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Stocchero D. – Tre post sull’antropologia professionale
Riedizione leggermente modificata di tre post pubblicati anni fa con alcune riflessione attorno
alla professionalizzazione dell’antropologia culturale. Ad uso soprattutto degli studenti dei
primi anni del CdL in Antropologia Culturale.
La transizione avvenuta nel nostro Paese che ha portato alla nascita dei CdL in Antropologia
Culturale non è stata accompagnata da una adeguata discussione e riflessione sulla posizione
professionale dei laureati, lasciati quasi completamente a loro stessi, stritolati tra le aspettative
crescenti che conseguono ad un investimento nella formazione di 5 anni di studi e la situazione
di totale silenzio e mancanza di interlocutori, i docenti per primi, che aiutino a sviluppare
riflessioni, visioni, azioni, tentativi, esperimenti.
Fino a quando laurearsi in Antropologia Culturale consisteva nell’aver seguito un corso
all’interno di un altro corso di laurea affine, per poi intraprendere un lavoro di tesi con un
relatore antropologo, le aspettative professionali erano basse. Era una scelta di nicchia, poco
diffusa, all’interno di un percorso di studi diverso. Era pura iniziativa personale, avventurosa,
appassionante, ma che non portava a particolari rivendicazioni sul lato professionale.
Con l’introduzione delle lauree triennali e magistrali in Antropologia Culturale il discorso, nel
giro di pochi anni, è completamente mutato. E’ chiaro che investire tre-cinque anni della propria
formazione in maniera esclusiva nell’Antropologia Culturale fa sviluppare tutta una serie di
aspettative, desideri, frustrazioni, necessità rispetto al proprio futuro che prima non erano
presenti. Nessuno sembra intercettare questo bisogno legittimo degli studenti. Non si tratta di
creare un sindacato, di fare lobby al ministero o di intavolare in fretta e furia un sito web che
rimandi una immagine di professionismo formale. O, per lo meno, non solo di questo.
Si tratta di cominciare a individuare, produrre, adattare, far circolare, analizzare e
metabolizzare contenuti originali, aggiornati e specifici di cosa sia e possa essere una
professionalità antropologica adeguata al mondo dei nostri giorni. Questa conoscenza deve
avere gli studenti come destinatari ma anche come protagonisti, in quanto portatori di necessità
nuove e aperti alla radicale creatività che, tra le diverse scienze sociali, l’antropologia culturale
può esprimere al meglio.
Tra accademia e mondo del lavoro
Serve passare da essere studente-all’università e essere lavoratori-nel-mondo.
Transizione che devono effettuare tutti gli studenti dei diversi corsi di laurea è
che porta ad un radicale cambio di status. Essendo antropologi, dovrebbe
risultare (più) agevole riuscire a fare un’analisi comparata tra ciò che comporta
essere studenti all’università e lavoratori (magari parlando con chi già lavora da
qualche anno, o sfruttando l’esperienza, preziosissima, di studenti lavoratori),
riuscendo a mettere a fuoco le differenze e le analogie, ovviamente dal punto di
Stocchero D. – Tre post sull’antropologia professionale
vista culturale e operativo, tra le due situazioni. E’ un utile esercizio di
riflessività che aiuta a raccogliere info importanti. In altre parole, in che
rapporto sta il “mondo di studenti” dal “mondo di lavoratori”?. Sono diverse
le cose che si fanno, il modo in cui si fanno, il fine, il rapporto con il tempo, con le
persone. Insomma, due mondi a tratti opposti. L’antropologo Riall Nolan
(Anthropology in practice, p. 130 –>) mi aiuta a esplicitarne alcuni.
La prima variabile riguarda la stabilità del contesto. Molto alta quella
accademica, assai bassa quella lavorativa: va considerata l’altissima precarietà
all’ingresso del mondo del lavoro ormai in tutti i settori, e l’alta
mobilità registrata soprattutto nei primi tre anni di attività.
La seconda riguarda la conoscenza. In accademia la si assorbe, nel lavoro la si
deve usare.
La terza riguarda le idee e il linguaggio. L’accademia incoraggia lo sviluppo e la
discussione di idee, l’elaborazione linguistica, la ricercatezza stilistica, nel
mondo del lavoro servono soluzioni che funzionano, risultati concreti, badando
meno alla forma e più alla sostanza.
La quarta riguarda la relazionalità tra persone. L’esperienza accademica è
soprattutto individuale, sia nella motivazione che nel controllo. Nel mondo del
lavoro, e oggigiorno sempre di più, si è sempre in squadra (orizzontale)
e inserita in una gerarchia (verticale). Inoltre, lo studente ha a che fare con suoi
pari status (altri studenti) per la maggior parte del tempo, vivendo di fatto in un
ambiente molto omogeneo. Nel mondo del lavoro l’eterogeneità di età, ruoli e
esperienze è la norma.
La quintA riguarda la tipologia di sforzo richiesto. All’università è sporadico,
prevedendo momenti di puro relax a momenti molto stressanti (sessione
d’esame). Nel mondo del lavoro lo sforzo richiesto è continuo e spesso crescente.
Stocchero D. – Tre post sull’antropologia professionale
La sesta riguarda il tipo di valutazione a cui si è sottoposti. All’università si è
valutati dal docente in base alle proprie risposte, nel mondo del lavoro in base
alle conseguenze delle proprie scelte e ai risultati che spesso dipendono
in buona misura anche da variabili di contesto (ciò che fanno, pensano, dicono
gli altri, il tempo dato, gli imprevisti).
Il libro ne cita altre ma ritengo queste le fondamentali. Salta subito all’occhio
quanto studiare e lavorare siano, alla base, esperienze e situazioni
completamente diverse. In particolare, la maggior differenza riguarda secondo
me la variabile relazionale, cioè saper essere produttivi e concreti all’interno
delle logiche di un gruppo di lavoro, quasi assente nella maggior parte dei corsi
di laurea (con importanti eccezioni comunque). Inoltre, è completamente
diverso l’approccio alla conoscenza: all’università è più quantitativa (quanto so?
Sono pronto per l’esame?) nel mondo del lavoro è assolutamente qualitativa
(quello che so è utile in quel contesto? con quello che so, so risolvere i problemi? Se
non so qualcosa, riesco a cavarmela reperendo in fretta l’informazione e sapendola
usare subito?)
Trovo interessante notare che alcune di queste caratteristiche sono
propriamente culturali. Hanno cioè a che vedere con la specifica cultura
dell’accademia e la specifica cultura del lavoro. Nessuno vieterebbe di
introdurre una grossa componente relazionale all’università, ma in Italia si fa
molto poco nei corsi istituzionali. Ci si dedica a ciò soprattutto agli spritz.
Ugualmente, molti ambienti lavorativi vedono il produrre idee e elucubrare con
linguaggio preciso e accorto una perdita di tempo, senza capire che a volte
fermare gambe e mani e accendere il cervello potrebbe aiutare l’azienda più del
continuo corri-corri. Cultura. Compito degli antropologi applicati contribuire per
cambiare le cose, qualora si riveli utile.
Stocchero D. – Tre post sull’antropologia professionale
L’eptalogo dell’antropologo professionista
Leggendo il pionieristico volume di Moreno Tiziani “Professione antropologo”
ho liberamente ricostruito un eptalogo attorno al quale incardinare un pensiero
riflessivo, e un discorso concreto, sull’antropologia professionale:
– Meglio cominciare presto a pensare in ottica “professionale”. Dal
momento che il destino di ogni studente è, si spera, quello trasformarsi in
lavoratore, meglio cominciare fin da subito a adottare un punto di vista
consapevole sulla propria traiettoria di “carriera”. Da “studenti superiori”
informarsi in maniera dettagliata di cosa offra e come sia organizzato il mondo
universitario, da “studenti universitari” apprendere non solo contenuti da
esame, ma anche abilità organizzative e di gestione del porprio tempo, capacità
di sviluppare capitale sociale e relazionale, scambiando informazioni e
partecipando ad esperienze formative diverse dai corsi di studio (convegni,
workshop, Erasmus, volontariato, lavoro all’università convenzionato). Inoltre,
curare la definizione di un piano di studi che sia sartoriale, tagliato su misura, e
conduca verso un lavoro di tesi che appassioni, durante il quale si possa dare il
meglio. La tesi di laurea, magari accompagnata da un periodo di ricerca e/o
seguita da un tirocinio, è uno snodo fondamentale per le possibilità concrete che
può aprire dal versante lavorativo. Riassumendo, una mentalità autonoma e
attiva, curiosa e organizzata, fondamentale per qualsiasi professione, e ancora
più per quella nascente di antropologo, andrebbe coltivata fin da ragazzi in una
prospettiva di “crescita continua”.
– Guardare all’estero. Sia per vedere cosa succede, per vedere le differenze
con il proprio Paese, per provare ad andarci davvero a fare qualcosa.
L’antropologia è per natura un sapere cosmopolita, e la professione necessità di
una apertura mentale quanto più articolata e compiuta possibile. Per un
antropologo avere un sentire cosmopolita è come per un commercialista essere
Stocchero D. – Tre post sull’antropologia professionale
preciso nei conti, per un medico essere scrupoloso nella diagnosi, per un filosofo
avere proprietà di linguaggio: semplicemente indispensabile.
– Avere una conoscenza ampia del proprio ambito disciplinare. Come
l’antropologia fisica-biologica non è un monolite, ma dialoga con settori, ambiti e
prospettive conoscitive quali l’osteologia e la primatologia, la paletnologia come
l’ecologia umana, l’antropologia molecolare come la bioarcheologia,
l’antropologia culturale che “si occupa di cultura” e l’antropologia sociale che si
“occupa di società” sono ormai degli stereotipi. Uno studente di antropologia
dovrebbe conoscere, almeno per sommi capi, i principali settori sub-disciplinari,
in quanto in ognuno di essi possono nascondersi delle prospettive fruttuose di
applicazione, oltre che fornire intuizioni utili in campi affini: antropologia
economica, antropologia ecologica, antropologia del lavoro, dell’impresa e
dell’organizzazione, cyber-antropologia, antropologia medica, antropologia dello
sviluppo, solo per citarne alcune di ben consolidate, andrebbero comprese e
“possedute” nei loro caratteri fondamentali di linguaggi, modelli, problemi
affrontati e autori di riferimento.
– Raccogliere informazioni inerenti le applicazioni dell’antropologia.
Compaiono sempre più spesso articoli di quotidiani e riviste specializzate dove
la parolina “antropologia” o “etnografia” fanno capolino associate ai contesti più
diversi: aziende, ricerca applicata, sviluppo tecnologico, evoluzione del web,
servizi alla persona, ecc. Raccoglierli, analizzarli, fare ricerche di
approfondimento sul web aiuta a assimilare informazioni preziose per capire
cosa fanno, gli altri, con l’antropologia, e fa sentire un po’ meno soli e isolati con
le proprie “ambizioni applicative”
– Cominciare a farsi un’idea di quella precaria forma di vita che è il
“consulente freelance”. Ossia, verosimilmente, l’assetto professionale che
l’antropologo potrebbe far proprio qualora decida di erogare prestazioni/servizi
Stocchero D. – Tre post sull’antropologia professionale
a committenti. Un’infarinatura di partite iva, casse di previdenza, fatture,
ritenute d’acconto e burocrazia mista all’italiana non dovrebbero essere viste
come cose che “riguardano sempre e solo gli altri”. In quanto antropologi con
ambizioni professionali, diventeranno il pane quotidiano per almeno qualche
anno, se non per sempre. Anche quella della burocrazia, delle istituzioni, è una
forma di cultura. L’antropologo dovrebbe muoversi a proprio agio al suo interno.
L’antropologia della burocrazia è un ambito di consocenza prezioso per
l’antropologo professionista.
– Pensare antropologicamente, cioè in maniera olistica e
interdisciplinare. Moreno tratta con competenza, pur senza cadere in
tecnicismi, della necessità di pensare in maniera antropologica integrata, senza
ciò suddividere a priori l’antropologia biologica da quella culturale, sforzandosi
di trovare delle prospettive che siano sinergiche e fruttuose. La prospettiva
bioculturale è una possibilità ancora in gran parte sconosciuta nel nostro paese:
pensiamo al rapporto tra cultura e emozioni, all’aggressività sociale, alle
tecnologia della riproduzione, alle biotecnologie, alla bioeconomia, agli ibridi
bio-neuro-tecnologici e alle frontiere da queste aperte dal punto di vista
culturale, etico e sociale: perdere completamente di vista che l’uomo è un essere
bioculturale non farà di noi dei migliori professionisti, qualsiasi sia l’ambito di
attività.
– L’attività professionale contempla una profonda riflessione etica.
L’antropologo professionista fa, giocoforza, antropologia pubblica, perché offre
servizi che realizzano delle policy, cioè delle linee programmatiche, degli
obiettivi da raggiungere volti a modificare la realtà sociale e pubblica. Obiettivi,
procedure, attori in gioco, gradi di vulnerabilità differenti, rischi di generare
effetti inopportuni, se non dannosi, accompagnano l’attività giornaliera di
qualsiasi professionista. L’antropologo, lavorando in contesti complessi, a volte
conflittuali, dove l’elemento umano è sempre preponderante e esposto ad un
Stocchero D. – Tre post sull’antropologia professionale
campo di forze variabile, necessità di precise linee guida etiche. L’antropologo
professionista lavora nella società, e costruisce la propria ragion d’essere su
credibilità, correttezza, professionalità. Senza etica professionale non esiste
alcuna professione.
Queste sono solo alcune semplici riflessioni che si possono articolare leggendo il
bel libro di Moreno. Moltissimi altri dettagli e spunti fondamentali si trovano tra
gli agili paragrafi, e costituiscono una base di lavoro di gran qualità per
continuare a pensare, concretamente e nel merito, le potenzialità della
professione di antropologo. Importanti gli esempi pratici di applicazione che
vengono descritti nel libro, senza tralasciare alcun ambito di intervento.
Antropologi al lavoro: linguaggi, tribù e lo schema HOMO
L’antropologo che voglia utilizzare le proprie conoscenze e competenze nel
mondo del lavoro avviando un percorso lavorativo autonomo necessità di
mettere a fuoco alcune questioni specifiche.
Il mondo del lavoro infatti parla un linguaggio diverso da quello accademico,
ossia possiede una cultura diversa. Dà valore a cose diverse, ha priorità diverse,
bisogni diversi, credenze diverse. Esso è, come è ovvio, culturalmente
eterogeneo, popolato da tribù spesso in conflitto tra loro per motivi ideologici e
storici.
E’ opportuno pertanto che il giovane antropologo prenda confidenza con queste
culture esattamente nello stesso modo con cui prende confidenza all’inizio con le
culture etnografiche, di cui viene ritenuto esperto. La prima cosa che insegnano
all’università è quella di imparare la lingua dei nativi, in modo da potersi
relazionare con loro nel modo migliore. Ciò non è sempre immediato.
Stocchero D. – Tre post sull’antropologia professionale
Prima della partenza per la mia ricerca etnografica in Guinea Bissau avevo
seguito dei corsi di portoghese, ma ho scoperto ben presto che quella lingua si
usava al massimo negli uffici della capitale, mentre nelle zone periferiche si
parlava il criolo, un mix molto orecchiabile di portoghese e dialetti dei gruppi
etnici principali. Lo sforzo iniziale aiutò, ma alla fine il lavoro venne fatto
primariamente con un interprete locale e solo verso la fine della ricerca riuscii a
muovermi in maniera linguisticamente più autonoma.
La situazione è analoga per un antropologo culturale che si affacci al mondo del
lavoro: conosce il linguaggio del settore di riferimento? Conosce le
caratteristiche principali delle tribù? Ciò è fondamentale, perché con una laurea
in antropologia e con l’ambizione di voler lavorare come antropologi si è
estranei al nostro mondo italiano almeno tanto quanto io risultavo estraneo
nell’esotica Guinea Bissau. A sentire certi discorsi italioti sull’antropologia, pare
persino di più, perché l’essere in Guinea Bissau in qualità di antropologo ha un
suo senso storicamente dato e codificato, mentre il lavorare nella nostra società
come antropologi ne avrà uno solo se lo si riuscirà a costruire.
Ma quali linguaggi si usano nella cultura del lavoro? Chiaro che questo ognuno
lo scopre entrando piano piano nel proprio contesto prescelto, ma ce ne sono
alcuni che sono generali: stilare un progetto realistico (consapevoli dei vari
attori coinvolti, in primis il committente), pensare in ottica consulenziale,
sviluppare abilità di problem setting e solving, emettere una regolare fattura
riuscendo a farsela pagare, costruire e mantenere una rete di contatti e
relazioni utili per lavorare, seguire un piano di autoformazione e
aggiornamento professionale (la conoscenza evolve) per acquisire nuove
competenze (metodi di lavoro, di ricerca, di produzione , di comunicazione) e
nuove conoscenze (teoriche sul comportamento dell’uomo, tecnologiche su
nuovi strumenti, settoriali per nuovi sbocchi operativi).. .
Stocchero D. – Tre post sull’antropologia professionale
Troviamo poi tutta una serie di gergalità specifiche nei vari settori, che vanno da
quelle tecnologiche e dell’ICT a quelle proprie dell’ambiente burocratico, da
quelle degli artigiani (espresse spesso in dialetto) fino agli stili espressivi delle
grandi amministrazioni private, dal linguaggio peculiare dei pubblicitari, creativi
e professioni emergenti. L’acquisizione di queste variabili si fa sicuramente sul
campo, ma una loro conoscenza preliminare determina spesso se a quel
“campo” di riuscirà ad accedere oppure no.
Dal punto di vista sociale, esistono poi moltissime tribù che raggruppano
persone non tanto legate dal punto di vista parentale, ma da quello di vista
culturale, valoriale e simbolico: c’è la tribù dei lavoratori creativi, la tribù dei
lavoratori della conoscenza, le tribù degli artigiani, dei commercianti, degli
industriali, degli imprenditori, dei manager, le tribù che scorrazzano nei
territori della pubblica amministrazione, del no profit, dell’associazionismo
e del privato sociale, della sanità e dell’educazione, della Chiesa e del clero.
Avvicinandoli e passandoci un po’ di tempo insieme l’antropologo si renderà
subito conto di come queste tribù, al loro interno, condividano una cultura
abbastanza omogenea che idealmente può portare al riconoscimento di un
ideal-tipo di orIgine weberiana che aiuta moltissimo durante i movimenti dei
primi periodi: ad esempio, è molto utile mettere a fuoco in fretta le
caratteristiche principali di un HOMO FABER (artigiano) rispetto ad un HOMO
MANAGERIALIS (manager), oppure un HOMO STATALIS (dipendente pubblico)
rispetto a HOMO CREATIVUS al fine di essere più efficaci dal punto di vista
comunicativo e relazionale. Tuttavia questa opzione deve essere vista come un
espediente euristico per non farsi sopraffare dalla cosiddetta “complessità” che
tutto distingue e nulla coordina: a mano a mano che si procederà in profondità
nell’analisi verranno a galla varie peculiarità che dipendono da settori specifici,
formazioni individuali e idee di sviluppo. Articolare un dialogo tra elementi
Stocchero D. – Tre post sull’antropologia professionale
culturali comuni e peculiarità specifiche è una delle sfide dell’antropologia
culturale.
Può sembrare una bazzecola, ma questo modello di schematizzazione degli
HOMO (orizzontale), in analogia con quanto fatto dal punto di vista
evoluzionistico (verticale), può essere anche molto utile come organizzatore
della prospettiva antropologica e fornire molti spunti creativi. Mi spiego.
L’antropologia culturale è una disciplina notoriamente ampia, forse troppo. Una
visione d’insieme credo sia fuori dalla portata del nostro attuale cervello.
Utilizzare lo schema HOMO permette di indossare diversi “occhiali
antropologici” per esplicitare a se stesso da che peculiare punto di vista si sta
pensando ad un progetto, svolgendo una ricerca e esplicitando un problema. E’
un piccolo artificio utile per non perdere mai di vista l’insieme, ossia un trucco al
servizio dell’olismo in antropologia culturale.
Possiamo pertanto parare di HOMO ECONOMICUS, SAPIENS, POLITICUS,
LUDENS, BIOLOGICUS, TECNOLOGICUS, DIGITALIS….a seconda di quale aspetto
della cultura stiamo considerando. Una piccola lampadina che ci fa essere
coscienti che non stiamo mai considerando TUTTO l’uomo, ma solo alcune parti
distinte che andranno, nei casi più felici, a costituire una sintesi. Queste ideazioni
possono essere utilizzate anche per favorire l’individuazione di soluzioni
creative: quali HOMO devo considerare per risolvere al meglio un problema in
un dato ambito? In ambito aziendale, ad esempio, considerare solo HOMO
ECONOMICUS è riduttivo (è ciò che facevano i primi consulenti aziendali)
mentre aggiungendoci anche HOMO POLITICUS e LUDENS riesco a inserire nel
mio sistema anche riflessioni e punti di vista inerenti la socialità, politicità e
relazionalità degli uomini, oltre alla irriducibile componente ludica che
accompagnano molte attività umane ben riuscite (presente il lavorare
divertendosi?)… un risultato? La formazione outdoor ad esempio, esplosa
Stocchero D. – Tre post sull’antropologia professionale
recentemente (benchè inventata da un pedagogista negli anni ’40) che guarda al
mondo della formazione business in maniera completamente diversa, unendo
appunto HOMO ECONOMICUS, POLITICUS E LUDENS con una spruzzatina di
HOMO BIOLOGICUS (attività a contatto con la natura). In precedenza la
formazione manageriale era quasi solamente contenutistica, spesso noiosa e
molto poco relazionale. I nuovi modelli di leadership invece stanno diventando
sempre più antropologici. Con risultati molto interessanti. Provare il modello
HOMO per credere!
Quindi linguaggi del lavoro e tribù operative. Questo si trova davanti un
antropologo che voglia spendere le proprie competenze nel mondo del lavoro.
Comprenderle è il primo passo per costruirsi un percorso professionale
originale, riuscendo a reperire informazioni precise che ci dicano dove siamo,
cosa fanno gli altri, cosa possiamo fare noi.

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Tre post sull'antropologia professionale

  • 1. Stocchero D. – Tre post sull’antropologia professionale Riedizione leggermente modificata di tre post pubblicati anni fa con alcune riflessione attorno alla professionalizzazione dell’antropologia culturale. Ad uso soprattutto degli studenti dei primi anni del CdL in Antropologia Culturale. La transizione avvenuta nel nostro Paese che ha portato alla nascita dei CdL in Antropologia Culturale non è stata accompagnata da una adeguata discussione e riflessione sulla posizione professionale dei laureati, lasciati quasi completamente a loro stessi, stritolati tra le aspettative crescenti che conseguono ad un investimento nella formazione di 5 anni di studi e la situazione di totale silenzio e mancanza di interlocutori, i docenti per primi, che aiutino a sviluppare riflessioni, visioni, azioni, tentativi, esperimenti. Fino a quando laurearsi in Antropologia Culturale consisteva nell’aver seguito un corso all’interno di un altro corso di laurea affine, per poi intraprendere un lavoro di tesi con un relatore antropologo, le aspettative professionali erano basse. Era una scelta di nicchia, poco diffusa, all’interno di un percorso di studi diverso. Era pura iniziativa personale, avventurosa, appassionante, ma che non portava a particolari rivendicazioni sul lato professionale. Con l’introduzione delle lauree triennali e magistrali in Antropologia Culturale il discorso, nel giro di pochi anni, è completamente mutato. E’ chiaro che investire tre-cinque anni della propria formazione in maniera esclusiva nell’Antropologia Culturale fa sviluppare tutta una serie di aspettative, desideri, frustrazioni, necessità rispetto al proprio futuro che prima non erano presenti. Nessuno sembra intercettare questo bisogno legittimo degli studenti. Non si tratta di creare un sindacato, di fare lobby al ministero o di intavolare in fretta e furia un sito web che rimandi una immagine di professionismo formale. O, per lo meno, non solo di questo. Si tratta di cominciare a individuare, produrre, adattare, far circolare, analizzare e metabolizzare contenuti originali, aggiornati e specifici di cosa sia e possa essere una professionalità antropologica adeguata al mondo dei nostri giorni. Questa conoscenza deve avere gli studenti come destinatari ma anche come protagonisti, in quanto portatori di necessità nuove e aperti alla radicale creatività che, tra le diverse scienze sociali, l’antropologia culturale può esprimere al meglio. Tra accademia e mondo del lavoro Serve passare da essere studente-all’università e essere lavoratori-nel-mondo. Transizione che devono effettuare tutti gli studenti dei diversi corsi di laurea è che porta ad un radicale cambio di status. Essendo antropologi, dovrebbe risultare (più) agevole riuscire a fare un’analisi comparata tra ciò che comporta essere studenti all’università e lavoratori (magari parlando con chi già lavora da qualche anno, o sfruttando l’esperienza, preziosissima, di studenti lavoratori), riuscendo a mettere a fuoco le differenze e le analogie, ovviamente dal punto di
  • 2. Stocchero D. – Tre post sull’antropologia professionale vista culturale e operativo, tra le due situazioni. E’ un utile esercizio di riflessività che aiuta a raccogliere info importanti. In altre parole, in che rapporto sta il “mondo di studenti” dal “mondo di lavoratori”?. Sono diverse le cose che si fanno, il modo in cui si fanno, il fine, il rapporto con il tempo, con le persone. Insomma, due mondi a tratti opposti. L’antropologo Riall Nolan (Anthropology in practice, p. 130 –>) mi aiuta a esplicitarne alcuni. La prima variabile riguarda la stabilità del contesto. Molto alta quella accademica, assai bassa quella lavorativa: va considerata l’altissima precarietà all’ingresso del mondo del lavoro ormai in tutti i settori, e l’alta mobilità registrata soprattutto nei primi tre anni di attività. La seconda riguarda la conoscenza. In accademia la si assorbe, nel lavoro la si deve usare. La terza riguarda le idee e il linguaggio. L’accademia incoraggia lo sviluppo e la discussione di idee, l’elaborazione linguistica, la ricercatezza stilistica, nel mondo del lavoro servono soluzioni che funzionano, risultati concreti, badando meno alla forma e più alla sostanza. La quarta riguarda la relazionalità tra persone. L’esperienza accademica è soprattutto individuale, sia nella motivazione che nel controllo. Nel mondo del lavoro, e oggigiorno sempre di più, si è sempre in squadra (orizzontale) e inserita in una gerarchia (verticale). Inoltre, lo studente ha a che fare con suoi pari status (altri studenti) per la maggior parte del tempo, vivendo di fatto in un ambiente molto omogeneo. Nel mondo del lavoro l’eterogeneità di età, ruoli e esperienze è la norma. La quintA riguarda la tipologia di sforzo richiesto. All’università è sporadico, prevedendo momenti di puro relax a momenti molto stressanti (sessione d’esame). Nel mondo del lavoro lo sforzo richiesto è continuo e spesso crescente.
  • 3. Stocchero D. – Tre post sull’antropologia professionale La sesta riguarda il tipo di valutazione a cui si è sottoposti. All’università si è valutati dal docente in base alle proprie risposte, nel mondo del lavoro in base alle conseguenze delle proprie scelte e ai risultati che spesso dipendono in buona misura anche da variabili di contesto (ciò che fanno, pensano, dicono gli altri, il tempo dato, gli imprevisti). Il libro ne cita altre ma ritengo queste le fondamentali. Salta subito all’occhio quanto studiare e lavorare siano, alla base, esperienze e situazioni completamente diverse. In particolare, la maggior differenza riguarda secondo me la variabile relazionale, cioè saper essere produttivi e concreti all’interno delle logiche di un gruppo di lavoro, quasi assente nella maggior parte dei corsi di laurea (con importanti eccezioni comunque). Inoltre, è completamente diverso l’approccio alla conoscenza: all’università è più quantitativa (quanto so? Sono pronto per l’esame?) nel mondo del lavoro è assolutamente qualitativa (quello che so è utile in quel contesto? con quello che so, so risolvere i problemi? Se non so qualcosa, riesco a cavarmela reperendo in fretta l’informazione e sapendola usare subito?) Trovo interessante notare che alcune di queste caratteristiche sono propriamente culturali. Hanno cioè a che vedere con la specifica cultura dell’accademia e la specifica cultura del lavoro. Nessuno vieterebbe di introdurre una grossa componente relazionale all’università, ma in Italia si fa molto poco nei corsi istituzionali. Ci si dedica a ciò soprattutto agli spritz. Ugualmente, molti ambienti lavorativi vedono il produrre idee e elucubrare con linguaggio preciso e accorto una perdita di tempo, senza capire che a volte fermare gambe e mani e accendere il cervello potrebbe aiutare l’azienda più del continuo corri-corri. Cultura. Compito degli antropologi applicati contribuire per cambiare le cose, qualora si riveli utile.
  • 4. Stocchero D. – Tre post sull’antropologia professionale L’eptalogo dell’antropologo professionista Leggendo il pionieristico volume di Moreno Tiziani “Professione antropologo” ho liberamente ricostruito un eptalogo attorno al quale incardinare un pensiero riflessivo, e un discorso concreto, sull’antropologia professionale: – Meglio cominciare presto a pensare in ottica “professionale”. Dal momento che il destino di ogni studente è, si spera, quello trasformarsi in lavoratore, meglio cominciare fin da subito a adottare un punto di vista consapevole sulla propria traiettoria di “carriera”. Da “studenti superiori” informarsi in maniera dettagliata di cosa offra e come sia organizzato il mondo universitario, da “studenti universitari” apprendere non solo contenuti da esame, ma anche abilità organizzative e di gestione del porprio tempo, capacità di sviluppare capitale sociale e relazionale, scambiando informazioni e partecipando ad esperienze formative diverse dai corsi di studio (convegni, workshop, Erasmus, volontariato, lavoro all’università convenzionato). Inoltre, curare la definizione di un piano di studi che sia sartoriale, tagliato su misura, e conduca verso un lavoro di tesi che appassioni, durante il quale si possa dare il meglio. La tesi di laurea, magari accompagnata da un periodo di ricerca e/o seguita da un tirocinio, è uno snodo fondamentale per le possibilità concrete che può aprire dal versante lavorativo. Riassumendo, una mentalità autonoma e attiva, curiosa e organizzata, fondamentale per qualsiasi professione, e ancora più per quella nascente di antropologo, andrebbe coltivata fin da ragazzi in una prospettiva di “crescita continua”. – Guardare all’estero. Sia per vedere cosa succede, per vedere le differenze con il proprio Paese, per provare ad andarci davvero a fare qualcosa. L’antropologia è per natura un sapere cosmopolita, e la professione necessità di una apertura mentale quanto più articolata e compiuta possibile. Per un antropologo avere un sentire cosmopolita è come per un commercialista essere
  • 5. Stocchero D. – Tre post sull’antropologia professionale preciso nei conti, per un medico essere scrupoloso nella diagnosi, per un filosofo avere proprietà di linguaggio: semplicemente indispensabile. – Avere una conoscenza ampia del proprio ambito disciplinare. Come l’antropologia fisica-biologica non è un monolite, ma dialoga con settori, ambiti e prospettive conoscitive quali l’osteologia e la primatologia, la paletnologia come l’ecologia umana, l’antropologia molecolare come la bioarcheologia, l’antropologia culturale che “si occupa di cultura” e l’antropologia sociale che si “occupa di società” sono ormai degli stereotipi. Uno studente di antropologia dovrebbe conoscere, almeno per sommi capi, i principali settori sub-disciplinari, in quanto in ognuno di essi possono nascondersi delle prospettive fruttuose di applicazione, oltre che fornire intuizioni utili in campi affini: antropologia economica, antropologia ecologica, antropologia del lavoro, dell’impresa e dell’organizzazione, cyber-antropologia, antropologia medica, antropologia dello sviluppo, solo per citarne alcune di ben consolidate, andrebbero comprese e “possedute” nei loro caratteri fondamentali di linguaggi, modelli, problemi affrontati e autori di riferimento. – Raccogliere informazioni inerenti le applicazioni dell’antropologia. Compaiono sempre più spesso articoli di quotidiani e riviste specializzate dove la parolina “antropologia” o “etnografia” fanno capolino associate ai contesti più diversi: aziende, ricerca applicata, sviluppo tecnologico, evoluzione del web, servizi alla persona, ecc. Raccoglierli, analizzarli, fare ricerche di approfondimento sul web aiuta a assimilare informazioni preziose per capire cosa fanno, gli altri, con l’antropologia, e fa sentire un po’ meno soli e isolati con le proprie “ambizioni applicative” – Cominciare a farsi un’idea di quella precaria forma di vita che è il “consulente freelance”. Ossia, verosimilmente, l’assetto professionale che l’antropologo potrebbe far proprio qualora decida di erogare prestazioni/servizi
  • 6. Stocchero D. – Tre post sull’antropologia professionale a committenti. Un’infarinatura di partite iva, casse di previdenza, fatture, ritenute d’acconto e burocrazia mista all’italiana non dovrebbero essere viste come cose che “riguardano sempre e solo gli altri”. In quanto antropologi con ambizioni professionali, diventeranno il pane quotidiano per almeno qualche anno, se non per sempre. Anche quella della burocrazia, delle istituzioni, è una forma di cultura. L’antropologo dovrebbe muoversi a proprio agio al suo interno. L’antropologia della burocrazia è un ambito di consocenza prezioso per l’antropologo professionista. – Pensare antropologicamente, cioè in maniera olistica e interdisciplinare. Moreno tratta con competenza, pur senza cadere in tecnicismi, della necessità di pensare in maniera antropologica integrata, senza ciò suddividere a priori l’antropologia biologica da quella culturale, sforzandosi di trovare delle prospettive che siano sinergiche e fruttuose. La prospettiva bioculturale è una possibilità ancora in gran parte sconosciuta nel nostro paese: pensiamo al rapporto tra cultura e emozioni, all’aggressività sociale, alle tecnologia della riproduzione, alle biotecnologie, alla bioeconomia, agli ibridi bio-neuro-tecnologici e alle frontiere da queste aperte dal punto di vista culturale, etico e sociale: perdere completamente di vista che l’uomo è un essere bioculturale non farà di noi dei migliori professionisti, qualsiasi sia l’ambito di attività. – L’attività professionale contempla una profonda riflessione etica. L’antropologo professionista fa, giocoforza, antropologia pubblica, perché offre servizi che realizzano delle policy, cioè delle linee programmatiche, degli obiettivi da raggiungere volti a modificare la realtà sociale e pubblica. Obiettivi, procedure, attori in gioco, gradi di vulnerabilità differenti, rischi di generare effetti inopportuni, se non dannosi, accompagnano l’attività giornaliera di qualsiasi professionista. L’antropologo, lavorando in contesti complessi, a volte conflittuali, dove l’elemento umano è sempre preponderante e esposto ad un
  • 7. Stocchero D. – Tre post sull’antropologia professionale campo di forze variabile, necessità di precise linee guida etiche. L’antropologo professionista lavora nella società, e costruisce la propria ragion d’essere su credibilità, correttezza, professionalità. Senza etica professionale non esiste alcuna professione. Queste sono solo alcune semplici riflessioni che si possono articolare leggendo il bel libro di Moreno. Moltissimi altri dettagli e spunti fondamentali si trovano tra gli agili paragrafi, e costituiscono una base di lavoro di gran qualità per continuare a pensare, concretamente e nel merito, le potenzialità della professione di antropologo. Importanti gli esempi pratici di applicazione che vengono descritti nel libro, senza tralasciare alcun ambito di intervento. Antropologi al lavoro: linguaggi, tribù e lo schema HOMO L’antropologo che voglia utilizzare le proprie conoscenze e competenze nel mondo del lavoro avviando un percorso lavorativo autonomo necessità di mettere a fuoco alcune questioni specifiche. Il mondo del lavoro infatti parla un linguaggio diverso da quello accademico, ossia possiede una cultura diversa. Dà valore a cose diverse, ha priorità diverse, bisogni diversi, credenze diverse. Esso è, come è ovvio, culturalmente eterogeneo, popolato da tribù spesso in conflitto tra loro per motivi ideologici e storici. E’ opportuno pertanto che il giovane antropologo prenda confidenza con queste culture esattamente nello stesso modo con cui prende confidenza all’inizio con le culture etnografiche, di cui viene ritenuto esperto. La prima cosa che insegnano all’università è quella di imparare la lingua dei nativi, in modo da potersi relazionare con loro nel modo migliore. Ciò non è sempre immediato.
  • 8. Stocchero D. – Tre post sull’antropologia professionale Prima della partenza per la mia ricerca etnografica in Guinea Bissau avevo seguito dei corsi di portoghese, ma ho scoperto ben presto che quella lingua si usava al massimo negli uffici della capitale, mentre nelle zone periferiche si parlava il criolo, un mix molto orecchiabile di portoghese e dialetti dei gruppi etnici principali. Lo sforzo iniziale aiutò, ma alla fine il lavoro venne fatto primariamente con un interprete locale e solo verso la fine della ricerca riuscii a muovermi in maniera linguisticamente più autonoma. La situazione è analoga per un antropologo culturale che si affacci al mondo del lavoro: conosce il linguaggio del settore di riferimento? Conosce le caratteristiche principali delle tribù? Ciò è fondamentale, perché con una laurea in antropologia e con l’ambizione di voler lavorare come antropologi si è estranei al nostro mondo italiano almeno tanto quanto io risultavo estraneo nell’esotica Guinea Bissau. A sentire certi discorsi italioti sull’antropologia, pare persino di più, perché l’essere in Guinea Bissau in qualità di antropologo ha un suo senso storicamente dato e codificato, mentre il lavorare nella nostra società come antropologi ne avrà uno solo se lo si riuscirà a costruire. Ma quali linguaggi si usano nella cultura del lavoro? Chiaro che questo ognuno lo scopre entrando piano piano nel proprio contesto prescelto, ma ce ne sono alcuni che sono generali: stilare un progetto realistico (consapevoli dei vari attori coinvolti, in primis il committente), pensare in ottica consulenziale, sviluppare abilità di problem setting e solving, emettere una regolare fattura riuscendo a farsela pagare, costruire e mantenere una rete di contatti e relazioni utili per lavorare, seguire un piano di autoformazione e aggiornamento professionale (la conoscenza evolve) per acquisire nuove competenze (metodi di lavoro, di ricerca, di produzione , di comunicazione) e nuove conoscenze (teoriche sul comportamento dell’uomo, tecnologiche su nuovi strumenti, settoriali per nuovi sbocchi operativi).. .
  • 9. Stocchero D. – Tre post sull’antropologia professionale Troviamo poi tutta una serie di gergalità specifiche nei vari settori, che vanno da quelle tecnologiche e dell’ICT a quelle proprie dell’ambiente burocratico, da quelle degli artigiani (espresse spesso in dialetto) fino agli stili espressivi delle grandi amministrazioni private, dal linguaggio peculiare dei pubblicitari, creativi e professioni emergenti. L’acquisizione di queste variabili si fa sicuramente sul campo, ma una loro conoscenza preliminare determina spesso se a quel “campo” di riuscirà ad accedere oppure no. Dal punto di vista sociale, esistono poi moltissime tribù che raggruppano persone non tanto legate dal punto di vista parentale, ma da quello di vista culturale, valoriale e simbolico: c’è la tribù dei lavoratori creativi, la tribù dei lavoratori della conoscenza, le tribù degli artigiani, dei commercianti, degli industriali, degli imprenditori, dei manager, le tribù che scorrazzano nei territori della pubblica amministrazione, del no profit, dell’associazionismo e del privato sociale, della sanità e dell’educazione, della Chiesa e del clero. Avvicinandoli e passandoci un po’ di tempo insieme l’antropologo si renderà subito conto di come queste tribù, al loro interno, condividano una cultura abbastanza omogenea che idealmente può portare al riconoscimento di un ideal-tipo di orIgine weberiana che aiuta moltissimo durante i movimenti dei primi periodi: ad esempio, è molto utile mettere a fuoco in fretta le caratteristiche principali di un HOMO FABER (artigiano) rispetto ad un HOMO MANAGERIALIS (manager), oppure un HOMO STATALIS (dipendente pubblico) rispetto a HOMO CREATIVUS al fine di essere più efficaci dal punto di vista comunicativo e relazionale. Tuttavia questa opzione deve essere vista come un espediente euristico per non farsi sopraffare dalla cosiddetta “complessità” che tutto distingue e nulla coordina: a mano a mano che si procederà in profondità nell’analisi verranno a galla varie peculiarità che dipendono da settori specifici, formazioni individuali e idee di sviluppo. Articolare un dialogo tra elementi
  • 10. Stocchero D. – Tre post sull’antropologia professionale culturali comuni e peculiarità specifiche è una delle sfide dell’antropologia culturale. Può sembrare una bazzecola, ma questo modello di schematizzazione degli HOMO (orizzontale), in analogia con quanto fatto dal punto di vista evoluzionistico (verticale), può essere anche molto utile come organizzatore della prospettiva antropologica e fornire molti spunti creativi. Mi spiego. L’antropologia culturale è una disciplina notoriamente ampia, forse troppo. Una visione d’insieme credo sia fuori dalla portata del nostro attuale cervello. Utilizzare lo schema HOMO permette di indossare diversi “occhiali antropologici” per esplicitare a se stesso da che peculiare punto di vista si sta pensando ad un progetto, svolgendo una ricerca e esplicitando un problema. E’ un piccolo artificio utile per non perdere mai di vista l’insieme, ossia un trucco al servizio dell’olismo in antropologia culturale. Possiamo pertanto parare di HOMO ECONOMICUS, SAPIENS, POLITICUS, LUDENS, BIOLOGICUS, TECNOLOGICUS, DIGITALIS….a seconda di quale aspetto della cultura stiamo considerando. Una piccola lampadina che ci fa essere coscienti che non stiamo mai considerando TUTTO l’uomo, ma solo alcune parti distinte che andranno, nei casi più felici, a costituire una sintesi. Queste ideazioni possono essere utilizzate anche per favorire l’individuazione di soluzioni creative: quali HOMO devo considerare per risolvere al meglio un problema in un dato ambito? In ambito aziendale, ad esempio, considerare solo HOMO ECONOMICUS è riduttivo (è ciò che facevano i primi consulenti aziendali) mentre aggiungendoci anche HOMO POLITICUS e LUDENS riesco a inserire nel mio sistema anche riflessioni e punti di vista inerenti la socialità, politicità e relazionalità degli uomini, oltre alla irriducibile componente ludica che accompagnano molte attività umane ben riuscite (presente il lavorare divertendosi?)… un risultato? La formazione outdoor ad esempio, esplosa
  • 11. Stocchero D. – Tre post sull’antropologia professionale recentemente (benchè inventata da un pedagogista negli anni ’40) che guarda al mondo della formazione business in maniera completamente diversa, unendo appunto HOMO ECONOMICUS, POLITICUS E LUDENS con una spruzzatina di HOMO BIOLOGICUS (attività a contatto con la natura). In precedenza la formazione manageriale era quasi solamente contenutistica, spesso noiosa e molto poco relazionale. I nuovi modelli di leadership invece stanno diventando sempre più antropologici. Con risultati molto interessanti. Provare il modello HOMO per credere! Quindi linguaggi del lavoro e tribù operative. Questo si trova davanti un antropologo che voglia spendere le proprie competenze nel mondo del lavoro. Comprenderle è il primo passo per costruirsi un percorso professionale originale, riuscendo a reperire informazioni precise che ci dicano dove siamo, cosa fanno gli altri, cosa possiamo fare noi.