo che quel comporre diventa per lui significativo nella mi- sura esatta in cui è «tolto» alla poiesis e «ripetuto» come pensiero, cioè resti- tuito al movimento sistematico che di quella poiesis dice la verità e solo così la onora; proprio come si onora – estinguendolo – un debito pregresso8 . Le cose stanno diversamente in Hölderlin. Si può certo dubitare che Höl- derlin sia arrivato davvero a disinteressarsi della posta ontologica del gioco tragico per restituire piena dignità alla dimensione «politica» della tragedia (è la tesi, già ricordata, di Taminiaux), ma un fatto resta accertato ed evidente: Hölderlin dimostra un’attenzione costante nei confronti dell’aspetto compo- sitivo della poiesis tragica che inutilmente cercheremmo in Hegel, e in questo consiste la sua primaria fedeltà alla lezione della Poetica di Aristotele. Lo stile filosofico di Hölderlin ci costringe a un lavoro di ricostruzione non solo arduo ma anche ingrato, perché lo sforzo che ci costa il suo chiari- mento non smette di farsi sentire come inadeguato al pensiero che vi si vor- rebbe infine raggiunto ed esplicitato, e tuttavia non pare illegittimo conside- rare acquisito almeno questo punto: la riflessione di Hölderlin sulla tragedia si concentra innanzitutto sull’assoluta salienza dell’operazione compositiva condizione di interloquire con Hegel inscenando un’altra Antigone che, in entrambi casi, toglie all’eroina sofoclea ciò che nell’interpretazione hegeliana ne costituisce l’essenza, vale a dire il tratto dell’eticità sostanziale, il suo far coincidere senza residui la legge con l’immediatezza di un’azione che deve rivoltarsi, nel riconoscimento fatale di un’altra e opposta eticità, contro l’attore. 8 Dunque l’arte è «un che di passato» anche dal punto di vista dell’economia del dar da pensare – che è proprio del mythos e in generale dell’immagine sensibile – e del pensare in senso stretto – che è proprio del logos e in generale della ragione. Il testo hegeliano – e in modo del tutto particolare il suo costante ritorno sulla figura di Antigone – potrebbe però suggerire anche una diversa interpretazione della «passatezza» dell’arte, nella quale il pensiero potrebbe arrivare a riconoscere non tanto un debito da estinguere quanto piuttosto un dono già sempre ricevuto. Si tornerà su questo punto nelle battute conclusive. Pietro Montani XII
  • 10. grazie a cui l’opera tragica riesce a costituirsi come uno spazio capace di con- durre a rappresentazione ciò che non è dell’ordine del rappresentabile (donde la sua vocazione all’ontologico, ma anche – e si dovrà tornare su questo – la sua attitudine a intrecciare l’ontologico e il politico). Di questo costante inte- resse filosofico per la composizione (non estraneo, naturalmente, al progetto poetico che lo affianca) ci rende testimonianza non solo la peculiare termino- logia della riflessione hölderliniana sulla tragedia – la «legge», il «calcolo», la «cesura», la «mechane» – ma anche e innazitutto il suo presupposto: non si rappresenta l’originario (l’intuizione intellettuale, l’assoluto, il nulla, il «segno = 0») a meno di una macchina formidabile che si sia posta in grado di com- porre, di prendere-insieme quell’originario con qualcosa d’altro (la struttura della scena, l’azione, la peripezia, i pathe e così via). In altri termini: la posta in gioco è talmente alta perché il gioco stesso ha dato mostra di potersi man- tenere a quell’altezza senza esplodere o precipitare nel silenzio. Il terzo paradigma ci fa fare un progresso notevole nella comprensione del nostro problema: se Hölderlin ha ragione a porre l’accento sulla salienza e sull’irriducibilità della composizione non ci si dovrebbe più stupire del fatto che Antigone offra al pensiero un ambito di riflessione ai cui confini siamo autorizzati a riconoscere, con pari diritto, la potenza della deinotes – l’inquie- tudine spaesante che afferra la sperimentazione originaria dell’esserci greco – e la sobrietà della phronesis – lo sguardo dolente e avveduto rivolto alle incer- tezze dell’azione pratica e alla «fragilità del bene». La scena dell’essere e insie- me la scena del politico. Non ci si dovrebbe più stupire di questa latitudine e di questo intrecciarsi e bisognerebbe piuttosto, seguendo l’intuizione «aristo- telica» di Hölderlin, ripensarne in modo adeguato le condizioni compositive. Si vedrebbe così che Antigone merita davvero, ma per motivi diversi, lo stu- pore di Hegel che vi vedeva «la più compiuta delle opere d’arte»9 . Dunque la nostra attenzione deve rivolgersi alla composizione dello spa- zio tragico secondo un’accezione che, aristotelica quanto agli intendimenti profondi, si dispieghi necessariamente oltre Aristotele quanto alla sua capaci- tà di reintegrare nell’atto del comporre una più ampia istanza del prendere- insieme (quella stessa che Kant attribuiva alla facoltà riflettente di giudizio)10 . Ma a chi affidare il compito di illuminare questa scena teorica? È verosimile che il candidato più accreditato debba essere, tra i filosofi che si sono interes- sati alla tragedia, quello che più di ogni altro si è posto nell’apertura di pensie- ro dischiusa da Hölderlin: Friedrich Nietzsche. 9 Riprendo qui la celebre definizione dal corso di Estetica pronunciato da Hegel nel 1823, che sintetizza mirabilmente l’interpretazione dell’Antigone (cfr. G. W. F. Hegel, Lezioni di Estetica, a cura di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 297). 10 Il nesso tra la systasis aristotelica e la riflessione dispiegata da Kant nella terza Critica è indicato limpidamente e magistralmente sviluppato da Paul Ricœur in Tempo e racconto, 3 voll., Jaca Book, Milano 1986-88, in part. vol. I, pp. 111-3, 233. Presentazione XIII
  • 11. La nascita della tragedia è un libro complesso e intimamente travagliato da un congedo ineluttabile – quello da Schopenhauer e da Wagner – non an- cora pienamente consumato. L’originalità del suo disegno teorico fondamen- tale, tuttavia, si impone con la più grande chiarezza11 : ciò che interessa Nietz- sche è precisamente l’atto compositivo che, nella tragedia attica, avrebbe pro- dotto per la prima volta le condizioni estetiche per un disvelamento integrale dell’esistente. La definizione, più volte ripresa da Nietzsche nel corso del- l’opera, secondo cui «solo come fenomeno estetico l’esistenza (Dasein), e con essa il mondo (Welt), appare giustificata (gerechtfertigt erscheint)»12 dev’esse- re infatti intesa in senso letterale e radicale e riferita innanzitutto all’azione re- ciproca con cui apollineo e dionisiaco costituiscono lo spazio tragico (l’unità di coro e scena) come uno spazio in cui giunge a integrale manifestazione (Er- scheinung) la verità dell’esistente. Nella tragedia attica, in altri termini, ver- rebbe a compimento un lungo processo di emancipazione dell’immagine rap- presentata (cioè della mimesis in senso aristotelico) tale che per la prima volta l’ordinato apparire delle forme non si costituirebbe più come un velo di belle apparenze teso sul fondo abissale dell’esistenza ma arriverebbe ad assumere in sé il segno «inquietante» (unheimlich)13 di uno sguardo che si mantiene in un rapporto costante e necessario con il traboccamento informe di tutto ciò che ha la forza di irrompere da solo nella presenza. Lo spazio tragico, dun- que, compone la sobrietà apollinea con l’ebbrezza dionisiaca (la techne con la physis), ma in questa inedita unificazione è il senso stesso dell’apparire 11 Quanto all’attendibilità filologica delle tesi nietzscheane, la dura polemica che, com’è noto, la investì fin da subito non si è mai chiusa con un giudizio definitivo. Ancora di recente, per esempio, una specialista come Nicole Loraux ha potuto scrivere a proposito della Nascita della tragedia che si tratta di un’opera «dont je ne crains pas de dire aujourd’hui que son auteur avait, au plus haut point, raison contre Ulrich von Wilamowitz-Möllendorf», il prestigioso capofila dei critici di Nietzsche (cfr. N. Loraux, La voix endeuillée, Gallimard, Paris 1999, p. 138). 12 Cfr. F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie, in Nietzsche Werke, Kritische Gesamt- ausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, III, 1, de Gruyter, Berlin-New York 1972, pp. 43, 148; trad. it. La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1977, pp. 45, 159. 13 Ibid., p. 45. Unheimlich, com’è noto, è il termine adottato da Heidegger (cfr. infra, pp. 139-55) per tradurre il deinon di Sofocle. Fino a che punto l’interpretazione heideggeriana dell’opera d’arte sia in debito con Nietzsche, e in che cosa precisamente se ne distacchi, si può facilmente verificare comparando con attenzione il testo del corso heideggeriano del 1936 su «La volontà di potenza come arte» (trad. it. a cura di F. Volpi, in M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, pp. 21-215) con il saggio, di poco precedente, sull’«Origine dell’opera d’arte» (trad. it, a cura di P. Chiodi, in M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 3-69). Qui basterà accennare al fatto che la coppia heideggeriana terra/mondo converte nei termini di una comprensione ontologica ciò che nella coppia dionisiaco/apollineo Nietzsche penserebbe (stando a Heidegger) in termini ancora metafisici. Nei due casi, peraltro, è netta la presa di distanza dal modo in cui Hegel introduce l’unità di sensibile e ideale (vale a dire l’accadere della verità come arte) nel contesto di uno storicizzarsi teleologico, e cioè come uno stadio, necessario ma provvisorio, del processo con cui lo spirito perviene all’autotrasparenza. Pietro Montani XIV
  • 12. (Schein) a cambiare di segno: da strumento illusorio e ingannevole, adoperato per sopportare la vita, l’immagine rappresentata si trasforma in autentica ma- nifestatività del vero e in affermazione della vita. A ben guardare, il movimento radicalmente «fenomenologico» che sem- bra necessario cogliere nella definizione nietzscheana sopra riportata ci pre- senta lo spazio della composizione tragica come uno schema (nel senso kan- tiano) della verità intesa come a-letheia, disvelamento che lascia essere il fon- do oscuro e ingovernabile (la lethe) a partire dal quale l’ente si pro-duce in un apparire. Da questo punto di vista, allora, lo spazio tragico è, per eccellenza, teatro ontologico, luogo di enunciazione dell’essere dell’esistente. E per nes- suna ragione, pertanto, ci si dovrà stupire che in esso ne vada, in modo tema- tico, di una domanda che mira a «giustificare» integralmente l’esserci e il mondo: è quanto accade nel primo stasimo dell’Antigone, dove a quella do- manda il coro risponde illustrando lo stra-ordinario della deinotes, cioè giu- stificando l’esistenza umana e il mondo nel loro svelarsi – nel loro aletheuein – come alcunché di massimamente inquietante (deinotaton)14 . Ma lo spazio tragico in quanto schema dell’a-letheia è anche (e sempre nel senso kantiano) una composizione di fatti, un prendere-insieme molte cose, una sy-stasis dell’eterogeneo. Non è per nulla ininfluente, in altri termini, che l’evento compositivo in cui il fenomenizzarsi originario (l’aletheia) si fa, per quel che è possibile, immagine rappresentata si annunci, nella divisione di co- ro e scena, come azione drammatica e come riflessione sul senso dell’agire. E allora non dovrà nemmeno stupire che in esso ne vada, in modo parimenti te- matico, di una domanda che mira a «giustificare» l’esserci e il mondo dal pun- to di vista della mimesis praxeos e della sua irriducibile pluralità: è quanto ac- cade, nell’intero testo dell’Antigone, all’azione che contrappone Antigone a Creonte e che, proprio in forza della sua estrema polarizzazione, rende altresì «giustificata» la diversità delle figure intermedie che possono integrarvisi, da Ismene a Emone, dalla guardia a Tiresia, da Euridice al messaggero fino all’in- tima plurivocità del coro dei vecchi tebani che col suo prendere in diverse oc- casioni le parti dell’uno o dell’altro non fa che «giustificare» il carattere essen- zialmente plurale della praxis15 . Per quanto Nietzsche appaia indubbiamente meno interessato a questo se- condo tratto della composizione tragica, l’impianto teorico della Nascita della tragedia non potrebbe prescinderne senza rilevanti ripercussioni sulla sua pie- na intelligibilità. In nessun altro modo, infatti, e per tenerci a un solo aspetto decisivo, si lascerebbe coerentemente comprendere il tema della «saggezza si- lenica» su cui Nietzsche insiste a più riprese. È la consapevolezza degli orrori dell’esistenza, scrive Nietzsche, ciò che dobbiamo riconoscere nella sentenza 14 È questa la lettura che ne offre Heidegger (cfr. infra, pp. 139-55). 15 È questa la lettura che ne offre Nussbaum (cfr. infra, pp. 287-305). Presentazione XV
  • 13. di Sileno, secondo cui «la cosa migliore per l’uomo» è per lui «irraggiungibile» essendo quella di «non essere mai nato, non essere, essere niente»16 . Sulla scena aperta dell’ontologico il detto silenico (non a caso presente anche nell’Edipo a Colono) non farebbe altro che aggiungere alla deinotes dell’uomo il tratto della pulsione di morte17 . Ma in che misura, allora, quel detto apparterrebbe alla «saggezza popolare»? Anche se Nietzsche non lo dice, è evidente che la rispo- sta non potrebbe cercarsi che sulla scena, coessenziale, della mimesis praxeos: l’orrore della vita è innanzitutto determinato dalla consapevolezza che l’azione umana è costitutivamente esposta al caso e all’imprevedibilità delle contingen- ze ovvero all’errore e all’ineluttabile. In entrambi i casi l’uomo si scopre come un essere senza difese, fragile e vulnerabile. E tuttavia, la difesa migliore, quella più sicura e garantita è qualcosa di «irraggiungibile»: è il paradosso di non es- ser mai nati. Se ne dovrà concludere che se il detto di Sileno non allude soltan- to alla pulsione di morte ma anche e coessenzialmente a una «saggezza popo- lare», in esso bisognerà sentir risuonare la richiesta potenziale di un estremo gesto di affermazione: non solo l’uomo deve giungere ad accettare la sua fragi- lità, egli deve anche arrivare ad affermarla per quello che è, un bene prezioso da «giustificare» proprio nella sua totale esposizione al contingente. Ma una tale giustificazione, infine, non potrebbe compiersi in un teatro ontologico perché, piuttosto, essa richiede la scena aperta del politico18 , l’irriducibile plu- ralità dei casi singolari e della doxa. Se questo sviluppo nietzscheano19 ci ha messi, come crediamo, sulla strada giusta se ne dovrà concludere che il quadro appena tracciato risulta compiuta- mente esibito da una tragedia come Antigone, nella quale – forse non in modo esclusivo ma certo in modo assolutamente esemplare e con evidente intenzio- nalità – l’azione compositiva mostra di voler prendere-insieme la deinotes e la phronesis sollecitando il lettore (o lo spettatore) a riconoscerne ed esplorarne gli innumerevoli luoghi di incrocio. È proprio in quanto Antigone realizza in sommo grado l’intreccio di ontologico e politico, allora, che l’eccezionale am- 16 Cfr. Nietzsche, La nascita della tragedia cit., p. 32. 17 È questa, come si è detto, la tesi centrale argomentata da Lacan (cfr. infra, pp. 269-86). 18 È in questo modo che si potrà leggere il testo di Bultmann (cfr. infra, pp. 213-25) secondo una prospettiva al tempo stesso contrastiva e complementare nei confronti di quella di Heidegger. La differenza principale è che Heidegger coglie in Antigone null’altro che Dichtung, parola che nomina l’essenza e la fa accadere storicamente, laddove Bultmann vi coglie un’immagine drammatica della costituzione della polis su qualcosa di non padroneggiato. A meno di uno sfondo comune come quello che cerchiamo qui di mettere in chiaro le due letture non potrebbero dialogare e resterebbero, certo, singolarmente persuasive e documentate ma anche incomparabili. 19 Si tratta di uno sviluppo perché la composizione di deinotes e phronesis non si potrebbe certo attribuire alle intenzioni di Nietzsche e, prima di lui, di Hölderlin. È la linea di pensiero dischiusa da entrambi, tuttavia, a rendere ragione non solo della complessità ma anche della specificità di una tragedia come l’Antigone. Pietro Montani XVI
  • 14. piezza della sua produttività problematica dovrà essere considerata non solo legittima ma specificamente necessaria. Solo a queste condizioni, del resto, le diverse letture filosofiche presentate e discusse in questo libro si prestano a disegnare un intreccio di relazioni si- gnificative (e talora una vera e propria interlocuzione, effettiva o virtuale)20 e dunque a corroborare l’impressione che mentre ciascuna di esse coglie nel te- sto qualcosa di essenziale per la sua unità nessuna, per contro, ne potrebbe cogliere la totalità. Quella totalità, infatti, non è dell’ordine del pensiero bensì dell’ordine di ciò che dà da pensare. Non, dunque, poiesis (o mythos) che contende al pensiero (o al logos) il primato nella manifestazione del vero, ma poiesis che sollecita l’autonoma azione ordinatrice e consapevolmente delimi- tante di molti pensieri e che solo in questa relazione dialogica si lascia infine comporre in un’autentica e determinata esperienza di verità. Questo libro nasce da un seminario tenuto all’Università «La Sapienza» di Roma tra il marzo e il maggio 2000 nell’ambito di un corso dedicato ai rapporti tra estetica e filosofia pratica. Agli studiosi – tutti specialisti – che vi parteciparono fu chiesto di con- formare i rispettivi interventi alle esigenze di una destinazione prevalentemente didatti- ca: si trattava infatti di offrire a un ampio uditorio di giovani studenti una guida affida- bile per la corretta comprensione di testi di elevata densità teorica. Questo criterio volto a introdurre alla lettura più che a problematizzame i contenuti è stato sostanzialmente rispettato anche nella stesura definitiva dei testi nati dalla rielaborazione degli interventi seminariali: in tal modo il libro può forse aspirare a raggiungere un pubblico altrettanto vasto di quello che si suppone possa raccogliersi nell’ascolto delle parole di Sofocle. Giudicherà il lettore se il proposito è stato adeguatamente realizzato: qui si trattava solo di esplicitarlo. I cinque autori antologizzati (Hegel, Kierkegaard, Hölderlin, Heidegger, Bult- mann) documentano, con i rispettivi testi, gli episodi essenziali della moderna ricezione filosofica dell’Antigone. A ciascuno di essi è coordinato un saggio (rispettivamente, di Paolo Vinci, Ettore Rocca, Andrea Mecacci, Adriano Ardovino, Gaetano Lettieri) nel quale si troveranno gli elementi necessari per affrontarne la lettura con un appropriato corredo di premesse teoriche e informazioni critiche. I saggi di Daniele Guastini, Alber- to Luchetti, Katrin Tenenbaum, Edoardo Ferrario fanno il punto su altre importanti in- terpretazioni dell’Antigone che non è stato possibile antologizzare per la loro ampiezza. Si tratta, rispettivamente, delle letture di Martha Nussbaum, Jacques Lacan, Maria Zam- brano, Luce Irigaray, Adriana Cavarero, Paul Ricœur, Jacques Derrida. La ricognizione non è certo completa, né avrebbe potuto ambire ad esserlo, tanto è pervasiva la presenza di Antigone nella riflessione filosofica moderna, tanto appare co- stante il suo rinnovato costituirsi come luogo di provocazione o addirittura d’origine per il pensiero. Di certo, però, è una ricognizione fortemente rappresentativa del punto 20 Oltre ai casi, già segnalati, di Kierkegaard con Hegel e di Bultmann con Heidegger (entrambi, peraltro, sprovvisti di prove filologiche) la rete delle relazioni significative si distende su tutti i testi ben al di là delle riprese esplicite (come è il caso di Irigaray e Derrida nei confronti di Hegel). Presentazione XVII
  • 15. di vista adottato nel seminario e ripreso nel libro: ciò che Antigone dà da pensare, in- fatti, non potrebbe essere adeguatamente ricevuto se non sullo sfondo di un coinvolgi- mento esplicito dell’esperienza estetica nell’orizzonte della filosofia pratica. La quale, a sua volta, e proprio in virtù di questa intersezione con l’estetico, viene sollecitata a ri- mettersi in ascolto delle domande radicali che la rinviano a un fondamento ontologico. È un punto di vista che delinea un’apertura troppo ampia? No, quando a profilarne il tratto è la determinatezza di un’opera d’arte, con i vincoli di pertinenza interpretativa che ne discendono. P. M. Pietro Montani XVIII
  • 16. XIX Techne e Polis Postilla 2017 di Pietro Montani A distanza di sedici anni dalla prima edizione di questa antologia, avverto il bisogno di aggiungere alcune considerazioni alla Presentazione che apre il volume. Nella veste di coordinatore del seminario e di curatore del libro, in- fatti, avevo deciso di astenermi dal prendere partito a fronte delle numerose e autorevolissime letture del testo sofocleo antologizzate (Hegel, Kierkegaard, Hölderlin, Heidegger, Bultmann) o presentate in singoli testi specifici (dedi- cati nell’ordine a: Lacan, Nussbaum, Zambrano, Irigaray, Cavarero, Ricœur, Derrida). E mi ero limitato a porre l’accento su due aspetti, che mi sembravano, e mi sembrano ancora, decisivi. Il primo è che pur nella straordinaria ampiezza dello spettro delle interpretazioni esaminate, netta restava l’impressione che cia- scuna di esse avesse onorato l’impegno di mantenersi nell’apertura di senso di- schiusa dal testo stesso, articolandola in modo originale ma mai arbitrario. Il se- condo è che la specifica densità di Antigone si tende tra due poli, l’ontologico e il politico, che vengono collegati attraverso una pluralità di percorsi, di cui oggi aggiungerei che non sono tutti reversibili. Nel senso che dopo averne seguito fi- no in fondo uno – raggiungendo, poniamo, il polo politico a partire dall’onto- logico – non si potrebbe esser certi che, al ritorno, ritroveremmo lo stesso insie- me di determinazioni concettuali che era stato fiduciosamente assunto all’ini- zio. Direi, anzi, che questa capacità di rimodellare se stesso grazie a una specifi- ca processualità si costituisce come un tratto dell’essenziale afferenza di un te- sto alla famiglia dei mythoi, in quanto pertiene alla natura dei grandi racconti la capacità di darsi un tempo che non solo non è mai un tempo rettilineo ma è an- che un tempo che si presta a essere ri-conosciuto storicamente in costellazioni semantiche che, secondo una celebre tesi di Walter Benjamin1 , ne ri-attualizza- no la verità. Tornerò su questo punto nelle battute finali. Mi sfuggiva tuttavia, all’epoca, o forse non mi sembrava così urgente (e te- stualmente congrua) quale mi appare oggi, la presenza di una terza polarità, irriducibile alle due che ho menzionato, e forse di volta in volta mediatrice tra le due, anche se con modalità tutt’altro che automatiche, spesso anzi da met- tere in carico alla sagacia dell’interprete. Mi riferisco alla questione della tecni- 1 Mi riferisco a W. Benjamin, Sul concetto di storia, trad. it. a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1996. ANTIGONE E LA FILOSOFIA
  • 17. ca, che come tutti sanno è il tema del celebre primo Stasimo della tragedia – nonché il centro propulsore della lettura heideggeriana qui presentata. La quale lettura, tuttavia, resta prevalentemente concentrata sul polo ontologico, e cioè sulla domanda: «Che cos’è l’ente nel suo complesso? E come dev’essere pensato quell’ente particolare il cui tratto principale consiste nel porre la do- manda sul senso dell’ente?»2 . In realtà – è questo il tema che oggi avverto il bisogno di sviluppare – Heidegger ci consegna un’ulteriore indicazione, intesa a relazionare l’ontolo- gico e il politico passando precisamente per la questione della tecnica; anche se non si tratta di un’indicazione di cui si possa dire che nelle sue riflessioni su Antigone essa risulti testualmente articolata in modo specifico. Come del re- sto non lo è nemmeno nel testo tragico stesso. Bisogna dunque tornare, anco- ra una volta, al primo Stasimo e alle letture che ne propose Heidegger3 . Ho appena detto che il tema del primo Stasimo è una domanda sulla tecni- ca, aggiungendo che la cosa è notissima. Ciò non significa, tuttavia, che su di essa si registri un generale consenso. Non risulta accertato, in particolare, se nell’opinione dei vecchi tebani del coro il sapere e il fare tecnico, nell’esercizio dei quali anthropos è maestro, siano considerati come una meravigliosa risorsa per assicurarsi la vita (senza entrare, ancora, nel merito della «vita buona»), o se essi non configurino piuttosto una mostruosa violenza esercitata contro l’or- dinamento della physis. Il fatto che le interpretazioni del primo Stasimo si pos- sano ripartire in due ampie famiglie, a seconda che si opti per la prima o per la seconda valutazione, è di per sé molto meno interessante del rilievo secondo cui, a certe condizioni su cui ora mi soffermerò, il testo sembra legittimarle en- trambe. Tutto dipende, evidentemente, dal senso che si arriva a dare al superla- tivo, deinoteron, che il coro attribuisce ad anthropos nel primo verso – Polla ta deina kouden anthropou deinoteron pelei – cui segue l’elencazione dei princi- pali ritrovati tecnici esperiti da questo vivente, tra tutti il più deinos. Ci sono infatti eccellenti ragioni per tradurre deinos con «meraviglioso e straordina- rio», ma altrettante per tradurlo con «mostruoso e inquietante». Qui mi interessa richiamare in breve la decisione di Heidegger, il quale, senza esitare, unifica i due vettori semantici dell’aggettivo, proponendo come traduzione unheimilich («s-paesante», «che estromette dal tranquillizzante»), 2 Cioè la Leitfrage della metafisica, come l’ha chiamata Heidegger in diverse occasioni, da non confondere con la Grundfrage, la domanda sull’essere, che sorregge la prima, per lo più inavvertitamente. 3 Cfr. infra, pp. 139-212, inclusive dell’ampio e approfondito commento di Adriano Ardovino nonché dell’importante appendice sul significato, e sulla traduzione, del termine deinon (pp. 209-12). Su questo punto si veda ora E. Spinelli, «La filigrana filosofica di una tragedia: Sofocle e il primo Stasimo dell’Antigone», in Scienze dell’antichità, III, Dell’arte del tradurre. Problemi e riflessioni, a cura di A. M. Belardinelli, Quasar, Roma 2014, pp. 191- 206, che estende opportunamente a Hans Jonas le letture filosofiche della tragedia. Pietro Montani XX
  • 18. per poi chiedere al testo del coro di confermare e specificare l’opzione. Il che avviene, in particolare, nei due passaggi cardinali in cui il coro dice di anthro- pos che costui è «pantoporos, aporos» (v. 360) e «hypsipolis, apolis» (v. 370). Vale a dire (e senza entrare nel merito delle eventuali infrazioni filologiche operate dall’interprete)4 che costui è versato in ogni sorta di espediente per trarsi fuori d’impaccio (pantoporos) e al tempo stesso è privo di ogni risorsa garantita (aporos); e inoltre che è dotato dello guardo di chi domina dall’alto la polis, lo spazio dell’umano abitare, e se ne fa una mappa o una schema per l’azione (hypsipolis) e al tempo stesso è privo di ogni cittadinanza e di ogni luogo certo in cui sussistere stabilmente (apolis). Sta in questa potente ambi- valenza l’essenziale deinotes di anthropos. E siccome la deinotes è innanzitut- to esemplificata dal coro con il fenomeno della tecnica, in quanto è questo fe- nomeno a caratterizzare prima di ogni altra cosa le condotte di anthropos, se ne dovrà concludere che questa medesima potente ambivalenza riguarda an- che il fenomeno della tecnica in quanto tale. Del quale fenomeno, se decidiamo di seguire la lettura di Heidegger, pos- siamo già mettere al sicuro almeno questo accertamento decisivo: che se nel- l’essere-tecnico di anthropos sussiste un’insuperabile ambivalenza, ci sarà po- co da affannarsi a dire che della tecnica si può fare un uso buono e virtuoso o un uso cattivo e dannoso e che basterebbe decidersi una buona volta per il primo e così via. Se la tecnica è, come ci dice il coro, la manifestazione essen- ziale della deinotes di anthropos, è certo che questo vivente dovrà oscillare stabilmente tra l’aspetto meraviglioso e quello mostruoso di questa sua con- dizione ontologica. Dove «stabilmente», beninteso, significa che la giusta mi- sura non sarà mai trovata perché, semplicemente, questa misura non esiste e anthropos è condannato a ridarsela, o meglio a riconoscerla, sempre di nuovo, assumendosi sempre nuovi rischi (tra i quali, certamente, quello supremo del- lo snaturamento della sua essenza). Ciò chiarito, che cosa ci autorizzerebbe a dire, come ho appena fatto, che la deinotes dell’essere-tecnico è la «condizione ontologica» di anthropos? Quale requisito aggiungerebbe, alla deinotes stessa, questa caratterizzazione cui fa cenno la struttura medesima del primo Stasimo? E in secondo luogo: che cosa c’entra Antigone con tutto questo? O, più precisamente: dove do- vremmo cercare, e possibilmente trovare, quel tratto distintivo che ci consen- tirebbe di agganciare Antigone a una riflessione sulla tecnica per ricavarne, se possibile, ulteriori delucidazioni? Ma procediamo con ordine. Su un punto il pensiero del coro appare difficilmente equivocabile. Si sia o meno partigiani della visione moderata o di quella radicale della tecnica, an- 4 Mi riferisco, in particolare, alla soppressione della punteggiatura (il punto alto tra i due termini di ciascuna coppia), e alle motivazioni dell’autore, peraltro largamente persuasive. Techne e Polis XXI
  • 19. thropos sembra comunque destinato a portare lo scompiglio nell’ordine natu- rale delle cose, e ciò lo rende talmente minaccioso da meritarsi il bando che risuona nella chiusa dello Stasimo: «Non divenga egli intimo del mio focolare, né delle sue illusioni il mio sapere partecipe sia, colui da parte del quale si compiono cose siffatte»5 – sulla quale chiusa, beninteso, si dovrà ritornare, se è vero che essa non è per nulla pacifica (come invece sostiene Heidegger alla fine del suo commento, cavandosela con quattro righe e mezza)6 . Fa dunque parte dell’essere stesso di anthropos, e cioè della sua deinotes, l’esercizio di una violenza sistematica nei confronti dell’ordinata compagine dell’esistente, di quella dike, cioè, che pertiene all’ente che si conduce da sé nella presenza: la physis. Anzi, l’irrompere di anthropos nel mezzo dell’ente è talmente decisivo che ora quel medesimo ordine si fa presente, di colpo, per quello che è (meglio: per quello che già era, nachträglich): vale a dire come al- cunché di pre-dominante, e incomparabile nella sua pre-potenza. In che cosa consisterebbe, più specificamente, questo carattere violentante di anthropos? Questa sua coazione a «estromettere dal tranquillizzante»? La risposta che vorrei formulare – anticipando che non si tratta di una risposta di Heidegger – è che questo carattere violentante ha a che fare con i nomoi. E forse, prima di tutto, con quelli agraphoi, di cui parla Antigone nella celeber- rima battuta. Antigone, di cui dovremo prendere in carico anche quest’altro aspetto: che di lei, a ragion veduta, il coro dice che è autonomos: una che i no- moi, prima ancora di decidere di applicarli, o di violarli, se li è data da sola7 . Ma di quali nomoi stiamo parlando? Proviamo a rispondere evidenzian- do un tratto saliente di anthropos; o meglio un tratto saliente delle sue con- dotte pratiche, anche a costo di collocarci nell’ordine di un’ontologia regio- nale quale sarebbe quella definita da un approccio antropologico alla tecni- ca. Il punto è questo: che nell’incontrare l’ente, anthropos non si limita al 5 Cito dall’edizione italiana della Einführung in die Metaphysik (1935) (ora in Gesamt- ausgabe, XL, a cura di P. Jaeger, Klostermann, Frankfurt a.M. 1983; trad. it. Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968), utilizzata in questa antologia, nella quale Heidegger commenta lungamente il primo Stasimo di Antigone. Egli sarebbe ritornato sul testo sofocleo nel corso «Hölderlins Hymne Der Ister» (1942), ora in Gesamtausgabe, XLVI, a cura di W. Biemel, Klostermann, Frankfurt a.M. 1984; trad. it. L’inno di Hölderlin «Der Ister», Mursia, Milano 2003. 6 Cfr. infra, p. 155: «Questa chiusa è tanto poco strana che ci dovremmo meravigliare piuttosto della sua assenza. Essa costituisce, col suo atteggiamento protettivo, l’immediata e piena conferma del carattere inquietante dell’essenza umana. Con questa chiusa il canto si ricollega, nel suo dire, all’inizio». 7 Sull’irriducibile auto-nomia della decisione di Antigone, in questo speculare, sì, a quella di Creonte, ma anche in qualche misura di rango superiore a quella proprio per il suo appellarsi agli agraphoi nomoi, hanno richiamato l’attenzione sia R. Bultmann, «Polis e Ade nell’Antigone di Sofocle», infra, pp. 213-65 (con il commento di G. Lettieri), che M. Cacciari, nella sua Introduzione all’edizione Einaudi, Torino 2007, pur nell’ambito di due letture del tutto divergenti. Pietro Montani XXII
  • 20. dato empirico e a ciò che vi è contenuto analiticamente, perché, piuttosto, egli vi aggiunge (anticipa, pre-vede) qualcos’altro. Che cosa? Vi aggiunge dei nomoi: delle regole che, benché oggettive e sperimentabili, non sono di- rettamente ricavabili dal dato empirico stesso in quanto non appartengono all’ordine della sua dike. Maneggio un ramo flessibile ed ecco che sto già pre-vedendo (o sin-tetizzando, ponendo-insieme) la regola secondo cui quella medesima flessibilità può caricarsi di una forza che, a certe condizio- ni, sarà rilasciata come potenza balistica. Quel ramo flessibile, che ora è già un arco per lanciare frecce, è stato dunque condotto fuori dal suo tranquil- lizzante lanthanein nell’ordine della flessuosità per essere sospinto nell’or- dine inquietante che lo promuove a veicolo di un’altra regola, di un’altra di- ke – che potrebbe anche essere una suprema adikia8 . Ho mescolato le carte teoretiche del problema dei nomoi in modo del tut- to intenzionale e con piena consapevolezza delle incompatibilità che avrei eventualmente violato. Heidegger guardava con aria di sufficienza agli sforzi degli antropologi (nella fattispecie, dei paleoantropologi) nella loro illusione di ricavare qualcosa di decisivo dallo studio di ossa, crani e altri reperti. E an- che nel caso della sintesi apriori kantiana (riconoscibile nella formulazione con cui ho appena presentato il problema delle regole) ritenne di nobilitarla iscrivendola nella tradizione delle domande schiettamente metafisiche – ben- ché non ci fosse alcun rischio che Kant consentisse una qualsiasi confusione della filosofia trascendentale con un’antropologia9 . Ho mescolato le carte non solo perché mi sono convinto da un pezzo che la fedeltà al pensiero dei gran- di filosofi (qui Kant e Heidegger) si realizzi al meglio facendoli dialogare ol- tre ogni presunta ortodossia, ma anche perché, nella fattispecie, sarà proprio una particolare cura per il piano ontico a metterci sulla buona strada per in- travedere un collegamento possibile (non necessariamente esplicito) tra i con- tenuti del primo Stasimo e l’azione tragica di Antigone. C’è da chiedersi a questo punto dove e come avvenga questo collegamen- to, supponendo che un collegamento debba esserci, tra la riflessione sulla tec- nica esposta nel primo Stasimo e l’atto con cui Antigone viola l’editto emana- to da Creonte in nome della sua autonoma decisione per un’altra forma della legge, di cui ella dichiara che non ha la natura del documento scritto. Aggiun- 8 Ho qui proposto, come si vede, una versione intenzionalmente onticizzata dell’inter- pretazione heideggeriana della aletheia – e della tecnica come un modo dell’aletheuein, del- l’accadere storico della verità. Tornerò su questo punto, e sul ruolo non proprio paritario che Heidegger accorda alla tecnica tra i diversi modi di storicizzarsi della verità. 9 Mi riferisco, naturalmente, al grande libro su Kant e il problema della metafisica (trad. it. Laterza, Roma-Bari 1981), dove ciò che Heidegger evidenzia e valorizza nella sintesi kan- tiana è il trattamento non convenzionale del tempo (e non, come pure sarebbe stato possibile, lo schietto tratto fenomenologico individuabile nel modo in cui il soggetto umano anticipa alcuni tratti dell’ente incontrato per assumerli nella sua prassi adattativa). Techne e Polis XXIII
  • 21. gendo che nulla si sa circa la sua provenienza, ma anche che, proprio in forza di queste due determinazioni negative, nessuna norma stabilita da un mortale potrebbe arrogarsi il potere di violarla. Di che cosa sta parlando Antigone? Su questo punto la mirabile interpre- tazione consegnata da Hegel dapprima alla Fenomenologia dello spirito e successivamente alle Lezioni di estetica10 continua a esercitare tutta la sua in- fluenza, per certi versi addirittura istituzionalizzata, a cominciare dall’identi- ficazione degli agraphoi nomoi, a cui si appella l’eroina tragica, con le leggi del sangue. Le quali non hanno bisogno di essere scritte perché sono, per co- sì dire, già sempre «iscritte», in modo sostanziale, nella ripartizione dei gene- ri in seno al genos e competono alla linea femminile. E tuttavia, che l’ordine della motivazioni che spingono Antigone all’azione sia senza residui ricon- ducibile al contenuto identificato da Hegel – vale a dire alla sottrazione del- l’evento della morte al suo carattere naturale e biologico e alla sua trasforma- zione in «qualcosa di agito» e di sensato grazie a un rituale di riconoscimen- to che ri-accoglie l’individualità del morto in seno alla famiglia – non rende giustizia fino in fondo alle espressioni usate dall’eroina. Le quali, certo, allu- dono a un contenuto determinato – il culto dovuto ai morti – e a un’azione contingente – la sepoltura di Polinice – ma si preoccupano innanzitutto di assicurare il rango di quel contenuto e di quell’azione al carattere straordina- rio della legislazione – non scritta e di ignota provenienza – che avrebbe le- gittimato l’autonomo decidersi dell’eroina per quella scelta contingentemen- te lesiva di una legge della polis. Detto altrimenti, Antigone sembra voler rivendicare il suo diritto di risali- re fino alla condizione donde proviene la possibilità medesima della legge e della sua cogenza, quella condizione alla quale è necessario fare ritorno tutte le volte che un conflitto rischia di paralizzare la vita della polis e l’ordine vi- gente dà segno di dover essere rifondato11 . Cosicché Antigone sarebbe in ulti- ma analisi molto più sensibile agli interessi profondi della polis di quanto non lo sia Creonte12 . 10 Cfr. infra, pp. 1-48, comprensive del commento di Paolo Vinci. 11 È questo, in buona sostanza, il senso della notevole interpretazione, elaborata in di- verse occasioni da G. Zagrebelsky, nella quale la legislazione (Creonte) viene distinta dal di- ritto (Antigone); un’interpretazione di cui andrà per lo meno osservato, senza che il punto si possa approfondire qui, la collocazione diametrale, pur nell’apparente analogia, rispetto al concetto schmittiano di «sovranità» e alla condizione dello «stato d’eccezione» che lo fonda. È vero infatti che il diritto ha dei contenuti generalissimi (per es. quelli storicamente definiti dalla Carta costituzionale di un paese), mentre lo «stato d’eccezione» coincide con la vigenza della legge nella forma della sua sospensione – cioè con il ni-ente legislativo, donde la simpatia di Heidegger. Una lectio magistralis di Zagrebelsky su Antigone si può seguire al link: https://www.youtube.com/watch?v=GzIn8h1rzDc. 12 E si vedano, su questo punto, il testo di Bultmann già citato nonché il commento di G. Lettieri. Pietro Montani XXIV
  • 22. Questa direttrice ermeneutica, come si vede, ci ha condotti se non proprio fuori dallo schema hegeliano, almeno in una posizione eccentrica rispetto al suo modo di ridurre il conflitto tra Antigone e Creonte a quello tra le leggi della polis e le leggi del sangue. Conflitto necessariamente speculare, se dob- biamo prestar fede alla tesi di Hegel secondo cui l’intransigente esecuzione dell’istanza dell’uno non può che condurre al riconoscimento dell’istanza del- l’altro nella forma difettiva del limite e del non-conciliabile. Ma se fosse dav- vero e fino in fondo così, avrebbe fatto notare Nussbaum13 , allora perché la tragedia reca il nome dell’eroina e non anche quello del suo antagonista? In realtà anche Heidegger, nella sua seconda e più completa lettura della tragedia, si svincola dalla forza dell’interpretazione hegeliana prendendo sul serio Antigone quando parla di agraphoi nomoi. Operazione tutt’altro che dif- ficile per lui, occorre dirlo, se si considera che la condizione donde proviene la possibilità medesima della legge e della sua cogenza, di cui ho parlato poco so- pra, non potrebbe essere afflitta da nessun difetto ontico – mentre lo è, e fin troppo, la contingente legislazione di Creonte – e dunque colloca l’eroina nella zona della decisione che più di ogni altra si approssima al rango dell’ontologia fondamentale (compresa, in questo caso, qualche convergenza con lo stato di eccezione). Donde la conclusione, per certi versi automatica, che das Unheim- lichste, il più inquietante, trova in Antigone il suo più accreditato rappresen- tante. E che pertanto a lei sono rivolte le parole con cui gli anziani concludono il primo Stasimo (e che personalmente continuo a considerare assai enigmati- che, come ora proverò a chiarire): una che si è spinta fino alla regione donde proviene la possibilità medesima della legge di certo non potrà essere accolta presso il focolare, e anzi bisognerà bandirla da quel luogo. Prima di tornare sulla chiusa dello Stasimo, nella quale i vecchi tebani inti- mano al più inquietante – e dunque ad anthropos, e dunque a loro stessi – che non accampi pretese sull’intimità del focolare (parestios: il luogo tra tutti più prossimo alla terrestrità della terra, il non-sradicabile), vorrei tornare per un attimo alla prima lettura heideggeriana, quella limitata allo Stasimo in que- stione, per far notare che in quella sede si parla della tecnica proprio negli stessi termini nei quali, nella seconda lettura, viene accordato ad Antigone il rango ontologico che, ben oltre la colpa contingente di aver violato un editto, le costa – lei consapevole – il bando e la morte. Ecco il passo principale: Techne non significa né arte né mestiere, per non parlare poi della tecnica nel senso moderno. Traduciamo techne con «sapere»; il che abbisogna peraltro di spie- gazione. Il sapere non è qui inteso come il risultato di semplici constatazioni al ri- 13 Cfr. M. Nussbaum, La fragilità del bene, il Mulino, Bologna 1966, su cui si veda D. Giastini, «L’Antigone di Martha Nussbaum. La tragedia della phronesis», infra, pp. 287-305. Techne e Polis XXV
  • 23. guardo di un sussistente prima sconosciuto. […] Questo [sapere], nel senso auten- tico della techne, è l’originaria e costante prospettiva (Hinaussehen: il guardare fuori, il guardare oltre) rivolta al di là del sussistente14 . Rivolgersi al di là del sussistente significa orientare la propria Vor-sicht (la propria attenzione anticipante)15 verso il luogo delle leggi non scritte (che per Antigone si identifica con l’Ade); significa tenere in vista una condizione, tra- scendente, della medesima possibilità della legge in genere. Un luogo e una condizione, già iscritti almeno in parte nel nome stesso di Antigone, verso cui l’eroina è già sempre rivolta: la condizione medesima del rivoltarsi, o della Kehre (ovvero della dif-ferenza, o del trascendentale, si potrebbe anche dire, ricorrendo ad altri vocabolari filosofici, altrettanto legittimi), la condizione della auto-nomia in senso radicale e non soggettivistico, la condizione – nelle sue parole – della sua appartenenza all’Ade. Ma nella tragedia che ne porta il nome Antigone esercita la sua intransigente deinotes in un senso eminente- mente politico: solo in virtù della sua azione di rivolta e del conseguente sacri- ficio di sé la polis potrà infatti ritrovare l’equilibrio e richiamarsi di nuovo alla phronesis, come fa puntualmente il corifeo nelle battute finali. Ma non andrà in nessun momento dimenticato che nel primo Stasimo il coro si era preoccu- pato di intonare questo medesimo tema della deinotes riferendolo in modo es- senziale alla tecnica. Come se fosse innanzitutto la tecnica, ora lo vediamo con più chiarezza, l’orizzonte manifestativo determinante sia della deinotes di anthropos sia della sua phronesis (politica nella fattispecie). È sullo sfondo di queste considerazioni che possiamo tornare, per conclu- dere, alle battute finali del primo Stasimo, così poco problematiche, a sentire Heidegger, da richiedere solo due parole di commento. Il punto è che Hei- degger non ha messo nel conto il tratto processuale interno allo svolgimento della tragedia, spettacolarmente attestato, per esempio, dai continui muta- menti di fronte segnati dal coro, che ora si schiera con Antigone, ora col suo antagonista. Nonché dalle funzioni testuali, molto accuratamente distribuite da Sofocle, assolte dagli altri personaggi e in particolare da Emone, che non smette di richiamare il padre a una maggiore flessibilità e a un ascolto più at- tento delle ragioni degli altri. All’inizio ho parlato di una irreversibilità del tempo testuale delle grandi opere di finzione, aggiungendo che alla seconda lettura queste non potrebbero mai risultare le stesse della prima16 . Ora, speci- 14 Cfr. infra, p. 151. 15 Mi si dovrà passare questo riferimento – del tutto anacronistico, ma altrettanto giu- stificato contestualmente – a un pensiero kantiano (riproposto, per di più, nella chiave più congeniale ad Heidegger, quella di una temporalità non-sequenziale). E si veda anche la nota successiva. 16 È stato Ricœur a fornire la più ampia e argomentata teorizzazione di questi giochi col tempo, caratteristici della finzione letteraria. Cfr. P. Ricœur, Tempo e racconto, Jaca Book, Milano 2007-16, 3 voll. Pietro Montani XXVI
  • 24. ficando questo concetto generale, si dovrà riconoscere che il bando del «più inquietante» dal focolare, sancito dal coro nel primo Stasimo, non potrebbe più essere replicato nello stesso modo alla fine della tragedia, dopo che pro- prio in forza della sua autonoma deinotes Antigone avrà dato prova agli an- ziani del coro che il riordino della polis e la stessa possibilità che cittadini e governanti possano accedere, quand’anche provvisoriamente, a diverse e nuo- ve modalità della vita buona, richiede, nei passaggi critici più aspri, il compi- mento di un’azione esemplare estrema come quella – il rifiutare, costi quel che costi, una norma considerata ingiusta – di cui ella si è assunta la non ne- goziabile responsabilità. L’estromissione dallo spazio giuridico della polis è, in Antigone, il tratto della sua più essenziale inerenza alla vita della polis. Ed è precisamente in questa medesima, estrema forma di esemplarità che la trage- dia ci autorizza a concepire l’unico atteggiamento saggio che anthropos possa tenere nei confronti della tecnica: non decretandone il bando né limitandosi ad applicarla, ma assumendosene una responsabilità di cui è necessario pren- dere sempre di nuovo le misure senza poterne mai acquisire una volta per tut- te le regole. Techne e Polis XXVII