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Liceo Zucchi, 1 febbraio 2017
Socrate e i contemporanei: Arendt e Patočka
Arendt
T1 Dòxa da dòkei moi riguardava la comprensione del mondo così come “si apre a me”. Non era fantasia
soggettiva e puro arbitrio, ma neanche qualcosa di assoluto e valido per tutti. L'assunto era che il mondo si apre in
modo diverso a ogni essere umano, a seconda della posizione che ciascuno occupa in esso. La “medesimezza” del
mondo, il suo essere-in-comune [...], ovvero la sua obiettività[...], risiede nel fatto che lo stesso mondo si apre a
ognuno, e che, malgrado tutte le differenze tra gli uomini e tra le loro posizioni nel mondo, e di conseguenza tra le
loro dòxai, io e te, entrambi, siamo umani. [...]
Socrate chiamava maieutica [...] ciò che Platone avrebbe più tardi chiamato dialéghesthai. [...] Ogni essere umano
ha la sua propria dòxa, la propria apertura al mondo, e per questo Socrate doveva sempre cominciare con delle
domande [...]: faceva domande per capire quale fosse la posizione del suo interlocutore nel mondo comune. […]
D'altra parte [...] nessuno può conoscere da solo, senza sforzo ulteriore, la verità inerente alla propria opinione.
Socrate voleva portare alla luce la verità che ognuno potenzialmente possiede. Ma quest'arte dialettica, che porta
alla luce la verità, non distruggere la dòxa, l'opinione; al contrario ne rivela la veridicità. Il compito del filosofo,
allora, non è quello di governare la città, ma è quello di essere il suo “tafano”, di rendere i cittadini più veritieri.
Arendt, Socrate, Raffaello Cortina editore, Milano 2015, pp. 34-35.
Una vita che non dia luogo ad esame non merita di essere vissuta (Apologia)
T2 Questa maniera di dialogare, che non ha bisogno di una conclusione per avere un significato, è la modalità più
frequente e appropriata del discorso tra amici. L'amicizia, in effetti, consiste in larga misura in discussioni di
questo tipo, riguardanti qualcosa che sta “tra” gli amici, qualcosa che gli amici hanno “in comune”. Per il semplice
fatto di discuterne, quel qualcosa che sta tra loro diviene ancora più comune. […] Socrate cercò di fare dei
cittadini ateniesi degli amici. Arendt, Socrate, p. 36
T3Anche se sono uno solo, io non sono uno solo, ho un io e sono sempre rapporto con il mio proprio io. Non
posso svignarmela da me stesso. […] Io sono il partner di me stesso quando penso e sono il testimone delle azioni
che compio. Io conosco questo agente. E sono condannato a vivere con lui. […]. Socrate pensava che gli uomini
fossero due-in-uno, non nel senso che avessero tutti una coscienza e un’autocoscienza, ma nel senso più attivo e
peculiare di quel dialogo silenzioso, di quel rapporto intimo e costante che tutti intrattengono con se stessi. Se solo
avessero capito questo – così probabilmente Socrate pensava -, gli uomini avrebbero anche capito quanto fosse
importante non rovinare questo dialogo interiore con se stessi. […] In questo silenzioso dialogo tra me e me
risiede la mia stessa umanità. C'è poi un ulteriore aspetto del problema di cui occorre tener conto. La descrizione
socratico-platonica del processo di pensiero mi sembra tanto importante poiché essa implica, anche se solo
obliquamente, che gli uomini vivono al plurale e non al singolare: gli uomini e non l'Uomo, abitano sulla terra.
Anche quando ce ne stiamo per i fatti nostri, anche allora, non appena articoliamo questo esser soli, ci ritroviamo
in compagnia, e per la precisione in compagnia di noi stessi. […] Per pensare bisogna che i due coinvolti nel
pensare siano amici. Chi vorrebbe convivere con un assassino?
Di che cosa ho paura? Di me stesso? Non c'è nessun altro presente.
Riccardo ama Riccardo, cioè, io sono ben io.
C'è forse un assassino qui? No. Sì, lo sono io!
Fuggi, allora. Come, da me stesso? Ne avrei una buona ragione, per non vendicarmi? Come, io di me stesso?
Ahimè, io amo me stesso. Perché? Per qualche bene ch'io abbia fatto a me stesso?
O no, ahimè, se mai odio me stesso, per le azioni odiose che ho commesso.
Sono uno scellerato... oppure mento, non lo sono!
Sciocco, parla bene di te stesso! Sciocco, non ti lusingare.
Arendt, Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino, 2010, pp. 77-82 passim
T4 Questa coscienza, al contrario della voce di Dio o del lumen naturale, non dà prescrizioni positive: perfino il
dàimon di Socrate, la sua voce divina, gli dice solo che cosa non fare. Per usare le parole di Shakespeare: «riempie
un uomo di ostacoli». Ciò che fa temere all'uomo questa coscienza è l'anticipazione della presenza di un testimone
che lo aspetta solo se e quando tornerà a casa. […]
Il pensiero non è una prerogativa di pochi, ma una facoltà onnipresente in ciascuno di noi. Parimenti, l'incapacità
di pensare non è la prerogativa di chi manca di cervello, ma la possibilità sempre latente in ciascuno di noi di
mancare l'appuntamento con se stessi, di cui Socrate è stato il primo a scoprire la possibilità all'importanza.
Arendt, Responsabilità e giudizio, pp. 77-82 passim
T5 La filosofia, la filosofia politica come ogni altro ramo della filosofia, non potrà mai negare di avere origine nel
thaumàzein, nella meraviglia per ciò che è così com'è. I filosofi, se vorranno arrivare a una nuova filosofia
politica, sfidando il loro necessario straniamento dalla vita quotidiana, dovranno però assumere come oggetto del
thaumàzein la pluralità degli uomini dalla quale sorge, nella sua grandezza e della sua miseria, l'intera sfera degli
affari umani. Biblicamente parlando, dovranno accettare il miracolo che Dio non creò l'uomo, ma “maschio e
femmina li creò”. Dovranno accettare, con qualcosa di più della rassegnazione alla debolezza umana, il fatto che
“non è bene per l'uomo essere solo”. Arendt, Socrate, p. 62
T6 Nella solitudine sono con me stesso e perciò due-in-uno, mentre nella estraniazione sono effettivamente uno,
abbandonato da tutti. La riflessione si svolge in solitudine ed è un dialogo fra me e me; ma questo dialogo del due-
in-uno non perde il contatto con il mondo dei miei simili, perché essi sono rappresentati nell’io con cui conduco il
dialogo del pensiero. Il problema della solitudine è che questo due-in-uno ha bisogno degli altri per ridiventare
uno: un individuo non scambiabile, la cui identità non può mai essere confusa con quella altrui. Per la conferma
della mia identità io dipendo interamente dagli altri; ed è la grande grazia della compagnia che rifà del solitario un
“tutto intero”, salvandolo dal dialogo della riflessione in cui si rimane sempre equivoci, e ridandogli l'identità che
gli consente di parlare con l'unica voce di una persona non scambiabile. Arendt, Origini del totalitarismo,
Edizioni di Comunità, Milano 1996, pp. 652-653
Patočka
T7 E' negli altri che la terra diventa calda, amabile, benigna. Gli altri sono pertanto la dimora originaria, e non una
mera necessità esteriore, sono lo stesso ancoraggio nell'esistenza, il rapporto con ciò che è già preparato per noi
nel mondo. Patočka, Il mondo naturale e la fenomenologia, Mimesis, Milano 2012, pp. 65-66
T8 «L’uomo spirituale […] è colui che, in qualunque circostanza, si trova in cammino. Egli è consapevole che
non bisogna perdere di vista l’esperienza negativa, a differenza di quanto fa l’uomo ordinario che cerca di
dimenticarsene […] L’uomo spirituale segue invece il cammino opposto: egli si espone realmente a questa
problematicità; la sua vita consiste nel fatto di essere una vita allo scoperto». Daniele Frisio, Jan Patočka,
“l’intellettuale dissidente” http://www.lintellettualedissidente.it/homines/jan-patocka-una-vita-allo-scoperto/
T9 Se è giusto caratterizzare l’uomo come abitante della terra, ecco che in lui la terra è sconvolta da un terremoto.
Egli scopre questa sua esistenza non in quanto radicata e accettata, bensì come nuda e nell’attimo stesso scopre
che la terra e il cielo hanno un loro trans, cioè un loro aldilà. Ciò al tempo stesso significa che in essi non c’è nulla
che possa offrire all’esistenza un punto di appoggio definitivo, un radicamento, uno scopo o un perché definitivi.
J. Patočka, Il mondo naturale e la fenomenologia, p.67.
T10 La risposta propria di Socrate all’incertezza morale del suo tempo è la domanda morale. Ciò che è più
importante è il risveglio alla domanda, non la risposta, Jan Patočka, Socrate, Rusconi, Sant’Arcangelo di
Romagna 1999, p. 321
Nella sofistica la risposta è stata presupposta alla domanda Jan Patočka, Socrate, p. 331
Per la leggerezza morale del suo tempo, Socrate non ha una risposta a portata di mano, ma solo una domanda. E
poi cerca di destare negli altri la stessa domanda. Con questo risveglio della domanda negli altri, però, Socrate
cambia gli altri. La domanda sul bene ultimo opera nell’anima una conversione totale. La costringe a tornare in se
stessa, a cercare ciò che è il suo fine ultimo, la sua vocazione. Jan Patočka, Socrate, p. 349
T11 Socrate, più che una predica preconfezionata, suggerisce ed opera la cura dell'anima. E poiché ogni anima è
cooperante e corresponsabile in questo processo, anche Socrate è solo corresponsabile, e non è colpa di Socrate se
la città, che voleva servire con il suo risveglio morale, un giorno si rivolterà contro di lui.
Jan Patočka, Socrate, p. 331 p. 351.
T12 Questo domandare deve essere senza sosta, incessante; nella sua permanenza, nel suo essere senza sosta si
mostra un fenomeno paradossale, cioè che il bene umano, che inizialmente l'uomo ingenuamente pretende di
conoscere […], nonostante sia sconosciuto e assente, tuttavia in qualche misura è presente. […] È presente in
quanto assente. […]
Tutti i giudizi morali pusillanimi devono essere soggetti alla prova, e già questo è in sé un progetto di vita: sapere
consapevolmente esaminarsi. […] Alla base di questo non sapere sul fine ultimo che si esplica nell'incessante
domandare e rispondere, allora emerge la possibilità della vita autentica, unitaria e concentrata; emerge la vita che
evita gli errori, la vita come dovrebbe essere […]
Così si è passati dal mero non sapere al sapere di non sapere (domanda), e già questo sapere che mantiene la
chiarezza della domanda è la forza attiva che ci tiene vicini al fine essenziale, vicini al bene umano. […] C'è una
strana combinazione di positivo e di negativo. […] Conosci te stesso significa te stesso e la tua umanità nella sua
limitatezza; conosci la tua fine. […] La conoscenza di sé è in primo luogo questa umiltà di non sapere sul fine
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  • 1. Liceo Zucchi, 1 febbraio 2017 Socrate e i contemporanei: Arendt e Patočka Arendt T1 Dòxa da dòkei moi riguardava la comprensione del mondo così come “si apre a me”. Non era fantasia soggettiva e puro arbitrio, ma neanche qualcosa di assoluto e valido per tutti. L'assunto era che il mondo si apre in modo diverso a ogni essere umano, a seconda della posizione che ciascuno occupa in esso. La “medesimezza” del mondo, il suo essere-in-comune [...], ovvero la sua obiettività[...], risiede nel fatto che lo stesso mondo si apre a ognuno, e che, malgrado tutte le differenze tra gli uomini e tra le loro posizioni nel mondo, e di conseguenza tra le loro dòxai, io e te, entrambi, siamo umani. [...] Socrate chiamava maieutica [...] ciò che Platone avrebbe più tardi chiamato dialéghesthai. [...] Ogni essere umano ha la sua propria dòxa, la propria apertura al mondo, e per questo Socrate doveva sempre cominciare con delle domande [...]: faceva domande per capire quale fosse la posizione del suo interlocutore nel mondo comune. […] D'altra parte [...] nessuno può conoscere da solo, senza sforzo ulteriore, la verità inerente alla propria opinione. Socrate voleva portare alla luce la verità che ognuno potenzialmente possiede. Ma quest'arte dialettica, che porta alla luce la verità, non distruggere la dòxa, l'opinione; al contrario ne rivela la veridicità. Il compito del filosofo, allora, non è quello di governare la città, ma è quello di essere il suo “tafano”, di rendere i cittadini più veritieri. Arendt, Socrate, Raffaello Cortina editore, Milano 2015, pp. 34-35. Una vita che non dia luogo ad esame non merita di essere vissuta (Apologia) T2 Questa maniera di dialogare, che non ha bisogno di una conclusione per avere un significato, è la modalità più frequente e appropriata del discorso tra amici. L'amicizia, in effetti, consiste in larga misura in discussioni di questo tipo, riguardanti qualcosa che sta “tra” gli amici, qualcosa che gli amici hanno “in comune”. Per il semplice fatto di discuterne, quel qualcosa che sta tra loro diviene ancora più comune. […] Socrate cercò di fare dei cittadini ateniesi degli amici. Arendt, Socrate, p. 36 T3Anche se sono uno solo, io non sono uno solo, ho un io e sono sempre rapporto con il mio proprio io. Non posso svignarmela da me stesso. […] Io sono il partner di me stesso quando penso e sono il testimone delle azioni che compio. Io conosco questo agente. E sono condannato a vivere con lui. […]. Socrate pensava che gli uomini fossero due-in-uno, non nel senso che avessero tutti una coscienza e un’autocoscienza, ma nel senso più attivo e peculiare di quel dialogo silenzioso, di quel rapporto intimo e costante che tutti intrattengono con se stessi. Se solo avessero capito questo – così probabilmente Socrate pensava -, gli uomini avrebbero anche capito quanto fosse importante non rovinare questo dialogo interiore con se stessi. […] In questo silenzioso dialogo tra me e me risiede la mia stessa umanità. C'è poi un ulteriore aspetto del problema di cui occorre tener conto. La descrizione socratico-platonica del processo di pensiero mi sembra tanto importante poiché essa implica, anche se solo obliquamente, che gli uomini vivono al plurale e non al singolare: gli uomini e non l'Uomo, abitano sulla terra. Anche quando ce ne stiamo per i fatti nostri, anche allora, non appena articoliamo questo esser soli, ci ritroviamo in compagnia, e per la precisione in compagnia di noi stessi. […] Per pensare bisogna che i due coinvolti nel pensare siano amici. Chi vorrebbe convivere con un assassino? Di che cosa ho paura? Di me stesso? Non c'è nessun altro presente. Riccardo ama Riccardo, cioè, io sono ben io. C'è forse un assassino qui? No. Sì, lo sono io! Fuggi, allora. Come, da me stesso? Ne avrei una buona ragione, per non vendicarmi? Come, io di me stesso? Ahimè, io amo me stesso. Perché? Per qualche bene ch'io abbia fatto a me stesso? O no, ahimè, se mai odio me stesso, per le azioni odiose che ho commesso. Sono uno scellerato... oppure mento, non lo sono! Sciocco, parla bene di te stesso! Sciocco, non ti lusingare. Arendt, Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino, 2010, pp. 77-82 passim T4 Questa coscienza, al contrario della voce di Dio o del lumen naturale, non dà prescrizioni positive: perfino il dàimon di Socrate, la sua voce divina, gli dice solo che cosa non fare. Per usare le parole di Shakespeare: «riempie un uomo di ostacoli». Ciò che fa temere all'uomo questa coscienza è l'anticipazione della presenza di un testimone che lo aspetta solo se e quando tornerà a casa. […] Il pensiero non è una prerogativa di pochi, ma una facoltà onnipresente in ciascuno di noi. Parimenti, l'incapacità di pensare non è la prerogativa di chi manca di cervello, ma la possibilità sempre latente in ciascuno di noi di mancare l'appuntamento con se stessi, di cui Socrate è stato il primo a scoprire la possibilità all'importanza. Arendt, Responsabilità e giudizio, pp. 77-82 passim T5 La filosofia, la filosofia politica come ogni altro ramo della filosofia, non potrà mai negare di avere origine nel thaumàzein, nella meraviglia per ciò che è così com'è. I filosofi, se vorranno arrivare a una nuova filosofia politica, sfidando il loro necessario straniamento dalla vita quotidiana, dovranno però assumere come oggetto del thaumàzein la pluralità degli uomini dalla quale sorge, nella sua grandezza e della sua miseria, l'intera sfera degli affari umani. Biblicamente parlando, dovranno accettare il miracolo che Dio non creò l'uomo, ma “maschio e femmina li creò”. Dovranno accettare, con qualcosa di più della rassegnazione alla debolezza umana, il fatto che
  • 2. “non è bene per l'uomo essere solo”. Arendt, Socrate, p. 62 T6 Nella solitudine sono con me stesso e perciò due-in-uno, mentre nella estraniazione sono effettivamente uno, abbandonato da tutti. La riflessione si svolge in solitudine ed è un dialogo fra me e me; ma questo dialogo del due- in-uno non perde il contatto con il mondo dei miei simili, perché essi sono rappresentati nell’io con cui conduco il dialogo del pensiero. Il problema della solitudine è che questo due-in-uno ha bisogno degli altri per ridiventare uno: un individuo non scambiabile, la cui identità non può mai essere confusa con quella altrui. Per la conferma della mia identità io dipendo interamente dagli altri; ed è la grande grazia della compagnia che rifà del solitario un “tutto intero”, salvandolo dal dialogo della riflessione in cui si rimane sempre equivoci, e ridandogli l'identità che gli consente di parlare con l'unica voce di una persona non scambiabile. Arendt, Origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1996, pp. 652-653 Patočka T7 E' negli altri che la terra diventa calda, amabile, benigna. Gli altri sono pertanto la dimora originaria, e non una mera necessità esteriore, sono lo stesso ancoraggio nell'esistenza, il rapporto con ciò che è già preparato per noi nel mondo. Patočka, Il mondo naturale e la fenomenologia, Mimesis, Milano 2012, pp. 65-66 T8 «L’uomo spirituale […] è colui che, in qualunque circostanza, si trova in cammino. Egli è consapevole che non bisogna perdere di vista l’esperienza negativa, a differenza di quanto fa l’uomo ordinario che cerca di dimenticarsene […] L’uomo spirituale segue invece il cammino opposto: egli si espone realmente a questa problematicità; la sua vita consiste nel fatto di essere una vita allo scoperto». Daniele Frisio, Jan Patočka, “l’intellettuale dissidente” http://www.lintellettualedissidente.it/homines/jan-patocka-una-vita-allo-scoperto/ T9 Se è giusto caratterizzare l’uomo come abitante della terra, ecco che in lui la terra è sconvolta da un terremoto. Egli scopre questa sua esistenza non in quanto radicata e accettata, bensì come nuda e nell’attimo stesso scopre che la terra e il cielo hanno un loro trans, cioè un loro aldilà. Ciò al tempo stesso significa che in essi non c’è nulla che possa offrire all’esistenza un punto di appoggio definitivo, un radicamento, uno scopo o un perché definitivi. J. Patočka, Il mondo naturale e la fenomenologia, p.67. T10 La risposta propria di Socrate all’incertezza morale del suo tempo è la domanda morale. Ciò che è più importante è il risveglio alla domanda, non la risposta, Jan Patočka, Socrate, Rusconi, Sant’Arcangelo di Romagna 1999, p. 321 Nella sofistica la risposta è stata presupposta alla domanda Jan Patočka, Socrate, p. 331 Per la leggerezza morale del suo tempo, Socrate non ha una risposta a portata di mano, ma solo una domanda. E poi cerca di destare negli altri la stessa domanda. Con questo risveglio della domanda negli altri, però, Socrate cambia gli altri. La domanda sul bene ultimo opera nell’anima una conversione totale. La costringe a tornare in se stessa, a cercare ciò che è il suo fine ultimo, la sua vocazione. Jan Patočka, Socrate, p. 349 T11 Socrate, più che una predica preconfezionata, suggerisce ed opera la cura dell'anima. E poiché ogni anima è cooperante e corresponsabile in questo processo, anche Socrate è solo corresponsabile, e non è colpa di Socrate se la città, che voleva servire con il suo risveglio morale, un giorno si rivolterà contro di lui. Jan Patočka, Socrate, p. 331 p. 351. T12 Questo domandare deve essere senza sosta, incessante; nella sua permanenza, nel suo essere senza sosta si mostra un fenomeno paradossale, cioè che il bene umano, che inizialmente l'uomo ingenuamente pretende di conoscere […], nonostante sia sconosciuto e assente, tuttavia in qualche misura è presente. […] È presente in quanto assente. […] Tutti i giudizi morali pusillanimi devono essere soggetti alla prova, e già questo è in sé un progetto di vita: sapere consapevolmente esaminarsi. […] Alla base di questo non sapere sul fine ultimo che si esplica nell'incessante domandare e rispondere, allora emerge la possibilità della vita autentica, unitaria e concentrata; emerge la vita che evita gli errori, la vita come dovrebbe essere […] Così si è passati dal mero non sapere al sapere di non sapere (domanda), e già questo sapere che mantiene la chiarezza della domanda è la forza attiva che ci tiene vicini al fine essenziale, vicini al bene umano. […] C'è una strana combinazione di positivo e di negativo. […] Conosci te stesso significa te stesso e la tua umanità nella sua limitatezza; conosci la tua fine. […] La conoscenza di sé è in primo luogo questa umiltà di non sapere sul fine ultimo essenziale. Jan Patočka, Socrate, p. 331, pp. 373-377 passim