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Fiorio L., Stocchero D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale?
Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno III, n°1 121
Lucia Fiorio, Davide Stocchero
Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale?
Abstract
This article discusses the paradigmatic shift occurring in many professional practices, particularly referred to applied anthropology. In
order to clarify some important points about the nature of epistemology of practice in professional anthropology, the authors try to
define some features of the move from a Technical Rationality Model to a Reflexivity in Action Model. The main arguments to
support the validity of the latter in professional anthropological practice are discuss. An example of reflexivity-in-context in shown, to
support the importance of this kind of training in the career of anthropology students, sustaining the idea the reflexivity approach
could be the methodological core of the professional practice in anthropology.
Keywords
Riflessività, professione, epistemologia, pratica, formazione.
______________________________________
Una fiaba africana narra che un giorno, nella foresta, scoppiò un incendio devastante.
Tutti gli animali si diedero alla fuga. Un leone scorse un colibrì che volava in direzione
dell’incendio: preoccupato, cercò di fermare il colibrì per fargli cambiare direzione, ma
l’uccellino spiegò che stava andando a spegnere l’incendio. Il leone, meravigliato,
replicò che era impossibile spegnere l’incendio con la goccia d’acqua che portava nel
becco, ma il colibrì con decisione replicò: “Io faccio la mia parte”.
(cit. in “A scuola di libertà” di Luigina Mortari – Cortina)
Mi piace pensare gli antropologi culturali come dei colibrì intenti nell’impresa di spegnere l’incendio
del conformismo, che tutto brucia e rende secco nella vita sociale e culturale di un Paese. Da piccoli
colibrì, in questo articolo cercheremo di approfondire il tema dell’agire professionale in antropologia
culturale.
Sappiamo tutti come l’antropologia culturale sia una disciplina che gode di un discreto radicamento e
diffusione nell’accademia italiana. Realtà recente nel panorama istituzionale delle scienze umane e
sociale, vive periodi alterni di espansione e (rara) fortuna e altri di implosione e (notevole) umiliazione
pubblica. Ciò non ci scoraggia nel nostro compito, ma anzi ci stimola.
Si tratta, in sintesi, di porre una questione che riteniamo tanto centrale quanto tralasciata all’interno
della disciplina antropologica: come poter pensare e agire l’antropologia in chiave professionale. Allo
stato attuale, infatti, l’antropologia professionale non è tanto una prospettiva impossibile, bensì
impensabile. C’è un crescente numero di laureati che muove in primi passi in versione professionale e
operativa in diverse realtà, ma questo non sembra metterli nelle condizioni di riuscire ad articolare un
discorso compiuto che sostenga la propria azione professionale. Emergono numerosi e originali
tentativi di agire professionalmente usando l’antropologia come mezzo operativo, ma sembra ancora
mancare, o essere debole, un paradigma operativo esplicito e, per quanto possibile, condiviso e
condivisibile per chi lo ritenga utile e valido.
In altre parole, resta non posta, e quindi senza risposta, la domanda: come opera e cosa fa realmente
l’antropologo professionista?
Io penso che l’agire professionale dell’antropologo esista, seppur frammentato, ma resti ad un livello
implicito. È un po’ come chiedere ad un artigiano di spiegare la propria arte: non ci riesce.
Eventualmente può mostrartela nel mentre del proprio compiersi, ma non riesce a verbalizzarla, perché
non è questa la natura di tale arte. Occorre un esercizio speciale per riuscire a dire quello che si sa, e
ancora di più per spiegare ciò che si fa. Soprattutto dopo anni che questo sapere si stratifica dentro di
noi, fino a incorporarsi nel nostro essere, e fluire così naturalmente nel corso dell’azione da non essere
quasi rilevato. Una sorta di flusso operativo perfettamente opportuno e integrato, che produce esiti reali
di comprensione e cambiamento, ma di cui nessuno coglie agevolmente la struttura.
Fiorio L., Stocchero D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale?
122 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno III, n°1
Ogni antropologo professionista crea il proprio agire professionale a partire da numerose variabili: la
formazione accademica, quella extra-accademica, gli interessi personale, lo stile cognitivo, i contesti
operativi, le passioni, le preferenze e le inevitabili difese. Pare esistere però qualcosa di ancora più
profondo. Ogni professionista si inserisce all’interno di un campo ideologico, che ha basi sia filosofiche
che sociologiche, che lo determinano a-priori rispetto ad altre questioni successive. Esiste qualcosa che
è comune cioè a tutti i professionisti, indipendentemente da come siano poi declinati nelle varie forme
del professionalismo contemporaneo.
È una sorta di matrice comune, di imprinting, che determina poi tutto il conseguente. Sono i germi
della cultura e dell’ideologia professionale che fanno da contesto all’interno del quale nasce, cresce e si
articola il proprio agire professionale.
Mi chiedo da tempo come questo imprinting influenzi gli antropologi che decidono di intraprendere il
percorso professionale, e come questo co-determini le successive evoluzioni peculiari dell’antropologo
professionista, qualsiasi siano gli ambiti dove interviene con le proprie competenze e azioni.
Iniziamo quindi questo viaggio esplorativo, che non sarà esaustivo ma – spero – almeno utile a
pensare e chiarire diversi aspetti dell’antropologia professionale.
Essere professionisti infatti non è solo inerente ad esercitare determinate attività, ma riguarda il saper
compiere delle precise azioni, in un determinato contesto di pratiche, all’interno di un ambiente
culturale molto complesso e in rapido mutamento.
A meno che l’antropologo professionista non aspiri ad essere un professionista completamente sui
generis, che nulla abbia cioè da spartire con tutta la galassia professionale già esistente (posizione
possibile, certo, ma decisamente pericolosa e inconcludente), deve giocoforza conoscere le generali
logiche professionali e i codici comunicativi e operativi connessi. L’antropologo professionista –
vedremo in quali modi definito – deve in primo luogo costruirsi un cosiddetto ‘mercato’ di domanda
(altrui) e offerta (la propria), imparare in seguito ad abitarlo operativamente e in ultimo luogo sapere
come espanderlo e incrementarlo per garantirsi prima sopravvivenza e poi crescita.
È fondamentale quindi non solo analizzare dall’interno la professionalità dell’antropologo, ma
comprendere in maniera non superficiale anche la professionalità altrui, in modo da confrontare
modelli e pratiche di intervento, perché gli altri professionisti nel mercato, per specifiche nicchie,
possono essere sia colleghi che concorrenti: l’antropologo deve cioè mappare l’ecosistema all’interno
del quali intende inserirsi con il proprio sapere professionale.
Inizieremo questo percorso utilizzando un libro scritto da Donald Schön nel 1983, tradotto in
italiano solo dieci anni dopo. Schön è un esperto di studi urbani e pianificazione, per molti anni
professore al MIT di Boston. Il libro si intitola Il Professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della
pratica professionale. Il titolo dice già molto su quelli che saranno i cardini del nostro discorso.
Schön ha dedicato l’intera vita professionale a lavorare a stretto contatto con professionisti di vari
settori per capire dall’interno come fanno a fare ciò che fanno. Si può dire, dal punto di vista
antropologico, che abbia fatto ricerca come farebbe un etnografo delle professioni. Trattando i
professionisti come una comunità di pratiche che sviluppa delle culture simboliche, analitiche e
operative peculiari, ha analizzato nel dettaglio i differenti stili operativi, diventando uno dei più grandi
esperti di formazione ed epistemologia professionale in ambiti quali l’ingegneria, il management e gli studi
urbani e architettonici. Vedremo come le sue riflessioni possano essere veramente illuminanti anche per
sostenere le nascenti riflessioni sull’antropologia professionale.
La critica e la debolezza del professionismo contemporaneo
Le nostre società attuali sono letteralmente invase da professionisti. Sono gli agenti fondamentali per
dare forma (problem setting) e possibile soluzione (problem solving) a tutti i problemi che l’uomo può
incontrare durante la propria vita. Secondo i sociologi, grazie ad essi dovrebbe realizzarsi il cosiddetto
‘progresso sociale’. Nel campo della salute, dell’educazione, dell’impresa, dell’amministrazione pubblica,
delle infrastrutture, della tecnologia, della difesa e della sicurezza, ogni Paese affida ai professionisti le
chiavi dei suoi sistemi più delicati e fragili.
I percorsi professionalizzanti garantiscono, o forse è più corretto dire garantivano, carriere
importanti, veloci e sicure, oltre che retribuzioni e status sociale di tutto rispetto. L’immaginario
Fiorio L., Stocchero D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale?
Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno III, n°1 123
comune attorno allo stereotipo del professionista tipo lo vede come maschio, qualificato, autonomo,
esperto, affidabile, socialmente apprezzato e individualmente impegnato a sostenere con le proprie
competenze, sempre aggiornate, la soluzione dei problemi altrui. Ai nostri giorni tutto questo è un
ricordo. Da più parti, da ormai tre decenni, arrivano segnali crescenti di una perdita di fiducia nel
giudizio esperto dei professionisti.
Di più, non solo la fiducia nei professionisti sta diminuendo in tutto il mondo, ma viene messa
radicalmente in dubbio la loro pretesa di possedere conoscenze straordinarie su questioni importanti
per l’umanità. Questo in seguito a innumerevoli episodi nei quali si vedono degli interventi esperti dare
risultati peggiorativi rispetto al problema originario, oppure alla gestione troppo disinvolta di questioni
etiche e deontologiche, oppure un orientamento professionale volto al tornaconto esclusivamente
personale e dannoso per la collettività.
La nascita dell’industria della conoscenza e la sempre maggiore complessità sociale, unita alla
completa burocratizzazione non solo della vita pubblica ma ormai anche di quella privata, porta ad un
radicale cambiamento nella percezione della figura del professionista contemporaneo. Lo scetticismo
prevale ormai in tutti gli ambiti dell’azione professionale e sembra venuto meno quel rapporto di mutua
fiducia tra cittadino e professionista che vedeva il primo avanzare le proprie richieste al secondo in
fiduciosa attesa di una soluzione, e il secondo fornire questa soluzione con un occhio al singolo e uno
alla collettività.
Il mondo pare essere improvvisamente diventato un luogo così complicato e imprevedibile che chi si
presenta come ‘esperto di qualcosa’ viene immediatamente sepolto da critiche a priori o da accuse di
incompetenza al primo tentennamento o errore. Sono decisamente tempi duri per essere professionisti.
Questo pone una domanda cruciale su tutte: la conoscenza professionale è adeguata ad affrontare i
bisogni e i problemi della società contemporanea? Se si, con quali criteri di adeguatezza?
Il rapido cambiamento tecnologico e culturale pone i professionisti di qualsiasi ambito davanti a
sfide di adattabilità enormi. Le conoscenze e le procedure tecniche che si sono mostrate abbastanza
efficaci fino a qualche decennio fa falliscono miseramente nella nuova realtà sociale. Le situazioni che il
professionista si trova ad affrontare non sono più solo problemi da risolvere bensì situazioni
problematiche caratterizzate da crescente indeterminatezza e incertezza. Sono situazioni non solo
difficili da affrontare, ma anche da definire. Sembra non esistano più problemi singoli: troviamo solo
grovigli di problemi. Ciò dovrebbe essere ben noto agli antropologi professionisti, vista la prospettiva
olistica e non riduzionistica della loro disciplina. I problemi antropologici non sono mai singoli e gli
eventi sono tutti unici: le peggiori condizioni per un intervento professionale tradizionale.
Posti di fronte a questo nuovo stato di cose i professionisti hanno visto un proliferare di visioni
contrastanti su quale sia il modo migliore di affrontare i problemi incerti e mutevoli del mondo: non
bastava più una procedura standardizzata. La conseguente pluralità nell’agire professionale ha minato
ulteriormente l’identità e la credibilità dei professionisti, sempre più confusi dalla proliferazione sub-
disciplinare e dalla molteplicità dei modelli epistemologici di intervento.
Quale epistemologia professionale?
Tutto il mondo professionale tradizionale si basa sul modello epistemologico della Razionalità
Tecnica (RT). Secondo questo modello “l’attività professionale consiste nella soluzione strumentale di
problemi resa rigorosa dall’applicazione di teorie e tecniche a base scientifica”. (Schön 1993: 49) Questo
assunto sta alla base di tutte le professioni e di tutti i rapporti sociali e istituzionali tra sapere,
professionisti e istituzioni. Esso ha precise ricadute in termini economici, educativi e di pianificazione
politica. È uno dei capisaldi ideologici della nostra forma culturale occidentale basata sulla scienza e
sulla tecnologia.
Da questo consegue che le professioni sono attività lavorative specialistiche che si fondano su due
pilastri: 1) un reale campo di conoscenze che lo specialista dichiara di dominare e 2) la tecnica di
produzione o di applicazione di conoscenze di cui lo specialista rivendica padronanza
Sintetizzando al massimo, possiamo quindi definire il professionista come quell’esperto che possiede
una capacità specialistica fondata su una teoria. Ecco che arriviamo alla distinzione tra professioni
maggiori e professioni minori, in relazione al fine al quale queste tendono. Abbiamo quindi da un lato
Fiorio L., Stocchero D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale?
124 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno III, n°1
professioni quali la medicina, la giurisprudenza e la gestione aziendale, che conducono a fini che
quietano le menti degli uomini – salute, successo nelle cause, profitto – e che si svolgono all’interno di
contesti istituzionali stabili. Dall’altro abbiamo quelle che risentono di fini mutevoli, ambigui e svolte in
contesti instabili, incapaci pertanto di sviluppare una conoscenza professionale sistematica e scientifica.
Esse sono il servizio sociale, l’insegnamento, la pianificazione urbana.
Come si vede la questione professionale basa la propria ragion d’essere sul rapporto fra la base di
conoscenze e gli strumenti operativi che da esse emergono. Come dice Schön, si ritiene che per essere
sistematica la base di conoscenza di una professione debba possedere quattro proprietà essenziali:
essere specialistica, solidamente definita, scientifica e standardizzata. Questo pone in rapporto
gerarchico la conoscenza teorica, sede dei ‘principi generali’ e l’applicazione strumentale da essi
derivata, ‘l’attività di soluzione dei problemi concreti’ sottostante.
L’applicazione della scienza di base produce la scienza applicata. Questo rapporto logico e
gerarchico è alla base dell’assetto istituzionale e della rappresentazione pubblica del professionismo. È
ovviamente anche la chiave per capire e interpretare i rapporti tra accademia e mondo del lavoro, tra
professioni e tecnici, tra licei e scuole professionali. Si tratta di ambiti che tradizionalmente sono visti
come gerarchici, e di conseguenza portatori di valori, cognizioni e emozioni distinti. Grazie al modello
della Razionalità Tecnica è possibile comprendere e interpretare molte logiche culturali all’interno di
molteplici settori chiave nella nostra società quale quella del lavoro, della formazione e dell’istruzione,
capendo a fondo a quali dispositivi simbolici danno vita. Il modello RT è incorporato nelle istituzioni e
nei discorsi sociali, permea la comunicazione e struttura l’agire della maggior parte dei professionisti. È
il modello culturale dominante.
L’esito concreto è che la ricerca è nettamente separata dall’applicazione, l’accademia completamente
altra rispetto allo studio professionale, il ricercatore è distinto dal – e considerato superiore al –
professionista. Quello che è importante sottolineare è che non si tratta solo di una differenza di status,
ossia sociale. Si tratta di una differenza valoriale, ossia culturale. Saldandosi, i due aspetti cominciano a
scavare solchi identitari e muovono azioni di rivendicazione e di interessi diversi, al limite incompatibili
e conflittuali.
L’origine della Razionalità Tecnica va trovata del Positivismo, con la spinta al miglioramento del
benessere dell’umanità grazie all’applicazione della scienza e della tecnica. Come dice Schön, la
Razionalità Tecnica è l’epistemologia positivistica della pratica. A partire dalla Seconda Guerra
Mondiale, inizia negli USA una crescente politica di investimenti volta all’incremento di un programma
scientifico-tecnologico che portasse alla creazione di benessere diffuso, raggiungesse obiettivi di
interesse nazionale e consentisse la definitiva soluzione di problemi sociali. La medicina e l’ingegneria
divennero i modelli di riferimento di questa impresa, tanto che le scienze sociali conobbero una rapido
sviluppo adattando a queste i loro modelli, paradigmi e linguaggi.
A partire dagli anni Sessanta i professionisti stessi e l’opinione pubblica cominciarono a essere
sempre più consapevoli dei limiti evidenti dell’agire professionale tecnico. La reale capacità di risolvere
problemi diminuiva, il mondo dei fenomeni pareva esplodere. Il modello standard d’intervento tecnico
mostrava continuamente grossi limiti quando applicato in condizioni di crescente incertezza e
indeterminatezza. Ci si accorse che la troppa enfasi sulla soluzione dei problemi (problem solving) aveva
portato a trascurare la fase di impostazione dei problemi stessi (problem setting).
Come dice Schön:
[…] i problemi non si presentano al professionista come dati. Essi devono essere costruiti a partire dai materiali di
situazioni problematiche che sono sconcertanti, turbative, incerte. Per trasformare una situazione problematica in un
problema, il professionista deve svolgere un certo tipo di lavoro. Deve comprendere una situazione incerta che
inizialmente appare incomprensibile.
È in questa fase che i professionisti cominciano a riflettere sul modo mediante il quale esercitano la
loro expertise tecnica. Ciò è fondamentale nella fase di strutturazione della situazione problematica, ossia
il processo nel quale interattivamente si disegnano gli oggetti dei quali poi ci si occuperà e nel contempo
si struttura, si dà forma, al contesto all’interno del quale si andrà poi ad agire.
La RT dà il meglio di sé quando i casi da affrontare sono standardizzati e ripetitivi, oltre che
piuttosto stabili nel tempo. Se i fini sono chiari e stabili, decidere come agire è una questione di pura
Fiorio L., Stocchero D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale?
Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno III, n°1 125
strumentalità tecnica. Ma con fini confusi e incerti, è impossibile iniziare a risolvere il problema,
semplicemente perché il problema ancora non è formato, non è definito. Se i fini sono conflittuali o
indefiniti, non esiste tecnica applicata che possa condurre alla soluzione. È la situazione in cui servono
quel tipo di capacità che sono spesso definite ‘artistiche’, difficilmente standardizzabili ma necessarie
perché realmente pertinenti alla necessità di strutturazione della situazione problematica in esame.
È in questo preciso istante che il professionista sente un conflitto nella propria operatività. Sente che
il modello RT non è all’altezza di gestire la situazione, ma non tollera deviazioni artistiche che nulla
hanno da spartire con il valore fondante della rigorosa conoscenza professionale. Ovviamente ci sono
molti problemi che possono essere risolti con le procedure del modello RT, mentre molti altri
richiedono un modello diverso di riferimento epistemologico, perché si tratta si problemi aggrovigliati,
incerti, mal definiti e mutevoli nel tempo e in seguito all’intervento umano. Dice ancora Schön:
Questo dilemma fra “rigore e pertinenza” si presenta in alcuni ambiti di esercizio della professione più acuto che in
altri. Nella variegata topografia della pratica professionale vi è un terreno stabile, a livello elevato, ove i professionisti
possono fare un uso efficace di teorie e tecniche fondate sulla ricerca, e vi è una pianura paludosa ove le situazioni
sono “grovigli” fuorvianti che non si prestano a soluzioni tecniche. La difficoltà sta nella circostanza che i problemi
di livello elevato, per quanto grande sia il loro interesse tecnico, sono spesso relativamente poco importanti per i
clienti o per la più vasta società, mentre nella palude vi sono i problemi di maggiore interesse umano.
L’idea che ci siamo fatti è che l’antropologia professionale sia una tipica professione da palude. Si
basa su una teorizzazione lacunosa, parziale e superficiale, affronta grovigli problematici che si
esprimono in contesti drammaticamente variabili, è vittima di lotte ideologiche, ha pochissimi sistemi
standardizzati e, su tutto, viene pure guardata con disprezzo dagli antropologi accademici, sempre per la
storia della gerarchia teoria-pratica vista in precedenza. La questione interessante è che l’antropologia
professionale non può adottare il modello della Razionalità Tecnica perché, come abbiamo visto, non è
adatto alle situazioni problematiche che affronta. Non lo è più per discipline ben più solide,
immaginiamo per l’antropologia culturale. Con questo punto di vista si riesce a capire l’origine della
lamentela di molti studenti che accusano l’università di non dare sufficienti strumenti professionali. È
normale che ciò accada dal momento che gran parte dell’istruzione universitaria è ancora organizzata
secondo la logica positivistica e della Razionalità Tecnica: un contesto di apprendimento esclusivamente
teorico e quanto più astratto e generale possibile, tenuto da professori e ricercatori e pensato per essi.
Chi poi avrà problemi di natura professionale farà ulteriori specializzazioni esterne all’università, oppure
si formerà nel mondo del lavoro, secondo procedure e criteri che l’università ignora perché non ritiene
di dove essere essa, in quanto istituzione, a veicolarli. Ad essa attiene la ricerca per la conoscenza, tutte
le deduzioni e le trasformazioni successive in chiave professionale/applicativa non la riguardano e, anzi,
la infastidiscono pure un po’.
La infastidiscono perché rimandano l’immagine di un modello che non funziona più. Le basi della
conoscenza scientifica accademica e le esigenze della reale pratica professionale stanno divergendo
sempre di più. Pare impossibile ormai, pur con tutti gli stratagemmi, salvare il modello della Razionalità
Tecnica nelle professioni.
La riflessione nel corso dell’azione
Gli spunti che ci vengono dall’analisi di Schön ci fanno capire quanto l’antropologia professionale,
qualora si cerchi di codificarne le pratiche, risulti originale e difficilmente inquadrabile in un modello
chiaro e definito.
L’antropologo professionista non ha praticamente teoria che egli possa utilizzare secondo
l’epistemologia della Razionalità Tecnica. La teoria antropologica è un insieme di asserti e di modelli che
derivano dal lavoro di ricerca di migliaia di antropologi nei quattro angoli del pianeta inerenti a ciò che
si considera rilevante per comprendere l’uomo dal punto di vista culturale. Abbiamo quindi
configurazioni teoriche e modelli della parentela e della struttura sociale, delle forme economiche e
politiche, della pratiche rituali e relazionali con i vari aspetti delle realtà costruite dai vari gruppi umani.
Ad un’analisi un po’ disincantata è però difficile trovare un corpus teorico che legittimi il
professionista antropologo a fare interventi applicati in nome di esso. Anzi, dagli stessi antropologi la
Fiorio L., Stocchero D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale?
126 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno III, n°1
teoria antropologica è considerata work-in-progress, e un tentativo di applicarne una parte ad interventi
sociali verrebbe visto, oggigiorno, come un azzardo ai limiti della deontologia professionale.
E qui sorge un problema: secondo il modello della RT, che definisce praticamente tutte le
professioni nella loro operatività pratica all’interno della nostra società, non si dà professionismo senza
teoria. Ne consegue che secondo questo modello l’antropologia non può, ad oggi, dare alla luce
alcunché che sia definibile come ‘antropologia professionale’. In definitiva, manca un sapere da
applicare, e quindi di conoscenza professionale non può esserci nulla.
Certo, si dirà, l’antropologia ha un ambito di studi dove non è facile produrre una teoria scientifica
che sappia spiegare e prevedere le dinamiche passate e future, nota caratteristica di una scienza che si
voglia definire tale. La complessità dell’oggetto è nota, ma questo rafforza ulteriormente la marginalità
del sapere antropologico in chiave professionale: come possono gli antropologi essere legittimati in
quanto professionisti se non dispongono nella loro cassetta degli attrezzi di modelli e teorie realmente
capaci di guidarli negli interventi operativi? Quale credibilità possono sperare di guadagnarsi utilizzando
strumenti analitici poco coerenti e difficilmente validabili per essere utilizzati in contesti diversi?
In realtà ciò che ci dice Schön, e che qui cerchiamo in via intuitiva di rapportare all’antropologia
professionale, è che tutte le professioni si stanno via via allontanando dal modello RT perché esso non
regge più al confronto dei problemi che emergono dalle nostre società contemporanee. Sottoposti a
studi che potremmo definire etnografici, i professionisti che tutti conosciamo, nel mentre delle loro
operatività professionale dimostrano di agire sempre più spesso con criteri che nulla hanno a che
vedere con il modello RT, ma anzi lo contrastano apertamente. Innumerevoli azioni professionali sono
create nel mentre dell’operatività stessa all’interno di un complesso sistema cognitivo-riflessivo che
Schön ha chiamato ‘riflessione nel corso dell’azione’.
Studiando per molto tempo la reale operatività di diversi tipi di professionisti, ha visto come la loro
expertise li porti ad allontanarsi sempre più dal modello RT e a introdurre ampi margini di intuito,
sensibilità artistica, procedimenti per prove ed errori e uso di tecniche eterodosse al fine di organizzare
e risolvere al meglio le situazioni problematiche che si trovano ad affrontare quotidianamente.
La conferma che la professionalità antropologica seguisse un modello epistemologico sui generis, cioè
eterogeneo, dipendente dall’ambito di intervento, dal background formativo e esperienziale del singolo
antropologo, legato all’artigianalità e al patchwork metodologico e contenutistico lo abbiamo avuto dalla
lettura del nuovo volume edito da W. Nolan, Handbook of Practicing Anthropology, pubblicato nel 2013
dalla Wiley-Blackwell. Per questa opera collettanea sono stati chiamati a portare i loro contributi diversi
antropologi professionisti che lavorano nella aree più diverse di intervento, spaziando dalla salute allo
sviluppo internazionale, dalla sicurezza alla pubblicità, dall’ambiente all’assistenza umanitaria. Molteplici
domini di pratica, cosi come diverse sono le storie formative e gli status degli antropologi professionisti:
professori, ricercatori, titolari di PhD oppure Master, liberi professionisti, dipendenti di grandi aziende
oppure titolari di studi di consulenza che cercano, in autonomia, di sviluppare i loro business
antropologici nella consulenza, nella formazione e nella ricerca indipendente.
Tanta eterogeneità disorienta, anche se sotto ad essa emergono con buona chiarezza dei cardini
cognitivi, emotivi e operativi che paiono, seppur in maniera non proprio strutturata, tenere insieme tutti
i professionisti che si riconoscono essere antropologi. È proprio il trionfo dell’unità nella diversità, non
c’è dubbio, la concreta realizzazione pratiche di un valore fondativo dell’impresa antropologica.
Incontrare l’opera di Schön ha permesso di mettere in relazione la necessità di un ordine mentale da
utilizzare quando si parla di antropologia mentale e il rispetto della complessità di quest’ambito, che
non si riduce ad alcun modello prestabilito. La ‘riflessione nel corso dell’azione’ mi è sembrata una via
in chiara sintonia con quello che gli antropologi professionisti raccontavano in quel libro riguardo alle
loro attività – e alle loro vite – una sorta di modello epistemologico evoluto che fungesse da torcia per
illuminare, almeno in parte, quella domanda dalla risposta ancora oscura che suona più o meno cosi:
cosa fanno gli antropologi quando operano come professionisti?
Il primo cardine del nuovo paradigma sta nell’uso esperto della funzione di riflessione, ossia di
continuo dialogo aperto e costruttivo, interiore, tra le proprie percezioni correnti derivanti dai sensi, i
propri pensieri e le proprie tonalità emotive nel mentre della loro evoluzione. È una pratica che si
acquisisce con l’esperienza e che va esercitata continuamente affinché possa innescarsi senza particolare
difficoltà. È generata da una particolare disposizione dell’attenzione e della consapevolezza che sostiene
Fiorio L., Stocchero D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale?
Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno III, n°1 127
un equilibrio dinamico del professionista con il contesto nel quale è inserito operativamente.
L’esperienza etnografica è un’ottima palestra per l’esercizio della riflessività, disposizione fondamentale
per saper entrare e restare in maniera efficace in ambienti nuovi e molto complessi quali sono quelli
etnografici per l’antropologo.
Ciò che è importante sottolineare è che non esistono due momenti distinti, quello riflessivo e quello
operativo. Quando l’antropologo è in situazioni complesse agisce riflettendo e verifica la propria
riflessione agendo: il movimento è unico, e gli effetti nella realtà concreti ed evidenti. La diretta
conseguenza di questa disposizione riflessiva è che l’antropologo entra nella situazioni in maniera fluida
e senza farsi percepire come corpo estraneo, perché adatta il proprio movimento in base al contesto
attraverso al riflessione. Non applica uno schema noto a priori, ne usa uso mentre lo crea e
continuamente lo perfeziona. Ciò lo rende inizialmente vulnerabile e potenzialmente spiazzabile, ma
superata la fase iniziale, a mano a mano che la dinamica costruttiva della riflessività mette le proprie
basi, acquista un movimento proprio e opportuno, in contrasto con quanto avrebbe fatto un approccio
tecnico standardizzato, magari più rassicurante ma potenzialmente inadatto e quindi disturbante.
Per fornire un esempio testuale di questo procedere riflessivo segue un testo di resoconto
etnografico di un’antropologa in formazione. È importante che l’abitudine a stare-in-situazione
dell’antropologo con atteggiamento riflessivo diventi portante e strutturale nell’habitus
dell’antropologo, e questo può avvenire solamente con un esercizio continuo e ripetuto, fino a
diventare prassi metodologica normale.
Mano lavora, bocca parla. Gestualità e condivisione sul campo.
La prima vera occasione per riflettere in modo strutturato sul campo è stata durante il corso di Etnografia. Era
richiesta un’esercitazione breve in cui si riflettesse sulla metodologia di ricerca prendendo come pretesto il tema della
multiculturalità. Valutando l’alta accessibilità e fattibilità di varie ipotesi progettuali, ho optato per quella che
incontrasse anche il mio interesse personale. Per questo motivo ho contattato la “Casa di Ramìa”,1 nella quale ogni
lunedì mattina si tiene il laboratorio “Mano lavora, bocca parla”. Si tratta di incontri informali tra donne migranti e
italiane che utilizzano lo scambio di tecniche artigianali per creare nuovi legami d’amicizia e tenere vive le tradizioni
tessili. L’associazione che si occupa di organizzare il laboratorio è “Le Fate Onlus”, con la quale ho avuto i primi
contatti per richiedere l’autorizzazione a partecipare e alcune informazioni di base. Nel tempo Elena, responsabile
dell’associazione, è divenuta la mia gatekeeper. L’obiettivo che mi ero posta inizialmente era di sondare il feeling che si
instaura mentre si lavora in gruppo e come la gestualità delle tecniche artigianali possa contribuire a crearlo. In
origine contavo di realizzare due o tre interviste in cui le interlocutrici mi avrebbero raccontato ciò che provano
lavorando in comunità. In realtà ho ottenuto tre incontri, ma solo nel primo ho avuto modo di approcciarmi
singolarmente a un’interlocutrice, Elena, la gatekeeper. Negli altri due invece mi sono ritrovata immersa nella
collettività del laboratorio. A posteriori ritengo che partecipare a dei momenti corali sia stato produttivo in modo
sorprendente: ho sperimentato in prima persona, ciò che speravo di ricavare dalle interviste. Il dialogo a due mi
avrebbe consentito l’accesso alle opinioni delle interlocutrici, ma avrei perso le azioni nel loro dispiegarsi, cioè non
sarei stata parte di ciò che desideravo conoscere. 2 Il motivo per cui ho deciso di non insistere nella richiesta di
interviste singole è legato al fatto che non ritenevo opportuno sottrarre ulteriore tempo alle partecipanti,
immaginando quanto potesse essere già dura partecipare agli incontri del Centro conciliandoli con le attività familiari.
Il laboratorio era strutturato in modo tale da favorire l’interazione tra soggetti: una migrante illustrava una tecnica del
paese d’origine e poi assieme provavamo tutte a riprodurla, chiacchierando e dividendoci delle vivande preparate a
casa o sul momento, nella piccola cucina della Casa. L’atmosfera era decisamente amichevole e rilassata, solo ora mi
rendo conto di quanto l’ansia da primo incontro sia stata eccessiva, vista l’accoglienza riservatami e la reazione della
frequentatrici. Mi sono chiesta se aver dichiarato francamente le intenzioni della mia partecipazione abbia contribuito
ad una serena accettazione della mia presenza improvvisa e sinceramente credo di sì, almeno nel mio caso. Ritengo
anche che aver raccontato qualcosa di me nel momento della presentazione, abbia evitato una mia relegazione al
ruolo di “spiona” e abbia contribuito a dipingermi come una persona interessata ad uno scambio reciproco, più che
unidirezionale. Raccontare qualcosa in più di me è servito di fatto anche a giustificare la scelta di sviluppare il mio
progetto con loro e non in altri ambiti o altre persone: è stata la mia passione per le tecniche manuali tessili e il mio
personalissimo piacere a lavorare in gruppo a guidarmi verso il laboratorio della Casa; altri interessi e attitudini
personali sono convinta mi avrebbero portata altrove. 3
1 Nome del Centro interculturale di Verona. Nell’articolo ho preferito abbreviare il nome con “Casa”.
Ciò che ho più apprezzato dell’esperienza sul campo è stato
poter partecipare attivamente, lavorare assieme alle altre sperimentando io stessa nuove tecniche e percepire in modo
2 Non sono stata una spettatrice che rimane all’esterno e indifferente a ciò che ho percepito. Questo tema mi è molto caro e
ho trovato interessante la lettura della Biddle (1993: 191).
3 Il lavoro etnografico non è “neutrale” (Fabian 2012: 449) è parziale, parte da noi e dalla nostra esperienza pregressa, dai
gusti e dalle attitudini.
Fiorio L., Stocchero D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale?
128 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno III, n°1
vivo l’atmosfera di sospensione temporale che si era creata. 4 Imparare tecniche manuali mi consentiva di vivere
anche una certa vicinanza fisica con le altre donne: chi insegnava passava da ciascuna per mostrare i passaggi e
correggere gli errori, creando un contatto tra le mani e una vicinanza intima che permetteva di percepire l’odore
dell’altra persona e il respiro. 5 Di intimità si può ben parlare se si considera la condivisione di pettegolezzi e
informazioni private che regolarmente avveniva non appena si prendeva in mano il lavoro! Per quanto riguarda il
rilevamento di informazioni devo ammettere di non aver posto domande predeterminate: mi sentivo fortunata ad
essere esattamente in un luogo e con delle persone che mi stavano consentendo di sviluppare il mio progetto
semplicemente partecipando: ciò che speravo di osservare si dispiegava di fronte ai miei occhi – e nelle mie orecchie
e con le mie mani – apparentemente senza nessun mio sforzo. Mi sentivo particolarmente grata ed entusiasta. Questo
mio atteggiamento positivo ha indubbiamente aiutato rendendomi ricettiva, ma ha anche creato qualche difficoltà!
Capitava durante il campo che mi ricordassi, con un tuffo al cuore, di essere nel bel mezzo di un’esercitazione. Mi
rimbrottavo dicendomi che era importante scrivere almeno qualche appunto, per non dimenticare ciò che mi sarebbe
stato utile durante la scrittura del diario di campo. Avevo paura di tralasciare e sapevo che questa paura derivava dal
senso di immersione che stavo sperimentando. Lavoravo, muovevo le mie mani, ascoltavo, chiacchieravo del più e
del meno e ogni tanto, come una doccia fredda, mi ricordavo di dover appuntare quelle due o tre cose che “non
potevo assolutamente dimenticare”. Sul campo perciò ho scritto poco perché partecipavo attivamente e mi
infastidiva smettere il lavoro per appuntarmi le cose; tuttavia l’ansia da “perdita dei dati” prevaleva e mi costringeva a
smettere per annotare compulsivamente. Usavo solo un quadernino che tenevo sulle gambe, semi nascosto per non
dare l’impressione di essere un’inquisitrice. Tuttavia la preoccupazione di scrivere dati sufficienti non è stata l’unica:
quando tornavo a casa percepivo una forte ansia da prestazione legata al terrore di avere le mani vuote, di non aver
concluso nulla o peggio, di aver sbagliato tutto. Considerando però che mi ero ripromessa di non progettare nulla in
modo rigoroso, ma di lasciare che le cose si sviluppassero con la volontà di controllo ridotta al minimo, minima era
anche la possibilità di fallire completamente. Alla fine il risultato è stato soddisfacente: non ho sperimentato il senso
di fallimento dovuto alle mancate interviste face to face e mi sono immersa in una vivace realtà collettiva; inoltre ho
evitato che una griglia serrata di domande mi facesse focalizzare solo determinati elementi prescelti, escludendo un
mondo di altre possibilità6
In ultimo, quando mi sono trovata a comporre la relazione finale, mi sono accorta di quanto avrei potuto scrivere
nonostante la brevità dell’esperienza e quanto sia difficile astrarre l’esperienza cercando di armonizzare questioni
metodologiche importanti e contesto. Sistematizzare la mia esperienza mi ha consentito di analizzarla con più
freddezza ed estrapolarne alcuni spunti di riflessione che qui ho cercato di riassumere.
. Infine credo che sia utile raccontare cosa avvenisse quando lasciavo i luoghi del campo di
ricerca. La mia esperienza non è stata d’immersione totale, nel senso che mi trovavo nella mia città natale e una volta
terminati gli incontri, tornavo a casa. Questo mi permetteva di staccare completamente e di estendere subito dopo le
note in diario di campo. Scrivevo di getto, mescolando emozioni, riflessioni, nozioni apprese e facendo schizzi delle
tecniche apprese. Talvolta passavo del tempo a cercare di decifrare cosa avessi scritto di fretta negli appunti e mi
maledicevo per non aver portato un registratore o una videocamera. Entrambi i supporti nel mio caso non erano
utilizzabili: il registratore non avrebbe avuto senso, dato che avrebbe registrato un chiacchiericcio di voci
indistinguibili; il video sarebbe stato sicuramente più interessante vista la natura del progetto, ma non avendo le
competenze tecniche ho deciso che non valesse la pena tentare.
Il secondo cardine della riflessione nel corso dell’azione riguarda le abilità di problem setting, ossia la
capacità di strutturare in maniera sufficientemente chiara situazioni estremamente confuse. Anche in
questo caso, l’approccio che gli antropologi riportano nella loro pratica professionale mostra importanti
evoluzioni rispetto alla pratica tecnica standard. Gli antropologi adottano una sorta di ‘problem setting
artistico’ che lascia molto spazio alle caratteristiche della situazione reale, ai dettagli e alle intuizioni delle
persone presenti. La definizione è raramente di un problema, spesso di uno spazio problematico. Si
accettano a priori un maggior numero di variabili nella propria rappresentazione, rendendola certo più
difficilmente gestibile, ma sicuramente più realistica di una schematizzazione tecnica nella quale si
rischia di perdere l’essenziale scambiandolo con l’efficiente.
Il terzo cardine è l’approccio sperimentale. L’antropologo non comunica attraverso monologhi, ma
struttura ‘conversazioni riflessive con le situazioni’ agendo in maniera sperimentale con azioni ad hoc, al
fine di conoscere come la situazioni reagisce ai suoi stimoli, rivelando le proprie logiche sottostanti.
Tradizionalmente il professionista tecnico ritiene di essere l’unico agente ad introdurre nuova
4 Spesso ho usato il verbo “sentire” nel mio diario di campo, che per me ha un significato molto simile a ciò che Wikan
(2009) propone per la parola “risonanza” o che Tamisari (2002) amplia con i concetti di empatia.
5 Percepire con più sensi la presenza delle altre donne e annotarla di proposito mi ha suggerito che la ricerca antropologica è
anche mediata dal corpo, ha una natura anche carnale (Tamisari 2002)
6 Per superare una prima impostazione marziale dettata dalla paura di sbagliare, mi sono boicottata lasciando
volontariamente a casa la lista delle domande. Il “mondo di altre possibilità” come ricorda Piasere (2009) è la serie di
comportamenti incorporati e interiorizzati che le domande non mi avrebbero certo rivelato. Penso ad esempio al canto di
Houda durante il lavoro o all’energia di Galina mentre infeltriva la lana e molto di più.
Fiorio L., Stocchero D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale?
Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno III, n°1 129
informazione nel contesto – l’informazione esperta appunto – mentre l’antropologo dialoga in maniera
sperimentale, assimilando continuamente i messaggi di risposta e riflettendo costantemente su di essi.
Ciò implica che l’azione strutturante rimane a lungo aperta e soggetta a modifiche, da cui ne consegue il
maggior tempo necessario per un intervento antropologico professionale efficace.
Il quarto cardine è la capacità di costruire e manipolare delle costruzioni mentali estremamente
complesse per individuare soluzioni ad hoc per situazioni irripetibili e uniche. Sostanzialmente
l’esperienza dall’antropologo lo porta a costruire dei cosiddetti repertori, ossia degli insieme connessi di
situazioni-azioni-esiti che il professionista usa come esempi per orientarsi. L’antropologo per
definizione non incontrerà mai due volte lo stesso problema: deve pertanto avere una serie di repertori
esperienziali dai quali riesce a estrarre pattern situazionali, di azioni intraprese e di esiti raggiunti e
verificare quali di questi si adattino meglio per strutturare la nuova situazione nella quale deve
intervenire. L’ampiezza di queste repertori, la loro ricchezza, la robustezza delle connessioni al loro
interno e la velocità con cu vengono utilizzati per fornire dei canovacci operativi in situazioni nuove
distinguono un antropologo esperto da uno inesperto. Il modello della RT prevede repertori rigidi,
chiari e limitati, quello della riflessioni nel corso dell’azione repertori articolati, intuitivi e molto ampi,
costruiti aggregando non solo esperienza professionali ma anche personali, non solo razionali ma anche
artistiche, non solo cognitiva ma emotive.
Il quinto cardine è lo sviluppo di un peculiare ‘sistema di apprezzamento’. Si intende con questo una
articolato sistema di percezione, ossia di sensibilità, che permette di rilevare i cambiamenti che
provocano dei cambiamenti. La stabilità di questo sistema di apprezzamento è essenziale per la
riflessione nel corso dell’azione. Esso è il sistema che permette al professionista di sentire e capire che
un certo cambiamento è avvenuto, che una certa situazione è cambiata, che una soluzione è più vicina
di quanto fosse in precedenza. Antropologi con sistemi di apprezzamento diversi posso ad esempio
appartenere a ‘scuole’ diverse, rifarsi ad epistemologie diverse, avendo quindi i proprio sistemi cognitivi
tarati su tipi di apprezzamenti diversi. Di solito i sistemi di apprezzamento di base sono comuni a tutta
una comunità professionale, permettendo lo scambio e la collaborazione tra colleghi. In antropologia
non è così, essendo i sistemi di apprezzamento tendenzialmente coincidenti con l’individualità
dell’antropologo, non essendo ben strutturato il percorso formativo professionalizzante, il cui compito
precipuo è proprio quello di ‘tarare’ questi sistemi.
L’antropologo riflessivo e il cliente
Abbiamo visto brevemente i principali cardini dei un agire professionale riflessivo che pare
potenzialmente adeguato a formare l’agire degli antropologi. Approfondiremo in un altro momento i
diversi aspetti qui accennati, riservando anche dei rilievi critici opportuni per comprendere meglio la
prospettiva qui presentata. In conclusione accenniamo ad un aspetto importante di qualsiasi pratica
professionale, quello del rapporto con i clienti.
La terminologia ‘cliente’ non pare la più opportuna, in quanto i committenti che incaricano
antropologi di fornire dei servizi professionali sono i più diversi: enti, associazioni, imprese, comuni,
istituzioni burocratiche. Il cliente dell’antropologo non è certo ‘cliente’ nel senso in cui lo è quello di
un’azienda che vende beni. In generale un antropologo opera in contesti complessi che coinvolgono
molteplici attori, per i quali egli è una sorta di ‘insider fiduciario’, ossia una figura incaricata di
raggiungere determinati obiettivi a cui viene concessa grande autonomia operativa. La figura
dell’antropologo che opera spesso in contesti burocratici può ad esempio vedere nascere un conflitto
tra il proprio habitus professionale e le strutture rigide e gerarchiche all’interno del quale muove e
opera, creando situazioni che sono esse stesse da comprendere e strutturare come parte del lavoro da
compiere. Lo status dell’antropologo professionista è quindi piuttosto incerto, mutevole e fortemente
dipendente dai contesti che di volta in volta lo vedono qualificarsi diversamente.
In generale nel modello della Razionalità Tecnica il rapporto professionista-cliente è ben definito e
ognuno sa cosa aspettarsi dall’altro. I codici comunicativi sono abbastanza chiari e le cornici di
riferimento legale e normativo lineari e univoche. Il professionista offre competenze e rispetta la fiducia
del cliente, il quale accetta l’autorità del professionista nel suo specifico settore di competenze e paga i
servizi resi. In genere, il cliente mostra deferenza psicologica nei confronti del professionista tecnico.
Fiorio L., Stocchero D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale?
130 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno III, n°1
Inoltre, non contesta il suo operato, e non chiede spiegazioni accessorie rispetto a quelle date dal
professionista spontaneamente.
In un contratto tradizionale il professionista è responsabile verso i propri pari, e il cliente spesso non
ha strumenti adeguati per comprendere se gli esiti raggiungi siano veramente quelli pattuiti e se le
legittime aspettative siano soddisfatte. Di solito, solo altri pari del professionista sanno fare queste
valutazione, per cui il cliente, eventualmente, può solamente scegliere di affidarsi ad un professionista
diverso, collega del precedente.
Quando il professionista adotta l’epistemologia della riflessione nel corso dell’azione il contratto con
il cliente muta radicalmente. Il rapporto professionista-cliente acquista la natura di conversazione
riflessiva. Il professionista riconosce che il cliente è un essere capace di comprendere, conoscere e
pianificare. Il professionista si impegna a riflettere sia su cosa che su come comunica al cliente: non gli
chiede di avere la sua fiducia cieca, ma di verificare l’effetto delle proprie reali competenze professionali
mostrate.
L’enfasi sulla propria identità non viene più intesa come un a-priori di status, ma come una
valutazione concreta sulle proprie capacità di affrontare e risolvere i problemi portati dal cliente. Facile
da farsi? Certo che no. Dice Schön:
Così, in un contratto riflessivo fra professionista e cliente, il cliente acconsente non già ad accettare l’autorità del
professionista ma a sospendere lo scetticismo nei confronti di questa. Egli acconsente a partecipare con il
professionista all’indagine sulla situazione per la quale il cliente chiede aiuto; a cercare di capire cosa sta
sperimentando e a rendere tale comprensione accessibile al professionista; a confrontarsi con il professionista
quando questi non capisce o non è d’accordo; a verificare la competenza del professionista osservandone l’efficacia e
a rendere noti i suoi interrogativi su cosa debba intendersi per efficacia; a pagare i servizi resi e ad apprezzare la
competenza dimostrata.
Questo tipo di contratto, qui solo accennato, si potrebbe prestare al meglio per delineare la relazione
tra antropologo e professionista. Come si vede si tratta di una rivoluzione radicale, ma decisamente
consona all’entità dei mutamenti che stanno interessando le nostra società, sia dal punto di vista
economico che da quello dell’utilizzo delle conoscenze professionali. Dal momento in cui il
‘professionista è nudo!’, serve una via percorribile per salvaguardare ciò che di buono le professioni
possono portare alle nostre società contemporanee, antropologici inclusi.
Certo emerge in maniera evidente che la formazione necessaria per operare come antropologi
professionisti non può basarsi solamente sullo studio di testi, ma va radicalmente integrata e
trasformata attraverso esperienze di ricerca riflessive come quella precedentemente presentata, a partire
dai corsi universitari. Ancora, sarebbe opportuno unire alla formazione in epistemologia della ricerca
qualche informazione riguardo l’epistemologia della pratica, ambito cruciale per ogni professione e a
maggior ragione per quelle neonate come quella antropologica. Speriamo che questo contributo possa
portare qualche spunto utile a chi voglia intraprendere questo affascinate percorso professionale.
Bibliografia
Biddle J.L.
1993 “The Anthropologist's Body or What It Means to Break Your Neck in the Field,” in TAJA, The
Australian Journal of Anthropology, 4(3): 184-197.
Fabian J.
2012 “Cultural anthropology and the question of knowledge”, in Journal of the Royal Anthropological Institute,
18(2): 429-453.
Mortari L.
2008 A scuola di libertà. Formazione e pensiero autonomo, Milano, Cortina.
Nolan W.
2013 Handbook of Practicing Anthropology, Oxford, Wiley-Blackwell.
Piasere L.
2009 “Etnografia romanì ovvero l’etnografia come esperienza”, in Vivere l’etnografia, a cura di Cappelletto F.,
Firenze, Seid Editori, pp. 65-95.
Fiorio L., Stocchero D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale?
Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno III, n°1 131
Schön D.A.
1993 Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, Bari, Edizioni Dedalo.
Tamisari F.
2002 “Danza e intercorporalità: la lusinga e il pericolo dei complimenti”, in La ricerca Folklorica, 45: 89-99.
2007 “La logica del sentire nella ricerca sul campo. Verso una fenomenologia dell’incontro antropologico”, in Molimo,
2: 139-162.
Wikan U.
2009 “Oltre le parole. Il potere della risonanza”, in Vivere l’etnografia, a cura di Cappelletto, F., Seid Editori,
Firenze, pp. 97-133.

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Razionalita e riflessivita'. Quale modello in antropologia professionale?

  • 1. Fiorio L., Stocchero D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale? Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno III, n°1 121 Lucia Fiorio, Davide Stocchero Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale? Abstract This article discusses the paradigmatic shift occurring in many professional practices, particularly referred to applied anthropology. In order to clarify some important points about the nature of epistemology of practice in professional anthropology, the authors try to define some features of the move from a Technical Rationality Model to a Reflexivity in Action Model. The main arguments to support the validity of the latter in professional anthropological practice are discuss. An example of reflexivity-in-context in shown, to support the importance of this kind of training in the career of anthropology students, sustaining the idea the reflexivity approach could be the methodological core of the professional practice in anthropology. Keywords Riflessività, professione, epistemologia, pratica, formazione. ______________________________________ Una fiaba africana narra che un giorno, nella foresta, scoppiò un incendio devastante. Tutti gli animali si diedero alla fuga. Un leone scorse un colibrì che volava in direzione dell’incendio: preoccupato, cercò di fermare il colibrì per fargli cambiare direzione, ma l’uccellino spiegò che stava andando a spegnere l’incendio. Il leone, meravigliato, replicò che era impossibile spegnere l’incendio con la goccia d’acqua che portava nel becco, ma il colibrì con decisione replicò: “Io faccio la mia parte”. (cit. in “A scuola di libertà” di Luigina Mortari – Cortina) Mi piace pensare gli antropologi culturali come dei colibrì intenti nell’impresa di spegnere l’incendio del conformismo, che tutto brucia e rende secco nella vita sociale e culturale di un Paese. Da piccoli colibrì, in questo articolo cercheremo di approfondire il tema dell’agire professionale in antropologia culturale. Sappiamo tutti come l’antropologia culturale sia una disciplina che gode di un discreto radicamento e diffusione nell’accademia italiana. Realtà recente nel panorama istituzionale delle scienze umane e sociale, vive periodi alterni di espansione e (rara) fortuna e altri di implosione e (notevole) umiliazione pubblica. Ciò non ci scoraggia nel nostro compito, ma anzi ci stimola. Si tratta, in sintesi, di porre una questione che riteniamo tanto centrale quanto tralasciata all’interno della disciplina antropologica: come poter pensare e agire l’antropologia in chiave professionale. Allo stato attuale, infatti, l’antropologia professionale non è tanto una prospettiva impossibile, bensì impensabile. C’è un crescente numero di laureati che muove in primi passi in versione professionale e operativa in diverse realtà, ma questo non sembra metterli nelle condizioni di riuscire ad articolare un discorso compiuto che sostenga la propria azione professionale. Emergono numerosi e originali tentativi di agire professionalmente usando l’antropologia come mezzo operativo, ma sembra ancora mancare, o essere debole, un paradigma operativo esplicito e, per quanto possibile, condiviso e condivisibile per chi lo ritenga utile e valido. In altre parole, resta non posta, e quindi senza risposta, la domanda: come opera e cosa fa realmente l’antropologo professionista? Io penso che l’agire professionale dell’antropologo esista, seppur frammentato, ma resti ad un livello implicito. È un po’ come chiedere ad un artigiano di spiegare la propria arte: non ci riesce. Eventualmente può mostrartela nel mentre del proprio compiersi, ma non riesce a verbalizzarla, perché non è questa la natura di tale arte. Occorre un esercizio speciale per riuscire a dire quello che si sa, e ancora di più per spiegare ciò che si fa. Soprattutto dopo anni che questo sapere si stratifica dentro di noi, fino a incorporarsi nel nostro essere, e fluire così naturalmente nel corso dell’azione da non essere quasi rilevato. Una sorta di flusso operativo perfettamente opportuno e integrato, che produce esiti reali di comprensione e cambiamento, ma di cui nessuno coglie agevolmente la struttura.
  • 2. Fiorio L., Stocchero D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale? 122 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno III, n°1 Ogni antropologo professionista crea il proprio agire professionale a partire da numerose variabili: la formazione accademica, quella extra-accademica, gli interessi personale, lo stile cognitivo, i contesti operativi, le passioni, le preferenze e le inevitabili difese. Pare esistere però qualcosa di ancora più profondo. Ogni professionista si inserisce all’interno di un campo ideologico, che ha basi sia filosofiche che sociologiche, che lo determinano a-priori rispetto ad altre questioni successive. Esiste qualcosa che è comune cioè a tutti i professionisti, indipendentemente da come siano poi declinati nelle varie forme del professionalismo contemporaneo. È una sorta di matrice comune, di imprinting, che determina poi tutto il conseguente. Sono i germi della cultura e dell’ideologia professionale che fanno da contesto all’interno del quale nasce, cresce e si articola il proprio agire professionale. Mi chiedo da tempo come questo imprinting influenzi gli antropologi che decidono di intraprendere il percorso professionale, e come questo co-determini le successive evoluzioni peculiari dell’antropologo professionista, qualsiasi siano gli ambiti dove interviene con le proprie competenze e azioni. Iniziamo quindi questo viaggio esplorativo, che non sarà esaustivo ma – spero – almeno utile a pensare e chiarire diversi aspetti dell’antropologia professionale. Essere professionisti infatti non è solo inerente ad esercitare determinate attività, ma riguarda il saper compiere delle precise azioni, in un determinato contesto di pratiche, all’interno di un ambiente culturale molto complesso e in rapido mutamento. A meno che l’antropologo professionista non aspiri ad essere un professionista completamente sui generis, che nulla abbia cioè da spartire con tutta la galassia professionale già esistente (posizione possibile, certo, ma decisamente pericolosa e inconcludente), deve giocoforza conoscere le generali logiche professionali e i codici comunicativi e operativi connessi. L’antropologo professionista – vedremo in quali modi definito – deve in primo luogo costruirsi un cosiddetto ‘mercato’ di domanda (altrui) e offerta (la propria), imparare in seguito ad abitarlo operativamente e in ultimo luogo sapere come espanderlo e incrementarlo per garantirsi prima sopravvivenza e poi crescita. È fondamentale quindi non solo analizzare dall’interno la professionalità dell’antropologo, ma comprendere in maniera non superficiale anche la professionalità altrui, in modo da confrontare modelli e pratiche di intervento, perché gli altri professionisti nel mercato, per specifiche nicchie, possono essere sia colleghi che concorrenti: l’antropologo deve cioè mappare l’ecosistema all’interno del quali intende inserirsi con il proprio sapere professionale. Inizieremo questo percorso utilizzando un libro scritto da Donald Schön nel 1983, tradotto in italiano solo dieci anni dopo. Schön è un esperto di studi urbani e pianificazione, per molti anni professore al MIT di Boston. Il libro si intitola Il Professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale. Il titolo dice già molto su quelli che saranno i cardini del nostro discorso. Schön ha dedicato l’intera vita professionale a lavorare a stretto contatto con professionisti di vari settori per capire dall’interno come fanno a fare ciò che fanno. Si può dire, dal punto di vista antropologico, che abbia fatto ricerca come farebbe un etnografo delle professioni. Trattando i professionisti come una comunità di pratiche che sviluppa delle culture simboliche, analitiche e operative peculiari, ha analizzato nel dettaglio i differenti stili operativi, diventando uno dei più grandi esperti di formazione ed epistemologia professionale in ambiti quali l’ingegneria, il management e gli studi urbani e architettonici. Vedremo come le sue riflessioni possano essere veramente illuminanti anche per sostenere le nascenti riflessioni sull’antropologia professionale. La critica e la debolezza del professionismo contemporaneo Le nostre società attuali sono letteralmente invase da professionisti. Sono gli agenti fondamentali per dare forma (problem setting) e possibile soluzione (problem solving) a tutti i problemi che l’uomo può incontrare durante la propria vita. Secondo i sociologi, grazie ad essi dovrebbe realizzarsi il cosiddetto ‘progresso sociale’. Nel campo della salute, dell’educazione, dell’impresa, dell’amministrazione pubblica, delle infrastrutture, della tecnologia, della difesa e della sicurezza, ogni Paese affida ai professionisti le chiavi dei suoi sistemi più delicati e fragili. I percorsi professionalizzanti garantiscono, o forse è più corretto dire garantivano, carriere importanti, veloci e sicure, oltre che retribuzioni e status sociale di tutto rispetto. L’immaginario
  • 3. Fiorio L., Stocchero D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale? Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno III, n°1 123 comune attorno allo stereotipo del professionista tipo lo vede come maschio, qualificato, autonomo, esperto, affidabile, socialmente apprezzato e individualmente impegnato a sostenere con le proprie competenze, sempre aggiornate, la soluzione dei problemi altrui. Ai nostri giorni tutto questo è un ricordo. Da più parti, da ormai tre decenni, arrivano segnali crescenti di una perdita di fiducia nel giudizio esperto dei professionisti. Di più, non solo la fiducia nei professionisti sta diminuendo in tutto il mondo, ma viene messa radicalmente in dubbio la loro pretesa di possedere conoscenze straordinarie su questioni importanti per l’umanità. Questo in seguito a innumerevoli episodi nei quali si vedono degli interventi esperti dare risultati peggiorativi rispetto al problema originario, oppure alla gestione troppo disinvolta di questioni etiche e deontologiche, oppure un orientamento professionale volto al tornaconto esclusivamente personale e dannoso per la collettività. La nascita dell’industria della conoscenza e la sempre maggiore complessità sociale, unita alla completa burocratizzazione non solo della vita pubblica ma ormai anche di quella privata, porta ad un radicale cambiamento nella percezione della figura del professionista contemporaneo. Lo scetticismo prevale ormai in tutti gli ambiti dell’azione professionale e sembra venuto meno quel rapporto di mutua fiducia tra cittadino e professionista che vedeva il primo avanzare le proprie richieste al secondo in fiduciosa attesa di una soluzione, e il secondo fornire questa soluzione con un occhio al singolo e uno alla collettività. Il mondo pare essere improvvisamente diventato un luogo così complicato e imprevedibile che chi si presenta come ‘esperto di qualcosa’ viene immediatamente sepolto da critiche a priori o da accuse di incompetenza al primo tentennamento o errore. Sono decisamente tempi duri per essere professionisti. Questo pone una domanda cruciale su tutte: la conoscenza professionale è adeguata ad affrontare i bisogni e i problemi della società contemporanea? Se si, con quali criteri di adeguatezza? Il rapido cambiamento tecnologico e culturale pone i professionisti di qualsiasi ambito davanti a sfide di adattabilità enormi. Le conoscenze e le procedure tecniche che si sono mostrate abbastanza efficaci fino a qualche decennio fa falliscono miseramente nella nuova realtà sociale. Le situazioni che il professionista si trova ad affrontare non sono più solo problemi da risolvere bensì situazioni problematiche caratterizzate da crescente indeterminatezza e incertezza. Sono situazioni non solo difficili da affrontare, ma anche da definire. Sembra non esistano più problemi singoli: troviamo solo grovigli di problemi. Ciò dovrebbe essere ben noto agli antropologi professionisti, vista la prospettiva olistica e non riduzionistica della loro disciplina. I problemi antropologici non sono mai singoli e gli eventi sono tutti unici: le peggiori condizioni per un intervento professionale tradizionale. Posti di fronte a questo nuovo stato di cose i professionisti hanno visto un proliferare di visioni contrastanti su quale sia il modo migliore di affrontare i problemi incerti e mutevoli del mondo: non bastava più una procedura standardizzata. La conseguente pluralità nell’agire professionale ha minato ulteriormente l’identità e la credibilità dei professionisti, sempre più confusi dalla proliferazione sub- disciplinare e dalla molteplicità dei modelli epistemologici di intervento. Quale epistemologia professionale? Tutto il mondo professionale tradizionale si basa sul modello epistemologico della Razionalità Tecnica (RT). Secondo questo modello “l’attività professionale consiste nella soluzione strumentale di problemi resa rigorosa dall’applicazione di teorie e tecniche a base scientifica”. (Schön 1993: 49) Questo assunto sta alla base di tutte le professioni e di tutti i rapporti sociali e istituzionali tra sapere, professionisti e istituzioni. Esso ha precise ricadute in termini economici, educativi e di pianificazione politica. È uno dei capisaldi ideologici della nostra forma culturale occidentale basata sulla scienza e sulla tecnologia. Da questo consegue che le professioni sono attività lavorative specialistiche che si fondano su due pilastri: 1) un reale campo di conoscenze che lo specialista dichiara di dominare e 2) la tecnica di produzione o di applicazione di conoscenze di cui lo specialista rivendica padronanza Sintetizzando al massimo, possiamo quindi definire il professionista come quell’esperto che possiede una capacità specialistica fondata su una teoria. Ecco che arriviamo alla distinzione tra professioni maggiori e professioni minori, in relazione al fine al quale queste tendono. Abbiamo quindi da un lato
  • 4. Fiorio L., Stocchero D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale? 124 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno III, n°1 professioni quali la medicina, la giurisprudenza e la gestione aziendale, che conducono a fini che quietano le menti degli uomini – salute, successo nelle cause, profitto – e che si svolgono all’interno di contesti istituzionali stabili. Dall’altro abbiamo quelle che risentono di fini mutevoli, ambigui e svolte in contesti instabili, incapaci pertanto di sviluppare una conoscenza professionale sistematica e scientifica. Esse sono il servizio sociale, l’insegnamento, la pianificazione urbana. Come si vede la questione professionale basa la propria ragion d’essere sul rapporto fra la base di conoscenze e gli strumenti operativi che da esse emergono. Come dice Schön, si ritiene che per essere sistematica la base di conoscenza di una professione debba possedere quattro proprietà essenziali: essere specialistica, solidamente definita, scientifica e standardizzata. Questo pone in rapporto gerarchico la conoscenza teorica, sede dei ‘principi generali’ e l’applicazione strumentale da essi derivata, ‘l’attività di soluzione dei problemi concreti’ sottostante. L’applicazione della scienza di base produce la scienza applicata. Questo rapporto logico e gerarchico è alla base dell’assetto istituzionale e della rappresentazione pubblica del professionismo. È ovviamente anche la chiave per capire e interpretare i rapporti tra accademia e mondo del lavoro, tra professioni e tecnici, tra licei e scuole professionali. Si tratta di ambiti che tradizionalmente sono visti come gerarchici, e di conseguenza portatori di valori, cognizioni e emozioni distinti. Grazie al modello della Razionalità Tecnica è possibile comprendere e interpretare molte logiche culturali all’interno di molteplici settori chiave nella nostra società quale quella del lavoro, della formazione e dell’istruzione, capendo a fondo a quali dispositivi simbolici danno vita. Il modello RT è incorporato nelle istituzioni e nei discorsi sociali, permea la comunicazione e struttura l’agire della maggior parte dei professionisti. È il modello culturale dominante. L’esito concreto è che la ricerca è nettamente separata dall’applicazione, l’accademia completamente altra rispetto allo studio professionale, il ricercatore è distinto dal – e considerato superiore al – professionista. Quello che è importante sottolineare è che non si tratta solo di una differenza di status, ossia sociale. Si tratta di una differenza valoriale, ossia culturale. Saldandosi, i due aspetti cominciano a scavare solchi identitari e muovono azioni di rivendicazione e di interessi diversi, al limite incompatibili e conflittuali. L’origine della Razionalità Tecnica va trovata del Positivismo, con la spinta al miglioramento del benessere dell’umanità grazie all’applicazione della scienza e della tecnica. Come dice Schön, la Razionalità Tecnica è l’epistemologia positivistica della pratica. A partire dalla Seconda Guerra Mondiale, inizia negli USA una crescente politica di investimenti volta all’incremento di un programma scientifico-tecnologico che portasse alla creazione di benessere diffuso, raggiungesse obiettivi di interesse nazionale e consentisse la definitiva soluzione di problemi sociali. La medicina e l’ingegneria divennero i modelli di riferimento di questa impresa, tanto che le scienze sociali conobbero una rapido sviluppo adattando a queste i loro modelli, paradigmi e linguaggi. A partire dagli anni Sessanta i professionisti stessi e l’opinione pubblica cominciarono a essere sempre più consapevoli dei limiti evidenti dell’agire professionale tecnico. La reale capacità di risolvere problemi diminuiva, il mondo dei fenomeni pareva esplodere. Il modello standard d’intervento tecnico mostrava continuamente grossi limiti quando applicato in condizioni di crescente incertezza e indeterminatezza. Ci si accorse che la troppa enfasi sulla soluzione dei problemi (problem solving) aveva portato a trascurare la fase di impostazione dei problemi stessi (problem setting). Come dice Schön: […] i problemi non si presentano al professionista come dati. Essi devono essere costruiti a partire dai materiali di situazioni problematiche che sono sconcertanti, turbative, incerte. Per trasformare una situazione problematica in un problema, il professionista deve svolgere un certo tipo di lavoro. Deve comprendere una situazione incerta che inizialmente appare incomprensibile. È in questa fase che i professionisti cominciano a riflettere sul modo mediante il quale esercitano la loro expertise tecnica. Ciò è fondamentale nella fase di strutturazione della situazione problematica, ossia il processo nel quale interattivamente si disegnano gli oggetti dei quali poi ci si occuperà e nel contempo si struttura, si dà forma, al contesto all’interno del quale si andrà poi ad agire. La RT dà il meglio di sé quando i casi da affrontare sono standardizzati e ripetitivi, oltre che piuttosto stabili nel tempo. Se i fini sono chiari e stabili, decidere come agire è una questione di pura
  • 5. Fiorio L., Stocchero D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale? Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno III, n°1 125 strumentalità tecnica. Ma con fini confusi e incerti, è impossibile iniziare a risolvere il problema, semplicemente perché il problema ancora non è formato, non è definito. Se i fini sono conflittuali o indefiniti, non esiste tecnica applicata che possa condurre alla soluzione. È la situazione in cui servono quel tipo di capacità che sono spesso definite ‘artistiche’, difficilmente standardizzabili ma necessarie perché realmente pertinenti alla necessità di strutturazione della situazione problematica in esame. È in questo preciso istante che il professionista sente un conflitto nella propria operatività. Sente che il modello RT non è all’altezza di gestire la situazione, ma non tollera deviazioni artistiche che nulla hanno da spartire con il valore fondante della rigorosa conoscenza professionale. Ovviamente ci sono molti problemi che possono essere risolti con le procedure del modello RT, mentre molti altri richiedono un modello diverso di riferimento epistemologico, perché si tratta si problemi aggrovigliati, incerti, mal definiti e mutevoli nel tempo e in seguito all’intervento umano. Dice ancora Schön: Questo dilemma fra “rigore e pertinenza” si presenta in alcuni ambiti di esercizio della professione più acuto che in altri. Nella variegata topografia della pratica professionale vi è un terreno stabile, a livello elevato, ove i professionisti possono fare un uso efficace di teorie e tecniche fondate sulla ricerca, e vi è una pianura paludosa ove le situazioni sono “grovigli” fuorvianti che non si prestano a soluzioni tecniche. La difficoltà sta nella circostanza che i problemi di livello elevato, per quanto grande sia il loro interesse tecnico, sono spesso relativamente poco importanti per i clienti o per la più vasta società, mentre nella palude vi sono i problemi di maggiore interesse umano. L’idea che ci siamo fatti è che l’antropologia professionale sia una tipica professione da palude. Si basa su una teorizzazione lacunosa, parziale e superficiale, affronta grovigli problematici che si esprimono in contesti drammaticamente variabili, è vittima di lotte ideologiche, ha pochissimi sistemi standardizzati e, su tutto, viene pure guardata con disprezzo dagli antropologi accademici, sempre per la storia della gerarchia teoria-pratica vista in precedenza. La questione interessante è che l’antropologia professionale non può adottare il modello della Razionalità Tecnica perché, come abbiamo visto, non è adatto alle situazioni problematiche che affronta. Non lo è più per discipline ben più solide, immaginiamo per l’antropologia culturale. Con questo punto di vista si riesce a capire l’origine della lamentela di molti studenti che accusano l’università di non dare sufficienti strumenti professionali. È normale che ciò accada dal momento che gran parte dell’istruzione universitaria è ancora organizzata secondo la logica positivistica e della Razionalità Tecnica: un contesto di apprendimento esclusivamente teorico e quanto più astratto e generale possibile, tenuto da professori e ricercatori e pensato per essi. Chi poi avrà problemi di natura professionale farà ulteriori specializzazioni esterne all’università, oppure si formerà nel mondo del lavoro, secondo procedure e criteri che l’università ignora perché non ritiene di dove essere essa, in quanto istituzione, a veicolarli. Ad essa attiene la ricerca per la conoscenza, tutte le deduzioni e le trasformazioni successive in chiave professionale/applicativa non la riguardano e, anzi, la infastidiscono pure un po’. La infastidiscono perché rimandano l’immagine di un modello che non funziona più. Le basi della conoscenza scientifica accademica e le esigenze della reale pratica professionale stanno divergendo sempre di più. Pare impossibile ormai, pur con tutti gli stratagemmi, salvare il modello della Razionalità Tecnica nelle professioni. La riflessione nel corso dell’azione Gli spunti che ci vengono dall’analisi di Schön ci fanno capire quanto l’antropologia professionale, qualora si cerchi di codificarne le pratiche, risulti originale e difficilmente inquadrabile in un modello chiaro e definito. L’antropologo professionista non ha praticamente teoria che egli possa utilizzare secondo l’epistemologia della Razionalità Tecnica. La teoria antropologica è un insieme di asserti e di modelli che derivano dal lavoro di ricerca di migliaia di antropologi nei quattro angoli del pianeta inerenti a ciò che si considera rilevante per comprendere l’uomo dal punto di vista culturale. Abbiamo quindi configurazioni teoriche e modelli della parentela e della struttura sociale, delle forme economiche e politiche, della pratiche rituali e relazionali con i vari aspetti delle realtà costruite dai vari gruppi umani. Ad un’analisi un po’ disincantata è però difficile trovare un corpus teorico che legittimi il professionista antropologo a fare interventi applicati in nome di esso. Anzi, dagli stessi antropologi la
  • 6. Fiorio L., Stocchero D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale? 126 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno III, n°1 teoria antropologica è considerata work-in-progress, e un tentativo di applicarne una parte ad interventi sociali verrebbe visto, oggigiorno, come un azzardo ai limiti della deontologia professionale. E qui sorge un problema: secondo il modello della RT, che definisce praticamente tutte le professioni nella loro operatività pratica all’interno della nostra società, non si dà professionismo senza teoria. Ne consegue che secondo questo modello l’antropologia non può, ad oggi, dare alla luce alcunché che sia definibile come ‘antropologia professionale’. In definitiva, manca un sapere da applicare, e quindi di conoscenza professionale non può esserci nulla. Certo, si dirà, l’antropologia ha un ambito di studi dove non è facile produrre una teoria scientifica che sappia spiegare e prevedere le dinamiche passate e future, nota caratteristica di una scienza che si voglia definire tale. La complessità dell’oggetto è nota, ma questo rafforza ulteriormente la marginalità del sapere antropologico in chiave professionale: come possono gli antropologi essere legittimati in quanto professionisti se non dispongono nella loro cassetta degli attrezzi di modelli e teorie realmente capaci di guidarli negli interventi operativi? Quale credibilità possono sperare di guadagnarsi utilizzando strumenti analitici poco coerenti e difficilmente validabili per essere utilizzati in contesti diversi? In realtà ciò che ci dice Schön, e che qui cerchiamo in via intuitiva di rapportare all’antropologia professionale, è che tutte le professioni si stanno via via allontanando dal modello RT perché esso non regge più al confronto dei problemi che emergono dalle nostre società contemporanee. Sottoposti a studi che potremmo definire etnografici, i professionisti che tutti conosciamo, nel mentre delle loro operatività professionale dimostrano di agire sempre più spesso con criteri che nulla hanno a che vedere con il modello RT, ma anzi lo contrastano apertamente. Innumerevoli azioni professionali sono create nel mentre dell’operatività stessa all’interno di un complesso sistema cognitivo-riflessivo che Schön ha chiamato ‘riflessione nel corso dell’azione’. Studiando per molto tempo la reale operatività di diversi tipi di professionisti, ha visto come la loro expertise li porti ad allontanarsi sempre più dal modello RT e a introdurre ampi margini di intuito, sensibilità artistica, procedimenti per prove ed errori e uso di tecniche eterodosse al fine di organizzare e risolvere al meglio le situazioni problematiche che si trovano ad affrontare quotidianamente. La conferma che la professionalità antropologica seguisse un modello epistemologico sui generis, cioè eterogeneo, dipendente dall’ambito di intervento, dal background formativo e esperienziale del singolo antropologo, legato all’artigianalità e al patchwork metodologico e contenutistico lo abbiamo avuto dalla lettura del nuovo volume edito da W. Nolan, Handbook of Practicing Anthropology, pubblicato nel 2013 dalla Wiley-Blackwell. Per questa opera collettanea sono stati chiamati a portare i loro contributi diversi antropologi professionisti che lavorano nella aree più diverse di intervento, spaziando dalla salute allo sviluppo internazionale, dalla sicurezza alla pubblicità, dall’ambiente all’assistenza umanitaria. Molteplici domini di pratica, cosi come diverse sono le storie formative e gli status degli antropologi professionisti: professori, ricercatori, titolari di PhD oppure Master, liberi professionisti, dipendenti di grandi aziende oppure titolari di studi di consulenza che cercano, in autonomia, di sviluppare i loro business antropologici nella consulenza, nella formazione e nella ricerca indipendente. Tanta eterogeneità disorienta, anche se sotto ad essa emergono con buona chiarezza dei cardini cognitivi, emotivi e operativi che paiono, seppur in maniera non proprio strutturata, tenere insieme tutti i professionisti che si riconoscono essere antropologi. È proprio il trionfo dell’unità nella diversità, non c’è dubbio, la concreta realizzazione pratiche di un valore fondativo dell’impresa antropologica. Incontrare l’opera di Schön ha permesso di mettere in relazione la necessità di un ordine mentale da utilizzare quando si parla di antropologia mentale e il rispetto della complessità di quest’ambito, che non si riduce ad alcun modello prestabilito. La ‘riflessione nel corso dell’azione’ mi è sembrata una via in chiara sintonia con quello che gli antropologi professionisti raccontavano in quel libro riguardo alle loro attività – e alle loro vite – una sorta di modello epistemologico evoluto che fungesse da torcia per illuminare, almeno in parte, quella domanda dalla risposta ancora oscura che suona più o meno cosi: cosa fanno gli antropologi quando operano come professionisti? Il primo cardine del nuovo paradigma sta nell’uso esperto della funzione di riflessione, ossia di continuo dialogo aperto e costruttivo, interiore, tra le proprie percezioni correnti derivanti dai sensi, i propri pensieri e le proprie tonalità emotive nel mentre della loro evoluzione. È una pratica che si acquisisce con l’esperienza e che va esercitata continuamente affinché possa innescarsi senza particolare difficoltà. È generata da una particolare disposizione dell’attenzione e della consapevolezza che sostiene
  • 7. Fiorio L., Stocchero D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale? Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno III, n°1 127 un equilibrio dinamico del professionista con il contesto nel quale è inserito operativamente. L’esperienza etnografica è un’ottima palestra per l’esercizio della riflessività, disposizione fondamentale per saper entrare e restare in maniera efficace in ambienti nuovi e molto complessi quali sono quelli etnografici per l’antropologo. Ciò che è importante sottolineare è che non esistono due momenti distinti, quello riflessivo e quello operativo. Quando l’antropologo è in situazioni complesse agisce riflettendo e verifica la propria riflessione agendo: il movimento è unico, e gli effetti nella realtà concreti ed evidenti. La diretta conseguenza di questa disposizione riflessiva è che l’antropologo entra nella situazioni in maniera fluida e senza farsi percepire come corpo estraneo, perché adatta il proprio movimento in base al contesto attraverso al riflessione. Non applica uno schema noto a priori, ne usa uso mentre lo crea e continuamente lo perfeziona. Ciò lo rende inizialmente vulnerabile e potenzialmente spiazzabile, ma superata la fase iniziale, a mano a mano che la dinamica costruttiva della riflessività mette le proprie basi, acquista un movimento proprio e opportuno, in contrasto con quanto avrebbe fatto un approccio tecnico standardizzato, magari più rassicurante ma potenzialmente inadatto e quindi disturbante. Per fornire un esempio testuale di questo procedere riflessivo segue un testo di resoconto etnografico di un’antropologa in formazione. È importante che l’abitudine a stare-in-situazione dell’antropologo con atteggiamento riflessivo diventi portante e strutturale nell’habitus dell’antropologo, e questo può avvenire solamente con un esercizio continuo e ripetuto, fino a diventare prassi metodologica normale. Mano lavora, bocca parla. Gestualità e condivisione sul campo. La prima vera occasione per riflettere in modo strutturato sul campo è stata durante il corso di Etnografia. Era richiesta un’esercitazione breve in cui si riflettesse sulla metodologia di ricerca prendendo come pretesto il tema della multiculturalità. Valutando l’alta accessibilità e fattibilità di varie ipotesi progettuali, ho optato per quella che incontrasse anche il mio interesse personale. Per questo motivo ho contattato la “Casa di Ramìa”,1 nella quale ogni lunedì mattina si tiene il laboratorio “Mano lavora, bocca parla”. Si tratta di incontri informali tra donne migranti e italiane che utilizzano lo scambio di tecniche artigianali per creare nuovi legami d’amicizia e tenere vive le tradizioni tessili. L’associazione che si occupa di organizzare il laboratorio è “Le Fate Onlus”, con la quale ho avuto i primi contatti per richiedere l’autorizzazione a partecipare e alcune informazioni di base. Nel tempo Elena, responsabile dell’associazione, è divenuta la mia gatekeeper. L’obiettivo che mi ero posta inizialmente era di sondare il feeling che si instaura mentre si lavora in gruppo e come la gestualità delle tecniche artigianali possa contribuire a crearlo. In origine contavo di realizzare due o tre interviste in cui le interlocutrici mi avrebbero raccontato ciò che provano lavorando in comunità. In realtà ho ottenuto tre incontri, ma solo nel primo ho avuto modo di approcciarmi singolarmente a un’interlocutrice, Elena, la gatekeeper. Negli altri due invece mi sono ritrovata immersa nella collettività del laboratorio. A posteriori ritengo che partecipare a dei momenti corali sia stato produttivo in modo sorprendente: ho sperimentato in prima persona, ciò che speravo di ricavare dalle interviste. Il dialogo a due mi avrebbe consentito l’accesso alle opinioni delle interlocutrici, ma avrei perso le azioni nel loro dispiegarsi, cioè non sarei stata parte di ciò che desideravo conoscere. 2 Il motivo per cui ho deciso di non insistere nella richiesta di interviste singole è legato al fatto che non ritenevo opportuno sottrarre ulteriore tempo alle partecipanti, immaginando quanto potesse essere già dura partecipare agli incontri del Centro conciliandoli con le attività familiari. Il laboratorio era strutturato in modo tale da favorire l’interazione tra soggetti: una migrante illustrava una tecnica del paese d’origine e poi assieme provavamo tutte a riprodurla, chiacchierando e dividendoci delle vivande preparate a casa o sul momento, nella piccola cucina della Casa. L’atmosfera era decisamente amichevole e rilassata, solo ora mi rendo conto di quanto l’ansia da primo incontro sia stata eccessiva, vista l’accoglienza riservatami e la reazione della frequentatrici. Mi sono chiesta se aver dichiarato francamente le intenzioni della mia partecipazione abbia contribuito ad una serena accettazione della mia presenza improvvisa e sinceramente credo di sì, almeno nel mio caso. Ritengo anche che aver raccontato qualcosa di me nel momento della presentazione, abbia evitato una mia relegazione al ruolo di “spiona” e abbia contribuito a dipingermi come una persona interessata ad uno scambio reciproco, più che unidirezionale. Raccontare qualcosa in più di me è servito di fatto anche a giustificare la scelta di sviluppare il mio progetto con loro e non in altri ambiti o altre persone: è stata la mia passione per le tecniche manuali tessili e il mio personalissimo piacere a lavorare in gruppo a guidarmi verso il laboratorio della Casa; altri interessi e attitudini personali sono convinta mi avrebbero portata altrove. 3 1 Nome del Centro interculturale di Verona. Nell’articolo ho preferito abbreviare il nome con “Casa”. Ciò che ho più apprezzato dell’esperienza sul campo è stato poter partecipare attivamente, lavorare assieme alle altre sperimentando io stessa nuove tecniche e percepire in modo 2 Non sono stata una spettatrice che rimane all’esterno e indifferente a ciò che ho percepito. Questo tema mi è molto caro e ho trovato interessante la lettura della Biddle (1993: 191). 3 Il lavoro etnografico non è “neutrale” (Fabian 2012: 449) è parziale, parte da noi e dalla nostra esperienza pregressa, dai gusti e dalle attitudini.
  • 8. Fiorio L., Stocchero D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale? 128 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno III, n°1 vivo l’atmosfera di sospensione temporale che si era creata. 4 Imparare tecniche manuali mi consentiva di vivere anche una certa vicinanza fisica con le altre donne: chi insegnava passava da ciascuna per mostrare i passaggi e correggere gli errori, creando un contatto tra le mani e una vicinanza intima che permetteva di percepire l’odore dell’altra persona e il respiro. 5 Di intimità si può ben parlare se si considera la condivisione di pettegolezzi e informazioni private che regolarmente avveniva non appena si prendeva in mano il lavoro! Per quanto riguarda il rilevamento di informazioni devo ammettere di non aver posto domande predeterminate: mi sentivo fortunata ad essere esattamente in un luogo e con delle persone che mi stavano consentendo di sviluppare il mio progetto semplicemente partecipando: ciò che speravo di osservare si dispiegava di fronte ai miei occhi – e nelle mie orecchie e con le mie mani – apparentemente senza nessun mio sforzo. Mi sentivo particolarmente grata ed entusiasta. Questo mio atteggiamento positivo ha indubbiamente aiutato rendendomi ricettiva, ma ha anche creato qualche difficoltà! Capitava durante il campo che mi ricordassi, con un tuffo al cuore, di essere nel bel mezzo di un’esercitazione. Mi rimbrottavo dicendomi che era importante scrivere almeno qualche appunto, per non dimenticare ciò che mi sarebbe stato utile durante la scrittura del diario di campo. Avevo paura di tralasciare e sapevo che questa paura derivava dal senso di immersione che stavo sperimentando. Lavoravo, muovevo le mie mani, ascoltavo, chiacchieravo del più e del meno e ogni tanto, come una doccia fredda, mi ricordavo di dover appuntare quelle due o tre cose che “non potevo assolutamente dimenticare”. Sul campo perciò ho scritto poco perché partecipavo attivamente e mi infastidiva smettere il lavoro per appuntarmi le cose; tuttavia l’ansia da “perdita dei dati” prevaleva e mi costringeva a smettere per annotare compulsivamente. Usavo solo un quadernino che tenevo sulle gambe, semi nascosto per non dare l’impressione di essere un’inquisitrice. Tuttavia la preoccupazione di scrivere dati sufficienti non è stata l’unica: quando tornavo a casa percepivo una forte ansia da prestazione legata al terrore di avere le mani vuote, di non aver concluso nulla o peggio, di aver sbagliato tutto. Considerando però che mi ero ripromessa di non progettare nulla in modo rigoroso, ma di lasciare che le cose si sviluppassero con la volontà di controllo ridotta al minimo, minima era anche la possibilità di fallire completamente. Alla fine il risultato è stato soddisfacente: non ho sperimentato il senso di fallimento dovuto alle mancate interviste face to face e mi sono immersa in una vivace realtà collettiva; inoltre ho evitato che una griglia serrata di domande mi facesse focalizzare solo determinati elementi prescelti, escludendo un mondo di altre possibilità6 In ultimo, quando mi sono trovata a comporre la relazione finale, mi sono accorta di quanto avrei potuto scrivere nonostante la brevità dell’esperienza e quanto sia difficile astrarre l’esperienza cercando di armonizzare questioni metodologiche importanti e contesto. Sistematizzare la mia esperienza mi ha consentito di analizzarla con più freddezza ed estrapolarne alcuni spunti di riflessione che qui ho cercato di riassumere. . Infine credo che sia utile raccontare cosa avvenisse quando lasciavo i luoghi del campo di ricerca. La mia esperienza non è stata d’immersione totale, nel senso che mi trovavo nella mia città natale e una volta terminati gli incontri, tornavo a casa. Questo mi permetteva di staccare completamente e di estendere subito dopo le note in diario di campo. Scrivevo di getto, mescolando emozioni, riflessioni, nozioni apprese e facendo schizzi delle tecniche apprese. Talvolta passavo del tempo a cercare di decifrare cosa avessi scritto di fretta negli appunti e mi maledicevo per non aver portato un registratore o una videocamera. Entrambi i supporti nel mio caso non erano utilizzabili: il registratore non avrebbe avuto senso, dato che avrebbe registrato un chiacchiericcio di voci indistinguibili; il video sarebbe stato sicuramente più interessante vista la natura del progetto, ma non avendo le competenze tecniche ho deciso che non valesse la pena tentare. Il secondo cardine della riflessione nel corso dell’azione riguarda le abilità di problem setting, ossia la capacità di strutturare in maniera sufficientemente chiara situazioni estremamente confuse. Anche in questo caso, l’approccio che gli antropologi riportano nella loro pratica professionale mostra importanti evoluzioni rispetto alla pratica tecnica standard. Gli antropologi adottano una sorta di ‘problem setting artistico’ che lascia molto spazio alle caratteristiche della situazione reale, ai dettagli e alle intuizioni delle persone presenti. La definizione è raramente di un problema, spesso di uno spazio problematico. Si accettano a priori un maggior numero di variabili nella propria rappresentazione, rendendola certo più difficilmente gestibile, ma sicuramente più realistica di una schematizzazione tecnica nella quale si rischia di perdere l’essenziale scambiandolo con l’efficiente. Il terzo cardine è l’approccio sperimentale. L’antropologo non comunica attraverso monologhi, ma struttura ‘conversazioni riflessive con le situazioni’ agendo in maniera sperimentale con azioni ad hoc, al fine di conoscere come la situazioni reagisce ai suoi stimoli, rivelando le proprie logiche sottostanti. Tradizionalmente il professionista tecnico ritiene di essere l’unico agente ad introdurre nuova 4 Spesso ho usato il verbo “sentire” nel mio diario di campo, che per me ha un significato molto simile a ciò che Wikan (2009) propone per la parola “risonanza” o che Tamisari (2002) amplia con i concetti di empatia. 5 Percepire con più sensi la presenza delle altre donne e annotarla di proposito mi ha suggerito che la ricerca antropologica è anche mediata dal corpo, ha una natura anche carnale (Tamisari 2002) 6 Per superare una prima impostazione marziale dettata dalla paura di sbagliare, mi sono boicottata lasciando volontariamente a casa la lista delle domande. Il “mondo di altre possibilità” come ricorda Piasere (2009) è la serie di comportamenti incorporati e interiorizzati che le domande non mi avrebbero certo rivelato. Penso ad esempio al canto di Houda durante il lavoro o all’energia di Galina mentre infeltriva la lana e molto di più.
  • 9. Fiorio L., Stocchero D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale? Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno III, n°1 129 informazione nel contesto – l’informazione esperta appunto – mentre l’antropologo dialoga in maniera sperimentale, assimilando continuamente i messaggi di risposta e riflettendo costantemente su di essi. Ciò implica che l’azione strutturante rimane a lungo aperta e soggetta a modifiche, da cui ne consegue il maggior tempo necessario per un intervento antropologico professionale efficace. Il quarto cardine è la capacità di costruire e manipolare delle costruzioni mentali estremamente complesse per individuare soluzioni ad hoc per situazioni irripetibili e uniche. Sostanzialmente l’esperienza dall’antropologo lo porta a costruire dei cosiddetti repertori, ossia degli insieme connessi di situazioni-azioni-esiti che il professionista usa come esempi per orientarsi. L’antropologo per definizione non incontrerà mai due volte lo stesso problema: deve pertanto avere una serie di repertori esperienziali dai quali riesce a estrarre pattern situazionali, di azioni intraprese e di esiti raggiunti e verificare quali di questi si adattino meglio per strutturare la nuova situazione nella quale deve intervenire. L’ampiezza di queste repertori, la loro ricchezza, la robustezza delle connessioni al loro interno e la velocità con cu vengono utilizzati per fornire dei canovacci operativi in situazioni nuove distinguono un antropologo esperto da uno inesperto. Il modello della RT prevede repertori rigidi, chiari e limitati, quello della riflessioni nel corso dell’azione repertori articolati, intuitivi e molto ampi, costruiti aggregando non solo esperienza professionali ma anche personali, non solo razionali ma anche artistiche, non solo cognitiva ma emotive. Il quinto cardine è lo sviluppo di un peculiare ‘sistema di apprezzamento’. Si intende con questo una articolato sistema di percezione, ossia di sensibilità, che permette di rilevare i cambiamenti che provocano dei cambiamenti. La stabilità di questo sistema di apprezzamento è essenziale per la riflessione nel corso dell’azione. Esso è il sistema che permette al professionista di sentire e capire che un certo cambiamento è avvenuto, che una certa situazione è cambiata, che una soluzione è più vicina di quanto fosse in precedenza. Antropologi con sistemi di apprezzamento diversi posso ad esempio appartenere a ‘scuole’ diverse, rifarsi ad epistemologie diverse, avendo quindi i proprio sistemi cognitivi tarati su tipi di apprezzamenti diversi. Di solito i sistemi di apprezzamento di base sono comuni a tutta una comunità professionale, permettendo lo scambio e la collaborazione tra colleghi. In antropologia non è così, essendo i sistemi di apprezzamento tendenzialmente coincidenti con l’individualità dell’antropologo, non essendo ben strutturato il percorso formativo professionalizzante, il cui compito precipuo è proprio quello di ‘tarare’ questi sistemi. L’antropologo riflessivo e il cliente Abbiamo visto brevemente i principali cardini dei un agire professionale riflessivo che pare potenzialmente adeguato a formare l’agire degli antropologi. Approfondiremo in un altro momento i diversi aspetti qui accennati, riservando anche dei rilievi critici opportuni per comprendere meglio la prospettiva qui presentata. In conclusione accenniamo ad un aspetto importante di qualsiasi pratica professionale, quello del rapporto con i clienti. La terminologia ‘cliente’ non pare la più opportuna, in quanto i committenti che incaricano antropologi di fornire dei servizi professionali sono i più diversi: enti, associazioni, imprese, comuni, istituzioni burocratiche. Il cliente dell’antropologo non è certo ‘cliente’ nel senso in cui lo è quello di un’azienda che vende beni. In generale un antropologo opera in contesti complessi che coinvolgono molteplici attori, per i quali egli è una sorta di ‘insider fiduciario’, ossia una figura incaricata di raggiungere determinati obiettivi a cui viene concessa grande autonomia operativa. La figura dell’antropologo che opera spesso in contesti burocratici può ad esempio vedere nascere un conflitto tra il proprio habitus professionale e le strutture rigide e gerarchiche all’interno del quale muove e opera, creando situazioni che sono esse stesse da comprendere e strutturare come parte del lavoro da compiere. Lo status dell’antropologo professionista è quindi piuttosto incerto, mutevole e fortemente dipendente dai contesti che di volta in volta lo vedono qualificarsi diversamente. In generale nel modello della Razionalità Tecnica il rapporto professionista-cliente è ben definito e ognuno sa cosa aspettarsi dall’altro. I codici comunicativi sono abbastanza chiari e le cornici di riferimento legale e normativo lineari e univoche. Il professionista offre competenze e rispetta la fiducia del cliente, il quale accetta l’autorità del professionista nel suo specifico settore di competenze e paga i servizi resi. In genere, il cliente mostra deferenza psicologica nei confronti del professionista tecnico.
  • 10. Fiorio L., Stocchero D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale? 130 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno III, n°1 Inoltre, non contesta il suo operato, e non chiede spiegazioni accessorie rispetto a quelle date dal professionista spontaneamente. In un contratto tradizionale il professionista è responsabile verso i propri pari, e il cliente spesso non ha strumenti adeguati per comprendere se gli esiti raggiungi siano veramente quelli pattuiti e se le legittime aspettative siano soddisfatte. Di solito, solo altri pari del professionista sanno fare queste valutazione, per cui il cliente, eventualmente, può solamente scegliere di affidarsi ad un professionista diverso, collega del precedente. Quando il professionista adotta l’epistemologia della riflessione nel corso dell’azione il contratto con il cliente muta radicalmente. Il rapporto professionista-cliente acquista la natura di conversazione riflessiva. Il professionista riconosce che il cliente è un essere capace di comprendere, conoscere e pianificare. Il professionista si impegna a riflettere sia su cosa che su come comunica al cliente: non gli chiede di avere la sua fiducia cieca, ma di verificare l’effetto delle proprie reali competenze professionali mostrate. L’enfasi sulla propria identità non viene più intesa come un a-priori di status, ma come una valutazione concreta sulle proprie capacità di affrontare e risolvere i problemi portati dal cliente. Facile da farsi? Certo che no. Dice Schön: Così, in un contratto riflessivo fra professionista e cliente, il cliente acconsente non già ad accettare l’autorità del professionista ma a sospendere lo scetticismo nei confronti di questa. Egli acconsente a partecipare con il professionista all’indagine sulla situazione per la quale il cliente chiede aiuto; a cercare di capire cosa sta sperimentando e a rendere tale comprensione accessibile al professionista; a confrontarsi con il professionista quando questi non capisce o non è d’accordo; a verificare la competenza del professionista osservandone l’efficacia e a rendere noti i suoi interrogativi su cosa debba intendersi per efficacia; a pagare i servizi resi e ad apprezzare la competenza dimostrata. Questo tipo di contratto, qui solo accennato, si potrebbe prestare al meglio per delineare la relazione tra antropologo e professionista. Come si vede si tratta di una rivoluzione radicale, ma decisamente consona all’entità dei mutamenti che stanno interessando le nostra società, sia dal punto di vista economico che da quello dell’utilizzo delle conoscenze professionali. Dal momento in cui il ‘professionista è nudo!’, serve una via percorribile per salvaguardare ciò che di buono le professioni possono portare alle nostre società contemporanee, antropologici inclusi. Certo emerge in maniera evidente che la formazione necessaria per operare come antropologi professionisti non può basarsi solamente sullo studio di testi, ma va radicalmente integrata e trasformata attraverso esperienze di ricerca riflessive come quella precedentemente presentata, a partire dai corsi universitari. Ancora, sarebbe opportuno unire alla formazione in epistemologia della ricerca qualche informazione riguardo l’epistemologia della pratica, ambito cruciale per ogni professione e a maggior ragione per quelle neonate come quella antropologica. Speriamo che questo contributo possa portare qualche spunto utile a chi voglia intraprendere questo affascinate percorso professionale. Bibliografia Biddle J.L. 1993 “The Anthropologist's Body or What It Means to Break Your Neck in the Field,” in TAJA, The Australian Journal of Anthropology, 4(3): 184-197. Fabian J. 2012 “Cultural anthropology and the question of knowledge”, in Journal of the Royal Anthropological Institute, 18(2): 429-453. Mortari L. 2008 A scuola di libertà. Formazione e pensiero autonomo, Milano, Cortina. Nolan W. 2013 Handbook of Practicing Anthropology, Oxford, Wiley-Blackwell. Piasere L. 2009 “Etnografia romanì ovvero l’etnografia come esperienza”, in Vivere l’etnografia, a cura di Cappelletto F., Firenze, Seid Editori, pp. 65-95.
  • 11. Fiorio L., Stocchero D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale? Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno III, n°1 131 Schön D.A. 1993 Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, Bari, Edizioni Dedalo. Tamisari F. 2002 “Danza e intercorporalità: la lusinga e il pericolo dei complimenti”, in La ricerca Folklorica, 45: 89-99. 2007 “La logica del sentire nella ricerca sul campo. Verso una fenomenologia dell’incontro antropologico”, in Molimo, 2: 139-162. Wikan U. 2009 “Oltre le parole. Il potere della risonanza”, in Vivere l’etnografia, a cura di Cappelletto, F., Seid Editori, Firenze, pp. 97-133.