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Alessandra Parroni
Con le narrazioni di Simona Pesciaioli
Viaggio fluido
Libero itinerario nell’identità di genere, la
differenza sessuale e la relazione di cura
Introduzione
.
La vita di ognuno altro non è che una continua narrazione, un intrecciarsi di storie che
raccontiamo a chi ci è vicino e in primo luogo a noi stessi.
Allo stesso modo qualsiasi tipo di psicoterapia è principalmente ascolto, analisi e
attribuzione di significati, ricostruzione e amliamento dei contenuti tramite i quali
ciascuno narra se stesso. E poi restituzione di un senso più ampio. Una tela sul cui
ordito si lavora in due.
Dopo oltre vent’anni di lavoro come psicoterapeuta, ho sentito la necessità di una
riflessone. Vent’anni di ascolto di tante storie.
Interpretare il racconto dell’altro vuol dire aggiungere a partire da sé, dalle proprie
risorse, consce ed inconsce, incontrarsi in un comune processo associativo, cercare
insieme nessi e risonanze. Le storie individuali sono inserite in contesti più ampi,
culturali, sociali, storici, ma anche e soprattutto ancestrali. Spesso ne richiamano altre
alle quali somigliano e che tutti conosciamo perché ci sono state tramandate dai miti e
dalle fiabe e fanno parte della nostra memoria collettiva.
A volte sembra che il filo conduttore di una vicenda personale sia stato smarrito nei
labirinti che la vita costringe ad attraversare e in cui ci si perde. Non si riesce più trovare
il significato di alcuni accadimenti, quando, a volte improvvisamente, se ne coglie il
senso e il possibile sviluppo in nuove direzioni, in un ampliamento della prospettiva,
inaspettata apertura dell’orizzonte. Si manifesta così l’entelechia (1) che sottende ogni
esistenza e la sospinge, per una sorta di “necessità”, verso la realizzazione della propria
“parte” nel tutto, secondo quel “divenire ciò che si è” che Jung chiamava “principio di
individuazione”.
Quelle narrate in psicoterapia sono storie di crescita e sviluppo, ma anche di perdita e
minorazione, nella riduzione di sé ai minimi termini, quelli che, con il senno di poi,
appaiono veramente indispensabili al proprio essere al mondo.
In questi casi il terapeuta deve esercitare la propria “arte di levare”, come la chiamava
Freud. Eliminare cioè quanto è di troppo e appesantisce soggettività che sembrano
smarrirsi nelle definizioni di sé date dagli altri, nell’assunzione di ruoli e obiettivi che
non sentono propri.
In ogni caso quelle della terapia sono storie di trasformazione, di trasmutazione
alchemica della “nigredo” ,il brutto, il “piombo”, le pesantezze, in “albedo”, chiarore,
luce che rasserena, conforta, conferisce senso e indica una direzione.
Nel corso di una psicoterapia “sufficientemente buona” (2), anche gli eventi passati e la
storia familiare vengono ri-narrati in una chiave diversa sino alla comprensione e
all’accettazione del loro “essere stati”, in una progressiva presa di distanza. Questo
processo si deve compiere qualunque sia stata la “gravitas” che origini e passato abbiano
avuto, qualunque peso e condizionamento abbiano costituito per la soggettività, in un
disvelarsi dell’individualità e libertà di scelta di ciascuno.
La narrazione autobiografica nel contesto terapeutico stimola processi attraverso i quali
il soggetto esplora se stesso e le vicende trascorse, mentre al contempo si progetta e si
rinnova. Prospettiva e nuovi orientamenti, anziché la sola “archeologia”, rispondono del
resto alla domanda che nelle attuali società complesse è più frequentemente posta alla
psicoterapia, a causa di un crescente disorientamento nel definire identità sempre più
“liquide” ed evanescenti.
Seguendo la scia di questi temi mi è sembrato praticabile l’idea di trasferire alcune
“storie” a una scrittrice affinche’ ci lavorasse con un diverso sguardo, da una diversa
professionalità e che, ascoltandole da me che le ho ascoltate da “loro”, le mie “pazienti”
(e di pazienza ce ne vuole e ce ne è voluta), le rinarrasse ancora, arricchendole di
ulteriori significati e della propria fantasia, in una sorta di gioco delle scatole cinesi.
Entrambe convinte che le storie curino e che si debba aver cura delle storie, fra un
argomento e l’altro apriremo allora delle finestre sulla vita reale e racconteremo le
vicende che hanno preceduto l’ingresso in terapia.
Simona,durante una conversazione occasionale, mi comunica che, nel suo muoversi da
un luogo ad un altro ,e mi pare di capire sia esterno che “interno”, sa sempre da dove
parte e dove deve arrivare, ma non conosce mai le strade che attraverserà, quale sarà
l’itinerario dello spostamento.
Questa sua osservazione mi è sembrata una buona duplice metafora, sia della
psicoterapia che della vita stessa. Di tutte le cose che hanno un inizio e una fine.
Due punti di orientamento e transizione nella vita sono certi: la nascita e la morte.
Nessuno di noi sa, quando viene al mondo, come arriverà al capolinea. Non conosce i
sentieri, più o meno impervi, le strade o, se fortunato, le autostrade, che attraverserà per
muoversi dalla nascita alla morte. Allo stesso modo non conosce gli itinerari e la loro
percorribilità quando inizia un amore, un nuovo lavoro, una psicoterapia, una qualunque
altra cosa.
Da questo assunto di base decido dunque di mettermi in cammino con Simona verso la
meta finale della stesura di un testo. Sappiamo, in una sinergia di intenti, dove
intendiamo recarci, ma non conosciamo gli scenari e i “luoghi” che incontreremo
durante il percorso,che ancora, in verità, ci è ignoto.
Ci mettiamo perciò in cammino con curiosità, desiderio di conoscenza, apertura ed
ironia, virtù socratiche spesso dimenticate, indispensabili quando si affronta ogni nuovo
viaggio.
1- L’entelechia è un principio metafisico, postulato da Aristotele, secondo il quale
ogni cosa vivente diviene secondo una propria interna necessità. Concetto poi
ripreso dal gesuita De Cassaude (vedi bibliografia) e da Ernst Bernhard,
allievo di C.G. Jung e fondatore dell’A.I.P:A. - Associazione Italiana di
Psicologia Analitica -. Secondo Bernhard, l’entelechia è il principio
organizzatore del processo di individuazione psichica, in quanto dotato di
progettualità prospettica.
2. Donald Winnicott parla di “madre sufficientemente buona” per descrivere quel
minimo di cure ed attenzioni materne necessarie ad un sano sviluppo psico-affettivo nella
prima infanzia. (Non è necessario che la madre sia “perfetta”, ma “sufficientemente
buona”).
Da uno a due
Mia bocca che dice le stesse parole tue
Altre cose intendendo…
Antonia Pozzi
Abbiamo scelto di raccontare storie di donne a testimonianza della più grande fatica che
devono fare per strutturare la propria soggettività.
L’ottica nella quale ci siamo poste è quella della teoria della differenza
sessuale nel suo approccio decostruzionista (1) al linguaggio ed al
“neutro” universale, dietro ai quali si cela l’unilateralità del maschile.
Il linguaggio non è infatti uno strumento neutro, un semplice codice comunicativo, ma
ha una genesi culturale e una valenza semantica attraverso le quali rispecchia fedelmente
il modo di pensare e giudicare. Il pensiero umano è ostaggio del linguaggio poiché si
può pensare soltanto ciò che esso permette di esprimere e nei limiti dei suoi confini.
Il linguaggio edifica modelli di comportamento, immagine, pensiero come categorie
imposte, in tal modo diviene normativo. Ciò che si configura come distante dalla norma
si definisce in negativo come mancanza e negatività: “…Il pensiero occidentale sente la
nostalgia dell’uno. L’uno è il riposo del pensiero, in esso si può sostare. Si desidera
l’uno come sfondo immobile che assicura la chiusura del tutto… il tutto del pensiero o il
tutto del mondo. L’uno si chiude in se stesso” (2).
L’ordine simbolico della realtà, sotteso dal linguaggio e dal pensiero, si fonda sulla
logica dell’esclusione e sul principio gerarchico: alla donna manca qualcosa e ciò la
rende seconda di due, all’interno di logiche e gerarchie unitarie. L’altro sesso però, “per
ciascuno il volto più affine allo straniero” (3), costringe a riconoscere e reintrodurre la
differenza e ad escludere la gerarchia; l’umanità e le sue creazioni sono fondate su
un’interna alterità.
Con il termine “identità di genere” si intendono le aspettative sociali e culturali riguardo
all’essere di ciascuno biologicamente e anatomicamente maschio o femmina.
I processi di costruzione della propria identità globale nelle attuali società occidentali
sono caratterizzati da modalità di elaborazione più lunghe e complesse e da una sorta di
“liquidità”, per cui a una più ampia libertà di scelta si associa una maggiore incertezza.
L’identità di genere è il nucleo organizzatore dell’esperienza psichica e della relazione
con il mondo esterno.
Chi si occupa della psiche umana sa che le dimensioni interne del femminile e del
maschile sono labili e complesse, spesso fluttuanti, e non si inscrivono nel dualismo
rigido della struttura biologica e anatomica, ma non si può negare una specificità della
soggettività femminile: il suo percorso di sviluppo psicologico si differenzia da quello
maschile.
Gli “studi di genere” (4) sono completamente assenti dalla ricerca psicologica sino
all’inizio degli anni ottanta. Per più di un secolo le teorie psicologiche si sono basate sul
soggetto maschile (5).
Significativo è che Freud sia giunto a formulare una teoria dello sviluppo infantile unica
per entrambi i generi, pur essendosi basato soprattutto sull’osservazione e l’ascolto di
donne. Del resto fu il primo a parlare di “indicibilità” dell’esperienza femminile,
soprattutto per quanto ne concerne la sessualità e l’affettività, tanto che la definì “un
continente oscuro”.
Anche i contributi femminili al pensiero psicoanalitico, come quelli di Anna Freud,
Marie Bonaparte, Helene Deutsch, Karen Horney , riconducono la donna a una
mancanza: ella è non-uomo, definita per negazione.
Nel pensiero junghiano, e soprattutto in alcuni lavori di psicologhe analiste come ad
esempio Hester Harding (6), l’ottica si modifica a partire dalla constatazione della
presenza intrapsichica in ciascun individuo di aspetti femminili e maschili ,
chiamati“Anima” ed “Animus”, “Eros” e “Logos”. Inoltre grande spazio e
amplificazione trovano nel pensiero della studiosa i miti e i simboli del femminile, che
informano e costellano lo sviluppo psichico e i percorsi esistenziali della donna.
Edificare una cultura del due, considerando l’importanza dell’altro da sé nella
costruzione della propria soggettività, vuol dire restituire la parola al linguaggio e
all’esperienza femminile soprattutto nelle loro valenze relazionali e corporee.
La rappresentazione del proprio corpo e, di conseguenza, del proprio sé si strutturano
nella relazione primaria con la madre in un dialogo che è anche e soprattutto non verbale
e fatto di fisicità. Successivamente però, in molti casi, il corpo della donna diviene
estraneo a se stesso: o “parlato” o “parlante”. Parlato da altri, tramite norme e
prescrizioni, troppo spesso parlante attraverso il sintomo.
Dei corpi selvaggi e inaddomesticati delle isteriche di freudiana memoria, corpi ribelli e
inadeguati allo “spirito” del tempo, è rimasto ben poco, ma tutti vediamo ancora i corpi
scombinati delle anoressiche, quelli omologati dalla chirurgia estetica, quelli sofferenti
di malesseri in altri modi “non dicibili”.
Restituire la parola all’indicibile vuol dire allora effettuare un movimento dalla passività
del corpo, che si fa manipolare e modellare dall’ordine delle rappresentazioni, a un corpo
soggetto del discorso: il corpo degli affetti, del piacere e del dispiacere, delle esperienze
e delle passioni.
1- Il “decostruzionismo” è una corrente filosofica contemporanea (fra i
cui esponenti ricordiamo Michel Foucault e Jacques Derrida) che si propone,
attraverso un’istanza critica di revisione e rilettura della realtà, di de-costruire le
“immagini” (linguistiche, estetiche, concettuali, comportamentali, ecc.) che si
sono progressivamente edificate lungo il percorso storico-culturale delle diverse
epoche. Quanto ci appare naturale ed oggettivo è in realtà un prodotto storico e
culturale e costituisce solo alcuni fra i diversi modi di ordinare e pensare il
mondo che ci circonda.
2- Agacinski S., La politica dei sessi, Ponte alle Grazie, Milano1998, p.24
(Politique des Sexes,Paris, Seuil, 1998, trad. it. F. Bruno).
3- Ibidem, p.11
4- Gli studi di genere (“gender studies”) si propongono di verificare le effettive
differenze fra uomo e donna in vari settori. Ad es. i campioni scelti negli studi
prevalenti nella letteratura psichiatrica sono in ampia maggioranza costituiti
da uomini. I profili psicopatologici sui quali di conseguenza si costruiscono
ipotesi di ricerca e linee guida di trattamento sono commisurati alle
caratteristiche della popolazione maschile. Spesso si riscontra anche una
assenza di correlazioni fra variabili di esito e sesso.
5- Si vedano le critiche di Carol Gilligan (op. cit. in bibliografia) alle ricerche di
Piaget e Kohlberg sullo sviluppo del senso morale nella prima infanzia.
6- Harding H., I misteri della donna (1929), Astrolabio, Roma 1973 e
Ibidem, La strada della donna (1932), Astrolabio, Roma 1974
Madri matrici dell’essere
J hide myself within my flower,
That fading from your Vase,
You unsuspecting, feel for me-
Almost a loneliness.
Emily Dickinson, Poems
Nel corso della pratica clinica ho avuto modo di osservare spesso quali diversi percorsi
segua lo sviluppo individuale “in assenza di madre”.
La nostalgia è in questi casi il sentimento prevalente e a volte il “tema” centrale e
portante di tutta un’esistenza.
Nei figli adottivi e in coloro che sono precocemente rimasti orfani di madre l’Io
frequentemente sembra essersi costruito intorno a un vuoto e con la percezione di esso
fare i conti. Questo è particolarmente vero per le donne. La ricerca di qualcosa o
qualcuno che possa riempirlo contrassegna le scelte.
A mancare è l’immagine di sé, la sensazione di un’integrità psicologica e corporea. I
vissuti sono frammentari, come se nel labirinto delle esperienze si fosse perduto il filo e
non si riuscisse a ricomporre la trama del proprio essere al mondo. Ci si sente stranieri,
privi di specchi in cui riconoscersi.
Inizia allora spesso un nomadismo volto al reperimento di una possibile origine,
qualcosa o qualcuno con cui ci si possa identificare, che assicuri sicurezza, calore e
integrità.
Nei sogni compaiono case sconosciute, piene di stanze chiuse, soffitte o cantine
ingombre di oggetti appartenenti a un passato del tutto ignoto.
Armadi colmi di abiti propri o altrui, talvolta calzature di vario genere - che indicano
come camminare nella vita-, libri sapienziali o di fiabe, giocattoli amorosamente
acquistati da sconosciute mamme premurose.
Si parte insieme per un viaggio verso la propria matrice.
Nel caso dei figli adottivi capita che la partenza divenga reale. Tornano nel paese in cui
sono nati con grande emozione e smisurate aspettative: di ritrovare un parente, qualcuno
che li ri-conosca o gli racconti la propria storia.
In altri casi, quando si è perso un genitore, in particolare la madre, troppo presto per
conservarne se non frammenti di memoria, la partenza è simbolica e l’itinerario è fatto di
fotografie, narrazioni, aneddoti familiari.
L’assenza ha creato un vuoto biografico che si spera di colmare, un “buco” nella trama
di una storia che niente e nessuno può del tutto riparare.
Si cerca un rifugio, un luogo dove andare.
Questo rifugio è un volto, una fisionomia che appaia familiare. Il volto perduto di una
madre quasi onirica di cui si è smarrita la memoria, un corpo che la rappresenti.
Gabriella, da bambina magicamente spera che la madre morta scenda da un treno e si
ricongiunga a lei. Nell’adolescenza si innamora di una giovane insegnante, in un
rispecchiamento che le dà valore, nel tentativo di ritrovare la dimensione di verticalità in
un modello adulto di sé che le è mancato.
Lucia cerca il suo vero nome, il nome dell’origine, quello con il quale la madre, prima di
abbandonarla, l’ha nominata: la parola e il “discorso” della madre.
Si rincorre il ricordo impossibile di un calore sconosciuto, una sicurezza primaria
necessaria e del tutto ignota. Nessun successivo abbraccio, nessun riconoscimento
riuscirà a stemperare l’incontenibile nostalgia, il vagheggiamento, l’anelito.
La madre è morta o per sempre perduta nel corpo come nella parola ormai difficile da
articolare, la sua e insieme la propria identità divengono misteri insondabili.
La soluzione, quasi obbligata, è per Gabriella l’amore per/di un’altra donna, la
possibilità che l’omosessualità le offre di “ritrovare il corpo della madre”; riflettersi in
un’altra per trovare se stessa e superare così anche la morte della nonna, riedizione del
lutto primigenio e perdita dell’unico legame con il passato, la propria nascita, la
memoria di sé.
In tale modo chiude il cerchio. Il serpente si morde la coda e l’inizio coincide, nella
narrazione e costruzione di sé, con il punto di arrivo. Il suo processo di separazione-
differenziazione non può avvenire se non per tramite di una donna, che rievochi la
presenza della madre perduta per sempre e smarrita in un doloroso oblio.
Per Lucia è il viaggio in India, alla ricerca delle radici e di un nome. Altro sa che non
troverà, ma la terra, il luogo di origine, diviene per lei un sostituto simbolico della
madre, una Madre più grande, capace di accoglierla e contenerla, per poi tornare dalla
“piccola madre” adottiva con gratitudine e “in pace”.
Fin da bambina ha cercato un contesto all’interno del quale collocare la propria
esistenza. Si è sentita estranea all’Italia, ai nuovi genitori, ai nonni. Ferite dolorose,
aperte e doloranti, hanno ripreso a sanguinare a ogni altrui domanda, ogni frase incauta
riguardante il colore della pelle, la diversità, la provenienza. Nessuna spiegazione è stata
quella giusta ed è iniziato un percorso insidioso, privo di ogni possibilità di lenimento.
Persino la “corte” dei ragazzi, attratti dalla sua “bellezza esotica”, è stata accolta con
diffidenza e chiusura.
Lucia dice di essersi sentita assolutamente sola, straniera, “nomade” nell’impossibilità di
rintracciare il principio della propria storia; addirittura “non nata”.
Nelle fiabe e nei miti è un motivo ricorrente: spesso l’eroe, il futuro re, la bella
principessa, sono orfani dalle origini incerte. Per compensazione, e grazie all’assenza di
vincoli, questo consente loro un destino straordinario. Sono “figli degli dei”, portatori di
istanze impersonali che favoriscono grandi realizzazioni. Non a caso a volte è un fiume,
metafora del fluire incessante dei casi della vita, a condurli, abbandonati in una cesta,
verso il loro futuro. Figli delle acque, privi di genealogia, appartengono al tutto più che a
se stessi. Nella realtà, tuttavia, la ricerca dell’ “amore perduto” contrassegna la loro
esistenza e permane come un motivo di fondo, una frattura da sanare.
Lucia ricomporrà la sua frattura scegliendo in seguito di studiare le lingue orientali. Si
ricongiungerà simbolicamente alla madre biologica, sua vera matrice, “per tramite” della
parola, apprendendone il linguaggio come fanno tutti i bimbi piccoli. Da lei non avrà
feedback, segnali di ritorno e di incoraggiamento, sorrisi, sguardi, parole, ma svolgerà
per lei dentro di sè il suo “lavoro di madre”, interiorizzandone le cure mancate, in un
grande e doloroso sforzo di riparazione.
Il rapporto madre-figlia è frequentemente difficile e diviene spesso marcatamente
conflittuale quando la figlia giunge all’adolescenza. Il confronto si caratterizza a volte
come un durissimo “corpo-a-corpo”; l’ambivalenza reciproca si fa più evidente.
Quando la madre è adottiva un meccanismo di scissione consente l’estrema
idealizzazione dell’immagine fantasmatica della madre biologica, che si configura come
l’altro polo, in una guerra estenuante.
La madre “sostituta” accoglie su di sé un insostenibile carico di passioni negative,
invidie, gelosie, rivalità. Facilmente è investita dei ruoli di “regina cattiva”, strega,
matrigna tanto rappresentati nelle fiabe di ogni tempo, luogo e cultura. La ragazza
“attacca” un legame che avverte come “disperante” con fughe, aggressioni,
comportamenti inadeguati ed eclatanti, sintomi di un disagio diffuso e apparentemente
insanabile. Si sente incompresa e non amata. Entrambe provano un sentimento di
profonda delusione reciproca. In realtà è un mettersi alla prova nella reciproca possibilità
di sostenere l’una i fantasmi dell’altra, al di là dei torti e delle ragioni di ciascuna.
E’ in questo momento che, se aiutate, si riconosceranno nel legame acquisito e si
daranno vicendevolmente un’identità più salda.
La gestazione di una madre acquisita avviene tutta nella mente e a volte è il dolore
avvertito come viscerale che contrassegna questa fase, a far sì che la donna quasi la
sperimenti nel corpo, tramite sintomi come la nausea o disturbi al basso ventre. Del
resto, come afferma Luisa Muraro “il rapporto madre-figlia (e con i figli in genere)…
non è riconducibile per la donna ad un semplice rapporto familiare come sono gli altri…
Quel rapporto è portatore della marca simbolica che rende significativa per una donna
l’appartenenza al genere femminile” (1).
1- Muraro L., La folla nel cuore, Nuove Pratiche, Il Saggiatore, Milano 2000, p.222
Cerchi concentrici ovvero: Gabry sul nascere
Se , If
Se avessi saputo, Se.
Non sarei entrata mai, lì dentro. Oppure si, Se.
Se avessi saputo, If, avrei varcato quella soglia, subito.
Ma è tardi per trovarti adesso. Se avessi potuto avrei rinunciato…
Mai, a niente.
Se avessi creduto, If, avrei fermato la corsa. Sempre.
E nell’attesa, con il fiato corto, avrei respirato.
Se, If
In ogni breve attimo.
Il giorno fatidico, maggio, più o meno, mese prima, mese dopo, Gabry era seduta sul
letto. Arrivava gente in continuazione a portare regali, pacchi enormi.
Non era Natale, non era il suo compleanno, non era proprio niente.
Eppure la gente, i parenti, gli amici portavano, come i Re Magi, doni da ogni parte.
Nastri, stelle filanti e non era neppure carnevale. Scatole enormi, confezioni di
prelibatezze, cioccolatini, moto a corrente, bici con le ruote smaltate, bambole di ogni
tipo. Alte, magre, bionde, occhi azzurri e verdi.
Tutto per Gabry che non capiva un accidente. Sembrava la danza dell’incomprensione.
Due passi avanti e uno indietro a vedere quello sguardo attonito, vestito da notte, con il
viso bianco muro, come i muri imbiancati da poco.
“Come sta ora?”
Come sta chi e perché deve stare. Cosa vogliono dire queste domande sceme e che
risposta devono e vogliono ottenere.
“Mah!”
Era la frase silente di Gabry che continuava a non capire un accidente.
Eppure era una bambina già sveglia. Quattro anni e mezzo, cinque da compiere presto.
Nessun intoppo, nessuna ragione per essere sveglia a quest’ora del mattino. Strano a dir
poco. I sorrisi che vedeva erano freddi e pericolosi. Somigliavano alla data dell’assenza,
più che a una festa.
E poi che diavolo di festa era.
Dalla finestra si capiva che era primavera. Le rondini cominciavano a fare quel casino
infernale che presuppone qualcosa di bello. Ma il bello dove era? Perché la nonna aveva
quell’aria ferma, statica a mo’ di statua di sale? I suoi occhi le ricordavano le visciole,
quelle fuori della finestra, sull’albero. Quelle che di solito in quel periodo stavano al sole
e lo zucchero sopra, a coprire.
Che cosa strana quei giorni strani. Incomprensibili. C’era l’odore della strada bagnata
dalla pioggia da poco, eppure non pioveva. C’era l’odore di bruciato, eppure nessuno
aveva cucinato. Era tutto fermo. La gente della casa parlava piano, come si fa in chiesa.
C’era anche un vago odore di incenso. Ma nessun prete a cospargerlo. Forse, pensava
Gabriella, detta Gabry, la messa era finita e lei aveva dormito e non si era accorta di
niente.
Sospirava perché sapeva che poi avrebbe scoperto tutto.
Certo è che non pensava di metterci tanto.
Ci vollero trent’anni a capire che giorno era quello. Che fu. Quel momento.
Pensa che bastardata la vita ti fa, se ci si mette. Brutta stronza e puttana. Ti fa credere
una cosa, te la veste da festa e invece è la fine.
Gran figlia di mignotta, con tutto il rispetto per chi fa quel mestiere.
Nonna Carlotta era piccola e curva. Aveva un sacco di anni quel giorno, ma anni dopo
ne avrebbe avuti di più. Parecchi. Forse era vissuta così a lungo per proteggere il mistero
che mistero, ad un certo punto, non era. Più.
Gabry certo bella era, un bel po’. Aveva più che altro lo sguardo accattivante e i difetti si
mischiavano ai pregi talmente bene da confondersi. Nonna Carlotta era un po’ avara di
complimenti. Sembrava un generale di fronte al nuovo plotone. Criticava tutto. Il suo
modo di esprimersi, le parolacce. Figuriamoci le bestemmie. Quelle non si dovevano
dire, ma a Gabry sembrava giusto anche quello: perché portare tanto rispetto a chi
giocava al gioco delle tre carte? Per quale motivo si doveva essere gentili con chi, di
sicuro, ti aveva fatto un brutto scherzo e perfino tradito?
C’era un mistero, grande parecchio. Qui era tutto un segreto. Non si nominava più la
donna bella e sfortunata.
Un giorno Gabry faceva un disegno per la scuola. Doveva partecipare al concorso
“disegna la tua mamma” per la festa di tutte le mamme, anche quello un maggio.
“Ah!”
Pensava in silenzio.
“E che mi invento?”
Forse, se il titolo fosse stato “disegna tua nonna”, avrebbe vinto il primo premio. Ma qui
dove si doveva mettere le mani? Come è fatta una mamma, davvero? Ha il viso da
vecchia o è ancora una bambina? Quanti giri fa una boccia? Più o meno la stessa identica
difficoltà. Più o meno. Qualche anno fa.
Il fatto è che Gabry mica si arrendeva facilmente. E provò. Buttò via fogli bianchi
stropicciati. Accartocciò figure estemporanee. Era come inventare. Era bello inventare.
Qualche sua compagna di scuola ricalcò la foto della madre. Un gioco di specchi.
Bastava la luce o, meglio ancora, il controluce. Si vedeva in trasparenza e il gioco era
fatto. Che boiata! Così era tutto troppo facile. Lei, invece, doveva proprio inventare,
immaginare e poteva farlo in modo strano.
Provava a fare il suo stesso viso. Un po’ più lunghe le gambe, di più il seno e gli occhi
più seri. Era evidente e chiaro. Chiaro che una madre avesse gli occhi seri. Mica stava al
parco giochi. Aveva fatto un bambino. Aveva sofferto e gridato tanto. Aveva l’alito
pesante perché, quando si sta male e si soffre, viene in bocca la puzza di metallo. Uno i
denti non ha voglia di lavarseli tanto. Quando sta male. Per carità, si lascia tutto come
sta. Tanto a che serve, in quel momento?
Infatti quando Gabriella era cresciuta di più, le accadeva di provare strane sensazioni,
brutte pure. E allora che senso aveva cospargersi di creme e profumi come le sue
amiche? Anche il sudore era più intenso e, se sniffavi, morivi di sasso. In quel momento.
Quel momento era stato lungo, anche tanto. Si sdoppiava, si vedeva dall’esterno, come
fosse un’altra e non si riconosceva.
Andava a lezione di flauto e non le piaceva un granchè. Era stanca di troppa
concentrazione. Doveva fare qualche chilometro, forse due o tre per tornare nel giardino
di casa. La strada pesava. E non erano le gambe o la schiena. Era soltanto la testa che se
ne andava sempre in giro, quando avrebbe dovuto restare. Lì.
Piano piano era freddo, poi caldo, la luce troppa, intensa fino a far male. Tutto si
confondeva e perdeva i contorni o era troppo netto e definito.
Si specchiava in una vetrina e vedeva il suo viso e la sagoma del corpo. Poi ripeteva il
nome a voce bassa, dentro il cervello.
“Gabriella, Gabriella detta anche Gabry”.
E lì cominciavano le rogne e i problemi. Portava il gioco all’estremo e perdeva il
concetto.
Gabry. Gabriella. Questa è la tua faccia. Quella che, fino a un momento fa, non ti era
sconosciuta come adesso: Strana, strana, strana. Gesù mio, fammi tornare da me. Da chi?
Da te?
No. Non voglio. Tanto ora mi passa e tutto torna normale e vado a studiare nell’orto. Lì
c’è l’insalata, ci sono i pomodori e so che cosa sono. Sono rossi e c’hanno la fogliolina
in cima e nonna li annaffia ogni giorno. E io adesso torno là e tutto finisce. Anche ‘sto
modo idiota di guardarmi allo specchio. Non ripeto più il nome e torno da me, e là
nell’orto.
Era un problema perché, certe volte, quando durava troppo, le veniva anche da vomitare.
Le girava la testa. Si sentiva le gambe molli e le tempie gelate. Correva dietro la nuca un
brivido infernale: Le sembrava di morire e invece continuava a vivere. Sopravviveva
ogni volta. Di più: Perché poi, quando finiva la sensazione, aveva voglia di correre e non
sentiva la fatica. Parlava con chi incontrava con una certa disinvoltura. Respirava a
narici spiegate e l’aria entrava nei polmoni e tirava vento, lì dentro. Era finita, passata,
conclusa.
“Uff!!! Che paura”.
Nell’orto sentiva la stanchezza della corsa e della battaglia vinta da poco.
Aspettava di vedere la nonna e raccontarle quello strano modo di sospendere l’esistenza.
La nonna non capiva. Carlotta era in gamba, ma di certe cose che cavolo ne sapeva?
All’epoca sua non c’erano tanti fronzoli. C’era la guerra, la fame e la sete. Le cantine da
raggiungere prima che cadessero dal cielo una miriade di banane infernali. Una volta
Carlotta, ancora ragazza, stava stendendo i panni:
“Bumm!!!”
Una botta inaudita a pochi metri dall’acqua che sgocciolava l’odore di sapone di
Marsiglia. Nonna Carlotta restò, quel giorno, ferma. Fu la prima volta che si bloccò. Non
le vennero neanche più le mestruazioni.
Per un po’. Poi a quarant’anni cessò di avere quel disturbo fisiologico di essere donna.
Non ebbe più figli e forse era meglio, perché faceva solo femmine e i maschi non
volevano venire. E nonno Bruno insisteva e invece se la prendeva nel secchio, perché
nascevano tutti neonati senza ciondolo.
“Ah, Ah!”
Nonna Carlotta, fra una doglia e l’altra, se la rideva perché, certe volte, era davvero
spiritosa. E nonno s’incazzava. Era suo marito e voleva un maschio cui lasciare i geni e
la terra. Invece doveva accontentarsi di surrogati, piccoli corpi rosa fasciati. Fra cacche e
pipì. Storceva il naso e poi amava come sapeva. Bene e parecchio, fino all’ultimo istante
in cui era restato.
“Ora, mia cara Gabriellina, io, se continui con questa storia che ti senti strana e male, ti
porto dal dottore. Immediatamente.”
E scandiva quella parola, dottore, come fosse una minaccia, invece che una cosa da fare.
Obbligatoria. Gabry da una parte voleva perché aveva paura di quelle brutte malattie del
cavolo e, dall’altra, preferiva rimanere nell’orto a pensare a quello strano disturbo.
Pensava, magari mi innamoro e mi concentro su altro e così guarisco e non faccio più la
strada da sola.
E arrivò il tempo di tutte e due le cose. Però, a turno. Prima l’altra e poi l’una. Al
contrario.
A dieci anni non andava mai in giro da sola. Si faceva accompagnare perché, se le fosse
capitato di avvertire soltanto l’inizio di quell’andarsene via, avrebbe parlato forte e detto
parole a raffica. E tutto sarebbe passato.
Poi, addirittura, si innamorò. Strano anche quello. Però.
Un ragazzo, compagno di scuola. Il primo giorno delle medie, sedeva dietro di lei. Era
gonfio, sembrava avesse il labbro leporino. Invece, a ricreazione, Gabriella scoprì che
era stato punto da un’ape.
Il giorno dopo era quasi normale e il giorno dopo ancora era splendido da morire. Un
brivido e il suono scemo delle campane.
In testa, durante l’interrogazione, Gabry odiava essere in classe con Carlo.
Perché si vergognava di fare figure brutte e belle, anche.
Lui la guardava, ci avrebbe messo la mano sul fuoco.
Tornava a casa e pensava che sarebbe stato bello baciare quella bocca di gesso. Dura e
compatta. Di maschio. Il primo che capitava. Carlo era anche più grande perché era stato
bocciato.
“Brava, ma sì invitalo alla tua festa, fattelo amico… Almeno anche tu ripeti l’anno.
Scegli sempre il meglio per te, vero Gabriella? E poi che cosa sono queste stupidaggini.
Sei una bambina: Tu devi studiare. Questa non è certo l’età per pensare all’amore. Tua
mad…”
E lì c’era il blocco. Un blocco barriera. Una diga poderosa sul lago artificiale. Una
chiusa. Chiuso il discorso, interrotta la parola.
“Nonna cosa stai dicendo? Perché non continui?”
E non c’era risposta. C’erano solo piatti da lavare e sbattere con tutta la violenza quelle
insulse ceramiche abbandonate. Regalo di un matrimonio finito.
Ambra e Felice si erano sposati negli anni sessanta e avevano pensato bene di fare in
modo di ritrovarsi subito Gabriella fra i piedi.
In viaggio di nozze avevano consumato, forse dopo una cena di pesce. Gabry era entrata
nella loro vita, fin da quel primo momento di intimità. Non aveva dato neanche il tempo
di proseguire per tirarsi le cose a volo e tradirsi. Felice aveva capito che Ambra era
particolare, ma l’aveva sposata e se la doveva tenere. Poi era arrivata la guastafeste delle
feste mai vissute e lui, cretino, c’era cascato. Tornava tardi e usciva a tutte le ore. Non
parlava e, se lo faceva, sputava veleno. Ambra era assillante e le dispiaceva che
quell’uomo non fosse suo neanche un pezzetto.
Magari una caviglia o un polso.
Tornava e odorava di profumo di donna. Lei, invece, amava il sapone, non usava niente
di diverso.
E allora erano strilli infernali. Erano urla e improperi.
Erano giorni neri.
Poi la voce si era abbassata e Ambra aveva deciso di trovare una scusa buona per
mendicare un po’ di coccole. Decise di ammalarsi e ci riuscì molto bene.
Poi decise di arrivare fino in fondo e tornare da dove era venuta.
Voleva chiudere un cerchio.
Il sonno non era sufficiente per uscire di scena, durava troppo poco.
E allora si spinse oltre e se ne andò per sempre e la piansero e la ricordarono come una
donna bellissima e sfortunata.
Carlotta era anche riuscita nell’intento di fare da madre a una figlia scomparsa e ne
aveva guadagnato una nipote da allevare da sola.
A Gabry non parlava mai male di Felice e della sua nuova donna. Perché avrebbe dovuto
spiegare troppe cose e passaggi. Avrebbe dovuto fare la storia dei geni, spiegare i DNA e
i casi che la vita può offrire. Allora copriva, taceva e cucinava da Dio per farsi perdonare
di quella storia mai narrata che non aveva voglia di raccontare.
Gabry cercava sempre la spiegazione. Capiva che nelle poesie c’è sempre tanto dolore,
ma anche che se fai una canzone ti aiuta a vivere. Fai una canzone triste, piangi e stai
bene. Stai bene perché stai male e piangi contenta.
Gabry scriveva canzoni e leggeva poesie. Amava Pascoli e se lo sentiva vicino come un
orsacchiotto sul letto. Aveva visto una sua foto. Lo aveva trovato grasso e ubriacone. Lo
aveva trovato un tenero contadino fra aratri, lune e misteri. Lo aveva ammirato e aveva
capito che leggere le biografie aiutava la vita. La sua e quella degli altri. Sentiva che
quando uno soffre, poi diventa forse famoso.
Tutte queste cose, Gabry aveva capito.
E a lei, quando sarebbe toccata la sorte di diventare famosa e per cosa?
Chiudeva il libro di poesie e si sentiva ispirata. Tornava nell’orto, guardava il cielo e
aspettava un segno dall’alto.
Gabry cercava in continuazione. Lo faceva tutto il giorno. E disprezzava non sapere.
Curiosava fra i pomodori nella speranza di ritrovare ciò che aveva perduto, ma non lo
sapeva o non se lo diceva. E cercava.
Ormai quel gioco di perdersi anche il proprio volto e il nome era noto, facile da fare e
privo di paura. Il segreto dell’inizio, ormai, lo conosceva e sapeva anche come farlo
smettere. Bastava respirare lentamente. Bastava far finta di niente e scrivere o cantare.
Bastava muoversi in cerchio o correre o parlare con il cane del vicino. E la realtà
tornava.
Fino al giorno di quel mattino, al liceo. Ultimo sforzo prima della maturità. La classe era
diversa dagli anni precedenti. Nonna Carlotta aveva optato per un’altra casa e la scuola
più vicina era a qualche chilometro di distanza. L’altra era lontana un’eternità. E’ vero,
aveva perso l’orto, ma guadagnato un giardino più grande e poi quello era, sicuramente,
il giardino che dava sulla finestra della casa di Silvia. Da Pascoli a Leopardi, era
cambiata la casa ma non l’atmosfera. La muffa era un ricordo lontano e Carlotta era più
tranquilla, un generale in pensione.
Gabry odiava i comandi e le imposizioni, anche un compito sembrava una violenza, ma
poi si salvava con il guizzo di un’idea e fregava tutti, tranne se stessa. Fino a quella
mattina.
Quella mattina arrivò la nuova insegnante di lettere al posto della prof Tressedi, affetta
da una strana malattia che non le faceva più trovare neanche la porta della classe.
Gli ultimi giorni la Tressedi, odiosa pedante, vecchia insegnante, aveva un colorito
giallognolo e lo sguardo perso nel marasma di un concetto, smarrito, da esprimere.
“Secondo me la bastarda sta male. E’ fuori di testa, non lo vedete? Sembra ubriaca e non
sa più neanche chi è”
Dopo aver pronunciato la frase sentiva il brivido dell’appartenenza e, allora, provava a
usare un’ironia sufficiente per uscire dal cerchio dell’emulazione. La paura di fare la
stessa fine. Quella che ti fa dispiacere per qualcun altro di cui poco ti frega. Poi respirava
forte e ne faceva l’imitazione. Tutti ridevano e lei stava bene. La prof , ancora male.
Sempre di più. Fino a che andò in ospedale e più tardi al creatore.
Quella mattina, arrivava una supplente e la classe stordita, completamente in silenzio. I
ragazzi pensarono a una dea, le ragazze a una smorfiosa e a com’era vestita e Gabry alla
sua vita. Da quel giorno fino all’infinito ad un pensiero che le somigliasse davvero.
Una botta, uno schianto di tuono, altro che campane, quelle di Carlo, la prima volta,e
non era amore, era una cotta. Qui c’era tanto da capire. Troppo per non ascoltare. Per la
prima vera grande volta.
E da quel momento fu un’immagine allo specchio. Una che volava via, come zucchero a
velo sul pandoro al primo morso, l’altra che restava lì, presente in classe per la prima
volta.
Nel silenzio della novità, l’imbarazzo dell’incipit, qualcosa era successo.
Era come una strana riconciliazione con il passato bianco latte, evanescente in quel volto
arrossato dalla frase di presentazione, in quegli occhi puntati altezza pupille di Gabry.
Perché quando fai una lezione, devi fissarti su un volto, devi concentrare lo sguardo su
qualcuno, altrimenti perdi la bussola e cominci a girare a vuoto.
Quel viso era Gabry, per la novella prof di lettere.
“Io sono la vostra supplente. Per quanto tempo resterò con voi non lo so. Dovremo
condividere fatiche e letture, poesia ed interrogazioni…”
Silenzio e cenni d’intesa, mentre Gabry restava a guardare ed ascoltare estasiata, come
fosse la festa del Santo. Quella creatura decisa e fiera parlava con un tono di voce che lei
riconosceva. Forse era il suono della voce della fata di Pinocchio. Forse la mimica di
Biancaneve. Forse la mamma della casa nella prateria. Fatto sta che Gabry credeva a
quella messianica manifestazione dell’amore.
La lezione scorreva come un fiume che non incontra ostacoli. L’attimo era diventato,
all’improvviso, eternità.
Ma era un’eternità già nota, un vecchio refrain, il sapore dei cibi buoni che sapevano di
altri, in un gioco di rimandi.
Da quel giorno Gabry andava a scuola volentieri e le ore correvano morbide sulla
lavagna, sul registro ordinatamente compilato. E quando Raffaella Catalano spiegava, si
apriva un mondo di vocazioni. Fra guerre ed olocausti, Hitler, Ungaretti e Montale,
Gabry saliva le scale e ritrovava pure il vecchio giardino, l’orto mai dimenticato.
“Abbiamo ricevuto la grazia. Domani vado ad accendere un cero, sei riuscita a prendere
nove. Non posso crederci”
“Quanto sei spiritosa e sarcastica. Non ti passa mai la voglia di denigrarmi, vero nonna?”
“Denigrarti io? Ma se ti ho tirato su a mia immagine e somiglianza! Darei dell’idiota a
me stessa, non ti pare?”
“Allora vorrà dire che non sei propriamente dolce con me. Trovi sempre parole che
suonano brutto…”
“Ecco, per esempio, mi dovresti spiegare se questo è il modo di esprimersi. Suonare
brutto. Forse sarebbe meglio suonare male, non ti pare?”
Gli scontri e gli attacchi erano il piatto del giorno. E più il tempo passava, più le
generazioni subivano lo scarto. Anzi, forse il problema era che mancava l’anello che
unisse le due catene. Erano vicine, ma non si agganciavano, mai.
Catene pronte a legarsi per un destino obbligato oppure incontri di malandati ferri
arrugginiti. Accadeva, era il loro limite.
Dialoghi senza uscita, monologhi privi di senso, soluzioni momentanee. Parole,
incomprensioni, strade incompiute.
Certo Gabry telefonava ad ogni cabina per sapere se Carlotta respirava o meno, ma più
che una telefonata di cortesia e preoccupazione, sembrava l’attacco sferrato da dentro
una trincea.
Dall’altra parte Carlotta bofonchiava risposte evasive e infastidite, come se le desse noia
che qualcuno, compresa sua nipote, avesse eccessivamente a cuore le sue condizioni.
In un giorno di particolare stanchezza, o forse l’aveva fatto apposta, Carlotta perse, in
qualche modo, il senno. Si svegliò la mattina ed iniziò ad urtare contro la realtà
preferendole l’irrazionale, l’illogico, sfiorando la follia e i suoi corollari. Gabry si stava
preparando per la scuola, eccitata come un bambino la vigilia di Natale. Aspettava il
regalo e ripensava a quei giorni strani di doni inaspettati. Seduta sul letto a truccarsi, e
via. Faceva colazione.
Aveva letto che Proust, da una semplice cucciata di biscotti nella tazza del tè, aveva
tirato fuori un capolavoro eterno. A lei sembrava di chiedere alla vita molto meno,
semplici banalità: qualche ora ad osservare l’angelo della classe, la dispensatrice di
benessere. Ed un segno da parte sua: la manifestazione di una speciale predilezione.
E invece Carlotta aveva deciso di rovinare tutto e regalarle di nuovo pessimismo e paura
di finire sola un’altra squallida, stronza volta.
Allo specchio si guardava compiaciuta e si preparava. Simulava espressioni accattivanti
e sorrisi d’incanto. Tutto per la poesia. Per la poesia o per la prosa? Domanda che, come
un trapano in funzione, sfondava le tempie, ogni minuto del giorno. Che le stava
succedendo?
Bò. Era puntualmente la risposta che si dava. Cercava spiegazioni, ma era una vita che lo
faceva e ne aveva trovate davvero poche. Su tutto e tutti, sulla prima volta, sul primo
giorno, su quel letto quella mattina e i regali, su quel viso, sul concorso per la festa della
mamma, sulle foto che non c’erano. Sul perché di tante domande. Sulle domande, sulle
risposte. Sulle risposte alle domande.
Carlotta, intanto, cominciava il suo show, di prima mattina. Era un debutto.
“Allora?”
“Mi sto preparando, nonna”
“Ah,si. E per che cosa?”
“Per andare a scuola. E’ tardi, non iniziare a fare l’inquisizione. E’ semplice. Per andare
a scuola e comunque per uscire bisogna, come saprai, lavarsi e vestirsi. Non posso
andarci nuda. Capisci nona? Nonna mi ascolti o hai avuto una visione. Soffri di
incantesimo?”
Carlotta sembrava un pesce nell’acquario al quale stavano togliendo l’acqua. Gli occhi
erano opachi e le pupille roteavano passando dalla concezione del sistema tolemaico a
quello copernicano.
“Chi sei tu, qui nella mia camera, davanti al mio specchio? E’ ora che la facciate finita di
introdurvi in casa mia. Lasciatemi stare, sono una donna anziana. Tanto i miei soldi non
li toccherete. Neanche i miei ricordi riuscirete a portar via. Al massimo vi prenderete il
mio dolore, quello ve lo regalo tutto. Una povera donna a cui è morta una figlia giovane,
per esempio…vi può bastare?!”
Lungo la schiena di Gabry un rigagnolo di acqua gelata, brivido che scorre senza
ritegno. Avrebbe voluto fermarlo, perché tanto la nonna stava di sicuro scherzando. La
scema si era messa a farle paura. Che palle quando si prendono gioco di te sulle cose
serie. Che palle quando tocca ricominciare a stare male e non vorresti. Che palle
stratosferiche.
“Nonna, che cavolo stai dicendo? Sono io. Tu stamattina hai deciso di prendermi in giro
e farmi perdere tempo. Non ti interessa se faccio tardi a scuola? Devo chiamare un
neurologo? Preferisci lo psichiatra? Scomodo direttamente Freud o ti accontenti di Jung?
Dimmelo, è una tua scelta”
Gabry prendeva tempo e lo faceva con le parole. Si appellava a tutta la calma che non
aveva, né avrebbe mai avuto. Trovava quegli occhi un incubo vero, di quelli terrificanti,
che non riesci a muoverti e svegliarti.
Poi le era anche venuto in mente di mettere le mani addosso a quella strana creatura,
scuoterla fino a farle riprendere la carica. Ecco cosa ci voleva! Un cazzotto in testa, in
piena fontanella. Netto e deciso. Come si faceva ai televisori quando fanno le righe. Ma
le righe facevano paura, perché non ci capivi più niente. Perché interrompevano il
programma che stavi guardando. Poi, se andava bene, tutto tornava normale e potevi
goderti il tuo film. Se andava male, invece, arrivava il tecnico e ti faceva spendere soldi.
Se andava peggio, ti diceva di buttare quella scatola vecchia. Il tubo catodico era andato.
Forse a Carlotta si era rotto proprio il tubo catodico e se non fosse tornato tutto normale,
altro che tecnico! Bisognava chiamare il dottore. Ma quale? Chi? Era sempre lei a sapere
di cure e terapie. A sincerarsi che Gabry avesse fatto i vaccini, le analisi e le schifezze
varie. Gabry era completamente impreparata a cambiare i ruoli e le sorti.
Sarebbe stata la seconda volta e non voleva che lo fosse. Pensava di essersi appena
ripresa dalle vicende strane della vita. Voleva ricrearsi un mondo. Basta tutto ‘ sto casino
perché era veramente troppo. Chi avrebbe preparato i pranzi e le cene? Chi l’avrebbe
aspettata al suo ritorno? Chi avrebbe rotto le scatole ad ogni passo e momento? Chi
accidenti avrebbe fatto tutto questo?
Le voci sembravano strumenti scordati. Quelle di entrambe.
“Nonna, se stai scherzando va bene. Alla fine ti lancio il posacenere e la finiamo qui. Se
invece è serio quello che credi di vedere, allora chiamo immediatamente l’ospedale, ti
faccio ricoverare e passa la paura che mi stai mettendo. Ok?”
Le parole che uscivano erano a sorteggio. Gabry avrebbe voluto essere gentile, ma
rabbia e terrore giocavano brutti scherzi e mandavano a farsi benedire dolcezza e
pazienza.
Quel giorno Gabry non andò a scuola, letteralmente tremò per molte ore. Arrivò un
dottore con la faccia da pirla. La barbetta precisa contorno mento, la valigetta e il
fonendoscopio che spuntava dalla chiusura di metallo. Entrò nella stanza di Carlotta e
bubbolarono come l’inizio di un temporale. Per non farsi sentire, forse. Poi il mago di
Oz uscì mentre Gabry era appiccicata alla porta, altezza serratura, per sbirciare ed
ascoltare. Non voleva farsi vedere in apprensione da quell’orribile intruso, ma pendeva
dalle sue labbra. Voleva un responso certo e sicuro, possibilmente definitivo.
“Lei è la nipote, vero?”
Le gambe, a volte, non svolgono il proprio ruolo. Non sorreggono, complicano le
situazioni. Si liquefanno quando non dovrebbero.
“Sua nonna ha avuto un piccolo TIA e…”
Gabry sapeva che non doveva interrompere. Era la regola d’oro, forse una delle prime
acquisite. Le pareva, però, adesso, di poter fare uno strappo alla regola. Del resto,
contravveniva ad una legge trasmessa da chi si permetteva di provare a morire.
Figuriamoci se non esisteva il diritto di recedere dal contratto.
“Mi scusi dottore, ma non ho capito. Mi perdoni, è grave?”
“Accade, ma sta già passando. E’ un attacco ischemico transitorio. Passa, ma ci vorrà
cautela e delle cure”
Intanto Gabry riprendeva fiato e vita. Un po’, una porzione.
Nei giorni seguenti il Tia rientrò e Carlotta pure. Forse si era trattato di un avviso di
scadenza, la rata da pagare per il prezzo della vecchiaia e di una vita non bella. La nipote
era tornata nipote, non rubava e non si introduceva nelle case altrui, soprattutto in quella
sua e della nonna.
Carlotta era un po’ pallida e aveva messo da parte l’accaduto. Chiudeva il discorso che
apriva Gabry, con una certa insistenza, e diceva
“Ero stanca e allora il mio cervello si è riposato senza chiedermi il permesso”
Tutto qua. L’immonda paura ridotta a pallottola di carta.
A scuola la compagna di Gabry, Valentina, l’informò subito che la supplente aveva
chiesto di lei e si era preoccupata per le sue vicende. Ma Gabry perse qualche altro
giorno di lezione. Andava a fare la spesa, comperava le medicine segnate a Carlotta
dall’orrido puffo e tornava a casa. Contenta per il pericolo scampato. E poi iniziava a
sentirsi grande, matura e quasi autonoma. Più o meno. E questo le dava anche il diritto di
riflettere sul suo caso specifico. I suoi malesseri, quelli con cui ormai conviveva, erano
sempre più saltuari e ora non potevano certo permettersi il lusso di aggravare la
situazione.
A scuola la supplente, angelo della letteratura, le si era precipitata addosso
abbracciandola forte e chiedendole lumi sulla malattia della nonna. In classe, le
inenarrabili vicende si erano ingigantite, occupavano tutto lo spazio delle stronzate.
Gabry era stata la regista, il deus ex machina delle corbellerie. Per sentirsi più grande,
importante e protagonista. La nonna per poco non moriva. Quella era un’incipiente
forma di pazzia e lei rischiava di lasciare il liceo per occuparsi dell’anziana malata, suo
unico affetto.
Sguardi di commozione e troppo pieno il fiume della solidarietà.
Gabriella, in fondo, si vergognava della manipolazione, ma era fatta così. Si guardava
dentro e scopriva di dover cercare un modo per farsi amare.
Ne aveva diritto. Aveva il diritto di arricchire la realtà con la fantasia.
Immaginare immagini che arrivavano da sole. Riferirle senza argini.
Arrivò l’estate ed arrivò, inevitabile, la fine.
“Il prossimo anno non sarò con voi. Torno dalle mie parti. Mi manca il mare e la
famiglia”
Gabriella riassaporò tutto il marasma. Le arrivò il vecchio odore di bruciato. Pensò alle
partenze e alle stazioni e le tornò uno sconosciuto bambino, che poi era femmina, che
aspettava alla stazione un treno che doveva arrivare.
Per qualche tempo si sedeva sulla panchina rotta e sbiancata dal sole. E lì faceva il conto
delle ore, guardava i passeggeri correre per non perdere il treno. Guardava quelli che
scendevano e cercava una figura. Non c’era niente di particolare in quella ricerca.
Niente. Non c’era neanche un volto specifico, una fisionomia. C’era solo il senso di
smarrimento, il bisogno di trovare qualcuno che potesse assomigliare ad un fantasma,
quello di una madre. E fantasticava, lei, e forzava le cose. Simulava un incontro e un
abbraccio. Stretto, avvinghiante. Come quando si attacca la gomma alle scarpe o si
scioglie l’asfalto sulle suole perché è caldo. Poi si alzava con la speranza delusa. Non si
sentiva scema, ma sapeva che era tempo sprecato.
Quella mattina la supplente dichiarava i suoi intenti e dava inizio ad una nuova
sofferenza, alla nostalgia preventiva. E il non capire perché ad ogni affetto
corrispondesse una perdita.
Quel giorno a pranzo Gabriella restò in silenzio. Masticava e respirava svogliatamente.
“Non ti piace la pasta?”
“No, non è la pasta. Sono un po’ triste”
“Motivo? Un ragazzo?”
“Non dire stronzate”
“E sii più educata che non ti fa male”
E finiva lì il dialogo mozzo, iniziavano i pensieri incontrollabili.
Da quel giorno, dopo la fine della scuola, l’estate aveva assunto un tono dimesso e non si
faceva sentire. Per niente.
Solo musica da ascoltare per farsi male.
Da quel momento Gabriella iniziò a riflettere su quanto la vita fosse difficile se la prendi
di cuore. Sulla difficoltà di spiegarti perché ti accadono cose strane. E non capisci. Una
donna al posto di un uomo. Uomo padre che non c’è. Una madre neppure. Una donna
anziana che deve essere tutto a tutti e tre.
Un volto da cercare in un altrove. Per ridurre la pena. Fissarsi sull’idea che, da quel
momento in poi, sarà la meta non scelta.
Ma è.
Non spiegarsi perché si sta così male e se è amore o mancanza. Se è un sentimento o un
treno senza passeggeri. Se c’è soluzione accomodante o mare in tempesta.
Persa nei suoi pensieri, Gabriella continuò a cercare. Volti, corpi, abbracci, labbra e
concorsi di disegno sull’ignota fisionomia di un ingresso. Su come è fatta una porta per
entrare. Nomi di donna e carte di identità. Altrui.
Carlotta visse ancora tanti anni, perché lo doveva fare.
Poi anche lei decise, un bel giorno, di partire.
Quel bel giorno fu di notte. In un modo originale.
.
AAA. Cercasi
Sento che niente sono
se non l’ombra
di un volto imperscrutabile
nel buio
E per assenza esisto
Come il vuoto
Fernando Pessoa, Una sola moltitudine
Cercare dentro i secchioni non era propriamente un divertimento.
Cercare dentro i secchi dell’immondizia poteva significare essere folle o sporca dentro e
fuori e affamata.
Lucia, che all’epoca aveva un altro nome, ogni giorno, a prescindere dall’ora che
neanche conosceva, era costretta a dedicarsi a questa poco piacevole attività. Non erano
uova di Pasqua con la sorpresa, che non sapeva cosa fossero, ma lì dentro ci trovava ogni
ben di Dio o quasi.
Certe cose sapevano di schifo, a saper distinguere i sapori. Ma lei non lo sapeva, doveva
solo riempire uno stomachino gonfio e scuro, con l’ombelico sporgente.
Lì dentro c’era anche da coprirsi, a volte. Un pezzo di stoffa, una scarpa, un ramo e un
filo per agganciare i tesori trovati. E poi, se ti diceva culo, potevi anche trovare una base
su cui sederti, per evitare gli escrementi che stavano in terra. Qualcosa dei tesori
avevano in dotazione i cani randagi.
Scheletrici giravano veloci e usurpavano i suoi trofei. O Lucia usurpava i loro. Lottavano
per riuscire a rosicchiare l’irriconoscibile cibo di sostentamento. E poi c’erano gli
uomini. Quando Lucia trovava tesori succulenti, si metteva a correre perché nessuno li
sottraesse, né uomini né bestie.
Quando calava la notte, Lucia, siccome era piccola, si infilava dentro uno di quei
secchioni puzzolenti, svuotati ed ormai orizzontali. Le narici erano abituate, non si
poteva andare tanto per il sottile. Non si poteva neanche parlare, bastavano i versi, come
quelli degli animali, per far capire che il secchio era già occupato.
Lucia sognava, certe volte, belle situazioni. Di partire, andare lontano da quello schifo
terribile, da quella solitudine. Sognava che qualcuno la aiutasse, la sfamasse ed
addirittura abbracciasse la sua pelle scura, sporca e piena di buchi neri, bruciature di
sigarette, più neri della pelle nera. La sua.
Chi l’abbracciava era sempre qualcuno di vero, autentico, non era soltanto un’immagine,
era un corpo. Era una persona più grande di lei, alta più di lei, anche perché Lucia era
bassa e sembrava più piccola di quello che, forse, era. Lei infatti non sapeva la sua età.
Chi l’abbracciava aveva la sua stessa pelle e capelli neri lunghi ai quali aggrapparsi e da
lì piangere e ridere. Altro che il secchio puzzolente. Altro, che.
Chi la teneva per mano, nel sogno infinito di notte nel secchio, aveva mani lunghe e
rassicuranti. Le dita si intrecciavano alle sue e formavano una trama mai provata. Chi la
cullava, fra le sue braccia, nel secchio di sogno, era chi, in realtà aveva abdicato ad ogni
velleità di madre. Costretta a farlo, senza possibilità di scelta.
All’alba la luce filtrava attraverso il grande, grigio coperchio del cassonetto ed ogni
sogno svaniva. In un attimo, nonostante le poche energie, la scimmietta Lucia, magra
come un ramo secco, si tuffava fuori con i piedi nudi in terra ed iniziava a farli
camminare.
Poi vennero giorni diversi in una stanza che sembrava comoda e strana.
Al posto del secchio, un letto. Vero. E tante suore vestite di celeste. Altri bambini e
colazioni con il latte e biscotti. Veri.
Un altro giorno un signore profumato di colonia arrivò con una donna, con i capelli
quasi lunghi, sulle spalle, e un sorriso di quelli che si sognano la notte.
Lucia pensava di aver dormito troppo, di essere malata di avere qualcosa che non andava
nella testa. Un sogno lungo un treno che non aveva mai visto. Un sogno veloce e lento
come il volo di un aereo che non aveva mai preso.
Il rumore nella testa era assordante, forse era la fine di tutto. Quel qualcosa che qualcuno
chiama morte. Dove la stavano portando quei due?
La donna la stringeva e lei si sentiva protetta. Ma chi era e cosa voleva?
Lucia, cagnolino bastardo in balia di mani sconosciute che afferranno e accarezzano
finchè non ti scacciano di nuovo. Pussa via.
Il cagnolino veniva trasportato come chi non ha potere per decidere.
Però quella mano di donna era uguale al sogno sognato, solo bianca con lo smalto rosso.
Era un paradiso o un’agonia quello che Lucia provava, e si confondevano.
I giorni di dopo avevano sempre quel sapore. I nuovi genitori avevano la casa bella, tante
cose da mangiare e per lavarsi, la voce gentile, gli occhi buoni, giocattoli e vestiti rosa
tutti per lei. Tanti, troppi.
Certe volte gridava e faceva i versi per far uscire il brivido dentro e tante cose che non
riusciva a dire. Perché non conosceva quella lingua, che non era la sua.
C’era anche la televisione, che aveva visto per la prima volta dalle suore ed aveva avuto
un po’ paura di tutte quelle immagini di gente che parlava e si muoveva, proprio come
succedeva nella realtà.
Insomma, in quel periodo faceva tante cose che neanche riusciva ad aver paura, né fame
o sete. Era come se tutto arrivasse prima di ogni richiesta.
La faccenda più curiosa era che non la chiamavano più India, come avevano fatto le
suore, ma Lucia e lei presto capì che nessuno di quei nomi era il suo, quello vero, con il
quale la sua vera mamma l’aveva pensata.
Altra novità era che adesso andava a scuola con altri bambini e c’era una signora che
parlava ed era gentile anche lei e la chiamavano maestra o signora maestra. Lì c’era di
che divertirsi, ma imparare era una gran fatica. Una volta tornata a casa mangiava e le
veniva un gran sonno e allora faceva tutti i sogni più belli del mondo sul morbido che
odorava di sapone e non di immondizia. C’era anche il cuscino per alzare la testa.
Poi i bambini erano diventati tutti più alti e qualcuno aveva cambiato voce e il
pomeriggio venivano a casa sua a studiare e c’erano le merende della donna che
chiamava mamma che erano davvero buone.
Ormai leggere, scrivere e parlare erano un fatto naturale. Come fare la pipì.
Alla festa dei presunti diciotto anni, in un giorno e in un mese di fantasia, c’erano tutti
gli amici e quelli che si facevano chiamare zio, zia, nonno e nonna. Era riuscita bene, ma
qualcosa era successo.
Fra gli amici, un ragazzo bellissimo che aveva la pelle come la sua. Lucia gli aveva
chiesto di chiamarla India, ma solo di nascosto. Erano tanti anni che voleva di nuovo
sentirsi chiamare con quel nome. E se poteva baciarlo ed avvertire un brivido, voleva
dire che si poteva proprio fidare. Lui si chiamava Rajesh e aveva i capelli un po’ verdi
davanti e neri dietro, sulla nuca. Aveva anche delle palline color argento sulla lingua e
sul sopracciglio destro. Sul braccio un tatuaggio che mostrava con orgoglio. A Lucia non
piaceva granchè quello scarabocchio e non ne capiva il significato. Ma la cotta passava
attraverso altri abbellimenti, gli occhi verdi di Rajesh e la sua parlantina sciolta. Lui
leggeva tanti di quei libri che, l’anno dopo, sarebbe andato di sicuro all’università e lei
voleva seguirlo. Faceva certi discorsi seri che India Lucia provava a seguire, come
Pollicino le briciole di pane. Ma era difficile e a volte si perdeva. Allora provava a tirare
qualche boccata di quel fumo che lui era capace di preparare. Rollava bene una cartina,
spezzava il blocchetto duro e usava l’accendino. Faceva un giro strano con le mani. Era
un artista provetto. Veniva fuori un siluro che dava spensieratezza e forza e ti faceva
andare lontano.
Poi c’erano le parole, quelle belle e difficili. Rajesh parlava di filosofia perché aveva
sempre otto e l’insegnante gli faceva i complimenti e poi lo sgridava di brutto per i
capelli e il tatuaggio e le palline argentate.
Papà e mamma cominciavano a rompere un po’. Non è che ce l’avessero con lei, ma non
volevano quel coso fra i piedi e la loro voce cambiava, diventava più dura e certe volte le
dicevano di non farlo venire a casa a studiare e non la facevano neanche più uscire con
lui.
Una sera Lucia, India, stava mangiando l’insalata. Aveva la nausea, le girava la testa.
Sentiva il vuoto in testa e nello stomaco. Era come se le avessero tolto la linfa.
Gli adottivi parlavano, parlavano, parlavano. Lucia India cercava di partecipare al più e
al meno e di mantenere il filo del discorso. Le sue mani però non trattenevano nulla,
neanche la forchetta, figurarsi le parole. Sembrava che tutto si muovesse seguendo un
ritmo alterato, prima al rallentatore, poi troppo in fretta. Non era una bella sensazione,
perché Lucia si doveva mostrare normale e dare delle risposte che invece venivano fuori
confuse e storte, come rami d’albero deviati dal vento. Era una fatica enorme essere così
storta, ma restare finta dritta, fingersi attenta nonostante l’insensatezza, partecipe, ma
invece annientata dal senso di fine dei giorni e dal vomito imminente.
Dopo tanti sforzi ed improvvisamente nessuna risposta a domande sempre più insistenti,
il viso di Lucia India sprofondava inesorabilmente, irreversibilmente dentro il piatto fra
l’olio e l’aceto, pesante come un macigno scaraventato fra verdi foglie di lattuga.
Stop.
Silenzio.
Nessuna parola in entrata o in uscita.
Silenzio di tutti.
Tutto sospeso.
Lucia si risvegliò sdraiata in un letto bianco più stretto del suo. Intorno uomini e donne
bianchi di pelle e nei vestiti. Vicino c’era mamma con gli occhi bagnati. Non era proprio
un’alluvione, sembrava un temporale appena terminato, l’odore di umido da respirare.
Non parlava, le stringeva solo la mano con la stessa forza e tenerezza di quel giorno in
aereo.
Gli altri parlottavano piano, sembrava rispetto.
Poi arrivò papà che aveva il viso tirato e pallido. Quando entrò nella stanza abbracciò
forte mamma, si strinsero e qualcuno singhiozzava in un pianto a dirotto.
Tutti i signori bianchi che parlavano piano scomparvero e India sentì il profumo
inconfondibile della sua immondizia che tornava a trovarla.
Sembrava un incubo. Invece era la realtà, ma provò a far finta di niente e richiuse
lentamente gli occhi per non esserci, ferma come un sasso perché nessuno notasse la sua
presenza. Respirava piano per restare in segreto.
“Mi spieghi perché si è ridotta così? Mi dici dove abbiamo sbagliato? Le abbiamo dato
tutto, tutto quello e di più di quello che potevamo. Ma che le è mancato, che le manca?”
Papà piangeva come una fontana e si capiva anche a occhi chiusi. La scena era da
brivido. Un male dentro, ma Lucia doveva restare in silenzio.
Da tanto aspettava la botta, quella famosa che aveva sempre portata con sé, latente. Era
arrivata. E c’erano le parole da ascoltare. Sarebbero arrivate di lì a poco. E chi ce l’ha
fatto fare, neanche è figlia nostra. E’ una bastarda, chissà chi era la madre, quella vera.
Una disgraziata incosciente come lei. Sarebbe stato meglio se fosse rimasta dov’era…
Invece era soltanto acqua salata che sgorgava, per entrambi, papà e mamma abbracciati
come rampicanti al muro del giardino, con i ragni che si impigliavano, l’odore di vaga
muffa e dell’estate che stava per tornare, come sempre. C’era il mare che Lucia aveva
visto grazie a loro, c’era la canna da pesca da lanciare, c’era la parolaccia per il filo
intrecciato. C’erano ancora quelle mani che ora se ne stavano timidamente lontane, a
cercare il loro perché.
Lucia sentiva che era necessario parlare, era troppo tardi per non dire. Bastava aprire la
bocca secca e scartare le frasi cattive. Lasciare uscire le buone.
“Io…io…cercavo solo di…”
Gli occhi ancora chiusi, la lingua inchiodata al palato.
“Io… vi chiedo scusa. Non l’ho fatto apposta…”
Le parole di Lucia uscivano ora, fluide come liquidi. Avevano un so che di incredibile,
lei stessa non riusciva a credersi. E dietro c’erano concetti a tutto tondo, chiari e ben
esposti; nessun mugolio, grida indefinite, versi animaleschi.
“Non mi è mai mancato niente e voi non avete commesso alcun errore. Non ero abituata
a tanto. L’unica cosa che mi manca, che mi è mancata è lei. Loro, ma più lei”
“Lei chi?”
Le domande cadono a terra con un tonfo, quasi ogni volta che se ne conosce la risposta.
Ma, una volta partite, è difficile che restino sospese in aria. Anche quando si vorrebbe
che tornassero indietro.
“Lei, mia madre. Quella ver…”
“Vera, vero?”
“ Ho fatto finta di niente per tanto tempo. Soffocavo, mi mancava l’aria, annaspavo e
non ne capivo la ragione. Mi sentivo fuori posto. Sola in mezzo agli altri, anche con voi.
Estranea. Poi ho compreso che avevo un gran bisogno di sapere da chi sono nata, chi era,
o forse è, mia madre.
Ho tutto eppure c’è sempre il vuoto di un’immagine, un nome, un ricordo.
Niente. Cancellato dalla mente. Non so se qualche volta lei mi cerca, se mi pensa…e non
ricordo neanche più l’India, gli uomini che mi spegnevano le sigarette sulle mani se non
facevo quello che mi dicevano, se sottraevo il loro cibo… Io vorrei tornare lì, per
cercarmi, per capire…”
Qualche anno dopo la psicologa ascoltava il racconto di Lucia, si vedeva che capiva.
Captava anche il giusto tempo del silenzio, quando ogni parola era superflua. Sembrava
capirlo, lei, che a volte la vita ha bisogno di risalire, di andare all’indietro.
Lucia aveva letto da qualche parte che i salmoni, quell’anno, per cause attribuite al
clima, risalirono la corrente con tanta fatica.
Dopo un grande affanno in molti si dimenarono nelle reti degli uomini, non trovarono
una via d’uscita e finirono nei piatti. Altri, raggiunsero la meta. Poi, cadde la pioggia,
cambiò stagione e tutto ricominciò da capo.
Le madri e la psicoanalisi
“L’essere (o avere) corpo e l’essere (o avere) parola si formano insieme
e l’opera della madre consiste propriamente in quell’insieme”.
Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre
Tutto il pensiero psicoanalitico moderno post-freudiano si è sviluppato nella cifra del
materno. Bowlby ha parlato dei modelli di attaccamento primario alla madre come
matrici di ogni successiva modalità di relazione affettiva; Margaret Mahler, nella sua
interpretazione dell’autismo infantile, ha postulato un’originaria simbiosi madre-
bambino; Donald Winnicott la necessità di una madre “sufficientemente buona” per un
sano sviluppo psicologico e cognitivo e ha identificato il corpo materno con il primo
“ambiente” del bambino; Wilfred Bion ha messo in risalto la funzione di “reverie”
materna come capacità di ospitare il bambino nella propria mente. Fondamentale è stato
poi l’apporto di Melanie Klein, che ha teorizzato una primitiva scissione fra “seno
buono” e “seno cattivo”, gettando così le basi per la comprensione dell’ambivalenza
affettiva che caratterizza il rapporto con la madre.
Nessuno di questi autori si è occupato però di una eventuale differenziazione fra maschi
e femmine per quanto riguarda i processi ipotizzati e descritti.
A partire dai primi nuclei identificativi pre-edipici, l’evoluzione dell’identità femminile
segue ovviamente un percorso diverso da quello maschile. La bambina deve al contempo
abbandonare l’oggetto d’amore primario, che è, come per il maschio, la madre e
rivolgersi al padre, “disidentificandosi” da lei per raggiungere la sua autonomia di
donna.
Le modalità di separazione-individuazione contrassegnano per la ragazza un passaggio
difficile, che spesso non giunge a compimento per tutta la durata della vita.
Secondo Julia Kristeva (1) il matricidio simbolico, l’uccisione metaforica della madre,
sono indispensabili per accedere alla separatezza ed all’affermazione di sé. La ragazza
deve in sostanza ripudiare la propria madre, rifiutarla come modello, per poter trovare se
stessa. Non sono altrimenti percorribili altre strade se non quella di una perdurante
identificazione simbiotica.
Melanie Klein (2) evidenzia la paralisi della capacità di simbolizzazione nel caso in cui
l’attaccamento alla madre abbia la meglio sulla necessità di separarsene, affrontando la
perdita del primo oggetto d’amore. E’ la perdita, afferma anche la Kristeva, che spinge a
simbolizzare la cosa perduta e consente il pensiero.
L’immaginario appare dunque, nelle concezioni della Klein e della Kristeva, fortemente
dipendente dalle vicissitudini connesse alla relazione primaria con la madre e con il
“dentro-fuori” il suo corpo.
Il maschio non perderà mai del tutto la madre, ritrovandola simbolicamente e
materialmente in altre donne.
La” teoria della differenza sessuale” compie un balzo teorico notevolissimo perché
afferma per il soggetto femminile la possibilità di “rimanere al cospetto della madre”,
riconoscendone l’autorevolezza e superando l’ambivalenza, mantenendo comunque la
capacità di distinguersi da lei e spostando l’amore sull’alterità costituita dal maschile.
La capacità relazionale verrebbe, secondo la Irigaray (3), enormemente potenziata
dall’apprezzamento e dalla costituzione di “genealogie femminili”. La dialettica io-tu fra
maschile e femminile ne sarebbe di conseguenza incentivata nelle sue potenzialità
relazionali, non più conflittuali.
Fin qui, costrutti teorici forse anche di difficile comprensione per i “non addetti ai
lavori”. E’ vero però che la psicologia della donna è senza dubbio del tutto differente da
quella maschile.
L’identità di una persona è sempre sessuata; l’appartenenza biologica, anatomica e
culturale a un genere o all’altro ne è certamente il principale fondamento. Il pensiero
della donna, il suo modo di stare al mondo,a partire dal corpo, sono infatti peculiari e
“differenti”.
La “teoria della differenza sessuale”, le cui più note esponenti sono Luce Irigaray per la
teoria psicoanalitica e Luisa Muraro per la filosofia (4), pone al centro della propria
speculazione la figura materna, al contempo intesa come madre di ciascuna e come
“matrice simbolica” dell’esistente, “luogo dell’origine”: “La figura della madre è il
rapporto con l’identico per ogni donna, ma anche con la differenza dell’altro da sé per
ogni essere umano, sebbene diversamente per un uomo o una donna. Quello con la
madre è insomma il rapporto in cui la dinamica fra identità e differenza è ineludibile
nell’esperienza individuale”(5).
Restituire valore e autorevolezza alla madre, significa assegnare altrettanto valore e
riconoscimento alla propria appartenenza di genere, operare un ribaltamento della
trasmissione patrilineare e “patronimica” della cultura e dei saperi, sostanziando
genealogie femminili.
Per comprendere pienamente le implicazioni teoriche di tale assunto è necessario
introdurre sinteticamente il pensiero di Jacques Lacan, del quale la Irigaray era
un’allieva, poi dissidente e scismatica.
Secondo Lacan, ogni soggetto è sottoposto a tre ordini: quello del Reale, del Simbolico e
dell’Immaginario, la cui accessibilità è condizionata e resa possibile dalla funzione
paterna, che è perciò di fondamentale importanza in ambito sociale e psichico.
In ambito sociale essa è inscritta nelle leggi giuridiche applicate alla genealogia, alla
filiazione (patronimico, ovvero trasmissione del cognome in linea paterna), all’alleanza
e, più generalmente, alla parentela. In ambito psichico, invece, la funzione paterna si
inscrive in ciascuno/a, qualsiasi sia la realtà dell’uomo che incarna il padre: “E’ nel
nome del padre che dobbiamo riconoscere il supporto della funzione simbolica, che dal
sorgere dei tempi storici identifica la propria persona con la figura della legge”(6).
Affinchè l’individuo sia legittimato dalla funzione paterna, il “posto occupato dal
padre” deve essere riconosciuto dalla madre: “Ciò su cui vogliamo insistere è che
conviene occuparsi non soltanto del modo in cui la madre si colloca in rapporto alla
persona del padre, ma dell’uso che ella fa della sua parola, diciamo il termine giusto,
della sua autorità, in altri termini del posto che riserva al Nome-del-Padre nella
promozione della legge”(7).
La madre ha integrato il Nome-del-Padre quando accetta che il padre, con il suo
intervento, scacci il bambino dalla “posizione duale mortifera” (8), che consiste nel
“prendersi per il fallo della madre” (9).
Il bambino nasce da un particolare desiderio ed è inserito, già prima della nascita, in una
rete linguistica . Egli “non parlerà” se non a partire da tale rete, autentica catena
significante. In tale catena, appare evidente che il testo inconscio preesiste e persiste ben
oltre il testo conscio.
Nella sua relazione con il linguaggio, l’individuo non dispone, per quanto lo desideri
ardentemente, dell’insieme dei significanti che lo hanno reso capace di parlare (l’
“Origine”, in Luisa Muraro), tale insieme è la risultante dei discorsi consci e inconsci dei
suoi ascendenti (la genealogia, la parentela) ed è rappresentato dai padri, si trasmette per
via maschile così come la cultura e il sociale, nei quali la storia del soggetto si inscrive.
Egli dovrà perciò ripercorrere e superare, tramite il proprio desiderio, le tracce del
discorso inconscio di cui è, a propria volta, un significante. Le diverse modalità di
inserzione nella catena significante spiegano allora le differenze a livello della struttura
psichica: nevrosi, psicosi o “normalità”.
Il sintomo ha per Lacan la funzione di esprimere la questione principale per l’individuo,
in riferimento al posto in cui era collocato prima di venire al mondo “come corpo”, lo
spazio simbolico occupato, il posto, dice Lacan, “pre-occupato”.
Il ribaltamento concettuale delle teorie lacaniane effettuato dalla Irigaray consiste
principalmente nel fatto che l’inscrizione del soggetto nei tre ordini Reale, Simbolico ed
Immaginario, avviene in verità per “via materna”, per tramite della madre, anziché del
padre.
Il Luogo dell’Origine è per ciascuno il corpo della madre ed è soprattutto nelle sue reti di
desideri e pensieri, consci e inconsci, e attraverso genealogie femminili che si configura
il nostro spazio nel mondo, il “posto” che in esso occupiamo.
Lo stesso termine “generare” può essere usato nella doppia accezione di “mettere al
mondo, creare” e “indurre, motivare a, muovere verso”. Generare conoscenza, saperi,
competenze è la più precoce fra le attività materne, della quale spesso le madri hanno
“istinto”, ma non consapevolezza.
Restituire autorevolezza alla madre vuol dire superare le attribuzioni contraddittorie di
responsabilità-iperinfluenza e secondarietà-impotenza, espresse da tutta l’elaborazione
teorica psicologica e psicoanalitica del novecento.
Nella restituzione di dignità alla madre “…la singolarità femminile si stempera nella
somiglianza e cerca in essa quel valore, negato dall’autorità patriarcale e dai suoi codici
societari, in grado di sottrarre l’essere donna all’insignificanza”(10).
1- Kristeva J., The Maternal Body, in “m/f” nn.5-6, 1981
2- Klein M., Invidia e gratitudine (1928), Martinelli, Firenze 1965
3- Irigaray L., Etica della differenza sessuale (1984), Feltrinelli, Milano 1985 ed
altre op. cit. in bibliografia
4- Muraro L., L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1991 ed altre
op. cit. in bibliografia
5- Boccia M.L., La differenza politica. Donne e cittadinanza, Il Saggiatore, Milano
2002, p.83
6- Lacan J., Scritti, Einaudi, Torino 1974, vol.I, p.271
7- Ibidem, vol.II, p.575
8- Ibidem, vol.II, p.576
9- Ibidem, vol.II, p.5761
10- Boccia M.L., op. cit., p.84
Volare via – L’eccesso femminile
“…Laggiù nel manicomio
dove le urla venivano attutite
da sanguinari cuscini,
laggiù tu vedevi Iddio
non so, tra le traslucide idee
della tua grande follia
Iddio ti compariva
e il tuo corpo andava in briciole,
delle briciole a devastare
sciami di rondini improvvise” Alda Merini, Laggiù dove morivano i dannati
A volte il desiderio è quello di volare via. Alleggerire il bagaglio, il cui peso è diventato
intollerabile, e dislocarsi in un’altra dimensione al di là dei costrittivi confini del reale.
In alcuni casi, quando la fatica di vivere non trova risorse e l’Io ne risulta troppo
impoverito, è suicidio, volontario o mascherato da incidente o malattia. In altri, delirio,
episodio francamente psicotico o manifestazione eclatante di un grave disturbo della
personalità.
Etichette, diagnosi per far rientrare, con forzature anche evidenti, la soggettività in un
“quadro” clinico, in una cornice ciò che ne deborda.
Tale è stato il caso di Valentina, il cui rapporto con l’ “Angelo necessario” le è costato
tre TSO (Trattamenti Sanitari Obbligatori), ovvero ricoveri presso i Servizi di Igiene
Mentale, pesanti terapie farmacologiche e le conseguenze di un grave e invalidante
incidente stradale (tentato suicidio mascherato?), che fortunatamente non si è concluso
con la morte come nell’epilogo immaginato da Simona, ma poteva.
L’eccesso, il misurarsi con i limiti, sfidandoli, oltrepassandoli sono caratteristiche
diffuse nei disagi psicologici più frequenti al femminile come l’alcolismo, i disturbi del
comportamento alimentare ( anoressia, bulimia), gli episodi psicotici delle depressioni
post- partum, le nevrosi ossessivo-compulsive, le dipendenze in generale, anche
affettive.
A volte sembra che le donne per esprimersi non trovino altri modi che trasgredire ed
eccedere la norma. La specifica “estraneità” femminile diviene allora comportamento da
sanzionare o patologia da sanare.
L’eccesso spesso rappresenta l’ingresso in uno stato panico, in cui a prevalere sulla
realtà e i suoi limiti sono l’indifferenziato e l’orgiastico, “baccanali” senza/oltre misura,
durante i quali i confini dell’io sono annullati in una momentanea ed illusoria fusione
(con-fusione) con il tutto. Ancora una volta a manifestarsi è la ricerca spasmodica di un
assoluto, l’affermazione della totalità sulla separatezza, dell’appartenenza sulla
estraneità, di un grembo protettivo, in sostanza, nel quale rientrare o dal quale non
uscire. Un bisogno di nutrimento simbolico e di trascendenza. Le cause sono la
solitudine, la percezione della propria diversità, l’assenza di relazioni significative.
Il delirio di Valentina è stato generato dall’isolamento e dalla perdita di contatto con altri
coinvolti nel suo stesso codice affettivo. A mancare sono state le reti parentali che non
hanno supportato il suo fragile e incompleto senso di identità, la continuità con se stessa
una volta venute meno le figure di riferimento. Il suo “angelo”, come l’amico
immaginario di molti bambini, è nato da una funzione proiettiva che ha creato un
“doppio” per riempire un vuoto insostenibile.
La solitudine femminile è culturalmente definita come privativa. E’ un deserto senza
meditazione, è vuoto assoluto. Mentre per l’uomo è spesso il frutto di una scelta
consapevole e transitoria, dalla donna è subita e vissuta come definitiva e ineluttabile.
Non è uno spazio di elaborazione delle idee in senso filosofico né di riflessione sulla
propria identità, ma anzi frequentemente ipostatizza la percezione di inesistenza e di
privazione. Scrive Gabriela Marazzita:
“Il soggetto forte, quello maschile, non teme la solitudine, ne ha bisogno per
individuarsi, ritagliarsi su uno sfondo e organizzare, in modo sistematico, il proprio
pensiero”(1).
La solitudine è quasi sempre per la donna un abbandono, un lutto per le possibilità
perdute, le potenzialità non realizzate.
Secondo Resnik (2) anche la psicosi è un lutto non elaborato; il delirio un tentativo di
risolvere una depressione originaria. Quanto ai contenuti ideativi, nella maggior parte dei
casi hanno a che fare con il “Sacro”, il trascendente, la rivelazione.
Alcuni studi evidenziano il nesso fra precoci esperienze di lutto e vocazione al
misticismo (3): quando la perdita di un genitore, in particolare la madre, sopraggiunge
nell’infanzia, può svilupparsi una penosa sensazione d’abbandono che facilmente
conduce alla ricerca di un interlocutore eterno e immortale. Esempi celebri sono Teresa
D’Avila, la cui vita religiosa iniziò all’età di dodici anni nell’immediatezza della morte
della madre e Martin Buber, abbandonato dalla madre a soli tre anni. Attenuare il dolore
della perdita è una strategia difensiva e consolatoria dell’Io. Oltrepassare i limiti
dell’individualità personale per espandersi fuori di sé in una comunione totalizzante con
il divino è certamente la base antropologica di tante psicosi acute a carattere regressivo
(4). La differenza fra autentica crisi mistica e psicosi risiederebbe nella capacità dell’Io
di tollerare la complessità dell’esperienza e la sua “eccedenza” rispetto alla realtà.
Nella vita di Valentina a un certo punto si manifesta il “numinoso” (5) nella forma di un
angelo che le comunica il suo nome. Si tratta di un “Angelo straniero”, Xeniel da
“xeno”: estraneo. Come un “ doppio” rappresenta il suo stesso processo di estraneazione
da una realtà di solitudine e progressiva emarginazione, divenuta ormai ingestibile.
Lo “straniero” che alberga in ognuno di noi indica la necessità di confrontarci con
quanto ci è ignoto, di ridefinire la nostra identità. La psicoterapia interroga lo straniero,
l’Ombra junghiana, per comprenderne il nome e il nuovo, la scelta e la via futura che
archetipicamente rappresenta. Essere “stranieri”, estranei, vuol dire rinunciare alle
certezze e lasciare spazio ad altre possibilità.
Xeniel è un angelo, figura alata che richiama Mercurio, Hermes, nelle sue funzioni di
messaggero degli dei, messaggero dei contenuti psicoidi archetipici che, dall’ inconscio,
stanno inflazionando il debole Io di Valentina fino alla tracimazione, allo straripamento
nel delirio.
Caratteristica del Sacro è che contiene sempre un riferimento all’orrendo, al tremendo,
alle potenze non controllabili dalla coscienza. Xeniel si presenta come un angelo
custode, ma rappresenta anche il demone personale di Valentina, la sua incapacità di far
fronte alle richieste del reale, di adeguarsi al suo Ordine.
L’aspetto immaginale, in casi come questo, sopraffà e inflaziona il soggetto, lo trascina
nel vortice primordiale e caotico del delirio.
1- Marazzita Marsili G. in AA.VV., Imparare dalle donne, Comune di Terni Progetto
Donna Centro Culturale Virginia Woolf Università delle Donne gruppoB,
Tipolitografia Visconti, Terni 1992, p.120
2- Resnik S., L’esperienza psicotica, Bollati Boringheri, Torino 1986
3- Stanghellini G., Ballerini A., Ossessione e Rivelazione, Bollati Boringhieri, Torino
1992
4- Ibidem
5- Per “numinoso” Jung intende il manifestarsi di un Numen, ovvero di un contenuto
archetipico che irrompe nella coscienza con le qualità di un oggetto visibile e
l’influsso di una presenza invisibile e crea un particolare cambiamento nella
coscienza. Si vedano op. cit. in bibliografia
L’Angelo Straniero
Angelo di Dio, che sei il mio custode,
proteggi, custodisci, governa me,
che ti fui affidato dalla Grazia del Signore
Amen
Preghiera all’Angelo Custode
Valentina ha sempre avuto gli occhi chiari. Cerulei, come la carta d’identità dichiara e
conferma.
Segni particolari: nessuno.
Valentina ha piedi lunghi come panfili. Le lentiggini rallegrano l’aspetto rigido e austero
dei giorni dispari, solare e ridanciano di quelli pari.
Valentina ha un po’ di fidanzati, alcuni i giorni dispari, altri quelli pari. Ma nessun
amore vero. Altrimenti, forse, ne avrebbe uno. Solo.
Valentina studia architettura perché pensa che le strade e le case siano importanti.
Soprattutto le case che ti accolgono. Che sono come nidi. Che sono proprio tue. E
colorate, possibilmente.
Lei gira per la città, spesso con un cappello che le trattiene le idee. Non le lascia
scappare, perché le idee, se vengono, bisogna tenersele strette.
Quando si specchia nelle vetrine si trova bella e affascinante, alcuni giorni, altri si sente
brutta da far paura, ridicola e scema. Non si piace e si detesta che sputerebbe su quel
vetro maledetto che le conferma quanto la bellezza conti per sentirsi importanti e sicuri.
In città come nel mondo. E il mondo e la città non stanno dando buoni frutti, anzi.
C’è la noia che spunta fuori dai tombini. Ci sono le giornate vuote e piene di niente. C’è
la voglia di inventare qualcosa e leggere di situazioni irreali che ti rapiscono. E speri
avvengano. Presto.
In città, come nel mondo, non accade poi molto e Valentina spera sempre di sbagliarsi,
prima o poi. Meglio prima che poi.
Accanto camminano una madre e una zia. Una a destra, l’altra a sinistra e lei al centro.
Come i gendarmi di Pinocchio.
Si somigliano tutte e tre. Sembrano pazze all’unisono, con il volto da folli. Gli occhi
grandi, tutti cerulei, tranne uno, della zia Camilla che è nero, come la pece.
E’proprio da quel buco dell’ozono, quella zona vuota e troppo piena che esce la follia, la
natura eclettica delle situazioni che Camilla vive e immagina. Valeria, la sorella, madre
di Valentina, è diversa, un po’. Ha preferito darsi una regolata, fare una vita quasi
normale. C’è riuscita fino a un certo punto. Si è sposata, l’uomo sbagliato. Ha fatto una
figlia, sbagliata anche quella. Ha provato ad essere madre, non c’è riuscita.
Mai.
Neanche un secondo.
Lei era una bambina, ancora. Per tutta la vita.
Una pupa. Una ragazzina capricciosa, legata alle immagini che non erano.
Alle fantasie che sostavano.
Cambiava pannolini, bianchi e marroni, toglieva la cacca dal culetto di Valentina, ma era
altrove. Era sulla rotonda a ballare, era sul palcoscenico a recitare, era dentro un sogno, a
realizzarlo.
Era al centro dell’attenzione di tutti, era sopra una barca di pescatori a mangiare pesce
fresco con l’amore della sua vita.
E non era.
Era al supermercato ad incazzarsi per i prezzi, per i soldi, che non aveva, perché non
trovava quello che cercava e il latte l’avevano spostato nell’altro reparto.
La madre di Valentina era oltre. Viaggiava dentro pensieri solo suoi. E poi si ritrovava a
spingere un carrozzino e parlare di vaccinazioni.
I gendarmi, ad un certo punto, cominciarono a lasciare la presa.
la stretta del braccio destro dell’una, sinistro dell’altra. E Valentina fece la parte del
cagnolino con il guinzaglio scorrevole. Poteva cominciare anche a salire sull’aiuola da
sola, con qualche metro di filo.
Mai ragazzi al seguito, poche amiche e tanta voglia di specchiarsi nelle vetrine. Le
restava dentro il pensiero che da quei vetri sarebbe, prima o poi, uscita la sorpresa.
Nell’immagine riflessa, almeno.
Almeno.
Riflessa.
Le vetrine negli anni si allungavano, allargavano e si prendevano lo spazio per poter
esporre più merce. Dentro le commesse, fuori la gente che si specchiava, si aggiustava
capelli, baveri e cravatte. Tutti a curarsi, a badare all’immagine.
Riflessa.
Valentina, crescendo, conservò la sua passione e il cappello a larghe falde, il basco, il
berretto di lana modello coach in pensione.
Donavano alla sua immagine, riflessa, carisma e autostima.
Sola, ma sola perfetta. Bella a giorni alterni, brutta nei rimanenti. Dipendeva dalle
vetrine, dai vetri più o meno fumè, dal glass, dal mare di specoli irrisolti.
Al termine di un’idea fissa cui non hai più pensato, sulla soglia di una decisione, quella
di smettere di illudersi che qualcosa avvenga, prima o poi, sul cornicione
dell’irresistibile desiderio di farla finita con un pensiero, il gran giorno si presentò arido
e secco, come sempre. Però c’era qualcosa di strano, almeno un po’ inquietante,
diciamo.
Un abile regista, il più famoso di tutti, tolse di scena i due gendarmi e lasciò Valentina,
sola a specchiarsi. Madre e zia partirono per un lungo viaggio. Restava lei, una città, il
mondo, le vetrine unica salvezza. E poi ogni cosa diventa racconto, fiaba, folletti e
gnomi minuscoli che si insinuano fra la verità e vincono, sino a diventare bugiarde
trasfigurazioni di una realtà. Cattiva. Una realtà intollerabile.
Accanto alla tomba di sua madre e sua zia. Le foto. Belle, ma già malate. I tratti somatici
di chi ha sofferto in silenzio e c’ha saputo fare.
Un riquadro rotondo, una vita che è andata.
Via.
Volata chissà dove, tutti se lo chiedono.
I fiori e il marmo. Il freddo. Poi c’è la storia, più in là. Discreta e latente, ma fa piacere
appartenerle. Ti fa sentire immortale, autentico e indispensabile, come un essere umano
può credere di essere.
Niente, tutto finto. E’ passaggio di una nuvola.
Accanto all’umidità delle tombe, all’odore di erba tagliata da poco, accanto
d’improvviso un uccello enorme. Misura umana, oltre. Ancora più grande. Immenso,
disse chi lo vide, quel giorno.
Valentina soltanto, il privilegio dell’incontro.
Accanto, a dirle che la solitudine è come l’afa, il caldo torrido che sente. Una semplice
percezione, un condizionamento e nulla più.
“Non temere, non temermi…”
Come da iconografia, come nell’Annunciazione.
A Valentina tremano le gambe mentre una musica lontana si avvicina e chiede permesso.
Lei annuisce, impaurita ma pronta. E’ il suo momento.
“Chi sei?”
“Non temere…”, ancora. “Comprendo la perplessità, ma sono innocuo, addirittura
benefico…”
“Che vuoi da me?”
“Non mi è concesso volere, scegliere, desiderare. Non ho il libero arbitrio, solo la
necessità. Appaio. A chi merita l’incanto”
Non è sogno, verità raccapricciante di qualcosa che sta avvenendo davvero. Pennuto
mastodontico ed altero. Uccello.
“Il mio nome è Xeniel, ho il suffisso degli angeli e il marchio dell’estraneità. Qualcuno
potrebbe dirti che sono un demone, non credergli. Sono il tuo custode. Lascia che ti
guidi, non sarai più sola.
Altro non dico, per ora. Sei di fronte a un bivio: lascerai una strada, ne seguirai un’altra.
Tu puoi scegliere”
Valentina si toccava spesso la fronte per spianare un pensiero, ma quella volta il gesto
non sortì il risultato. La mente collassata invasa da un’intensità difficile da sopportare.
Si era fatto freddo, ma non proprio. Qualcosa di simile, tipo ghiaccio e umidità. Ghiaccio
umido.
Il becco era secco, quello dell’uccello. La bocca, le labbra di Valentina erano umide,
perché la paura secca le fauci e bagna gli angoli, del naso e della bocca.
Mamma mia, mormorava fra sé Valentina. Eppure gli occhi di quel pennuto erano dolci
e rassicuranti e lei provava una strana tranquillità.
Forse era il luogo. Ricordava quanto l’ospedale le mettesse il terrore addosso, mentre il
cimitero le dava una sensazione di solennità e di pace ancestrale. Come un ritornare. A
casa.
Da bambina, già grandicella, si divertiva a guardare le tombe e i loculi. Cercava le date,
le piaceva osservare quanto brevi fossero a volte gli argini dell’esistenza. Nascere nel
1899 e morire nel 1905. Oppure nascere nel 1915, data poco rassicurante, e morire nel
27. Beffarda la vita, anzi, beffarda la morte quando acchiappa la vita. Oppure è giusto
che sia così. Legge naturale. Per fare spazio, per ampliare le vedute, lasciare che la terra
non sia troppo piena. Di tutto. E di niente.
La vicinanza estrema fra un inizio e una fine. Brivido che turba e senso di piacere.
Malato, morboso? Ma cosa era sano, leniva, guariva, salvava?
Formica in affannoso cammino su una strada sconosciuta, non eri che un minuscolo
tassello, una zecca sul grande cane. E tutto continuava ad essere, anche senza di te e
senza di noi. Non indispensabili. L’orologio continuava ad andare, senza fermarsi. A
prescindere.
Da te.
Da noi.
Tutto qua.
L’Uccello era diventato una catarsi. Era diventato il Significato e l’Occasione. Cimitero
assonnato prima della chiusura, verso sera, d’estate. Un mare di calma, serenità.
Questo era l’Uccello e molto di più.
Era vera la storia dell’angelo custode, che ti sta sempre accanto e che se ti giri
repentinamente a sinistra forse lo vedi. Un aiuto per vivere e, soprattutto, per non morire,
dentro.
Finalmente Valentina non aveva più bisogno di frequentare gente, amici e conoscenti,
parenti neanche. Erano quasi finiti e quelli che restavano non valevano un soldo bucato.
Se ne fregavano, in realtà, di che cosa combinasse Valentina in quella sua strana
solitudine, di quel suo modo assurdo di parlare, da sola.
“E’ andata fuori di senno”, dicevano
“Povera figlia! Ha perso la madre e, subito dopo, la zia. Erano il suo punto di
riferimento. Strane anche loro, però…ora è sola come un cane bastonato, non ha finito
gli studi e forse non è neanche capace di cuocersi un uovo”
Ma erano preoccupazioni fittizie, false premure, senza un esito. Nessuno che la invitasse
a un pranzo, una cena, un tè. Ospitarla si era rivelato un problema. A volte non si
presentava, nemmeno avvertiva. Altre, restava in silenzio, ma il peggio era quando
sciorinava le sue assurde teorie, quando pretendeva di vedere e sentire un angelo. Sotto
forma di uccello.
Il suo modo di vivere e parlare metteva paura. Zio Carlo e zia Mirena si guardavano l’un
l’altra e poi guardavano entrambi Valentina e il vuoto, a cui si rivolgeva. Imperterrita.
Gli zii cercavano di far passare il tempo senza scossoni, evitando gli ostacoli, ma era
sempre più difficile rimanere indifferenti alla stravaganza, per usare un eufemismo. Le
serate con Valentina duravano un’eternità nelle pause lunghe fra una frase e l’altra. Ma
finirono, come ogni situazione sa fare. Finirono per non ritornare. Valentina non fu più
invitata.
Valentina si accorse soltanto dell’assenza di contatti successivi e Xeniel liquidò la
questione con un semplice “mi pare, in fondo, normale che accada”.
Per la verità lo zio Carlo trascorse alcune notti sveglio. Preoccupato di una nipote così
diversa da come se la immaginava. E’ vero, pensava, che anche la madre e la zia erano
davvero eccentriche, ma qui ci si trovava di fronte alla follia pura, senza possibilità di
ritorno.
Una notte d’estate piena fu l’incanto.
La luna fece il suo egregio dovere entrando dai vetri aperti ed illuminando la camera da
letto di Valentina. Xeniel, naturalmente era lì, con lei. Si strinsero, le piume di lui erano
soffici e tiepide, accoglienti. Dopo tanti inganni, delusioni e promesse disattese, quel
becco e il respiro di lui, un soffio di vento, a sfiorarle la pelle. Abbracciati, loro come i
comuni intenti. Era valsa la pena di essere rimasta qui, ad aspettare che qualcosa
accadesse. Invece di togliersi di mezzo per non disturbare. Valeva la pena comprendere
che si può continuare anche quando sembra impossibile muovere un passo in avanti.
Il loro era un viaggio insieme. E non c’era nessun altro. Perché nessuno avrebbe capito.
Valentina aveva smesso, soprattutto da quella notte, di vivere in grigio. Le vetrine erano
un ricordo lontano e tempo perso, l’inutile desiderio di far finta che ci fosse ancora
qualcosa di normale da conservare. Valentina non doveva render conto più a nessuno e,
con Xeniel accanto, tutto diventava un gioco da ragazzi.
In bicicletta andavano, ormai, in due. Lei pedalava veloce contro il vento,
le automobili erano quasi trasparenti e si trovava sempre il giusto tempo, il giusto modo
di schivarle quasi sfiorandole. C’era ebbrezza nella corsa e rispetto reciproco perché
Xeniel, secondo pilota, le dava i giusti suggerimenti. Lui, come uomo, maschio di
uccello, aveva il dono della vista in lontananza e profondità, lei, come donna, la visione
laterale. Lui, come uccello, poteva volare, lei, come umana, era incollata a terra, ma
poteva alzarsi dal sellino con disinvoltura e leggerezza. Lui le aveva trasmesso, oltre alla
sicurezza, anche il dono di pensarsi altro. Era come se le gambe di Valentina fossero
senza fatica, le ruote giravano che erano una meraviglia e qualcuno diceva, lì in città,
quella si andrà ad ammazzare o farà fuori, quel che è peggio, qualcuno.
“Sta veramente diventando un pericolo pubblico. Ogni giorno diventa più pazza.
Nessuno che la faccia visitare, la curi o la tenga a casa. E’ abbandonata a se stessa e
continua a pedalare e parlare da sola, cantare a squarciagola come una matta. Poveraccia.
Certe volte fa pena”
Che ne sapevano loro, tutti intenti a vivere le loro squallide quotidianità, di cosa volesse
dire cantare insieme. Xeniel era anche un maestro di controcanto. In due erano
un’orchestra. Un’emozione irripetibile.
La gente si girava a guardarla sfrecciare, gridare e cantare. Facevano un cenno con la
testa o con il dito indice sulla tempia.
Ma Valentina, ormai, neanche li vedeva.
Poi venne l’idea. Al pennuto uccello divino.
Lei si girò a guardarlo, perché aveva smesso all’improvviso di cantare. Si era interrotto
di colpo e non lo aveva mai fatto.
“Dai, passa con il rosso”
“Che rosso?”
“Il rosso del semaforo. Che diamine! Cambiamo un po’ le situazioni. Andiamo
controcorrente. Non si possono rispettare le regole sempre. Le regole sono fatte dagli
uomini, mortali dediti all’errore, alla fallace idea che tutto si possa controllare, codificare
e decidere. Chi lo ha stabilito che con il verde passi e con il rosso ti fermi? Chi? L’uomo.
E’ solo una convenzione, una decisione arbitraria. Prova ad andarle contro”
“E se mi investono e mi uccido?”
“Vuol dire che se per te è finita, doveva andare così. E’ arrivata la chiamata, vuol dire
che deve finire lì il viaggio. Se succede. C’è sempre una ragione per quanto assurda
sembri”
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“Dai Valentina, amore mio, sfreccia senza pensare, fallo per me, per noi”
A Valentina molte volte veniva la voglia di sfidare il pericolo, poi prevaleva
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Viaggio fluido Identità di genere e relazione di cura

  • 1. Alessandra Parroni Con le narrazioni di Simona Pesciaioli Viaggio fluido Libero itinerario nell’identità di genere, la differenza sessuale e la relazione di cura
  • 2. Introduzione . La vita di ognuno altro non è che una continua narrazione, un intrecciarsi di storie che raccontiamo a chi ci è vicino e in primo luogo a noi stessi. Allo stesso modo qualsiasi tipo di psicoterapia è principalmente ascolto, analisi e attribuzione di significati, ricostruzione e amliamento dei contenuti tramite i quali ciascuno narra se stesso. E poi restituzione di un senso più ampio. Una tela sul cui ordito si lavora in due. Dopo oltre vent’anni di lavoro come psicoterapeuta, ho sentito la necessità di una riflessone. Vent’anni di ascolto di tante storie. Interpretare il racconto dell’altro vuol dire aggiungere a partire da sé, dalle proprie risorse, consce ed inconsce, incontrarsi in un comune processo associativo, cercare insieme nessi e risonanze. Le storie individuali sono inserite in contesti più ampi, culturali, sociali, storici, ma anche e soprattutto ancestrali. Spesso ne richiamano altre alle quali somigliano e che tutti conosciamo perché ci sono state tramandate dai miti e dalle fiabe e fanno parte della nostra memoria collettiva. A volte sembra che il filo conduttore di una vicenda personale sia stato smarrito nei labirinti che la vita costringe ad attraversare e in cui ci si perde. Non si riesce più trovare il significato di alcuni accadimenti, quando, a volte improvvisamente, se ne coglie il senso e il possibile sviluppo in nuove direzioni, in un ampliamento della prospettiva, inaspettata apertura dell’orizzonte. Si manifesta così l’entelechia (1) che sottende ogni esistenza e la sospinge, per una sorta di “necessità”, verso la realizzazione della propria “parte” nel tutto, secondo quel “divenire ciò che si è” che Jung chiamava “principio di individuazione”. Quelle narrate in psicoterapia sono storie di crescita e sviluppo, ma anche di perdita e minorazione, nella riduzione di sé ai minimi termini, quelli che, con il senno di poi, appaiono veramente indispensabili al proprio essere al mondo. In questi casi il terapeuta deve esercitare la propria “arte di levare”, come la chiamava Freud. Eliminare cioè quanto è di troppo e appesantisce soggettività che sembrano smarrirsi nelle definizioni di sé date dagli altri, nell’assunzione di ruoli e obiettivi che non sentono propri.
  • 3. In ogni caso quelle della terapia sono storie di trasformazione, di trasmutazione alchemica della “nigredo” ,il brutto, il “piombo”, le pesantezze, in “albedo”, chiarore, luce che rasserena, conforta, conferisce senso e indica una direzione. Nel corso di una psicoterapia “sufficientemente buona” (2), anche gli eventi passati e la storia familiare vengono ri-narrati in una chiave diversa sino alla comprensione e all’accettazione del loro “essere stati”, in una progressiva presa di distanza. Questo processo si deve compiere qualunque sia stata la “gravitas” che origini e passato abbiano avuto, qualunque peso e condizionamento abbiano costituito per la soggettività, in un disvelarsi dell’individualità e libertà di scelta di ciascuno. La narrazione autobiografica nel contesto terapeutico stimola processi attraverso i quali il soggetto esplora se stesso e le vicende trascorse, mentre al contempo si progetta e si rinnova. Prospettiva e nuovi orientamenti, anziché la sola “archeologia”, rispondono del resto alla domanda che nelle attuali società complesse è più frequentemente posta alla psicoterapia, a causa di un crescente disorientamento nel definire identità sempre più “liquide” ed evanescenti. Seguendo la scia di questi temi mi è sembrato praticabile l’idea di trasferire alcune “storie” a una scrittrice affinche’ ci lavorasse con un diverso sguardo, da una diversa professionalità e che, ascoltandole da me che le ho ascoltate da “loro”, le mie “pazienti” (e di pazienza ce ne vuole e ce ne è voluta), le rinarrasse ancora, arricchendole di ulteriori significati e della propria fantasia, in una sorta di gioco delle scatole cinesi. Entrambe convinte che le storie curino e che si debba aver cura delle storie, fra un argomento e l’altro apriremo allora delle finestre sulla vita reale e racconteremo le vicende che hanno preceduto l’ingresso in terapia. Simona,durante una conversazione occasionale, mi comunica che, nel suo muoversi da un luogo ad un altro ,e mi pare di capire sia esterno che “interno”, sa sempre da dove parte e dove deve arrivare, ma non conosce mai le strade che attraverserà, quale sarà l’itinerario dello spostamento. Questa sua osservazione mi è sembrata una buona duplice metafora, sia della psicoterapia che della vita stessa. Di tutte le cose che hanno un inizio e una fine. Due punti di orientamento e transizione nella vita sono certi: la nascita e la morte. Nessuno di noi sa, quando viene al mondo, come arriverà al capolinea. Non conosce i sentieri, più o meno impervi, le strade o, se fortunato, le autostrade, che attraverserà per muoversi dalla nascita alla morte. Allo stesso modo non conosce gli itinerari e la loro percorribilità quando inizia un amore, un nuovo lavoro, una psicoterapia, una qualunque altra cosa. Da questo assunto di base decido dunque di mettermi in cammino con Simona verso la meta finale della stesura di un testo. Sappiamo, in una sinergia di intenti, dove
  • 4. intendiamo recarci, ma non conosciamo gli scenari e i “luoghi” che incontreremo durante il percorso,che ancora, in verità, ci è ignoto. Ci mettiamo perciò in cammino con curiosità, desiderio di conoscenza, apertura ed ironia, virtù socratiche spesso dimenticate, indispensabili quando si affronta ogni nuovo viaggio. 1- L’entelechia è un principio metafisico, postulato da Aristotele, secondo il quale ogni cosa vivente diviene secondo una propria interna necessità. Concetto poi ripreso dal gesuita De Cassaude (vedi bibliografia) e da Ernst Bernhard, allievo di C.G. Jung e fondatore dell’A.I.P:A. - Associazione Italiana di Psicologia Analitica -. Secondo Bernhard, l’entelechia è il principio organizzatore del processo di individuazione psichica, in quanto dotato di progettualità prospettica. 2. Donald Winnicott parla di “madre sufficientemente buona” per descrivere quel minimo di cure ed attenzioni materne necessarie ad un sano sviluppo psico-affettivo nella prima infanzia. (Non è necessario che la madre sia “perfetta”, ma “sufficientemente buona”).
  • 5. Da uno a due Mia bocca che dice le stesse parole tue Altre cose intendendo… Antonia Pozzi Abbiamo scelto di raccontare storie di donne a testimonianza della più grande fatica che devono fare per strutturare la propria soggettività. L’ottica nella quale ci siamo poste è quella della teoria della differenza sessuale nel suo approccio decostruzionista (1) al linguaggio ed al “neutro” universale, dietro ai quali si cela l’unilateralità del maschile. Il linguaggio non è infatti uno strumento neutro, un semplice codice comunicativo, ma ha una genesi culturale e una valenza semantica attraverso le quali rispecchia fedelmente il modo di pensare e giudicare. Il pensiero umano è ostaggio del linguaggio poiché si può pensare soltanto ciò che esso permette di esprimere e nei limiti dei suoi confini. Il linguaggio edifica modelli di comportamento, immagine, pensiero come categorie imposte, in tal modo diviene normativo. Ciò che si configura come distante dalla norma si definisce in negativo come mancanza e negatività: “…Il pensiero occidentale sente la nostalgia dell’uno. L’uno è il riposo del pensiero, in esso si può sostare. Si desidera l’uno come sfondo immobile che assicura la chiusura del tutto… il tutto del pensiero o il tutto del mondo. L’uno si chiude in se stesso” (2). L’ordine simbolico della realtà, sotteso dal linguaggio e dal pensiero, si fonda sulla logica dell’esclusione e sul principio gerarchico: alla donna manca qualcosa e ciò la rende seconda di due, all’interno di logiche e gerarchie unitarie. L’altro sesso però, “per ciascuno il volto più affine allo straniero” (3), costringe a riconoscere e reintrodurre la differenza e ad escludere la gerarchia; l’umanità e le sue creazioni sono fondate su un’interna alterità. Con il termine “identità di genere” si intendono le aspettative sociali e culturali riguardo all’essere di ciascuno biologicamente e anatomicamente maschio o femmina.
  • 6. I processi di costruzione della propria identità globale nelle attuali società occidentali sono caratterizzati da modalità di elaborazione più lunghe e complesse e da una sorta di “liquidità”, per cui a una più ampia libertà di scelta si associa una maggiore incertezza. L’identità di genere è il nucleo organizzatore dell’esperienza psichica e della relazione con il mondo esterno. Chi si occupa della psiche umana sa che le dimensioni interne del femminile e del maschile sono labili e complesse, spesso fluttuanti, e non si inscrivono nel dualismo rigido della struttura biologica e anatomica, ma non si può negare una specificità della soggettività femminile: il suo percorso di sviluppo psicologico si differenzia da quello maschile. Gli “studi di genere” (4) sono completamente assenti dalla ricerca psicologica sino all’inizio degli anni ottanta. Per più di un secolo le teorie psicologiche si sono basate sul soggetto maschile (5). Significativo è che Freud sia giunto a formulare una teoria dello sviluppo infantile unica per entrambi i generi, pur essendosi basato soprattutto sull’osservazione e l’ascolto di donne. Del resto fu il primo a parlare di “indicibilità” dell’esperienza femminile, soprattutto per quanto ne concerne la sessualità e l’affettività, tanto che la definì “un continente oscuro”. Anche i contributi femminili al pensiero psicoanalitico, come quelli di Anna Freud, Marie Bonaparte, Helene Deutsch, Karen Horney , riconducono la donna a una mancanza: ella è non-uomo, definita per negazione. Nel pensiero junghiano, e soprattutto in alcuni lavori di psicologhe analiste come ad esempio Hester Harding (6), l’ottica si modifica a partire dalla constatazione della presenza intrapsichica in ciascun individuo di aspetti femminili e maschili , chiamati“Anima” ed “Animus”, “Eros” e “Logos”. Inoltre grande spazio e amplificazione trovano nel pensiero della studiosa i miti e i simboli del femminile, che informano e costellano lo sviluppo psichico e i percorsi esistenziali della donna. Edificare una cultura del due, considerando l’importanza dell’altro da sé nella costruzione della propria soggettività, vuol dire restituire la parola al linguaggio e all’esperienza femminile soprattutto nelle loro valenze relazionali e corporee. La rappresentazione del proprio corpo e, di conseguenza, del proprio sé si strutturano nella relazione primaria con la madre in un dialogo che è anche e soprattutto non verbale e fatto di fisicità. Successivamente però, in molti casi, il corpo della donna diviene estraneo a se stesso: o “parlato” o “parlante”. Parlato da altri, tramite norme e prescrizioni, troppo spesso parlante attraverso il sintomo. Dei corpi selvaggi e inaddomesticati delle isteriche di freudiana memoria, corpi ribelli e inadeguati allo “spirito” del tempo, è rimasto ben poco, ma tutti vediamo ancora i corpi
  • 7. scombinati delle anoressiche, quelli omologati dalla chirurgia estetica, quelli sofferenti di malesseri in altri modi “non dicibili”. Restituire la parola all’indicibile vuol dire allora effettuare un movimento dalla passività del corpo, che si fa manipolare e modellare dall’ordine delle rappresentazioni, a un corpo soggetto del discorso: il corpo degli affetti, del piacere e del dispiacere, delle esperienze e delle passioni. 1- Il “decostruzionismo” è una corrente filosofica contemporanea (fra i cui esponenti ricordiamo Michel Foucault e Jacques Derrida) che si propone, attraverso un’istanza critica di revisione e rilettura della realtà, di de-costruire le “immagini” (linguistiche, estetiche, concettuali, comportamentali, ecc.) che si sono progressivamente edificate lungo il percorso storico-culturale delle diverse epoche. Quanto ci appare naturale ed oggettivo è in realtà un prodotto storico e culturale e costituisce solo alcuni fra i diversi modi di ordinare e pensare il mondo che ci circonda. 2- Agacinski S., La politica dei sessi, Ponte alle Grazie, Milano1998, p.24 (Politique des Sexes,Paris, Seuil, 1998, trad. it. F. Bruno). 3- Ibidem, p.11 4- Gli studi di genere (“gender studies”) si propongono di verificare le effettive differenze fra uomo e donna in vari settori. Ad es. i campioni scelti negli studi prevalenti nella letteratura psichiatrica sono in ampia maggioranza costituiti da uomini. I profili psicopatologici sui quali di conseguenza si costruiscono ipotesi di ricerca e linee guida di trattamento sono commisurati alle
  • 8. caratteristiche della popolazione maschile. Spesso si riscontra anche una assenza di correlazioni fra variabili di esito e sesso. 5- Si vedano le critiche di Carol Gilligan (op. cit. in bibliografia) alle ricerche di Piaget e Kohlberg sullo sviluppo del senso morale nella prima infanzia. 6- Harding H., I misteri della donna (1929), Astrolabio, Roma 1973 e Ibidem, La strada della donna (1932), Astrolabio, Roma 1974
  • 9. Madri matrici dell’essere J hide myself within my flower, That fading from your Vase, You unsuspecting, feel for me- Almost a loneliness. Emily Dickinson, Poems Nel corso della pratica clinica ho avuto modo di osservare spesso quali diversi percorsi segua lo sviluppo individuale “in assenza di madre”. La nostalgia è in questi casi il sentimento prevalente e a volte il “tema” centrale e portante di tutta un’esistenza. Nei figli adottivi e in coloro che sono precocemente rimasti orfani di madre l’Io frequentemente sembra essersi costruito intorno a un vuoto e con la percezione di esso fare i conti. Questo è particolarmente vero per le donne. La ricerca di qualcosa o qualcuno che possa riempirlo contrassegna le scelte. A mancare è l’immagine di sé, la sensazione di un’integrità psicologica e corporea. I vissuti sono frammentari, come se nel labirinto delle esperienze si fosse perduto il filo e non si riuscisse a ricomporre la trama del proprio essere al mondo. Ci si sente stranieri, privi di specchi in cui riconoscersi. Inizia allora spesso un nomadismo volto al reperimento di una possibile origine, qualcosa o qualcuno con cui ci si possa identificare, che assicuri sicurezza, calore e integrità. Nei sogni compaiono case sconosciute, piene di stanze chiuse, soffitte o cantine ingombre di oggetti appartenenti a un passato del tutto ignoto. Armadi colmi di abiti propri o altrui, talvolta calzature di vario genere - che indicano come camminare nella vita-, libri sapienziali o di fiabe, giocattoli amorosamente acquistati da sconosciute mamme premurose. Si parte insieme per un viaggio verso la propria matrice.
  • 10. Nel caso dei figli adottivi capita che la partenza divenga reale. Tornano nel paese in cui sono nati con grande emozione e smisurate aspettative: di ritrovare un parente, qualcuno che li ri-conosca o gli racconti la propria storia. In altri casi, quando si è perso un genitore, in particolare la madre, troppo presto per conservarne se non frammenti di memoria, la partenza è simbolica e l’itinerario è fatto di fotografie, narrazioni, aneddoti familiari. L’assenza ha creato un vuoto biografico che si spera di colmare, un “buco” nella trama di una storia che niente e nessuno può del tutto riparare. Si cerca un rifugio, un luogo dove andare. Questo rifugio è un volto, una fisionomia che appaia familiare. Il volto perduto di una madre quasi onirica di cui si è smarrita la memoria, un corpo che la rappresenti. Gabriella, da bambina magicamente spera che la madre morta scenda da un treno e si ricongiunga a lei. Nell’adolescenza si innamora di una giovane insegnante, in un rispecchiamento che le dà valore, nel tentativo di ritrovare la dimensione di verticalità in un modello adulto di sé che le è mancato. Lucia cerca il suo vero nome, il nome dell’origine, quello con il quale la madre, prima di abbandonarla, l’ha nominata: la parola e il “discorso” della madre. Si rincorre il ricordo impossibile di un calore sconosciuto, una sicurezza primaria necessaria e del tutto ignota. Nessun successivo abbraccio, nessun riconoscimento riuscirà a stemperare l’incontenibile nostalgia, il vagheggiamento, l’anelito. La madre è morta o per sempre perduta nel corpo come nella parola ormai difficile da articolare, la sua e insieme la propria identità divengono misteri insondabili. La soluzione, quasi obbligata, è per Gabriella l’amore per/di un’altra donna, la possibilità che l’omosessualità le offre di “ritrovare il corpo della madre”; riflettersi in un’altra per trovare se stessa e superare così anche la morte della nonna, riedizione del lutto primigenio e perdita dell’unico legame con il passato, la propria nascita, la memoria di sé. In tale modo chiude il cerchio. Il serpente si morde la coda e l’inizio coincide, nella narrazione e costruzione di sé, con il punto di arrivo. Il suo processo di separazione- differenziazione non può avvenire se non per tramite di una donna, che rievochi la presenza della madre perduta per sempre e smarrita in un doloroso oblio. Per Lucia è il viaggio in India, alla ricerca delle radici e di un nome. Altro sa che non troverà, ma la terra, il luogo di origine, diviene per lei un sostituto simbolico della madre, una Madre più grande, capace di accoglierla e contenerla, per poi tornare dalla “piccola madre” adottiva con gratitudine e “in pace”.
  • 11. Fin da bambina ha cercato un contesto all’interno del quale collocare la propria esistenza. Si è sentita estranea all’Italia, ai nuovi genitori, ai nonni. Ferite dolorose, aperte e doloranti, hanno ripreso a sanguinare a ogni altrui domanda, ogni frase incauta riguardante il colore della pelle, la diversità, la provenienza. Nessuna spiegazione è stata quella giusta ed è iniziato un percorso insidioso, privo di ogni possibilità di lenimento. Persino la “corte” dei ragazzi, attratti dalla sua “bellezza esotica”, è stata accolta con diffidenza e chiusura. Lucia dice di essersi sentita assolutamente sola, straniera, “nomade” nell’impossibilità di rintracciare il principio della propria storia; addirittura “non nata”. Nelle fiabe e nei miti è un motivo ricorrente: spesso l’eroe, il futuro re, la bella principessa, sono orfani dalle origini incerte. Per compensazione, e grazie all’assenza di vincoli, questo consente loro un destino straordinario. Sono “figli degli dei”, portatori di istanze impersonali che favoriscono grandi realizzazioni. Non a caso a volte è un fiume, metafora del fluire incessante dei casi della vita, a condurli, abbandonati in una cesta, verso il loro futuro. Figli delle acque, privi di genealogia, appartengono al tutto più che a se stessi. Nella realtà, tuttavia, la ricerca dell’ “amore perduto” contrassegna la loro esistenza e permane come un motivo di fondo, una frattura da sanare. Lucia ricomporrà la sua frattura scegliendo in seguito di studiare le lingue orientali. Si ricongiungerà simbolicamente alla madre biologica, sua vera matrice, “per tramite” della parola, apprendendone il linguaggio come fanno tutti i bimbi piccoli. Da lei non avrà feedback, segnali di ritorno e di incoraggiamento, sorrisi, sguardi, parole, ma svolgerà per lei dentro di sè il suo “lavoro di madre”, interiorizzandone le cure mancate, in un grande e doloroso sforzo di riparazione. Il rapporto madre-figlia è frequentemente difficile e diviene spesso marcatamente conflittuale quando la figlia giunge all’adolescenza. Il confronto si caratterizza a volte come un durissimo “corpo-a-corpo”; l’ambivalenza reciproca si fa più evidente. Quando la madre è adottiva un meccanismo di scissione consente l’estrema idealizzazione dell’immagine fantasmatica della madre biologica, che si configura come l’altro polo, in una guerra estenuante. La madre “sostituta” accoglie su di sé un insostenibile carico di passioni negative, invidie, gelosie, rivalità. Facilmente è investita dei ruoli di “regina cattiva”, strega, matrigna tanto rappresentati nelle fiabe di ogni tempo, luogo e cultura. La ragazza “attacca” un legame che avverte come “disperante” con fughe, aggressioni, comportamenti inadeguati ed eclatanti, sintomi di un disagio diffuso e apparentemente insanabile. Si sente incompresa e non amata. Entrambe provano un sentimento di profonda delusione reciproca. In realtà è un mettersi alla prova nella reciproca possibilità di sostenere l’una i fantasmi dell’altra, al di là dei torti e delle ragioni di ciascuna.
  • 12. E’ in questo momento che, se aiutate, si riconosceranno nel legame acquisito e si daranno vicendevolmente un’identità più salda. La gestazione di una madre acquisita avviene tutta nella mente e a volte è il dolore avvertito come viscerale che contrassegna questa fase, a far sì che la donna quasi la sperimenti nel corpo, tramite sintomi come la nausea o disturbi al basso ventre. Del resto, come afferma Luisa Muraro “il rapporto madre-figlia (e con i figli in genere)… non è riconducibile per la donna ad un semplice rapporto familiare come sono gli altri… Quel rapporto è portatore della marca simbolica che rende significativa per una donna l’appartenenza al genere femminile” (1). 1- Muraro L., La folla nel cuore, Nuove Pratiche, Il Saggiatore, Milano 2000, p.222
  • 13. Cerchi concentrici ovvero: Gabry sul nascere Se , If Se avessi saputo, Se. Non sarei entrata mai, lì dentro. Oppure si, Se. Se avessi saputo, If, avrei varcato quella soglia, subito. Ma è tardi per trovarti adesso. Se avessi potuto avrei rinunciato… Mai, a niente. Se avessi creduto, If, avrei fermato la corsa. Sempre. E nell’attesa, con il fiato corto, avrei respirato. Se, If In ogni breve attimo. Il giorno fatidico, maggio, più o meno, mese prima, mese dopo, Gabry era seduta sul letto. Arrivava gente in continuazione a portare regali, pacchi enormi. Non era Natale, non era il suo compleanno, non era proprio niente. Eppure la gente, i parenti, gli amici portavano, come i Re Magi, doni da ogni parte. Nastri, stelle filanti e non era neppure carnevale. Scatole enormi, confezioni di prelibatezze, cioccolatini, moto a corrente, bici con le ruote smaltate, bambole di ogni tipo. Alte, magre, bionde, occhi azzurri e verdi. Tutto per Gabry che non capiva un accidente. Sembrava la danza dell’incomprensione. Due passi avanti e uno indietro a vedere quello sguardo attonito, vestito da notte, con il viso bianco muro, come i muri imbiancati da poco. “Come sta ora?” Come sta chi e perché deve stare. Cosa vogliono dire queste domande sceme e che risposta devono e vogliono ottenere.
  • 14. “Mah!” Era la frase silente di Gabry che continuava a non capire un accidente. Eppure era una bambina già sveglia. Quattro anni e mezzo, cinque da compiere presto. Nessun intoppo, nessuna ragione per essere sveglia a quest’ora del mattino. Strano a dir poco. I sorrisi che vedeva erano freddi e pericolosi. Somigliavano alla data dell’assenza, più che a una festa. E poi che diavolo di festa era. Dalla finestra si capiva che era primavera. Le rondini cominciavano a fare quel casino infernale che presuppone qualcosa di bello. Ma il bello dove era? Perché la nonna aveva quell’aria ferma, statica a mo’ di statua di sale? I suoi occhi le ricordavano le visciole, quelle fuori della finestra, sull’albero. Quelle che di solito in quel periodo stavano al sole e lo zucchero sopra, a coprire. Che cosa strana quei giorni strani. Incomprensibili. C’era l’odore della strada bagnata dalla pioggia da poco, eppure non pioveva. C’era l’odore di bruciato, eppure nessuno aveva cucinato. Era tutto fermo. La gente della casa parlava piano, come si fa in chiesa. C’era anche un vago odore di incenso. Ma nessun prete a cospargerlo. Forse, pensava Gabriella, detta Gabry, la messa era finita e lei aveva dormito e non si era accorta di niente. Sospirava perché sapeva che poi avrebbe scoperto tutto. Certo è che non pensava di metterci tanto. Ci vollero trent’anni a capire che giorno era quello. Che fu. Quel momento. Pensa che bastardata la vita ti fa, se ci si mette. Brutta stronza e puttana. Ti fa credere una cosa, te la veste da festa e invece è la fine. Gran figlia di mignotta, con tutto il rispetto per chi fa quel mestiere. Nonna Carlotta era piccola e curva. Aveva un sacco di anni quel giorno, ma anni dopo ne avrebbe avuti di più. Parecchi. Forse era vissuta così a lungo per proteggere il mistero che mistero, ad un certo punto, non era. Più. Gabry certo bella era, un bel po’. Aveva più che altro lo sguardo accattivante e i difetti si mischiavano ai pregi talmente bene da confondersi. Nonna Carlotta era un po’ avara di complimenti. Sembrava un generale di fronte al nuovo plotone. Criticava tutto. Il suo modo di esprimersi, le parolacce. Figuriamoci le bestemmie. Quelle non si dovevano dire, ma a Gabry sembrava giusto anche quello: perché portare tanto rispetto a chi giocava al gioco delle tre carte? Per quale motivo si doveva essere gentili con chi, di sicuro, ti aveva fatto un brutto scherzo e perfino tradito?
  • 15. C’era un mistero, grande parecchio. Qui era tutto un segreto. Non si nominava più la donna bella e sfortunata. Un giorno Gabry faceva un disegno per la scuola. Doveva partecipare al concorso “disegna la tua mamma” per la festa di tutte le mamme, anche quello un maggio. “Ah!” Pensava in silenzio. “E che mi invento?” Forse, se il titolo fosse stato “disegna tua nonna”, avrebbe vinto il primo premio. Ma qui dove si doveva mettere le mani? Come è fatta una mamma, davvero? Ha il viso da vecchia o è ancora una bambina? Quanti giri fa una boccia? Più o meno la stessa identica difficoltà. Più o meno. Qualche anno fa. Il fatto è che Gabry mica si arrendeva facilmente. E provò. Buttò via fogli bianchi stropicciati. Accartocciò figure estemporanee. Era come inventare. Era bello inventare. Qualche sua compagna di scuola ricalcò la foto della madre. Un gioco di specchi. Bastava la luce o, meglio ancora, il controluce. Si vedeva in trasparenza e il gioco era fatto. Che boiata! Così era tutto troppo facile. Lei, invece, doveva proprio inventare, immaginare e poteva farlo in modo strano. Provava a fare il suo stesso viso. Un po’ più lunghe le gambe, di più il seno e gli occhi più seri. Era evidente e chiaro. Chiaro che una madre avesse gli occhi seri. Mica stava al parco giochi. Aveva fatto un bambino. Aveva sofferto e gridato tanto. Aveva l’alito pesante perché, quando si sta male e si soffre, viene in bocca la puzza di metallo. Uno i denti non ha voglia di lavarseli tanto. Quando sta male. Per carità, si lascia tutto come sta. Tanto a che serve, in quel momento? Infatti quando Gabriella era cresciuta di più, le accadeva di provare strane sensazioni, brutte pure. E allora che senso aveva cospargersi di creme e profumi come le sue amiche? Anche il sudore era più intenso e, se sniffavi, morivi di sasso. In quel momento. Quel momento era stato lungo, anche tanto. Si sdoppiava, si vedeva dall’esterno, come fosse un’altra e non si riconosceva. Andava a lezione di flauto e non le piaceva un granchè. Era stanca di troppa concentrazione. Doveva fare qualche chilometro, forse due o tre per tornare nel giardino di casa. La strada pesava. E non erano le gambe o la schiena. Era soltanto la testa che se ne andava sempre in giro, quando avrebbe dovuto restare. Lì. Piano piano era freddo, poi caldo, la luce troppa, intensa fino a far male. Tutto si confondeva e perdeva i contorni o era troppo netto e definito. Si specchiava in una vetrina e vedeva il suo viso e la sagoma del corpo. Poi ripeteva il nome a voce bassa, dentro il cervello.
  • 16. “Gabriella, Gabriella detta anche Gabry”. E lì cominciavano le rogne e i problemi. Portava il gioco all’estremo e perdeva il concetto. Gabry. Gabriella. Questa è la tua faccia. Quella che, fino a un momento fa, non ti era sconosciuta come adesso: Strana, strana, strana. Gesù mio, fammi tornare da me. Da chi? Da te? No. Non voglio. Tanto ora mi passa e tutto torna normale e vado a studiare nell’orto. Lì c’è l’insalata, ci sono i pomodori e so che cosa sono. Sono rossi e c’hanno la fogliolina in cima e nonna li annaffia ogni giorno. E io adesso torno là e tutto finisce. Anche ‘sto modo idiota di guardarmi allo specchio. Non ripeto più il nome e torno da me, e là nell’orto. Era un problema perché, certe volte, quando durava troppo, le veniva anche da vomitare. Le girava la testa. Si sentiva le gambe molli e le tempie gelate. Correva dietro la nuca un brivido infernale: Le sembrava di morire e invece continuava a vivere. Sopravviveva ogni volta. Di più: Perché poi, quando finiva la sensazione, aveva voglia di correre e non sentiva la fatica. Parlava con chi incontrava con una certa disinvoltura. Respirava a narici spiegate e l’aria entrava nei polmoni e tirava vento, lì dentro. Era finita, passata, conclusa. “Uff!!! Che paura”. Nell’orto sentiva la stanchezza della corsa e della battaglia vinta da poco. Aspettava di vedere la nonna e raccontarle quello strano modo di sospendere l’esistenza. La nonna non capiva. Carlotta era in gamba, ma di certe cose che cavolo ne sapeva? All’epoca sua non c’erano tanti fronzoli. C’era la guerra, la fame e la sete. Le cantine da raggiungere prima che cadessero dal cielo una miriade di banane infernali. Una volta Carlotta, ancora ragazza, stava stendendo i panni: “Bumm!!!” Una botta inaudita a pochi metri dall’acqua che sgocciolava l’odore di sapone di Marsiglia. Nonna Carlotta restò, quel giorno, ferma. Fu la prima volta che si bloccò. Non le vennero neanche più le mestruazioni. Per un po’. Poi a quarant’anni cessò di avere quel disturbo fisiologico di essere donna. Non ebbe più figli e forse era meglio, perché faceva solo femmine e i maschi non volevano venire. E nonno Bruno insisteva e invece se la prendeva nel secchio, perché nascevano tutti neonati senza ciondolo. “Ah, Ah!”
  • 17. Nonna Carlotta, fra una doglia e l’altra, se la rideva perché, certe volte, era davvero spiritosa. E nonno s’incazzava. Era suo marito e voleva un maschio cui lasciare i geni e la terra. Invece doveva accontentarsi di surrogati, piccoli corpi rosa fasciati. Fra cacche e pipì. Storceva il naso e poi amava come sapeva. Bene e parecchio, fino all’ultimo istante in cui era restato. “Ora, mia cara Gabriellina, io, se continui con questa storia che ti senti strana e male, ti porto dal dottore. Immediatamente.” E scandiva quella parola, dottore, come fosse una minaccia, invece che una cosa da fare. Obbligatoria. Gabry da una parte voleva perché aveva paura di quelle brutte malattie del cavolo e, dall’altra, preferiva rimanere nell’orto a pensare a quello strano disturbo. Pensava, magari mi innamoro e mi concentro su altro e così guarisco e non faccio più la strada da sola. E arrivò il tempo di tutte e due le cose. Però, a turno. Prima l’altra e poi l’una. Al contrario. A dieci anni non andava mai in giro da sola. Si faceva accompagnare perché, se le fosse capitato di avvertire soltanto l’inizio di quell’andarsene via, avrebbe parlato forte e detto parole a raffica. E tutto sarebbe passato. Poi, addirittura, si innamorò. Strano anche quello. Però. Un ragazzo, compagno di scuola. Il primo giorno delle medie, sedeva dietro di lei. Era gonfio, sembrava avesse il labbro leporino. Invece, a ricreazione, Gabriella scoprì che era stato punto da un’ape. Il giorno dopo era quasi normale e il giorno dopo ancora era splendido da morire. Un brivido e il suono scemo delle campane. In testa, durante l’interrogazione, Gabry odiava essere in classe con Carlo. Perché si vergognava di fare figure brutte e belle, anche. Lui la guardava, ci avrebbe messo la mano sul fuoco. Tornava a casa e pensava che sarebbe stato bello baciare quella bocca di gesso. Dura e compatta. Di maschio. Il primo che capitava. Carlo era anche più grande perché era stato bocciato. “Brava, ma sì invitalo alla tua festa, fattelo amico… Almeno anche tu ripeti l’anno. Scegli sempre il meglio per te, vero Gabriella? E poi che cosa sono queste stupidaggini. Sei una bambina: Tu devi studiare. Questa non è certo l’età per pensare all’amore. Tua mad…”
  • 18. E lì c’era il blocco. Un blocco barriera. Una diga poderosa sul lago artificiale. Una chiusa. Chiuso il discorso, interrotta la parola. “Nonna cosa stai dicendo? Perché non continui?” E non c’era risposta. C’erano solo piatti da lavare e sbattere con tutta la violenza quelle insulse ceramiche abbandonate. Regalo di un matrimonio finito. Ambra e Felice si erano sposati negli anni sessanta e avevano pensato bene di fare in modo di ritrovarsi subito Gabriella fra i piedi. In viaggio di nozze avevano consumato, forse dopo una cena di pesce. Gabry era entrata nella loro vita, fin da quel primo momento di intimità. Non aveva dato neanche il tempo di proseguire per tirarsi le cose a volo e tradirsi. Felice aveva capito che Ambra era particolare, ma l’aveva sposata e se la doveva tenere. Poi era arrivata la guastafeste delle feste mai vissute e lui, cretino, c’era cascato. Tornava tardi e usciva a tutte le ore. Non parlava e, se lo faceva, sputava veleno. Ambra era assillante e le dispiaceva che quell’uomo non fosse suo neanche un pezzetto. Magari una caviglia o un polso. Tornava e odorava di profumo di donna. Lei, invece, amava il sapone, non usava niente di diverso. E allora erano strilli infernali. Erano urla e improperi. Erano giorni neri. Poi la voce si era abbassata e Ambra aveva deciso di trovare una scusa buona per mendicare un po’ di coccole. Decise di ammalarsi e ci riuscì molto bene. Poi decise di arrivare fino in fondo e tornare da dove era venuta. Voleva chiudere un cerchio. Il sonno non era sufficiente per uscire di scena, durava troppo poco. E allora si spinse oltre e se ne andò per sempre e la piansero e la ricordarono come una donna bellissima e sfortunata. Carlotta era anche riuscita nell’intento di fare da madre a una figlia scomparsa e ne aveva guadagnato una nipote da allevare da sola. A Gabry non parlava mai male di Felice e della sua nuova donna. Perché avrebbe dovuto spiegare troppe cose e passaggi. Avrebbe dovuto fare la storia dei geni, spiegare i DNA e i casi che la vita può offrire. Allora copriva, taceva e cucinava da Dio per farsi perdonare di quella storia mai narrata che non aveva voglia di raccontare.
  • 19. Gabry cercava sempre la spiegazione. Capiva che nelle poesie c’è sempre tanto dolore, ma anche che se fai una canzone ti aiuta a vivere. Fai una canzone triste, piangi e stai bene. Stai bene perché stai male e piangi contenta. Gabry scriveva canzoni e leggeva poesie. Amava Pascoli e se lo sentiva vicino come un orsacchiotto sul letto. Aveva visto una sua foto. Lo aveva trovato grasso e ubriacone. Lo aveva trovato un tenero contadino fra aratri, lune e misteri. Lo aveva ammirato e aveva capito che leggere le biografie aiutava la vita. La sua e quella degli altri. Sentiva che quando uno soffre, poi diventa forse famoso. Tutte queste cose, Gabry aveva capito. E a lei, quando sarebbe toccata la sorte di diventare famosa e per cosa? Chiudeva il libro di poesie e si sentiva ispirata. Tornava nell’orto, guardava il cielo e aspettava un segno dall’alto. Gabry cercava in continuazione. Lo faceva tutto il giorno. E disprezzava non sapere. Curiosava fra i pomodori nella speranza di ritrovare ciò che aveva perduto, ma non lo sapeva o non se lo diceva. E cercava. Ormai quel gioco di perdersi anche il proprio volto e il nome era noto, facile da fare e privo di paura. Il segreto dell’inizio, ormai, lo conosceva e sapeva anche come farlo smettere. Bastava respirare lentamente. Bastava far finta di niente e scrivere o cantare. Bastava muoversi in cerchio o correre o parlare con il cane del vicino. E la realtà tornava. Fino al giorno di quel mattino, al liceo. Ultimo sforzo prima della maturità. La classe era diversa dagli anni precedenti. Nonna Carlotta aveva optato per un’altra casa e la scuola più vicina era a qualche chilometro di distanza. L’altra era lontana un’eternità. E’ vero, aveva perso l’orto, ma guadagnato un giardino più grande e poi quello era, sicuramente, il giardino che dava sulla finestra della casa di Silvia. Da Pascoli a Leopardi, era cambiata la casa ma non l’atmosfera. La muffa era un ricordo lontano e Carlotta era più tranquilla, un generale in pensione. Gabry odiava i comandi e le imposizioni, anche un compito sembrava una violenza, ma poi si salvava con il guizzo di un’idea e fregava tutti, tranne se stessa. Fino a quella mattina. Quella mattina arrivò la nuova insegnante di lettere al posto della prof Tressedi, affetta da una strana malattia che non le faceva più trovare neanche la porta della classe. Gli ultimi giorni la Tressedi, odiosa pedante, vecchia insegnante, aveva un colorito giallognolo e lo sguardo perso nel marasma di un concetto, smarrito, da esprimere. “Secondo me la bastarda sta male. E’ fuori di testa, non lo vedete? Sembra ubriaca e non sa più neanche chi è”
  • 20. Dopo aver pronunciato la frase sentiva il brivido dell’appartenenza e, allora, provava a usare un’ironia sufficiente per uscire dal cerchio dell’emulazione. La paura di fare la stessa fine. Quella che ti fa dispiacere per qualcun altro di cui poco ti frega. Poi respirava forte e ne faceva l’imitazione. Tutti ridevano e lei stava bene. La prof , ancora male. Sempre di più. Fino a che andò in ospedale e più tardi al creatore. Quella mattina, arrivava una supplente e la classe stordita, completamente in silenzio. I ragazzi pensarono a una dea, le ragazze a una smorfiosa e a com’era vestita e Gabry alla sua vita. Da quel giorno fino all’infinito ad un pensiero che le somigliasse davvero. Una botta, uno schianto di tuono, altro che campane, quelle di Carlo, la prima volta,e non era amore, era una cotta. Qui c’era tanto da capire. Troppo per non ascoltare. Per la prima vera grande volta. E da quel momento fu un’immagine allo specchio. Una che volava via, come zucchero a velo sul pandoro al primo morso, l’altra che restava lì, presente in classe per la prima volta. Nel silenzio della novità, l’imbarazzo dell’incipit, qualcosa era successo. Era come una strana riconciliazione con il passato bianco latte, evanescente in quel volto arrossato dalla frase di presentazione, in quegli occhi puntati altezza pupille di Gabry. Perché quando fai una lezione, devi fissarti su un volto, devi concentrare lo sguardo su qualcuno, altrimenti perdi la bussola e cominci a girare a vuoto. Quel viso era Gabry, per la novella prof di lettere. “Io sono la vostra supplente. Per quanto tempo resterò con voi non lo so. Dovremo condividere fatiche e letture, poesia ed interrogazioni…” Silenzio e cenni d’intesa, mentre Gabry restava a guardare ed ascoltare estasiata, come fosse la festa del Santo. Quella creatura decisa e fiera parlava con un tono di voce che lei riconosceva. Forse era il suono della voce della fata di Pinocchio. Forse la mimica di Biancaneve. Forse la mamma della casa nella prateria. Fatto sta che Gabry credeva a quella messianica manifestazione dell’amore. La lezione scorreva come un fiume che non incontra ostacoli. L’attimo era diventato, all’improvviso, eternità. Ma era un’eternità già nota, un vecchio refrain, il sapore dei cibi buoni che sapevano di altri, in un gioco di rimandi. Da quel giorno Gabry andava a scuola volentieri e le ore correvano morbide sulla lavagna, sul registro ordinatamente compilato. E quando Raffaella Catalano spiegava, si apriva un mondo di vocazioni. Fra guerre ed olocausti, Hitler, Ungaretti e Montale, Gabry saliva le scale e ritrovava pure il vecchio giardino, l’orto mai dimenticato.
  • 21. “Abbiamo ricevuto la grazia. Domani vado ad accendere un cero, sei riuscita a prendere nove. Non posso crederci” “Quanto sei spiritosa e sarcastica. Non ti passa mai la voglia di denigrarmi, vero nonna?” “Denigrarti io? Ma se ti ho tirato su a mia immagine e somiglianza! Darei dell’idiota a me stessa, non ti pare?” “Allora vorrà dire che non sei propriamente dolce con me. Trovi sempre parole che suonano brutto…” “Ecco, per esempio, mi dovresti spiegare se questo è il modo di esprimersi. Suonare brutto. Forse sarebbe meglio suonare male, non ti pare?” Gli scontri e gli attacchi erano il piatto del giorno. E più il tempo passava, più le generazioni subivano lo scarto. Anzi, forse il problema era che mancava l’anello che unisse le due catene. Erano vicine, ma non si agganciavano, mai. Catene pronte a legarsi per un destino obbligato oppure incontri di malandati ferri arrugginiti. Accadeva, era il loro limite. Dialoghi senza uscita, monologhi privi di senso, soluzioni momentanee. Parole, incomprensioni, strade incompiute. Certo Gabry telefonava ad ogni cabina per sapere se Carlotta respirava o meno, ma più che una telefonata di cortesia e preoccupazione, sembrava l’attacco sferrato da dentro una trincea. Dall’altra parte Carlotta bofonchiava risposte evasive e infastidite, come se le desse noia che qualcuno, compresa sua nipote, avesse eccessivamente a cuore le sue condizioni. In un giorno di particolare stanchezza, o forse l’aveva fatto apposta, Carlotta perse, in qualche modo, il senno. Si svegliò la mattina ed iniziò ad urtare contro la realtà preferendole l’irrazionale, l’illogico, sfiorando la follia e i suoi corollari. Gabry si stava preparando per la scuola, eccitata come un bambino la vigilia di Natale. Aspettava il regalo e ripensava a quei giorni strani di doni inaspettati. Seduta sul letto a truccarsi, e via. Faceva colazione. Aveva letto che Proust, da una semplice cucciata di biscotti nella tazza del tè, aveva tirato fuori un capolavoro eterno. A lei sembrava di chiedere alla vita molto meno, semplici banalità: qualche ora ad osservare l’angelo della classe, la dispensatrice di benessere. Ed un segno da parte sua: la manifestazione di una speciale predilezione. E invece Carlotta aveva deciso di rovinare tutto e regalarle di nuovo pessimismo e paura di finire sola un’altra squallida, stronza volta.
  • 22. Allo specchio si guardava compiaciuta e si preparava. Simulava espressioni accattivanti e sorrisi d’incanto. Tutto per la poesia. Per la poesia o per la prosa? Domanda che, come un trapano in funzione, sfondava le tempie, ogni minuto del giorno. Che le stava succedendo? Bò. Era puntualmente la risposta che si dava. Cercava spiegazioni, ma era una vita che lo faceva e ne aveva trovate davvero poche. Su tutto e tutti, sulla prima volta, sul primo giorno, su quel letto quella mattina e i regali, su quel viso, sul concorso per la festa della mamma, sulle foto che non c’erano. Sul perché di tante domande. Sulle domande, sulle risposte. Sulle risposte alle domande. Carlotta, intanto, cominciava il suo show, di prima mattina. Era un debutto. “Allora?” “Mi sto preparando, nonna” “Ah,si. E per che cosa?” “Per andare a scuola. E’ tardi, non iniziare a fare l’inquisizione. E’ semplice. Per andare a scuola e comunque per uscire bisogna, come saprai, lavarsi e vestirsi. Non posso andarci nuda. Capisci nona? Nonna mi ascolti o hai avuto una visione. Soffri di incantesimo?” Carlotta sembrava un pesce nell’acquario al quale stavano togliendo l’acqua. Gli occhi erano opachi e le pupille roteavano passando dalla concezione del sistema tolemaico a quello copernicano. “Chi sei tu, qui nella mia camera, davanti al mio specchio? E’ ora che la facciate finita di introdurvi in casa mia. Lasciatemi stare, sono una donna anziana. Tanto i miei soldi non li toccherete. Neanche i miei ricordi riuscirete a portar via. Al massimo vi prenderete il mio dolore, quello ve lo regalo tutto. Una povera donna a cui è morta una figlia giovane, per esempio…vi può bastare?!” Lungo la schiena di Gabry un rigagnolo di acqua gelata, brivido che scorre senza ritegno. Avrebbe voluto fermarlo, perché tanto la nonna stava di sicuro scherzando. La scema si era messa a farle paura. Che palle quando si prendono gioco di te sulle cose serie. Che palle quando tocca ricominciare a stare male e non vorresti. Che palle stratosferiche. “Nonna, che cavolo stai dicendo? Sono io. Tu stamattina hai deciso di prendermi in giro e farmi perdere tempo. Non ti interessa se faccio tardi a scuola? Devo chiamare un neurologo? Preferisci lo psichiatra? Scomodo direttamente Freud o ti accontenti di Jung? Dimmelo, è una tua scelta”
  • 23. Gabry prendeva tempo e lo faceva con le parole. Si appellava a tutta la calma che non aveva, né avrebbe mai avuto. Trovava quegli occhi un incubo vero, di quelli terrificanti, che non riesci a muoverti e svegliarti. Poi le era anche venuto in mente di mettere le mani addosso a quella strana creatura, scuoterla fino a farle riprendere la carica. Ecco cosa ci voleva! Un cazzotto in testa, in piena fontanella. Netto e deciso. Come si faceva ai televisori quando fanno le righe. Ma le righe facevano paura, perché non ci capivi più niente. Perché interrompevano il programma che stavi guardando. Poi, se andava bene, tutto tornava normale e potevi goderti il tuo film. Se andava male, invece, arrivava il tecnico e ti faceva spendere soldi. Se andava peggio, ti diceva di buttare quella scatola vecchia. Il tubo catodico era andato. Forse a Carlotta si era rotto proprio il tubo catodico e se non fosse tornato tutto normale, altro che tecnico! Bisognava chiamare il dottore. Ma quale? Chi? Era sempre lei a sapere di cure e terapie. A sincerarsi che Gabry avesse fatto i vaccini, le analisi e le schifezze varie. Gabry era completamente impreparata a cambiare i ruoli e le sorti. Sarebbe stata la seconda volta e non voleva che lo fosse. Pensava di essersi appena ripresa dalle vicende strane della vita. Voleva ricrearsi un mondo. Basta tutto ‘ sto casino perché era veramente troppo. Chi avrebbe preparato i pranzi e le cene? Chi l’avrebbe aspettata al suo ritorno? Chi avrebbe rotto le scatole ad ogni passo e momento? Chi accidenti avrebbe fatto tutto questo? Le voci sembravano strumenti scordati. Quelle di entrambe. “Nonna, se stai scherzando va bene. Alla fine ti lancio il posacenere e la finiamo qui. Se invece è serio quello che credi di vedere, allora chiamo immediatamente l’ospedale, ti faccio ricoverare e passa la paura che mi stai mettendo. Ok?” Le parole che uscivano erano a sorteggio. Gabry avrebbe voluto essere gentile, ma rabbia e terrore giocavano brutti scherzi e mandavano a farsi benedire dolcezza e pazienza. Quel giorno Gabry non andò a scuola, letteralmente tremò per molte ore. Arrivò un dottore con la faccia da pirla. La barbetta precisa contorno mento, la valigetta e il fonendoscopio che spuntava dalla chiusura di metallo. Entrò nella stanza di Carlotta e bubbolarono come l’inizio di un temporale. Per non farsi sentire, forse. Poi il mago di Oz uscì mentre Gabry era appiccicata alla porta, altezza serratura, per sbirciare ed ascoltare. Non voleva farsi vedere in apprensione da quell’orribile intruso, ma pendeva dalle sue labbra. Voleva un responso certo e sicuro, possibilmente definitivo. “Lei è la nipote, vero?” Le gambe, a volte, non svolgono il proprio ruolo. Non sorreggono, complicano le situazioni. Si liquefanno quando non dovrebbero.
  • 24. “Sua nonna ha avuto un piccolo TIA e…” Gabry sapeva che non doveva interrompere. Era la regola d’oro, forse una delle prime acquisite. Le pareva, però, adesso, di poter fare uno strappo alla regola. Del resto, contravveniva ad una legge trasmessa da chi si permetteva di provare a morire. Figuriamoci se non esisteva il diritto di recedere dal contratto. “Mi scusi dottore, ma non ho capito. Mi perdoni, è grave?” “Accade, ma sta già passando. E’ un attacco ischemico transitorio. Passa, ma ci vorrà cautela e delle cure” Intanto Gabry riprendeva fiato e vita. Un po’, una porzione. Nei giorni seguenti il Tia rientrò e Carlotta pure. Forse si era trattato di un avviso di scadenza, la rata da pagare per il prezzo della vecchiaia e di una vita non bella. La nipote era tornata nipote, non rubava e non si introduceva nelle case altrui, soprattutto in quella sua e della nonna. Carlotta era un po’ pallida e aveva messo da parte l’accaduto. Chiudeva il discorso che apriva Gabry, con una certa insistenza, e diceva “Ero stanca e allora il mio cervello si è riposato senza chiedermi il permesso” Tutto qua. L’immonda paura ridotta a pallottola di carta. A scuola la compagna di Gabry, Valentina, l’informò subito che la supplente aveva chiesto di lei e si era preoccupata per le sue vicende. Ma Gabry perse qualche altro giorno di lezione. Andava a fare la spesa, comperava le medicine segnate a Carlotta dall’orrido puffo e tornava a casa. Contenta per il pericolo scampato. E poi iniziava a sentirsi grande, matura e quasi autonoma. Più o meno. E questo le dava anche il diritto di riflettere sul suo caso specifico. I suoi malesseri, quelli con cui ormai conviveva, erano sempre più saltuari e ora non potevano certo permettersi il lusso di aggravare la situazione. A scuola la supplente, angelo della letteratura, le si era precipitata addosso abbracciandola forte e chiedendole lumi sulla malattia della nonna. In classe, le inenarrabili vicende si erano ingigantite, occupavano tutto lo spazio delle stronzate. Gabry era stata la regista, il deus ex machina delle corbellerie. Per sentirsi più grande, importante e protagonista. La nonna per poco non moriva. Quella era un’incipiente forma di pazzia e lei rischiava di lasciare il liceo per occuparsi dell’anziana malata, suo unico affetto. Sguardi di commozione e troppo pieno il fiume della solidarietà. Gabriella, in fondo, si vergognava della manipolazione, ma era fatta così. Si guardava dentro e scopriva di dover cercare un modo per farsi amare.
  • 25. Ne aveva diritto. Aveva il diritto di arricchire la realtà con la fantasia. Immaginare immagini che arrivavano da sole. Riferirle senza argini. Arrivò l’estate ed arrivò, inevitabile, la fine. “Il prossimo anno non sarò con voi. Torno dalle mie parti. Mi manca il mare e la famiglia” Gabriella riassaporò tutto il marasma. Le arrivò il vecchio odore di bruciato. Pensò alle partenze e alle stazioni e le tornò uno sconosciuto bambino, che poi era femmina, che aspettava alla stazione un treno che doveva arrivare. Per qualche tempo si sedeva sulla panchina rotta e sbiancata dal sole. E lì faceva il conto delle ore, guardava i passeggeri correre per non perdere il treno. Guardava quelli che scendevano e cercava una figura. Non c’era niente di particolare in quella ricerca. Niente. Non c’era neanche un volto specifico, una fisionomia. C’era solo il senso di smarrimento, il bisogno di trovare qualcuno che potesse assomigliare ad un fantasma, quello di una madre. E fantasticava, lei, e forzava le cose. Simulava un incontro e un abbraccio. Stretto, avvinghiante. Come quando si attacca la gomma alle scarpe o si scioglie l’asfalto sulle suole perché è caldo. Poi si alzava con la speranza delusa. Non si sentiva scema, ma sapeva che era tempo sprecato. Quella mattina la supplente dichiarava i suoi intenti e dava inizio ad una nuova sofferenza, alla nostalgia preventiva. E il non capire perché ad ogni affetto corrispondesse una perdita. Quel giorno a pranzo Gabriella restò in silenzio. Masticava e respirava svogliatamente. “Non ti piace la pasta?” “No, non è la pasta. Sono un po’ triste” “Motivo? Un ragazzo?” “Non dire stronzate” “E sii più educata che non ti fa male” E finiva lì il dialogo mozzo, iniziavano i pensieri incontrollabili. Da quel giorno, dopo la fine della scuola, l’estate aveva assunto un tono dimesso e non si faceva sentire. Per niente. Solo musica da ascoltare per farsi male.
  • 26. Da quel momento Gabriella iniziò a riflettere su quanto la vita fosse difficile se la prendi di cuore. Sulla difficoltà di spiegarti perché ti accadono cose strane. E non capisci. Una donna al posto di un uomo. Uomo padre che non c’è. Una madre neppure. Una donna anziana che deve essere tutto a tutti e tre. Un volto da cercare in un altrove. Per ridurre la pena. Fissarsi sull’idea che, da quel momento in poi, sarà la meta non scelta. Ma è. Non spiegarsi perché si sta così male e se è amore o mancanza. Se è un sentimento o un treno senza passeggeri. Se c’è soluzione accomodante o mare in tempesta. Persa nei suoi pensieri, Gabriella continuò a cercare. Volti, corpi, abbracci, labbra e concorsi di disegno sull’ignota fisionomia di un ingresso. Su come è fatta una porta per entrare. Nomi di donna e carte di identità. Altrui. Carlotta visse ancora tanti anni, perché lo doveva fare. Poi anche lei decise, un bel giorno, di partire. Quel bel giorno fu di notte. In un modo originale. .
  • 27. AAA. Cercasi Sento che niente sono se non l’ombra di un volto imperscrutabile nel buio E per assenza esisto Come il vuoto Fernando Pessoa, Una sola moltitudine Cercare dentro i secchioni non era propriamente un divertimento. Cercare dentro i secchi dell’immondizia poteva significare essere folle o sporca dentro e fuori e affamata. Lucia, che all’epoca aveva un altro nome, ogni giorno, a prescindere dall’ora che neanche conosceva, era costretta a dedicarsi a questa poco piacevole attività. Non erano uova di Pasqua con la sorpresa, che non sapeva cosa fossero, ma lì dentro ci trovava ogni ben di Dio o quasi. Certe cose sapevano di schifo, a saper distinguere i sapori. Ma lei non lo sapeva, doveva solo riempire uno stomachino gonfio e scuro, con l’ombelico sporgente. Lì dentro c’era anche da coprirsi, a volte. Un pezzo di stoffa, una scarpa, un ramo e un filo per agganciare i tesori trovati. E poi, se ti diceva culo, potevi anche trovare una base su cui sederti, per evitare gli escrementi che stavano in terra. Qualcosa dei tesori avevano in dotazione i cani randagi. Scheletrici giravano veloci e usurpavano i suoi trofei. O Lucia usurpava i loro. Lottavano per riuscire a rosicchiare l’irriconoscibile cibo di sostentamento. E poi c’erano gli uomini. Quando Lucia trovava tesori succulenti, si metteva a correre perché nessuno li sottraesse, né uomini né bestie. Quando calava la notte, Lucia, siccome era piccola, si infilava dentro uno di quei secchioni puzzolenti, svuotati ed ormai orizzontali. Le narici erano abituate, non si poteva andare tanto per il sottile. Non si poteva neanche parlare, bastavano i versi, come quelli degli animali, per far capire che il secchio era già occupato.
  • 28. Lucia sognava, certe volte, belle situazioni. Di partire, andare lontano da quello schifo terribile, da quella solitudine. Sognava che qualcuno la aiutasse, la sfamasse ed addirittura abbracciasse la sua pelle scura, sporca e piena di buchi neri, bruciature di sigarette, più neri della pelle nera. La sua. Chi l’abbracciava era sempre qualcuno di vero, autentico, non era soltanto un’immagine, era un corpo. Era una persona più grande di lei, alta più di lei, anche perché Lucia era bassa e sembrava più piccola di quello che, forse, era. Lei infatti non sapeva la sua età. Chi l’abbracciava aveva la sua stessa pelle e capelli neri lunghi ai quali aggrapparsi e da lì piangere e ridere. Altro che il secchio puzzolente. Altro, che. Chi la teneva per mano, nel sogno infinito di notte nel secchio, aveva mani lunghe e rassicuranti. Le dita si intrecciavano alle sue e formavano una trama mai provata. Chi la cullava, fra le sue braccia, nel secchio di sogno, era chi, in realtà aveva abdicato ad ogni velleità di madre. Costretta a farlo, senza possibilità di scelta. All’alba la luce filtrava attraverso il grande, grigio coperchio del cassonetto ed ogni sogno svaniva. In un attimo, nonostante le poche energie, la scimmietta Lucia, magra come un ramo secco, si tuffava fuori con i piedi nudi in terra ed iniziava a farli camminare. Poi vennero giorni diversi in una stanza che sembrava comoda e strana. Al posto del secchio, un letto. Vero. E tante suore vestite di celeste. Altri bambini e colazioni con il latte e biscotti. Veri. Un altro giorno un signore profumato di colonia arrivò con una donna, con i capelli quasi lunghi, sulle spalle, e un sorriso di quelli che si sognano la notte. Lucia pensava di aver dormito troppo, di essere malata di avere qualcosa che non andava nella testa. Un sogno lungo un treno che non aveva mai visto. Un sogno veloce e lento come il volo di un aereo che non aveva mai preso. Il rumore nella testa era assordante, forse era la fine di tutto. Quel qualcosa che qualcuno chiama morte. Dove la stavano portando quei due? La donna la stringeva e lei si sentiva protetta. Ma chi era e cosa voleva? Lucia, cagnolino bastardo in balia di mani sconosciute che afferranno e accarezzano finchè non ti scacciano di nuovo. Pussa via. Il cagnolino veniva trasportato come chi non ha potere per decidere. Però quella mano di donna era uguale al sogno sognato, solo bianca con lo smalto rosso. Era un paradiso o un’agonia quello che Lucia provava, e si confondevano.
  • 29. I giorni di dopo avevano sempre quel sapore. I nuovi genitori avevano la casa bella, tante cose da mangiare e per lavarsi, la voce gentile, gli occhi buoni, giocattoli e vestiti rosa tutti per lei. Tanti, troppi. Certe volte gridava e faceva i versi per far uscire il brivido dentro e tante cose che non riusciva a dire. Perché non conosceva quella lingua, che non era la sua. C’era anche la televisione, che aveva visto per la prima volta dalle suore ed aveva avuto un po’ paura di tutte quelle immagini di gente che parlava e si muoveva, proprio come succedeva nella realtà. Insomma, in quel periodo faceva tante cose che neanche riusciva ad aver paura, né fame o sete. Era come se tutto arrivasse prima di ogni richiesta. La faccenda più curiosa era che non la chiamavano più India, come avevano fatto le suore, ma Lucia e lei presto capì che nessuno di quei nomi era il suo, quello vero, con il quale la sua vera mamma l’aveva pensata. Altra novità era che adesso andava a scuola con altri bambini e c’era una signora che parlava ed era gentile anche lei e la chiamavano maestra o signora maestra. Lì c’era di che divertirsi, ma imparare era una gran fatica. Una volta tornata a casa mangiava e le veniva un gran sonno e allora faceva tutti i sogni più belli del mondo sul morbido che odorava di sapone e non di immondizia. C’era anche il cuscino per alzare la testa. Poi i bambini erano diventati tutti più alti e qualcuno aveva cambiato voce e il pomeriggio venivano a casa sua a studiare e c’erano le merende della donna che chiamava mamma che erano davvero buone. Ormai leggere, scrivere e parlare erano un fatto naturale. Come fare la pipì. Alla festa dei presunti diciotto anni, in un giorno e in un mese di fantasia, c’erano tutti gli amici e quelli che si facevano chiamare zio, zia, nonno e nonna. Era riuscita bene, ma qualcosa era successo. Fra gli amici, un ragazzo bellissimo che aveva la pelle come la sua. Lucia gli aveva chiesto di chiamarla India, ma solo di nascosto. Erano tanti anni che voleva di nuovo sentirsi chiamare con quel nome. E se poteva baciarlo ed avvertire un brivido, voleva dire che si poteva proprio fidare. Lui si chiamava Rajesh e aveva i capelli un po’ verdi davanti e neri dietro, sulla nuca. Aveva anche delle palline color argento sulla lingua e sul sopracciglio destro. Sul braccio un tatuaggio che mostrava con orgoglio. A Lucia non piaceva granchè quello scarabocchio e non ne capiva il significato. Ma la cotta passava attraverso altri abbellimenti, gli occhi verdi di Rajesh e la sua parlantina sciolta. Lui leggeva tanti di quei libri che, l’anno dopo, sarebbe andato di sicuro all’università e lei voleva seguirlo. Faceva certi discorsi seri che India Lucia provava a seguire, come Pollicino le briciole di pane. Ma era difficile e a volte si perdeva. Allora provava a tirare qualche boccata di quel fumo che lui era capace di preparare. Rollava bene una cartina,
  • 30. spezzava il blocchetto duro e usava l’accendino. Faceva un giro strano con le mani. Era un artista provetto. Veniva fuori un siluro che dava spensieratezza e forza e ti faceva andare lontano. Poi c’erano le parole, quelle belle e difficili. Rajesh parlava di filosofia perché aveva sempre otto e l’insegnante gli faceva i complimenti e poi lo sgridava di brutto per i capelli e il tatuaggio e le palline argentate. Papà e mamma cominciavano a rompere un po’. Non è che ce l’avessero con lei, ma non volevano quel coso fra i piedi e la loro voce cambiava, diventava più dura e certe volte le dicevano di non farlo venire a casa a studiare e non la facevano neanche più uscire con lui. Una sera Lucia, India, stava mangiando l’insalata. Aveva la nausea, le girava la testa. Sentiva il vuoto in testa e nello stomaco. Era come se le avessero tolto la linfa. Gli adottivi parlavano, parlavano, parlavano. Lucia India cercava di partecipare al più e al meno e di mantenere il filo del discorso. Le sue mani però non trattenevano nulla, neanche la forchetta, figurarsi le parole. Sembrava che tutto si muovesse seguendo un ritmo alterato, prima al rallentatore, poi troppo in fretta. Non era una bella sensazione, perché Lucia si doveva mostrare normale e dare delle risposte che invece venivano fuori confuse e storte, come rami d’albero deviati dal vento. Era una fatica enorme essere così storta, ma restare finta dritta, fingersi attenta nonostante l’insensatezza, partecipe, ma invece annientata dal senso di fine dei giorni e dal vomito imminente. Dopo tanti sforzi ed improvvisamente nessuna risposta a domande sempre più insistenti, il viso di Lucia India sprofondava inesorabilmente, irreversibilmente dentro il piatto fra l’olio e l’aceto, pesante come un macigno scaraventato fra verdi foglie di lattuga. Stop. Silenzio. Nessuna parola in entrata o in uscita. Silenzio di tutti. Tutto sospeso. Lucia si risvegliò sdraiata in un letto bianco più stretto del suo. Intorno uomini e donne bianchi di pelle e nei vestiti. Vicino c’era mamma con gli occhi bagnati. Non era proprio un’alluvione, sembrava un temporale appena terminato, l’odore di umido da respirare. Non parlava, le stringeva solo la mano con la stessa forza e tenerezza di quel giorno in aereo. Gli altri parlottavano piano, sembrava rispetto.
  • 31. Poi arrivò papà che aveva il viso tirato e pallido. Quando entrò nella stanza abbracciò forte mamma, si strinsero e qualcuno singhiozzava in un pianto a dirotto. Tutti i signori bianchi che parlavano piano scomparvero e India sentì il profumo inconfondibile della sua immondizia che tornava a trovarla. Sembrava un incubo. Invece era la realtà, ma provò a far finta di niente e richiuse lentamente gli occhi per non esserci, ferma come un sasso perché nessuno notasse la sua presenza. Respirava piano per restare in segreto. “Mi spieghi perché si è ridotta così? Mi dici dove abbiamo sbagliato? Le abbiamo dato tutto, tutto quello e di più di quello che potevamo. Ma che le è mancato, che le manca?” Papà piangeva come una fontana e si capiva anche a occhi chiusi. La scena era da brivido. Un male dentro, ma Lucia doveva restare in silenzio. Da tanto aspettava la botta, quella famosa che aveva sempre portata con sé, latente. Era arrivata. E c’erano le parole da ascoltare. Sarebbero arrivate di lì a poco. E chi ce l’ha fatto fare, neanche è figlia nostra. E’ una bastarda, chissà chi era la madre, quella vera. Una disgraziata incosciente come lei. Sarebbe stato meglio se fosse rimasta dov’era… Invece era soltanto acqua salata che sgorgava, per entrambi, papà e mamma abbracciati come rampicanti al muro del giardino, con i ragni che si impigliavano, l’odore di vaga muffa e dell’estate che stava per tornare, come sempre. C’era il mare che Lucia aveva visto grazie a loro, c’era la canna da pesca da lanciare, c’era la parolaccia per il filo intrecciato. C’erano ancora quelle mani che ora se ne stavano timidamente lontane, a cercare il loro perché. Lucia sentiva che era necessario parlare, era troppo tardi per non dire. Bastava aprire la bocca secca e scartare le frasi cattive. Lasciare uscire le buone. “Io…io…cercavo solo di…” Gli occhi ancora chiusi, la lingua inchiodata al palato. “Io… vi chiedo scusa. Non l’ho fatto apposta…” Le parole di Lucia uscivano ora, fluide come liquidi. Avevano un so che di incredibile, lei stessa non riusciva a credersi. E dietro c’erano concetti a tutto tondo, chiari e ben esposti; nessun mugolio, grida indefinite, versi animaleschi. “Non mi è mai mancato niente e voi non avete commesso alcun errore. Non ero abituata a tanto. L’unica cosa che mi manca, che mi è mancata è lei. Loro, ma più lei” “Lei chi?”
  • 32. Le domande cadono a terra con un tonfo, quasi ogni volta che se ne conosce la risposta. Ma, una volta partite, è difficile che restino sospese in aria. Anche quando si vorrebbe che tornassero indietro. “Lei, mia madre. Quella ver…” “Vera, vero?” “ Ho fatto finta di niente per tanto tempo. Soffocavo, mi mancava l’aria, annaspavo e non ne capivo la ragione. Mi sentivo fuori posto. Sola in mezzo agli altri, anche con voi. Estranea. Poi ho compreso che avevo un gran bisogno di sapere da chi sono nata, chi era, o forse è, mia madre. Ho tutto eppure c’è sempre il vuoto di un’immagine, un nome, un ricordo. Niente. Cancellato dalla mente. Non so se qualche volta lei mi cerca, se mi pensa…e non ricordo neanche più l’India, gli uomini che mi spegnevano le sigarette sulle mani se non facevo quello che mi dicevano, se sottraevo il loro cibo… Io vorrei tornare lì, per cercarmi, per capire…” Qualche anno dopo la psicologa ascoltava il racconto di Lucia, si vedeva che capiva. Captava anche il giusto tempo del silenzio, quando ogni parola era superflua. Sembrava capirlo, lei, che a volte la vita ha bisogno di risalire, di andare all’indietro. Lucia aveva letto da qualche parte che i salmoni, quell’anno, per cause attribuite al clima, risalirono la corrente con tanta fatica. Dopo un grande affanno in molti si dimenarono nelle reti degli uomini, non trovarono una via d’uscita e finirono nei piatti. Altri, raggiunsero la meta. Poi, cadde la pioggia, cambiò stagione e tutto ricominciò da capo.
  • 33. Le madri e la psicoanalisi “L’essere (o avere) corpo e l’essere (o avere) parola si formano insieme e l’opera della madre consiste propriamente in quell’insieme”. Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre Tutto il pensiero psicoanalitico moderno post-freudiano si è sviluppato nella cifra del materno. Bowlby ha parlato dei modelli di attaccamento primario alla madre come matrici di ogni successiva modalità di relazione affettiva; Margaret Mahler, nella sua interpretazione dell’autismo infantile, ha postulato un’originaria simbiosi madre- bambino; Donald Winnicott la necessità di una madre “sufficientemente buona” per un sano sviluppo psicologico e cognitivo e ha identificato il corpo materno con il primo “ambiente” del bambino; Wilfred Bion ha messo in risalto la funzione di “reverie” materna come capacità di ospitare il bambino nella propria mente. Fondamentale è stato poi l’apporto di Melanie Klein, che ha teorizzato una primitiva scissione fra “seno buono” e “seno cattivo”, gettando così le basi per la comprensione dell’ambivalenza affettiva che caratterizza il rapporto con la madre. Nessuno di questi autori si è occupato però di una eventuale differenziazione fra maschi e femmine per quanto riguarda i processi ipotizzati e descritti. A partire dai primi nuclei identificativi pre-edipici, l’evoluzione dell’identità femminile segue ovviamente un percorso diverso da quello maschile. La bambina deve al contempo abbandonare l’oggetto d’amore primario, che è, come per il maschio, la madre e rivolgersi al padre, “disidentificandosi” da lei per raggiungere la sua autonomia di donna. Le modalità di separazione-individuazione contrassegnano per la ragazza un passaggio difficile, che spesso non giunge a compimento per tutta la durata della vita. Secondo Julia Kristeva (1) il matricidio simbolico, l’uccisione metaforica della madre, sono indispensabili per accedere alla separatezza ed all’affermazione di sé. La ragazza deve in sostanza ripudiare la propria madre, rifiutarla come modello, per poter trovare se stessa. Non sono altrimenti percorribili altre strade se non quella di una perdurante identificazione simbiotica. Melanie Klein (2) evidenzia la paralisi della capacità di simbolizzazione nel caso in cui l’attaccamento alla madre abbia la meglio sulla necessità di separarsene, affrontando la perdita del primo oggetto d’amore. E’ la perdita, afferma anche la Kristeva, che spinge a simbolizzare la cosa perduta e consente il pensiero.
  • 34. L’immaginario appare dunque, nelle concezioni della Klein e della Kristeva, fortemente dipendente dalle vicissitudini connesse alla relazione primaria con la madre e con il “dentro-fuori” il suo corpo. Il maschio non perderà mai del tutto la madre, ritrovandola simbolicamente e materialmente in altre donne. La” teoria della differenza sessuale” compie un balzo teorico notevolissimo perché afferma per il soggetto femminile la possibilità di “rimanere al cospetto della madre”, riconoscendone l’autorevolezza e superando l’ambivalenza, mantenendo comunque la capacità di distinguersi da lei e spostando l’amore sull’alterità costituita dal maschile. La capacità relazionale verrebbe, secondo la Irigaray (3), enormemente potenziata dall’apprezzamento e dalla costituzione di “genealogie femminili”. La dialettica io-tu fra maschile e femminile ne sarebbe di conseguenza incentivata nelle sue potenzialità relazionali, non più conflittuali. Fin qui, costrutti teorici forse anche di difficile comprensione per i “non addetti ai lavori”. E’ vero però che la psicologia della donna è senza dubbio del tutto differente da quella maschile. L’identità di una persona è sempre sessuata; l’appartenenza biologica, anatomica e culturale a un genere o all’altro ne è certamente il principale fondamento. Il pensiero della donna, il suo modo di stare al mondo,a partire dal corpo, sono infatti peculiari e “differenti”. La “teoria della differenza sessuale”, le cui più note esponenti sono Luce Irigaray per la teoria psicoanalitica e Luisa Muraro per la filosofia (4), pone al centro della propria speculazione la figura materna, al contempo intesa come madre di ciascuna e come “matrice simbolica” dell’esistente, “luogo dell’origine”: “La figura della madre è il rapporto con l’identico per ogni donna, ma anche con la differenza dell’altro da sé per ogni essere umano, sebbene diversamente per un uomo o una donna. Quello con la madre è insomma il rapporto in cui la dinamica fra identità e differenza è ineludibile nell’esperienza individuale”(5). Restituire valore e autorevolezza alla madre, significa assegnare altrettanto valore e riconoscimento alla propria appartenenza di genere, operare un ribaltamento della trasmissione patrilineare e “patronimica” della cultura e dei saperi, sostanziando genealogie femminili. Per comprendere pienamente le implicazioni teoriche di tale assunto è necessario introdurre sinteticamente il pensiero di Jacques Lacan, del quale la Irigaray era un’allieva, poi dissidente e scismatica.
  • 35. Secondo Lacan, ogni soggetto è sottoposto a tre ordini: quello del Reale, del Simbolico e dell’Immaginario, la cui accessibilità è condizionata e resa possibile dalla funzione paterna, che è perciò di fondamentale importanza in ambito sociale e psichico. In ambito sociale essa è inscritta nelle leggi giuridiche applicate alla genealogia, alla filiazione (patronimico, ovvero trasmissione del cognome in linea paterna), all’alleanza e, più generalmente, alla parentela. In ambito psichico, invece, la funzione paterna si inscrive in ciascuno/a, qualsiasi sia la realtà dell’uomo che incarna il padre: “E’ nel nome del padre che dobbiamo riconoscere il supporto della funzione simbolica, che dal sorgere dei tempi storici identifica la propria persona con la figura della legge”(6). Affinchè l’individuo sia legittimato dalla funzione paterna, il “posto occupato dal padre” deve essere riconosciuto dalla madre: “Ciò su cui vogliamo insistere è che conviene occuparsi non soltanto del modo in cui la madre si colloca in rapporto alla persona del padre, ma dell’uso che ella fa della sua parola, diciamo il termine giusto, della sua autorità, in altri termini del posto che riserva al Nome-del-Padre nella promozione della legge”(7). La madre ha integrato il Nome-del-Padre quando accetta che il padre, con il suo intervento, scacci il bambino dalla “posizione duale mortifera” (8), che consiste nel “prendersi per il fallo della madre” (9). Il bambino nasce da un particolare desiderio ed è inserito, già prima della nascita, in una rete linguistica . Egli “non parlerà” se non a partire da tale rete, autentica catena significante. In tale catena, appare evidente che il testo inconscio preesiste e persiste ben oltre il testo conscio. Nella sua relazione con il linguaggio, l’individuo non dispone, per quanto lo desideri ardentemente, dell’insieme dei significanti che lo hanno reso capace di parlare (l’ “Origine”, in Luisa Muraro), tale insieme è la risultante dei discorsi consci e inconsci dei suoi ascendenti (la genealogia, la parentela) ed è rappresentato dai padri, si trasmette per via maschile così come la cultura e il sociale, nei quali la storia del soggetto si inscrive. Egli dovrà perciò ripercorrere e superare, tramite il proprio desiderio, le tracce del discorso inconscio di cui è, a propria volta, un significante. Le diverse modalità di inserzione nella catena significante spiegano allora le differenze a livello della struttura psichica: nevrosi, psicosi o “normalità”. Il sintomo ha per Lacan la funzione di esprimere la questione principale per l’individuo, in riferimento al posto in cui era collocato prima di venire al mondo “come corpo”, lo spazio simbolico occupato, il posto, dice Lacan, “pre-occupato”. Il ribaltamento concettuale delle teorie lacaniane effettuato dalla Irigaray consiste principalmente nel fatto che l’inscrizione del soggetto nei tre ordini Reale, Simbolico ed Immaginario, avviene in verità per “via materna”, per tramite della madre, anziché del padre.
  • 36. Il Luogo dell’Origine è per ciascuno il corpo della madre ed è soprattutto nelle sue reti di desideri e pensieri, consci e inconsci, e attraverso genealogie femminili che si configura il nostro spazio nel mondo, il “posto” che in esso occupiamo. Lo stesso termine “generare” può essere usato nella doppia accezione di “mettere al mondo, creare” e “indurre, motivare a, muovere verso”. Generare conoscenza, saperi, competenze è la più precoce fra le attività materne, della quale spesso le madri hanno “istinto”, ma non consapevolezza. Restituire autorevolezza alla madre vuol dire superare le attribuzioni contraddittorie di responsabilità-iperinfluenza e secondarietà-impotenza, espresse da tutta l’elaborazione teorica psicologica e psicoanalitica del novecento. Nella restituzione di dignità alla madre “…la singolarità femminile si stempera nella somiglianza e cerca in essa quel valore, negato dall’autorità patriarcale e dai suoi codici societari, in grado di sottrarre l’essere donna all’insignificanza”(10). 1- Kristeva J., The Maternal Body, in “m/f” nn.5-6, 1981 2- Klein M., Invidia e gratitudine (1928), Martinelli, Firenze 1965 3- Irigaray L., Etica della differenza sessuale (1984), Feltrinelli, Milano 1985 ed altre op. cit. in bibliografia 4- Muraro L., L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1991 ed altre op. cit. in bibliografia 5- Boccia M.L., La differenza politica. Donne e cittadinanza, Il Saggiatore, Milano 2002, p.83 6- Lacan J., Scritti, Einaudi, Torino 1974, vol.I, p.271
  • 37. 7- Ibidem, vol.II, p.575 8- Ibidem, vol.II, p.576 9- Ibidem, vol.II, p.5761 10- Boccia M.L., op. cit., p.84
  • 38. Volare via – L’eccesso femminile “…Laggiù nel manicomio dove le urla venivano attutite da sanguinari cuscini, laggiù tu vedevi Iddio non so, tra le traslucide idee della tua grande follia Iddio ti compariva e il tuo corpo andava in briciole, delle briciole a devastare sciami di rondini improvvise” Alda Merini, Laggiù dove morivano i dannati A volte il desiderio è quello di volare via. Alleggerire il bagaglio, il cui peso è diventato intollerabile, e dislocarsi in un’altra dimensione al di là dei costrittivi confini del reale. In alcuni casi, quando la fatica di vivere non trova risorse e l’Io ne risulta troppo impoverito, è suicidio, volontario o mascherato da incidente o malattia. In altri, delirio, episodio francamente psicotico o manifestazione eclatante di un grave disturbo della personalità. Etichette, diagnosi per far rientrare, con forzature anche evidenti, la soggettività in un “quadro” clinico, in una cornice ciò che ne deborda. Tale è stato il caso di Valentina, il cui rapporto con l’ “Angelo necessario” le è costato tre TSO (Trattamenti Sanitari Obbligatori), ovvero ricoveri presso i Servizi di Igiene Mentale, pesanti terapie farmacologiche e le conseguenze di un grave e invalidante incidente stradale (tentato suicidio mascherato?), che fortunatamente non si è concluso con la morte come nell’epilogo immaginato da Simona, ma poteva. L’eccesso, il misurarsi con i limiti, sfidandoli, oltrepassandoli sono caratteristiche diffuse nei disagi psicologici più frequenti al femminile come l’alcolismo, i disturbi del comportamento alimentare ( anoressia, bulimia), gli episodi psicotici delle depressioni post- partum, le nevrosi ossessivo-compulsive, le dipendenze in generale, anche affettive.
  • 39. A volte sembra che le donne per esprimersi non trovino altri modi che trasgredire ed eccedere la norma. La specifica “estraneità” femminile diviene allora comportamento da sanzionare o patologia da sanare. L’eccesso spesso rappresenta l’ingresso in uno stato panico, in cui a prevalere sulla realtà e i suoi limiti sono l’indifferenziato e l’orgiastico, “baccanali” senza/oltre misura, durante i quali i confini dell’io sono annullati in una momentanea ed illusoria fusione (con-fusione) con il tutto. Ancora una volta a manifestarsi è la ricerca spasmodica di un assoluto, l’affermazione della totalità sulla separatezza, dell’appartenenza sulla estraneità, di un grembo protettivo, in sostanza, nel quale rientrare o dal quale non uscire. Un bisogno di nutrimento simbolico e di trascendenza. Le cause sono la solitudine, la percezione della propria diversità, l’assenza di relazioni significative. Il delirio di Valentina è stato generato dall’isolamento e dalla perdita di contatto con altri coinvolti nel suo stesso codice affettivo. A mancare sono state le reti parentali che non hanno supportato il suo fragile e incompleto senso di identità, la continuità con se stessa una volta venute meno le figure di riferimento. Il suo “angelo”, come l’amico immaginario di molti bambini, è nato da una funzione proiettiva che ha creato un “doppio” per riempire un vuoto insostenibile. La solitudine femminile è culturalmente definita come privativa. E’ un deserto senza meditazione, è vuoto assoluto. Mentre per l’uomo è spesso il frutto di una scelta consapevole e transitoria, dalla donna è subita e vissuta come definitiva e ineluttabile. Non è uno spazio di elaborazione delle idee in senso filosofico né di riflessione sulla propria identità, ma anzi frequentemente ipostatizza la percezione di inesistenza e di privazione. Scrive Gabriela Marazzita: “Il soggetto forte, quello maschile, non teme la solitudine, ne ha bisogno per individuarsi, ritagliarsi su uno sfondo e organizzare, in modo sistematico, il proprio pensiero”(1). La solitudine è quasi sempre per la donna un abbandono, un lutto per le possibilità perdute, le potenzialità non realizzate. Secondo Resnik (2) anche la psicosi è un lutto non elaborato; il delirio un tentativo di risolvere una depressione originaria. Quanto ai contenuti ideativi, nella maggior parte dei casi hanno a che fare con il “Sacro”, il trascendente, la rivelazione. Alcuni studi evidenziano il nesso fra precoci esperienze di lutto e vocazione al misticismo (3): quando la perdita di un genitore, in particolare la madre, sopraggiunge nell’infanzia, può svilupparsi una penosa sensazione d’abbandono che facilmente conduce alla ricerca di un interlocutore eterno e immortale. Esempi celebri sono Teresa D’Avila, la cui vita religiosa iniziò all’età di dodici anni nell’immediatezza della morte della madre e Martin Buber, abbandonato dalla madre a soli tre anni. Attenuare il dolore della perdita è una strategia difensiva e consolatoria dell’Io. Oltrepassare i limiti
  • 40. dell’individualità personale per espandersi fuori di sé in una comunione totalizzante con il divino è certamente la base antropologica di tante psicosi acute a carattere regressivo (4). La differenza fra autentica crisi mistica e psicosi risiederebbe nella capacità dell’Io di tollerare la complessità dell’esperienza e la sua “eccedenza” rispetto alla realtà. Nella vita di Valentina a un certo punto si manifesta il “numinoso” (5) nella forma di un angelo che le comunica il suo nome. Si tratta di un “Angelo straniero”, Xeniel da “xeno”: estraneo. Come un “ doppio” rappresenta il suo stesso processo di estraneazione da una realtà di solitudine e progressiva emarginazione, divenuta ormai ingestibile. Lo “straniero” che alberga in ognuno di noi indica la necessità di confrontarci con quanto ci è ignoto, di ridefinire la nostra identità. La psicoterapia interroga lo straniero, l’Ombra junghiana, per comprenderne il nome e il nuovo, la scelta e la via futura che archetipicamente rappresenta. Essere “stranieri”, estranei, vuol dire rinunciare alle certezze e lasciare spazio ad altre possibilità. Xeniel è un angelo, figura alata che richiama Mercurio, Hermes, nelle sue funzioni di messaggero degli dei, messaggero dei contenuti psicoidi archetipici che, dall’ inconscio, stanno inflazionando il debole Io di Valentina fino alla tracimazione, allo straripamento nel delirio. Caratteristica del Sacro è che contiene sempre un riferimento all’orrendo, al tremendo, alle potenze non controllabili dalla coscienza. Xeniel si presenta come un angelo custode, ma rappresenta anche il demone personale di Valentina, la sua incapacità di far fronte alle richieste del reale, di adeguarsi al suo Ordine. L’aspetto immaginale, in casi come questo, sopraffà e inflaziona il soggetto, lo trascina nel vortice primordiale e caotico del delirio. 1- Marazzita Marsili G. in AA.VV., Imparare dalle donne, Comune di Terni Progetto Donna Centro Culturale Virginia Woolf Università delle Donne gruppoB, Tipolitografia Visconti, Terni 1992, p.120 2- Resnik S., L’esperienza psicotica, Bollati Boringheri, Torino 1986 3- Stanghellini G., Ballerini A., Ossessione e Rivelazione, Bollati Boringhieri, Torino 1992
  • 41. 4- Ibidem 5- Per “numinoso” Jung intende il manifestarsi di un Numen, ovvero di un contenuto archetipico che irrompe nella coscienza con le qualità di un oggetto visibile e l’influsso di una presenza invisibile e crea un particolare cambiamento nella coscienza. Si vedano op. cit. in bibliografia
  • 42. L’Angelo Straniero Angelo di Dio, che sei il mio custode, proteggi, custodisci, governa me, che ti fui affidato dalla Grazia del Signore Amen Preghiera all’Angelo Custode Valentina ha sempre avuto gli occhi chiari. Cerulei, come la carta d’identità dichiara e conferma. Segni particolari: nessuno. Valentina ha piedi lunghi come panfili. Le lentiggini rallegrano l’aspetto rigido e austero dei giorni dispari, solare e ridanciano di quelli pari. Valentina ha un po’ di fidanzati, alcuni i giorni dispari, altri quelli pari. Ma nessun amore vero. Altrimenti, forse, ne avrebbe uno. Solo. Valentina studia architettura perché pensa che le strade e le case siano importanti. Soprattutto le case che ti accolgono. Che sono come nidi. Che sono proprio tue. E colorate, possibilmente. Lei gira per la città, spesso con un cappello che le trattiene le idee. Non le lascia scappare, perché le idee, se vengono, bisogna tenersele strette. Quando si specchia nelle vetrine si trova bella e affascinante, alcuni giorni, altri si sente brutta da far paura, ridicola e scema. Non si piace e si detesta che sputerebbe su quel vetro maledetto che le conferma quanto la bellezza conti per sentirsi importanti e sicuri. In città come nel mondo. E il mondo e la città non stanno dando buoni frutti, anzi. C’è la noia che spunta fuori dai tombini. Ci sono le giornate vuote e piene di niente. C’è la voglia di inventare qualcosa e leggere di situazioni irreali che ti rapiscono. E speri avvengano. Presto. In città, come nel mondo, non accade poi molto e Valentina spera sempre di sbagliarsi, prima o poi. Meglio prima che poi.
  • 43. Accanto camminano una madre e una zia. Una a destra, l’altra a sinistra e lei al centro. Come i gendarmi di Pinocchio. Si somigliano tutte e tre. Sembrano pazze all’unisono, con il volto da folli. Gli occhi grandi, tutti cerulei, tranne uno, della zia Camilla che è nero, come la pece. E’proprio da quel buco dell’ozono, quella zona vuota e troppo piena che esce la follia, la natura eclettica delle situazioni che Camilla vive e immagina. Valeria, la sorella, madre di Valentina, è diversa, un po’. Ha preferito darsi una regolata, fare una vita quasi normale. C’è riuscita fino a un certo punto. Si è sposata, l’uomo sbagliato. Ha fatto una figlia, sbagliata anche quella. Ha provato ad essere madre, non c’è riuscita. Mai. Neanche un secondo. Lei era una bambina, ancora. Per tutta la vita. Una pupa. Una ragazzina capricciosa, legata alle immagini che non erano. Alle fantasie che sostavano. Cambiava pannolini, bianchi e marroni, toglieva la cacca dal culetto di Valentina, ma era altrove. Era sulla rotonda a ballare, era sul palcoscenico a recitare, era dentro un sogno, a realizzarlo. Era al centro dell’attenzione di tutti, era sopra una barca di pescatori a mangiare pesce fresco con l’amore della sua vita. E non era. Era al supermercato ad incazzarsi per i prezzi, per i soldi, che non aveva, perché non trovava quello che cercava e il latte l’avevano spostato nell’altro reparto. La madre di Valentina era oltre. Viaggiava dentro pensieri solo suoi. E poi si ritrovava a spingere un carrozzino e parlare di vaccinazioni. I gendarmi, ad un certo punto, cominciarono a lasciare la presa. la stretta del braccio destro dell’una, sinistro dell’altra. E Valentina fece la parte del cagnolino con il guinzaglio scorrevole. Poteva cominciare anche a salire sull’aiuola da sola, con qualche metro di filo. Mai ragazzi al seguito, poche amiche e tanta voglia di specchiarsi nelle vetrine. Le restava dentro il pensiero che da quei vetri sarebbe, prima o poi, uscita la sorpresa. Nell’immagine riflessa, almeno.
  • 44. Almeno. Riflessa. Le vetrine negli anni si allungavano, allargavano e si prendevano lo spazio per poter esporre più merce. Dentro le commesse, fuori la gente che si specchiava, si aggiustava capelli, baveri e cravatte. Tutti a curarsi, a badare all’immagine. Riflessa. Valentina, crescendo, conservò la sua passione e il cappello a larghe falde, il basco, il berretto di lana modello coach in pensione. Donavano alla sua immagine, riflessa, carisma e autostima. Sola, ma sola perfetta. Bella a giorni alterni, brutta nei rimanenti. Dipendeva dalle vetrine, dai vetri più o meno fumè, dal glass, dal mare di specoli irrisolti. Al termine di un’idea fissa cui non hai più pensato, sulla soglia di una decisione, quella di smettere di illudersi che qualcosa avvenga, prima o poi, sul cornicione dell’irresistibile desiderio di farla finita con un pensiero, il gran giorno si presentò arido e secco, come sempre. Però c’era qualcosa di strano, almeno un po’ inquietante, diciamo. Un abile regista, il più famoso di tutti, tolse di scena i due gendarmi e lasciò Valentina, sola a specchiarsi. Madre e zia partirono per un lungo viaggio. Restava lei, una città, il mondo, le vetrine unica salvezza. E poi ogni cosa diventa racconto, fiaba, folletti e gnomi minuscoli che si insinuano fra la verità e vincono, sino a diventare bugiarde trasfigurazioni di una realtà. Cattiva. Una realtà intollerabile. Accanto alla tomba di sua madre e sua zia. Le foto. Belle, ma già malate. I tratti somatici di chi ha sofferto in silenzio e c’ha saputo fare. Un riquadro rotondo, una vita che è andata. Via. Volata chissà dove, tutti se lo chiedono. I fiori e il marmo. Il freddo. Poi c’è la storia, più in là. Discreta e latente, ma fa piacere appartenerle. Ti fa sentire immortale, autentico e indispensabile, come un essere umano può credere di essere. Niente, tutto finto. E’ passaggio di una nuvola.
  • 45. Accanto all’umidità delle tombe, all’odore di erba tagliata da poco, accanto d’improvviso un uccello enorme. Misura umana, oltre. Ancora più grande. Immenso, disse chi lo vide, quel giorno. Valentina soltanto, il privilegio dell’incontro. Accanto, a dirle che la solitudine è come l’afa, il caldo torrido che sente. Una semplice percezione, un condizionamento e nulla più. “Non temere, non temermi…” Come da iconografia, come nell’Annunciazione. A Valentina tremano le gambe mentre una musica lontana si avvicina e chiede permesso. Lei annuisce, impaurita ma pronta. E’ il suo momento. “Chi sei?” “Non temere…”, ancora. “Comprendo la perplessità, ma sono innocuo, addirittura benefico…” “Che vuoi da me?” “Non mi è concesso volere, scegliere, desiderare. Non ho il libero arbitrio, solo la necessità. Appaio. A chi merita l’incanto” Non è sogno, verità raccapricciante di qualcosa che sta avvenendo davvero. Pennuto mastodontico ed altero. Uccello. “Il mio nome è Xeniel, ho il suffisso degli angeli e il marchio dell’estraneità. Qualcuno potrebbe dirti che sono un demone, non credergli. Sono il tuo custode. Lascia che ti guidi, non sarai più sola. Altro non dico, per ora. Sei di fronte a un bivio: lascerai una strada, ne seguirai un’altra. Tu puoi scegliere” Valentina si toccava spesso la fronte per spianare un pensiero, ma quella volta il gesto non sortì il risultato. La mente collassata invasa da un’intensità difficile da sopportare. Si era fatto freddo, ma non proprio. Qualcosa di simile, tipo ghiaccio e umidità. Ghiaccio umido. Il becco era secco, quello dell’uccello. La bocca, le labbra di Valentina erano umide, perché la paura secca le fauci e bagna gli angoli, del naso e della bocca. Mamma mia, mormorava fra sé Valentina. Eppure gli occhi di quel pennuto erano dolci e rassicuranti e lei provava una strana tranquillità.
  • 46. Forse era il luogo. Ricordava quanto l’ospedale le mettesse il terrore addosso, mentre il cimitero le dava una sensazione di solennità e di pace ancestrale. Come un ritornare. A casa. Da bambina, già grandicella, si divertiva a guardare le tombe e i loculi. Cercava le date, le piaceva osservare quanto brevi fossero a volte gli argini dell’esistenza. Nascere nel 1899 e morire nel 1905. Oppure nascere nel 1915, data poco rassicurante, e morire nel 27. Beffarda la vita, anzi, beffarda la morte quando acchiappa la vita. Oppure è giusto che sia così. Legge naturale. Per fare spazio, per ampliare le vedute, lasciare che la terra non sia troppo piena. Di tutto. E di niente. La vicinanza estrema fra un inizio e una fine. Brivido che turba e senso di piacere. Malato, morboso? Ma cosa era sano, leniva, guariva, salvava? Formica in affannoso cammino su una strada sconosciuta, non eri che un minuscolo tassello, una zecca sul grande cane. E tutto continuava ad essere, anche senza di te e senza di noi. Non indispensabili. L’orologio continuava ad andare, senza fermarsi. A prescindere. Da te. Da noi. Tutto qua. L’Uccello era diventato una catarsi. Era diventato il Significato e l’Occasione. Cimitero assonnato prima della chiusura, verso sera, d’estate. Un mare di calma, serenità. Questo era l’Uccello e molto di più. Era vera la storia dell’angelo custode, che ti sta sempre accanto e che se ti giri repentinamente a sinistra forse lo vedi. Un aiuto per vivere e, soprattutto, per non morire, dentro. Finalmente Valentina non aveva più bisogno di frequentare gente, amici e conoscenti, parenti neanche. Erano quasi finiti e quelli che restavano non valevano un soldo bucato. Se ne fregavano, in realtà, di che cosa combinasse Valentina in quella sua strana solitudine, di quel suo modo assurdo di parlare, da sola. “E’ andata fuori di senno”, dicevano “Povera figlia! Ha perso la madre e, subito dopo, la zia. Erano il suo punto di riferimento. Strane anche loro, però…ora è sola come un cane bastonato, non ha finito gli studi e forse non è neanche capace di cuocersi un uovo”
  • 47. Ma erano preoccupazioni fittizie, false premure, senza un esito. Nessuno che la invitasse a un pranzo, una cena, un tè. Ospitarla si era rivelato un problema. A volte non si presentava, nemmeno avvertiva. Altre, restava in silenzio, ma il peggio era quando sciorinava le sue assurde teorie, quando pretendeva di vedere e sentire un angelo. Sotto forma di uccello. Il suo modo di vivere e parlare metteva paura. Zio Carlo e zia Mirena si guardavano l’un l’altra e poi guardavano entrambi Valentina e il vuoto, a cui si rivolgeva. Imperterrita. Gli zii cercavano di far passare il tempo senza scossoni, evitando gli ostacoli, ma era sempre più difficile rimanere indifferenti alla stravaganza, per usare un eufemismo. Le serate con Valentina duravano un’eternità nelle pause lunghe fra una frase e l’altra. Ma finirono, come ogni situazione sa fare. Finirono per non ritornare. Valentina non fu più invitata. Valentina si accorse soltanto dell’assenza di contatti successivi e Xeniel liquidò la questione con un semplice “mi pare, in fondo, normale che accada”. Per la verità lo zio Carlo trascorse alcune notti sveglio. Preoccupato di una nipote così diversa da come se la immaginava. E’ vero, pensava, che anche la madre e la zia erano davvero eccentriche, ma qui ci si trovava di fronte alla follia pura, senza possibilità di ritorno. Una notte d’estate piena fu l’incanto. La luna fece il suo egregio dovere entrando dai vetri aperti ed illuminando la camera da letto di Valentina. Xeniel, naturalmente era lì, con lei. Si strinsero, le piume di lui erano soffici e tiepide, accoglienti. Dopo tanti inganni, delusioni e promesse disattese, quel becco e il respiro di lui, un soffio di vento, a sfiorarle la pelle. Abbracciati, loro come i comuni intenti. Era valsa la pena di essere rimasta qui, ad aspettare che qualcosa accadesse. Invece di togliersi di mezzo per non disturbare. Valeva la pena comprendere che si può continuare anche quando sembra impossibile muovere un passo in avanti. Il loro era un viaggio insieme. E non c’era nessun altro. Perché nessuno avrebbe capito. Valentina aveva smesso, soprattutto da quella notte, di vivere in grigio. Le vetrine erano un ricordo lontano e tempo perso, l’inutile desiderio di far finta che ci fosse ancora qualcosa di normale da conservare. Valentina non doveva render conto più a nessuno e, con Xeniel accanto, tutto diventava un gioco da ragazzi. In bicicletta andavano, ormai, in due. Lei pedalava veloce contro il vento, le automobili erano quasi trasparenti e si trovava sempre il giusto tempo, il giusto modo di schivarle quasi sfiorandole. C’era ebbrezza nella corsa e rispetto reciproco perché Xeniel, secondo pilota, le dava i giusti suggerimenti. Lui, come uomo, maschio di uccello, aveva il dono della vista in lontananza e profondità, lei, come donna, la visione
  • 48. laterale. Lui, come uccello, poteva volare, lei, come umana, era incollata a terra, ma poteva alzarsi dal sellino con disinvoltura e leggerezza. Lui le aveva trasmesso, oltre alla sicurezza, anche il dono di pensarsi altro. Era come se le gambe di Valentina fossero senza fatica, le ruote giravano che erano una meraviglia e qualcuno diceva, lì in città, quella si andrà ad ammazzare o farà fuori, quel che è peggio, qualcuno. “Sta veramente diventando un pericolo pubblico. Ogni giorno diventa più pazza. Nessuno che la faccia visitare, la curi o la tenga a casa. E’ abbandonata a se stessa e continua a pedalare e parlare da sola, cantare a squarciagola come una matta. Poveraccia. Certe volte fa pena” Che ne sapevano loro, tutti intenti a vivere le loro squallide quotidianità, di cosa volesse dire cantare insieme. Xeniel era anche un maestro di controcanto. In due erano un’orchestra. Un’emozione irripetibile. La gente si girava a guardarla sfrecciare, gridare e cantare. Facevano un cenno con la testa o con il dito indice sulla tempia. Ma Valentina, ormai, neanche li vedeva. Poi venne l’idea. Al pennuto uccello divino. Lei si girò a guardarlo, perché aveva smesso all’improvviso di cantare. Si era interrotto di colpo e non lo aveva mai fatto. “Dai, passa con il rosso” “Che rosso?” “Il rosso del semaforo. Che diamine! Cambiamo un po’ le situazioni. Andiamo controcorrente. Non si possono rispettare le regole sempre. Le regole sono fatte dagli uomini, mortali dediti all’errore, alla fallace idea che tutto si possa controllare, codificare e decidere. Chi lo ha stabilito che con il verde passi e con il rosso ti fermi? Chi? L’uomo. E’ solo una convenzione, una decisione arbitraria. Prova ad andarle contro” “E se mi investono e mi uccido?” “Vuol dire che se per te è finita, doveva andare così. E’ arrivata la chiamata, vuol dire che deve finire lì il viaggio. Se succede. C’è sempre una ragione per quanto assurda sembri” “Ho paura” “Dai Valentina, amore mio, sfreccia senza pensare, fallo per me, per noi” A Valentina molte volte veniva la voglia di sfidare il pericolo, poi prevaleva l’autoconservazione, la permanenza e si bloccava poco prima del tuffo. Quello