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Paola Berardi 2012/2013
ISISS Pavoncelli Cerignola (FG)
La Bellezza come valore assoluto
La Divina Proporzione
Il Culto del bello
Premessa
Nella stesura di questa tesina ho voluto mettere in evidenza un particolare modo di concepire l’arte e la bellezza. Una concezione che non si limita
solamente al puro giudizio estetico, ma che cerca di spingersi oltre, ricercando il vero significato del termine “bello” all’interno dei sentimenti e
delle sensazioni che un’opera d’arte, una poesia, una formula matematica possono trasmetterci. A tal proposito mi e’ stato utile prendere di esem-
pio uno dei luoghi comuni piu’ usati quando si parla di “bellezza”, ossia: “ non e’ bello cio’ che e’ bello, ma e’ bello cio’ che piace”. Ma è proprio
così? E anche se fosse, se davvero il bello è ciò che piace soggettivamente, perché in determinate epoche storiche o in determinate culture
piacciono alcune cose che non piacciono più in altri contesti o in altri periodi?
Certo, è sempre dal gusto personale che giudichiamo la bellezza e non sempre ci ritroviamo ad apprezzare
quello che i nostri avi consideravano come sinonimo di bellezza. Le modelle tondeggianti dei quadri rinas-
cimentali difficilmente rappresentano la bellezza femminile così come ci viene proposta oggi dalle sfilate
di moda, dalle pubblicità o dalle pellicole cinematografiche. Ma allora è questa la bellezza? La bellezza
è moda? Non è bello ciò che è bello e ma è bello ciò che è di moda? Ma che cos’è la moda in fondo se
non un’accettazione culturale condivisa e provvisoria dell’estetica del momento? E se la bellezza fosse
proprio resistere alla moda? Quell’equilibrio d’armonia e forma che rimane immutabile a dispetto di ogni
stravaganza proposta da stilisti e fotografi, la verità è che non può esistere una scienza del bello partendo da
questi presupposti, un tramonto, un fiore in un prato primaverile, un paesaggio di montagna… Difficilmente
possiamo negare la loro bellezza e l’emozione che da sempre provocano nell’animo umano, ma se proviamo
a spiegare oggettivamente perché tali cose sono belle difficilmente vi riusciamo e tutto rimane racchiuso in
una sfera troppo personale e intima per essere tradotta in concetti oggettivi e univoci. Una scienza del bello i
questi termini non esiste e non è mai esistita e forse è anche riduttivo e banale provare a crearne una.
Perché un’opera d’arte può a ragione considerarsi bella?
Nell’arte classica dell’antica Grecia uno dei metri di giudizio più importanti era la corrispondenza tra la for-
ma che prendeva l’opera d’arte e la natura stessa. Una statua umana ad esempio era tanto più bella quanto
riusciva a riprodurre per imitazione il corpo umano nella natura. L’estetica si riduceva così a una misurazione
attenta e anatomica delle parti del corpo, alla ricerca di un’armonia delle forme che voleva essere appunto,
imitazione di una perfezione umana idealizzata e forse non reale. . Ma che dire allora dei quadri di Picasso? Se li valutiamo secondo l’estetica
classica come possiamo definirli belli? Eppure, soffermandoci ad esempio su uno dei più famosi quadri di Picasso, Guernica, non possiamo che
rimanere incantati di fronte alle sensazioni che esso è in grado di suscitare in noi. Siamo davanti a un quadro le cui dimensioni ci danno già l’idea
dell’entità della tragedia, si aggiunga poi a questo fatto quantitativo, il silenzio gridato dalla tela. Guernica di Picasso ci ha dato un esempio di
violenza trattenuta nella tela, eppure essa fuoriesce prepotente e nel suo movimento produce in noi osservatori un’immobilità stupefatta.
Il principio dell’imitazione della natura si è dimostrato quindi limitativo escludendo arbitrariamente tutta una serie di opere d’arte capaci di darci
emozione ma che si allontanano dai canoni stessi presenti in natura e che anzi a volte ribaltano il concetto stesso di bellezza introducendo quello
che Croce definiva: “il bello dell’orrido”.
Il principio dell’estetica basata sull’imitazione della natura entra definitiva-
mente in crisi con l’avvento della macchina fotografica: Qui bastava premere
un pulsante e qualsiasi paesaggio o figura umana si ritrovavano impressi su pel-
licola così come erano in natura facendo sparire la figura stessa di artista come
creatore originale della sua opera. La pittura, la scultura e la stessa fotografia
dovevano perciò trovare altri parametri per proporsi come opere d’arte che non
fossero soltanto banali imitazioni della realtà. Un quadro astratto può essere di
gran lunga più bello artisticamente della fotografia digitale similmente perfetta
di un depliant turistico. E qui torniamo alla domanda dalla quale siamo partiti:
ma allora che cos’è la bellezza? E restringendo ancora il campo, che cos’è la
bellezza in arte?
La bellezza è quello che riesce a trasmetterci emozioni, a farci quindi emozionare o, ancora meglio, a comunicarci le emozioni e gli stati d’animo
di un artista. In questa prospettiva, liberi da ogni criterio imitativo della realtà, l’arte diviene sublimazione della realtà stessa, un qualcosa che la
trascende e la supera, un qualcosa non separabile dall’artista che la riproduce.
Il David di Donatello, un quadro di Picasso, ci offrono emozione proprio perché sono belli di una bellezza che trascende la pura e semplice rap-
presentazione ma ci comunicano un qualcosa che appartiene al mondo stesso dell’artista, una concezione del mondo che non è il mondo stesso,
ma l’universo più intimo e profondo dell’artista.
Eccola la vera bellezza, quella bellezza capace di resistere alle mode, quella bellezza non misurabile con il centimetro, la bellezza di una forma che,
forse incomprensibile immediatamente, ci racconta dell’uomo che l’ha creata e rimane immortale e duratura.
Il Culto del bello: “ L’Esteta, una nuova figura umana”
Prima di arrivare a capire chi realmente sia l’esteta e quale concezione abbia della bellezza, è importante
riuscire a inquadrare questa figura all’interno dell’Estetismo, un movimento artistico e letterario della seconda
metà dell’Ottocento. Esso rappresenta una tendenza del Decadentismo autonomamente sviluppatasi grazie a
figure come Walter Pater e John Ruskin, che trova il suo massimo splendore grazie alle opere di Oscar Wilde.
Ma l’estetismo non si limita a essere un movimento unicamente artistico e letterario, infatti, riesce a influen-
zare le stesse vite degli intellettuali che ne fanno parte. Il principio fondamentale di questo movimento (l’arte
per il gusto dell’arte) consiste nel vedere l’Arte come rappresentazione di se stessa, possedente una vita in-
dipendente proprio come il Pensiero, che procede solo per le sue vie.
L’Estetismo presenta anche un continuo invito a godere della giovinezza fuggente, un edonismo nuovo in cui
l’esaltazione del piacere è morbosamente collegata alla corruzione della decadenza e in cui la bellezza è intesa
come manifestazione del genio ma superiore, al contempo, al genio stesso. Esso nutre un fortissimo disprezzo
per la volgarità e la folla, e, nello stesso tempo, un’ossessiva predilezione per la mondanità, per la vita frivola e
capricciosa, per gli oggetti minuti e preziosi. La vita stessa deve essere vissuta come un’opera d’arte. Tale con-
cetto viene ripreso da Oscar Wilde nel suo saggio La Decadenza della Menzogna nel quale sostiene che sia la vita a imitare l’arte. Ciò non deriva
solo dall’istinto imitativo della vita ma anche dal fatto che il fine della vita è quello di trovare espressione, e che l’arte è l’espressione stessa.
L’esteta, uomo e letterato, è una figura complessa e molto intrigante. E’ colui che assume come principio regolatore della sua vita non i val-
ori morali, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, ma solo il bello, ed esclusivamente in base ad esso agisce e giudica la realtà. Da qui deriva il
desiderio di distruggere e allontanare tutto quanto stia al di fuori dell’arte, e tutti gli oggetti che possano definirsi utili e funzionali. L’esteta dirà
dunque che l’arte è arte perché inutile, e che nulla di utile può essere bello, trasformando la bellezza nella nemica dell’utilità. Non dirà che l’arte
è libera da costrizioni morali e che non può essere giudicata, ma dirà che l’arte è un grido levato contro la morale, riprendendo così la concezi-
one moralistica e inutile dell’arte secondo Oscar Wilde, racchiusa nella seguente citazione:
“Ogni arte è insieme superficie e simbolo.
Coloro che scendono sotto la superficie lo fanno a loro rischio.
L’arte rispecchia lo spettatore, non la vita.
La diversità di opinioni intorno a un’opera d’arte
dimostra che l’opera è nuova, complessa e vitale.
Possiamo perdonare a un uomo di aver fatto una cosa utile se non l’ammira.
L’unica scusa per aver fatto una cosa inutile
è di ammirarla intensamente.
Tutta l’arte è completamente inutile.”
Superlativo brillante, sublime deve essere l’esteta, che anela a raggiungere e a identificarsi con il bello. Egli non disdegna oltretutto l’uso di sostante
stupefacenti: l’alcool e l’oppio sono certamente dei vizi, ma esistono per ragioni estetiche. L’artista è convinto che il senso della vita non sia rac-
chiuso nella realtà, ma nell’immaginazione di essa. La visione e il sogno sono più belli di qualsiasi realtà mediocre, essendo la bellezza un’immagine
che ci colpisce e che ci trasmette emozioni. Da qui nasce la ricerca del piacere e la convinzione dell’esteta che la sua salvezza risieda proprio nei vizi.
Il vizio, accostato al senso dell’orrido e del ripugnante, diviene indispensabile per definire il concetto di bellezza. Amare la vita significa renderla
unica, perfetta, sovrumana, fino all’esasperazione delle perversioni sadiche che procurano sublime e crudele piacere.
La donna, che grande importanza ha fra i pensieri di un esteta, spesso non è altro che una cavia di esperimenti, una fonte di piacere e sensazioni
straordinarie. Quando la sua bellezza sfiorirà, egli procederà a una sostituzione di persona. L’esteta lusinga, corteggia e seduce solo per vedersi
all’azione; più che nel fine, il suo interesse si focalizza nella seduzione, facendo prevalere l’estetica a ciò che è la sostanza vera e propria dell’amore.
Ciò che allontana l’esteta dalla donna e dall’amore verso di essa è quel suo essere naturale. Riprendendo le parole di Baudelaire:
“La donna è il contrario del dandy. Dunque deve fare orrore.
La donna è naturale, cioè abominevole.”
Viene rinnegato anche il matrimonio, in quanto antiestetico. Esso viene visto come un impegno deprecabile che uccide la bellezza e il piacere, un
rifugio per i deboli, una condanna al tedio.
Edonista, colto, amorale, insoddisfatto ed egoista, così si presenta l’esteta, che in fin dei conti non fa altro che evadere dalla vita comune, dalla
volgarità borghese e dall’orrore di una società dominata dall’interesse materiale e del profitto, per rifugiarsi in una Torre d’avorio, in una superba
solitudine in cui esistono solo Arte e Bellezza, ideali per i quali è disposto a sacrificare la vita.
Tuttavia questo suo modo di vivere eccentrico e concentrato esclusivamente sull’attimo, sul piacere immediato, fa sì che l’impossibilità di rivivere
le situazioni passate si trasformi in un insolvibile problema esistenziale.
Il dramma dell’esteta sta appunto nell’invecchiare e nel perdere il prestigio con il passare degli anni, come Oscar Wilde ha ben messo in evidenza
nel suo bellissimo libro Il ritratto di Dorian Gray.
La Bellezza come valore assoluto
Figure come Wilde, ma anche come D’Annunzio e Baudelaire sono molto importanti se si vuole real-
mente entrare nell’ottica dell’esteta e capire la visione che egli ha nei confronti della vita e dell’arte.
Questi tre grandi autori, hanno indirizzato la loro esistenza verso una continua ricerca della bellezza,
incarnando perfettamente l’ideale del Dandy e dell’esteta , a tal punto da istituire una vera e propria
“DIVISA ESTETICA”, infatti secondo Wilde, ogni esteta, durante le cerimonie, occasioni importanti
o serate di gala, o ancora più semplicemente quando gli andava, doveva indossarla mostrando al mondo
la sua anima completamente proiettata verso la bellezza. Essa era composta da un paio di pantaloni
lunghi fino al ginocchio, che oggi chiameremmo ‘alla zuava’ - ma differentemente da questi erano molto
attillati, di velluto scuro; delle lunghe calze di seta scure e degli scarpini di vernice neri con dei lunghi
fiocchi; una giacca da frac con le code piatte; una camicia bianca con lo sparato altrettanto candido e
inamidato, il papillon bianco da frac. Wilde variava poi in diversi modi la sua ‘divisa’: invece della giacca
da frac e della camicia da sera, indossava una giacca corta ed un morbido panciotto di velluto, e un faz-
zoletto da collo, sovente azzurro o verde. Con tale divisa, egli si faceva accogliere nei salotti mondani
di Londra, e si mostrò abbigliato allo stesso modo durante il suo lungo giro di conferenze che tenne in
America. Proprio là, Wilde veniva spesso criticato dai giornali, e preso in giro volgarmente per il suo ab-
bigliamento; tentò allora, durante alcune conferenze, di vestirsi normalmente, ma l’evidente delusione
del pubblico lo costrinse a cambiare idea.
La divisa estetica di Oscar Wilde non era che la divisa che veniva usata allora dalla Massoneria Inglese, ancora oggi in uso in alcune logge, della
quale Wilde era stato un felice membro durante la gioventù. Ma non era nuova, tra i dandy, l’uso di una sorta di ‘divisa’: per primo Brummel
lanciò la moda della giubba blu dai bottoni d’oro abbinata ai pantaloni color crema, assai attillati, con i lucidi stivali neri al ginocchio; e, tra gli alti
risvolti della giubba, abbagliava per il suo candore la cravatta, morbida scultura, alla quale il dedicava molte ore di pazienza. In seguito, Baudelaire
adottò come ‘divisa’ una lunga mantella nera, un largo papillon altrettanto scuro, tagliato di sbieco, ed un completo comprendente uno stretto
panciotto dall’abbottonatura assai accollata, del quale venivano sbottonati i primi tre o quattro bottoni. D’Annunzio, invece di destreggiarsi
con un solo colore, preferiva dare al suo guardaroba lo sgargiante sfavillìo della varietà più totale, sempre usando, però, sotto tutti gli abiti, delle
camicie da un alto colletto duro, nelle foggie più disparate. Il dandy novecentesco preferiva invece non farsi troppo notare tra la folla, indossando
abiti sì perfetti, e tagliati su misura, ma assai poco particolari se giudicati da un occhio inesperto. L’occhiello, oggi si arriva a chiedersi a che cosa
serva, quell’asola, lì, sul risvolto della giacca. Il più delle volte è chiuso; le poche volte che è aperto, i più inesperti cercano un bottone dietro
all’altro risvolto, e, delusi dal non trovarlo, si accontentano di infilarci una piccola spilla, che il più delle volte provoca un fastidioso sberluccichìo
negli occhi del passante. Sappiamo invece che, da asola per chiudere le antiche giubbe ottocentesche fino al collo, è diventato un ornamento nec-
essario specialmente per il dandy, che non lo vuole vedere inviolato, e provvede subitamente infilandoci il gambo di qualche fiore, possibilmente
raro, ma principalmente attraente.
E’ straordinaria la fioritura degli occhielli fin-de-siécle: dall’orchidea di Montesquiou al garofano verde di Oscar Wilde. La gardenia di Jean Coc-
teau arrivava ogni mattina da Londra, per poi fiorire nell’occhiello del giovane poeta. Ma con gli orrori della prima guerra, i petali erano appassiti
rapidamente, liquidando ogni sfarzo troppo evidente. Nel turbinio degli anni Venti i fiori erano di nuovo sbocciati sulle giacche dei dandies, ma
avevano perso la loro naturalezza.
Il fiore all’occhiello del dandy simboleggia il suo amore per il decorativo; se la decorazione è data poi dall’odiata natura, è da privilegiare. Solo la
natura al servizio dell’uomo è ammissibile;
Ma simboleggia anche l’idea che ha il dandy della vita: bella e profumata, ma allo stesso tempo terribile e odiosa; il fiore è anche interpretato come
la rappresentazione ‘naturale’ del dandy: nasce dalla terra, dal fango, ma poi si innalza verso l’alto, bellissimo ma delicato. Il fiore all’occhiello del
dandy è la vita tramutata in decorazione. Il dandy è uno degli ultimi che, a malincuore, ripone il bastone da passeggio, elegante rimasuglio della
spada da gentiluomo dell’Acien Régime.
Oltre alla divisa estetica adottata per distinguersi dalla massa questi tre autori si sono distinti anche per il loro stile di vita e per le loro opere che
divennero anch’esse strumento di distinzione .
Gabriele D’Annunzio e il “vivere inimitabile”
Gabriele D’Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1 marzo 1938) è
stato uno scrittore, drammaturgo e poeta italiano, simbolo del decadentismo ed eroe di
guerra. Fu un personaggio eccentrico ed esteta, come tuttora testimoniato dagli interni
della sua residenza al Vittoriale, discusso, amato od odiato. Oltre a quella letteraria ebbe
anche una notevole carriera politica, divenendo personaggio di primo piano nella nostra
storia nazionale per la sua azione favorevole all’intervento italiano nella prima guerra
mondiale. Partecipò inoltre alla leggendaria “Beffa di Buccari” (una località vicino a
fiume), al volo su Trieste e nel 1919 organizzò la marcia su Fiume. Inoltre prese parte a
quei movimenti che poi permisero la vittoria del Fascismo.
Le teorie superomistiche
Gabriele D’Annunzio, nella sua fase superomistica, è profondamente influenzato dal pensiero del filosofo Nietzsche. Egli dà, infatti, molto rilievo
al rifiuto del conformismo borghese e dei principi egualitari, all’esaltazione dello spirito “dionisiaco”, al vitalismo pieno e libero dai limiti imposti
dalla morale tradizionale, al rifiuto dell’etica della pietà, dell’altruismo, all’esaltazione dello spirito della lotta e dell’affermazione di sé.
Rispetto al pensiero originale di Nietzsche queste idee assumono una più accentuata coloritura aristocratica, perdendo le loro caratteristiche pret-
tamente filosofiche. Il superuomo dannunziano, così come viene presentato nelle due opere Trionfo della Morte e Le Vergini delle Rocce, è un
individuo proteso all’affermazione di sé, in grado di distinguersi per la sua ideologia politica. Essendo egli un aristocratico, disprezza la plebe e lo
Stato fondato sui principi democratici.
In D’Annunzio il superuomo assomiglia all’esteta, ma si distingue da esso per il suo desiderio di agire. Il superuomo pensa che la civiltà sia un
dono dei pochi ai tanti e per questo motivo si vuole elevare al di sopra della massa; è l’esteta attivo, che cerca di realizzare la sua superiorità a danno
delle persone comuni.
Per quanto D’Annunzio possa essersi ispirato a Nietzsche nell’elaborazione delle sue teorie, rimane comunque impossibile instaurare una coin-
cidenza di idee fra i due, se non altro perché Nietzsche, nel parlare di Superuomo, non pensava a un individuo, bensì a modello di umanità del
tutto nuova rispetto alla presente.
Vivere la vita come opera d’arte
Ciò che maggiormente caratterizza la vita di Gabriele D’Annunzio è il desiderio in lui radicato di un vivere inimitabile, di non restare mai
nell’ombra. La vita di D’Annunzio è esplicitamente concepita e progettata dallo scrittore, secondo la concezione dell’estetismo, come un’opera
d’arte, e presenta molti tratti romanzeschi. Per lui la vita è inscindibile dall’arte e nell’arte totalmente consiste.
Tutta la mia vita è innamoratamente congiunta alla mia arte, come apparve e appare nella mia meditazione occulta e nella mia azione palese
Con l’estetismo D’Annunzio cerca di innalzare la sua istintiva sensualità nell’amore, nel piacere, nel bello. Dunque l’arte si basa soprattutto sulla
sua sensualità che si ha quando il poeta sente con gioia e voluttà i profumi, i colori, i suoni e con la sua immaginazione rendeva tutto più bello,
per questo D’Annunzio non seguì nessuna regola d’arte.
Egli sostituì il senso estetico al senso morale e visse intensamente al di fuori di ogni regola del comune comportamento civile: “Habere non haberi”
(“possedere, non essere posseduto”) e “Memento audere semper” (“ricordati di osare sempre”, da cui la sigla “M.A.S.” che denominò i motoscafi
di attacco impiegati nella “Beffa di Buccari”) furono i motti a lui più cari.
D’Annunzio definisce “Vivere Inimitabile” la continua tensione dell’esteta verso uno stile che distingua, verso un modo per distaccarsi dalla massa.
Non bisogna pensare alla vita cercandone l’artisticità all’interno dei gesti o nelle grandi scelte, bensì nel modo di trasformare in vita vera quella
che può essere solo uno stanco trascinamento di un’esistenza: “vivere è la cosa più rara al mondo, la maggior parte della gente esiste e nulla più”,
diceva Oscar Wilde. Egli faceva questo con il suo stile, la sua oratoria, la sua capacità unica di affascinare l’uditorio, col suo modo di abbigliarsi,
col suo rifiuto più totale della banalità come il peggiore dei peccati.
Lo stile inevitabile consiste nel creare un proprio stile e renderlo immortale, far sì che rimanga nella labile mente dei posteri (sempre pronti a
dimenticare ciò che è banale, comune, di tutti), per assicurarsi la vita eterna: ecco l’unico modo per essere immortali. Sta a noi fare il nostro stile
inimitabile, coi nostri atteggiamenti, le nostre pose, i nostri modi di fare, la nostra cultura. L’importante è non morire nella banalità o condurre
un’esistenza di basso profilo: DISTINGUERSI è il primo comandamento di questa filosofia. Solo così potrà esistere la possibilità di vivere una
vita inimitabile, una vita che sia davvero tale, e non solo esistenza.
Le donne e gli amori
Il capitolo delle donne e delle avventure sentimentali è senza fine. Nelle ultime indagini biografiche, per quanto esaus-
tive, riescono a enumerare tutte le relazioni di D’Annunzio con dame dell’aristocrazia, signore borghesi, attrici, dan-
zatrici, pittrici, cantanti liriche, prostitute. Sono esperienze vissute tutte con diversa intensità, ma tutte rapidamente
trascorse, in omaggio all’unica vera musa dannunziana: il piacere.
La donna è vista dunque come uno strumento, un tramite per il raggiungimento di intense sensazioni, permettendo
così a D’annunzio di dare origine al personaggio della donna fatale. Egli prende dal decadentismo europeo tema della
superiorità femminile e lo fa suo, l’uomo è debole, fragile, sottomesso la donna lo domina, gli succhia energia, è lus-
suriosa, perversa, crudele esercita sull’uomo un potere cui lui non può sfuggire e che lo porta inevitabilmente alla follia
o alla distruzione!
La donna è Nemica e come un’antagonista si oppone all’uomo fragile esprimendo quindi un conflitto profondo.
Pertanto viene paragonata a un mostro, una sorta di vampiro, come Baudelaire anche descrive, dai tratti diabolici e
ingannatori.
Il “Piacere”
Ne Il piacere, romanzo scritto nel 1888, la figura della donna fatale è impersonata da Elena Muti (amante che successivamente abbandonerà il
protagonista), che emana un fascino perverso e seducente e dalla fisicità prorompente che non possono lasciare indifferente l’uomo e anzi lo sot-
tomettono inevitabilmente. Vittima è Andrea Sperelli che in Lei sembra aver trasferito parte della sua personalità, difatti l’allontanamento di lei
rompe il precedente equilibrio, sconvolge l’eroe e lo confonde totalmente. La conseguenza che ne deriva è il tentativo di Andrea di ritrovare lei in
qualcun’altra, di ripetere la precedente esperienza nel tentativo di ritrovare se stesso e la sua stabilità come era accaduto con Elena. Infine si arriva
alla sovrapposizione tra due donne, che rappresentano anche il classico conflitto tra la donna angelica e la donna sensuale, infatti, in un incontro
amoroso Andrea chiama la spirituale Maria Ferres, che ha finalmente deciso di concederglisi, con il nome di Elena, finisce quindi con perderle
entrambe. Sperelli incarna la più classica delle definizioni dell’estetismo inteso come usurpazione dei valori morali da parte di quelli estetici, sur-
rogazione della morale attraverso l’estetica. Questo concetto è ben presentato dall’autore all’inizio del suo romanzo, il quale, riferendosi a Sperelli,
sentenzia: “..egli aveva smarrito ogni volontà e ogni moralità. La volontà, abdicando, aveva ceduto lo scettro agli istinti; il senso estetico aveva
sostituito il senso morale.” Sulla convinzione di D’Annunzio che traspare da questa citazione, vale a dire che l’atteggiamento estetico porti a un
decadimento del senso morale, si basa lo sviluppo del romanzo, che vorrebbe essere il racconto della progressiva corruzione di un’anima. Come il
Dorian Gray di Wilde, anche Il Piacere è una Bibbia dell’estetismo che tenta di distruggere una morale antiesteta.
Ne “Il Piacere” di D’Annunzio spesso la narrazione è un monologo del protagonista (focalizzazione intera sul protagonista), ma riportato con
la tenacia del discorso indiretto libero. Altrove invece riappare il narratore onnisciente (focalizzazione esterna) che ci descrive dall’esterno il suo
personaggio (in genere nelle pagine maggiormente critiche e di riflessione). Il lessico utilizzato è conforme al comportamento e all’educazione da
esteta di Andrea Sperelli e soprattutto all’ambiente aristocratico in cui si svolgono i fatti: pregiato, quasi artefatto, aulico e molto ricercato, in par-
ticolar modo nella descrizione degli ambienti e nell’analisi degli stati d’animo; si prendano ad esempio l’uso di parole tronche, o le forme arcaiche
e letterarie, come nel caso di articoli e preposizioni articolate.
Baudelaire : il poeta maledetto
“...colossale, tragico, sublime... angelo ribelle” (Benedetto Croce di Baudelaire)
Insieme ad Oscar Wilde, Charles Baudelaire è considerato il massimo vate del dandismo ottocentesco, at-
tento a ogni regola e a ogni particolare. Nato a Parigi il 9 Aprile 1821, è stato un poeta e critico letterario
francese. Sei anni dopo la sua nascita perde il padre e la madre si risposa l’anno successivo con un militare,
il comandante Aupick. Il patrigno e il ragazzo non vanno d’accordo finché Charles non è inviato in collegio
dove i giorni trascorrono pigri e malinconici. La sua famiglia gli impone allora un processo giudiziario:
Baudelaire riceve ormai soltanto una modesta rata mensile. Dopo un viaggio trascorso in Oriente Charles è
di ritorno a Parigi, pronto per sperperare il denaro della sua eredità trascorrendo una vita da dandy elegante
e raffinato. Ciò portò il generale ad affibbiare al giovane poeta l’avvocato Ancelle, con lo scopo di control-
lare le sue spese. E a ragione: quando si pensa a una persona con le mani bucate non si avrà che una vaga
idea della predisposizione alla spesa di Baudelaire; dal sarto era capace di dilapidare tutto lo stipendio che
Ancelle gli elargiva mensilmente. Innamorato della pittura, affascinato dalle immagini, amico di pittori del
calibro di Courbet e Delacroix, Baudelaire inizia a scrivere critiche d’arte. Diventa parte attiva dei saloni
parigini rivolgendo alla pittura uno sguardo nuovo, assolutamente moderno. Traduce oltretutto le opere di
Edgar Allan Poe.
Dandy “artificiale”
Con la sua opera “Il Pittore della Vita Moderna” abbozza elegantemente la figura del dandy, e delle sue regole di vita: teorizza per primo
l’innaturalità come fattore principale dell’essere dandy, l’odio per il convenzionale, l’indifferenza verso la morale, la politica, la sorte dell’umanità.
Egli è “l’ammalato di spleen” per eccellenza, e sotto il peso di questa malattia, scrive poesie intense e allo stesso tempo fredde, tipiche di un dandy,
insomma. Se fosse solo per il lungo abito nero, il largo colletto bianco, un grosso papillon di seta (fattosi tagliare appositamente di sbieco), il
guanto rosa pastello, i capelli tinti di biondo e raccolti a boccoli dietro le orecchie, scambieremmo Baudelaire più per un pederasta che per un
dandy, ma il suo sguardo freddo e intenso e la sua andatura altera ci rivelano il suo intenso desiderio d’apparire il più artificiale possibile, il più
innaturale possibile, perché la natura è opera di Dio, e Charles odia Dio con tutte le sue forze;
“Dio è l’unico essere che, per regnare, non ha nemmeno bisogno di esistere.”
Baudelaire odia anche la folla: la folla che guarda, che osserva, che giudica, che ride, che attira e respinge sempre il dandy; non bisogna dimenticare
che per il dandy, “Sarebbe dolce essere contemporaneamente vittima e carnefice”
La poetica
Le opere di Baudelaire sono come un avvertimento della crisi che avrebbe avvolto la società del suo tempo. Sono opere sublimi in grado di affas-
cinare e scandalizzare allo stesso tempo. La sua poesia è incentrata su una perfezione musicale dello stile, da lui definita “matematica”.
Baudelaire non appartiene a nessuna scuola, è indipendente. A ispirarlo sono i sentimenti di stampo puramente romantico, ma nonostante ciò
non possiamo accostarlo al romanticismo perché le sue emozioni vengono espresse in una forma nuova e innovativa.
Baudelaire è una persona che si apprezza solo dopo aver gustato l’amarezza della vita, è il poeta pervertito, dei vizi, del desiderio e della paura
della morte, ma anche la ricerca ansiosa dell’ideale, il desiderio e la paura della morte, la fuga dalla vita monotona e normale, la complessità e le
contraddizioni dell’uomo, furono temi ricorrenti della sua poesia. Egli è l’espressione più veritiera degli istinti umani, per questo viene criticato
e accettato soltanto da pochi, gli appartenenti al gruppo anticonformista della società. Viene ostacolato ed etichettato come “poeta maledetto”
perché è l’unico a mettere a nudo l’essere umano per quel che è, e ciò provoca molto fastidio nella classe perbenista del tempo. La negazione della
morale collettiva e la rappresentazione del male, del grottesco sono le colonne portanti della vita e del pensiero di Baudelaire .
“I fiori del Male”
Dal 1845, Baudelaire pensa a una raccolta di poesie, ma il titolo I Fiori del male apparirà solo nel 1855. Questa raccolta diede
parecchio scandalo, e costò al poeta un lungo processo e una altrettanto importante condanna psicologica ma, nonostante
questo, continuò a pubblicare clandestinamente le poesie accusate di immoralità. Dopo l’edizione del 1857 con cento po-
emi, quella del 1861 presenta centoventisette poemi. Il titolo sorprende per l’unione di due termini contraddittori: il fiore,
simbolo di purezza e bellezza, e il male che evoca un’idea di peccato. Baudelaire stesso spiega di aver tentato di “estrarre la
bellezza del male”. I poemi che costituiscono la raccolta sono organizzati secondo un’architettura ben precisa. Scrive il poeta:
“Il solo elogio che faccio a questo libro e che si riconosce che non è un album ma ha un inizio e una fine”
In questa raccolta si trova tutto: amore, morte, male di vivere e peccato. Essa divisa in sei parti che rappresentano le tappe di
un viaggio immaginario del poeta verso la morte, per fuggire dallo spleen, dall’angoscia esistenziale. Nella prima poesia che
funge da prologo, il poeta invita “l’ipocrita lettore” a non chiudere gli occhi sulla sua condizione e a seguirlo in questo viaggio
che ripercorre le tappe del viaggio reale verso l’Inferno che è la vita.
Spleen come raggiungimento dei “paradisi artificiali”
All’interno della raccolta di poesie, il poeta spesso riporta al concetto di “Spleen”, inteso come tedio, accidia, o meglio male di vivere.
Come diceva Woody Allen: “non si è mai così soli come a New York all’ora di punta”. Ecco cos’è lo spleen, lo spleen è il non vivere, il “galleggiare”
sopra alle metropoli, trovarsi in una capitale guardarsi attorno e non sapere cosa fare, il dover ricorrere alle droghe e all’alcool per sfuggire alla realtà
dell’indifferenza della gente e raggiungere così un rifugio all’interno dei “paradisi artificiali”. Attraverso l’esperienza sessuale, gli amori proibiti e i
paradisi artificiali, l’uomo cerca di conoscere la sua vera natura, senza raggiungerla mai. Non resta che la rivolta contro Dio, che ha voluto l’uomo
nella sua condizione, e l’invocazione a Satana. Satana sembra il cardine della sua filosofia e del suo modo di scrivere ma tutto ciò è errato. Alla
fine della raccolta, il conflitto tra spleen e ideale, salvezza e dannazione, non trova soluzione. Resta, potente e disperata, la speranza del poeta di
un viaggio che lo conduca fuori dell’Universo in uno spazio sconosciuto, liberato definitivamente dal Tempo. “La sete insaziabile di tutto ciò che è
al di là, e che rivela la vita, è la prova più viva della nostra immortalità”. È dunque con la poesia e attraverso la poesia, con la musica e attraverso la
musica, che l’anima intravede gli splendori situati dietro la tomba”, scrive il poeta nelle sue note. Grazie alla creazione poetica, il poeta sopporta
la situazione reale e giunge alla conoscenza del mondo.
Oscar Wilde : La vita imita l’arte
Oscar Wilde (1854-1900) è noto per i suoi aspetti particolari: era un anticonformista, un dandy (che at-
tribuisce particolare importanza al l’aspetto fisico), un intrattenitore meraviglioso e un parlatore brillante,
la sua conversazione è una combinazione provocante di satira, il paradosso e epigramma attraverso il quale
ogni istituzione vittoriana e il valore viene criticato e ridicolizzato. Ha un modo eccentrico di vestire e il
comportamento: indossa un costume estetico di giacca di velluto, calzoni al ginocchio, calze di seta nera,
cravatta strana e fiori esotici all’occhiello, e usa a camminare su e giù per Piccadilly con un girasole in mano
. In costante bisogno di soldi per vivere fino alla sua vita mondana, Wilde accetta un invito a tenere una
conferenza negli Stati Uniti e in Canada nel 1882, pronuncing al suo arrivo a New York, la sua famosa
frase: “Non ho nulla da dichiarare tranne il mio genio” , In risposta alla domanda di routine l’ufficiale delle
Dogane. La vita per lui deve essere simile a un art-lavoro e quindi la sua stessa vita è un esempio di questo
nella sua ricerca spericolata del piacere. Inoltre, ha una relazione omosessuale con Lord Alfred Douglas, che
fece infuriare il marchese di Queensberry, padre di Douglas che ha accusato Wilde di essere un sodomita.
Purtroppo le accuse sono provate vere, e Wilde viene arrestato, processato e condannato ai lavori forzati a
due anni. In questo periodo scrisse “La ballata del carcere di Reading” e “De Profundis”, una lunga epistola
dedicata a Douglas, dove accusa l’amico di essere stato la causa della sua rovina.
Concezioni dell’autore
Wilde non vuole essere serio o scrivere sul serio, perché era convinto che la serietà era noiosa e solo un atteggiamento da persone che avevano
poca fantasia. Sentiva che uno scrittore non può comunicare idee importanti come sono, ma dove arricchirle di commedia e paradossi.
Secondo Wilde l’artista non deve imitare la vita, ma deve crearne una diversa e che il vero artista è una figura isolata, diversa dal resto
della società. La sua omosessualità ha aumentato questo sentimento e lo ha aiutato a vedere i crimini come una risposta comprensibile a una soci-
età che considerava volgare e disumana. A causa della loro comune opposizione alla società, i criminali e gli artisti erano, secondo Wilde, simili .
“Ho messo il mio talento nel mio lavoro, ma il mio genio nella mia vita”
Questa frase si pone come una dichiarazione ironica riguardante l’atteggiamento dello scrittore alla sua vita e di lavoro. Secondo: la sua mente, la
sua vita e l’arte, erano inestricabilmente legati insieme, entrambi dovevano essere prodotti da uno sforzo individuale, la vita come l’arte è pari a
un processo creativo. Per crearli, Wilde sostiene che una maschera doveva essere messo su, e così l’individuo, nel corso della sua vita, come l’artista
nelle sue opere non furono mai così vero come quando indossavano una maschera.
The Picture of Dorian Gray (traduzione in inglese)
“The only way to get rid of a temptation is to yield to it.”
It is the only novel written by Wilde. When it is first published in 1890, it is fiercely attacked by critics who
judge it immoral, in fact the novel challenges all the fundamental values and beliefs of Victorian society.
This story is a 19th century’s versus of the myth of Faust. The story is told by a third-person omniscient nar-
rator. It is unobtrusive and the characters introduce themselves. He describes their feeling and thoughts from
inside their minds.
The Plot (traduzione in inglese)
The novel is the story of Dorian Gray, a typical dandy, that’s to say a heroic figure, created by Wilde, that is
the living protest against this democratic levelling, he is at his ease everywhere and in every situation. He is
against any social convention. Nothing can surprise him. He is never vulgar. He presents all the canons of the
classical beauty: handsome, young, aristocratic, refined. His sex is ambiguous: he unites the feminine grace and the male virility. When his friend
painter Basil Hallward paints his picture he can translate on it even the soul of Dorian, the young is enchanted by it and together Hanry Watton,
an elegant and cynic man, whose principles have corrupted him, makes a reflection on the fugacity of the time and desires intensely to transfer the
passing of the time on the picture and to remain always beautiful and young. His desire is so strong that it really happens. So he lives a dissolute
life, in search of the most unrestrained pleasures: he despises the love of Sybil Vane, a kind actress because an evening her performance, for a bodily
discomfort, isn’t perfect as always. It will conduce her to suicide. At this point the decadence of Dorian’s soul begins, he becomes a criminal, his
physical aspect remains beautiful, but inside he becomes cruel and cruel.
The signs of the time and of his decadence appear on the picture, where his face becomes evil and it is furrowed with wrinkles, so, to appease his
conscience he puts the picture in the attic even if every evening he goes to look it: every day the signs of the decline increases. The picture remem-
bers to Dorian the deception of his double life, showing him his real face, unknown to everyone in its own cruel eloquence up to, overcome by
unhappiness, he brakes the picture with a knife and he immediately falls down dead, as if he has stabbed himself. The servitude rush to the place
and they look a wonderful picture of their master and on the floor a dead man with an evening dress, with a knife in the heart, with an old and
cruel face. They understand that he is their master only for his rings.
Allegorical Meaning (traduzione in inglese)
This novel is profoundly allegoric; The novel highlights the Wilde’s aesthetic creed, like the cult of beauty making the life a work of art. The moral
of this novel is that every excess must be punished and reality cannot be escaped. When Dorian destroys the picture he cannot avoid the punish-
ment for all his sins. He thinks that wicked people are always very old and ugly. He realise that his parallelism is not true, because he himself is
an example of this.
La Belle Epoque
Il periodo storico legato alla Belle Epoque è lo stesso in cui Oscar Wilde venne arrestato con l’accusa di omoses-
sualità. Accusa che lo porterà a scontare due anni di lavori forzati. L’autore de Il Ritratto di Dorian Gray morirà il
30 Novembre 1900 a Parigi, assolutamente dimenticato, in un alberghetto delle Belle Arti.
Introduzione
La Belle époque è un periodo storico, culturale e artistico che va dalla fine dell’Ottocento e si conclude una tren-
tina d’anni dopo con lo scoppio della prima guerra mondiale. L’espressione Belle Époque (L’epoca bella, I bei
tempi) nacque in Francia prima della prima guerra mondiale per definire il periodo immediatamente anteriore
(1885- 1914). Essa nasce in parte da una realtà storica (fu davvero un periodo di sviluppo, spensieratezza, fede nel progresso) e in parte da un
sentimento di nostalgia. Il trauma della guerra aveva, infatti, portato a idealizzare la realtà. Dalla fine dell’Ottocento in poi le invenzioni e progressi
della tecnica erano stati all’ordine del giorno. I benefici che queste scoperte avevano portato nella vita delle persone erano diventati sempre più
visibili: illuminazione di case e strade, servizi igienici, minore paura di affrontare la malattia e l’ignoto. Tutto questo aveva determinato un pro-
fondo ottimismo sulle possibilità dell’uomo, a cui niente sembrava precluso. La realtà era stata abbellita anche per non risentire troppo dei traumi
postbellici. Ma, senza meno, questo periodo è in Francia ricordato come un passato dorato che fu ridotto in frantumi dallo scoppio della guerra.
L’era del progresso e della crescita demografica
Fu quello il periodo in cui la tecnologia liberò tutte le sue potenzialità, esercitando una straordinaria forza di attrazione culturale e psicologica.
La vita materiale nelle società occidentali fu modificata come mai prima era successo dai risultati dell’innovazione tecnica, dai progressi della
scienza e dall’incremento della produzione industriale. Dall’impiego su scala mondiale dell’energia elettrica e dalla possibilità di trasportarla
ovunque derivarono una lunga serie di applicazioni pratiche che cambiarono in meglio la vita degli uomini (dall’illuminazione privata e pubblica
all’elettrificazione delle ferrovie). Anche il telefono conobbe una rapida diffusione. Nel 1895 la scoperta fatta da Guglielmo Marconi inaugurò
l’era della telegrafia senza fili e aprì la strada all’invenzione della radio, contribuendo a ridurre l’incidenza della distanza nelle relazioni umane.
L’automobile e l’aeroplano intanto facevano la loro apparizione, mentre la scienza compiva progressi eccezionali grazie all’avanzamento della
chimica e della biologia. Il ciclo economico, dalla metà degli anni Novanta del XIX secolo, fu all’insegna di un forte e prolungato incremento
produttivo, che finì per contagiare non solo gli ambienti finanziari ma anche la platea dei consumatori, in forte crescita numerica, al punto che
molti osservatori hanno collocato alla fine dell’Ottocento la nascita della moderna società dei consumi. All’inizio del Novecento il mondo oc-
cidentale aveva molte ragioni d’orgoglio: debellata la maggior parte delle epidemie e ridotta notevolmente la mortalità infantile, gli abitanti del
pianeta toccavano ormai il miliardo e mezzo. Alla crescita demografica fece riscontro un impressionante aumento della produzione industriale e
del commercio mondiale, che tra il 1896 e il 1913 raddoppiarono. Nello stesso 1913 la rete ferroviaria del globo aveva raggiunto un milione di
chilometri e le automobili cominciavano ad affollare le strade delle metropoli americane ed europee.
Nascita di nuove correnti artistiche
Dopo la grande depressione (detta anche crisi del 1929, grande crisi o crollo di Wall Street), la Francia entrò in un periodo di crescita economica
alquanto sostenuta che si può far derivare dalla seconda rivoluzione industriale. Nacquero il cabaret, il cancan, il cinema, nuove invenzioni resero
la vita più facile a tutti i ceti e livelli sociali, la scena culturale prosperava, e l’arte prendeva nuove forme con l’impressionismo e l’Art Nouveau. Il
termine Belle Epoque può anche descrivere, infatti, visto il fiorire di nuovi stili e modi, l’arte e l’architettura di questo periodo in altri Stati.
Gli abitanti delle città avevano scoperto il piacere di uscire, anche e soprattutto dopo cena, di recarsi a chiacchierare nei caffè e assistere a spet-
tacoli teatrali. Le vie e le strade cittadine erano piene di colori: manifesti pubblicitari, vetrine con merci di ogni tipo, eleganti magazzini. Questa
mentalità e questo modo di affrontare la vita aveva condizionato anche i settori produttivi. In tutta Europa si erano sviluppate una serie di cor-
renti artistiche giunte a teorizzare che ogni produzione umana poteva divenire un’espressione artistica. Ogni oggetto e ogni luogo divenivano
un’elegante decorazione, un motivo floreale, una linea curva e arabanesca. Quando iniziò il nuovo secolo, Parigi volle celebrarlo con un’incredibile
mostra nella quale venivano esposte tutte le innovazioni più recenti: l’esposizione universale (o “Exposition Universelle”). Per assistere a questa
gigantesca fiera, nel 1900 persone da tutto il mondo sbarcavano in Francia per prendervi parte. La gente ne visitava ogni parte e ne ammirava
tutti gli aspetti: scale mobili dette “Tapis roulant”, tram elettrici, si assaggiavano le cento varietà di tè importato dall’India. L’Europa era in pace da
trent’anni (1780 ‘ca), cioè da quando la Germania aveva inaugurato un’industrializzazione e sviluppo che venivano garantiti da una nuova politica
di equilibrio. Nessuno pensava più, quindi, che la guerra potesse devastare ancora il mondo; perciò nel 1896 ebbero luogo le prime Olimpiadi,
che da allora si svolsero ogni quattro anni. Il periodo che va dal 1890 al 1914 fu caratterizzato da un periodo di euforia e frivolezza, denominato
“Bélle époque”, “bei tempi”.
L’Art Nouveau: il nuovo gusto borghese
Sono proprio questi caratteri della Belle Epoque che resero riconoscibili la nascita di nuove correnti, che as-
sunsero nomi differenti a seconda degli stati in cui fiorirono:
Liberty (o floreale) in Italia
Art Nouveau in Francia
Modern Style in Inghilterra
Jugendstil in Germania
Sezession in Austria
Modernismo in SpagnaL’orientamento artistico dell’Art Nouveau, che come abbiamo già visto si diffuse in diversi Paesi con nomi differenti, e
che percorse un po’ tutta l’Europa tra il 1890 e la prima guerra mondiale, può ben essere considerato il corrispondente dell’estetismo nel campo
delle arti visive. Il nome attribuito all’orientamento artistico deriva da quello di un negozio parigino, «l’Art Nouveau Bing», aperto nel 1895 da
Siegfrid “Samuel” Bing, che sfoggiava alcuni oggetti dal design innovativo, tra cui mobili, tinture, tappeti e vari oggetti d’arte. Essa mise al centro
del loro programma, il predominio della decorazione e la conseguente determinazione della forma attraverso l’ornamento, la volontà di diffondere
la bellezza nella vita quotidiana, l’estensione dell’artisticità agli oggetti si uso comune, imponendo i tratti caratteristici della loro ricerca formale,
non solo in pittura e in architettura, ma anche nella decorazione di interni, nel mobilio, nei manifesti pubblicitari e nell’abbigliamento.
Caratteristiche
Una delle caratteristiche più importanti dello stile è l’ispirazione alla natura, di cui studia gli elementi strutturali, traducendoli in una linea di-
namica e ondulata, con tratto «a frusta». Semplici figure sembravano prendere vita e evolversi naturalmente in forme simili a piante o fiori.
Diversamente dai pittori simbolisti, tuttavia, l’Art Nouveau possedeva un determinato stile visivo; e al contrario dei Preraffaelliti che prediligevano
rivolgere lo sguardo al passato, l’Art Nouveau non si formalizzava nell’adoperare nuovi materiali, superfici lavorate, e l’astrazione al servizio del
puro design. Molto ricercate erano le forme organiche, le linee curve, con ornamenti a predilezione vegetale o floreale. Le stampe giapponesi,
con forme altrettanto curvilinee, superfici illustrate, vuoti contrastanti, e l’assoluta piattezza di alcune stampe, furono un’importante fonte di
ispirazione. Altro fattore di grande importanza è che l’Art Nouveau non rinnegò l’uso dei macchinari, ma vennero usati e integrati nella creazione
dell’opera. In termini di materiali adoperati la fonte primaria furono certamente il vetro e il ferro battuto, portando a una vera e propria forma
di scultura e architettura. Anche i gioielli offrivano uno spettacolo straordinario e sovvertivano la concezione che aveva regnato indiscussa sino a
quel tempo. L’oggetto prezioso diventava una scultura, assemblava diversi tipi di metallo o di materiale, di per sé anche non prezioso come l’oro,
per supportare perle, pietre semi-preziose prima sconosciute o non molto sfruttate. I gioielli riproducevano fiori, animali, insetti intrecciati e av-
volti da foglie e rami, tra cui si affacciavano esili forme umane, evanescenti meravigliose creature realizzate con tecniche creative nuove o rivisitate
come lo smalto-cattedrale o come lastre sottilissime di opale, madreperla, cristallo di rocca. Oggi l’Art Nouveau è
considerata precorritrice dei movimenti più innovativi del ventesimo secolo, come l’espressionismo, il cubismo, il
surrealismo e l’Art Deco.
Gustav Klimt
“Sono bravo a dipingere e disegnare; lo credo io stesso e lo dicono anche gli altri […].
Sono un pittore che dipinge tutti i santi giorni dalla mattina alla sera […].
Chi vuole sapere di più su di me, cioè sull’artista, l’unico che vale la pena di conoscere, osservi attentamente i
miei dipinti per rintracciarvi chi sono e cosa voglio.” Singolare fu, per la pittura, l’apporto di uno dei massimi
esponenti dell’Art Nouveau, il pittore austriaco Gustav Klimt (1862-1918), che interpretò in modo personale e
originalissimo lo spirito del suo tempo. Gustav Klimt nasce il 14 luglio 1862 a Buamgarten, vicino a Vienna,
da una modesta famiglia. Già a quattordici anni inizia a frequentare la Scuola d’Arte e Mestieri della capitale, dove ha modo di approfondire le
diverse tecniche utilizzate nell’arte più classica (fondamentale per la sua arte), come l’affresco e il mosaico, ma anche di venire in contatto con i
fermenti innovativi del momento (elementi che riuscirà ad amalgamare generando uno stile unico). Il Ministero della Cultura e dell’Educazione
commissiona a Klimt e a un suo compagno di studi la decorazione di alcuni saloni dell’Università di Vienna. Inizia ufficialmente la sua brevissima
carriera di artista, infatti, la decorazione per l’aula magna dell’Università di Vienna, avente per tema la filosofia, la medicina e la giurisprudenza,
provocò innumerevoli critiche da parte delle autorità viennesi, che gli contestarono il contenuto erotico e l’insolita impostazione dei dipinti. Tali
scandali segnarono la fine della carriera ufficiale di Klimt. Ma potrà mai un genio fermarsi per via delle critiche? Certamente no, decide quindi di
ribellarsi ai canoni ufficiali liberando l’arte dalle regole e dai pregiudizi. Klimt, utilizzando le innovazioni decorative dell’”Art Nouveau”, sviluppò
uno stile ricco e complesso ispirandosi spesso alla composizione dei mosaici bizantini, studiati a Ravenna.
Attività artistica
Gustav Klimt fu uno dei più eccellenti pittori della sua epoca e una figura di rilievo nella storia culturale austriaca. Formatosi artisticamente
nel solco della tradizione, sviluppò presto uno stile unico e personale che lo pose in primo piano nell’avanguardia.
L’incarico più importante ricevuto da Klimt negli anni della maturità furono i mosaici per la sala da pranzo del
palazzo Stoclet di Bruxelles. Klimt iniziò a dipingere paesaggi solo verso i trentacinque anni. Li realizzava durante le
vacanze e difatti mostrano di preferenza i luoghi frequentati d’estate dai ricchi viennesi. I paesaggi costituiscono una
parte sostanziale dell’opera dell’artista: sono oltre cinquanta e pertanto rappresentano un quarto di tutta la sua opera
pittorica pervenutaci. Gustav Klimt fu uno dei più grandi disegnatori dei suoi tempi. Oltre ai frequenti bozzetti per
i dipinti, eseguì molti disegni come opere a sé stanti. I primi, spesso eseguiti a carboncino, sono in stile tradizionale
e mostrano una solida tecnica; i successivi invece più liberi e delicati, in genere eseguiti a matita o a pastello. Il tema
preferito era la donna nuda o semivestita. Molti disegni sono particolarmente erotici e mostrano la donna sdraiata
sul letto o su un divano in atteggiamenti decisamente provocatori ma rappresentati con tale eleganza e tenerezza da
non risultare mai volgari. Le allegorie sulla condizione umana sono tra i dipinti più complessi ed enigmatici di Klimt.
Dal momento che raramente commentava le sue opere, è spesso difficile individuare il significato dei suoi dipinti
meno convenzionali, anche se gli scopi paiono abbastanza evidenti. Il tema centrale è il sesso, che viene però trattato
nei modi più disperati e riflette l’opinione che Klimt aveva delle donne, viste come idoli bellissimi o tenere madri,
ma anche come predatrici che si servono del loro fascino come di una trappola fatale. Un esempio di tale concezione
viene rappresentato dal pittore, nel dipinto “Giuditta I”.
Giuditta I
“Giuditta I” è un dipinto a olio su tela di cm 84 x 42 realizzato nel 1901 ed esposto all’Österreichische Galerie Belvedere di Vienna. Quest’opera
rappresenta la maturità del pittore austriaco: è contraddistinto da un linguaggio di forte astrazione simbolica e dall’uso massiccio dell’oro. Rac-
chiusa in una cornice di rame sbalzato (realizzata da suo fratello Georg, scultore e cesellatore), Klimt dipinge per la prima volta (una seconda
Giuditta seguirà nel 1909) la bella eroina biblica. Il soggetto è stato sempre utilizzato quale metafora del potere di seduzione delle donne, che
riesce a vincere anche la forza virile più bruta. In clima simbolista la figura di Giuditta si presta ovviamente alla esaltazione della femme fatale
crudele e seduttrice, che porta alla rovina e alla morte il proprio amante. Tale concezione della donna è perfettamente ripresa dall’esteta. Il pittore
raffigura la protagonista come una donna moderna, con il volto di Adele Bloch-Bauer, esponente dell’alta società viennese. L’immagine ha un
taglio verticale molto accentuato con la figura di Giuditta, di grande valenza erotica, a dominare l’immagine quasi per intero. La testa di Oloferne
appare appena di scorcio, in basso a destra, tagliata per oltre la metà dal bordo della cornice. Da notare la notevole differenza tra gli incarnati della
figura, che hanno una resa tridimensionale, e le vesti, trattate con un decorativismo bidimensionale molto accentuato. Dietro la testa di Giuditta
è rappresentato un paesaggio arcaico e stilizzato di colline e alberi, che richiama i motivi decorativi geometrici tratti dalle ceramiche micenee.
La divina proporzione (La sezione Aurea)
Sin dai tempi antichi l’Uomo ha desiderato essere circondato dalla bellezza. Ma ancor di più l’essere umano si
chiede: “ Che cos’è la bellezza? Perché una cosa sembra bella e un’altra no?” Così l’uomo è diventato osservatore,
ha iniziato a studiare la bellezza e l’armonia perfetta e ha capito che l’armonia è il principio della bellezza e che
quest’ultima nasce dal mettere in ordine le singole parti con l’insieme, così che ogni parte sarà in armonia con le
altre e con il tutto, facendo nascere così la bellezza. La sezione aurea, o “rapporto divino”, o come lo chiamano
“costante dell’armonia” è uno dei rapporti più antichi usati per dare proporzione agli oggetti. Sembra che già
nell’antico Egitto e a Babilonia si conoscesse il rapporto divino. Esso era noto anche presso i Greci, considerato
come un valore proporzionale ideale. Pitagora diceva che il principio del mondo è il numero , che il mondo
consiste di opposti e che solo l’armonia può portare ciò che i due contrari all’unità perfetta. Il sistema delle pro-
porzioni ideali del corpo umano è stato scoperto dagli scultori greci Policleto, Miron , Fidia. Platone diceva che
l’Universo stesso è costruito secondo il Rapporto Aureo. Anche nell’epoca del Rinascimento italiano, il grande
Leonardo da Vinci e pittori come Bernardo Luini, Sandro Botticelli, Piero della Francesca usavano la sezione
aurea nelle loro opere. Un largo contribuito, alla conoscenza ed alla divulgazione di questo metodo di
suddivisione armonica, è stato dato dal matematico Luca Pacioli con la pubblicazione del libro “La divina
proporzione”, illustrato con i disegni di Leonardo.
Il grande astronomo del XIX ° secolo Johannes Keplero ha evidenziato la famosa proporzione in botanica.
Keplero considerava il rapporto aureo come un “tesoro” della geometria: “ La geometria ha due grandi
tesori: uno è il teorema di Pitagora, l’altro la divisione di un segmento in estrema e media ragione; il primo
può essere paragonato ad un sacco di oro, il secondo ad un gioiello prezioso . ”
Nel XIX ° secolo il tedesco Zeising ha fatto un lavoro grandioso: ha misurato circa 2.000 corpi umani ed
alla fine è giunto alla conclusione che i corpi più armoniosi rispecchiano il Rapporto Aureo.
Nei anni ’90 del secolo scorso lo scienziato americano Mark Barr è stato il primo a determinare con la lettera greca la divina proporzione. Insomma
dai tempi più antichi la proporzione divina è stata presa in considerazione per ottenere la dimensione armonica delle cose.
Dalla geometria all’architettura, dalla pittura alla musica, fino alla natura del creato possiamo osservare come tali rappresentazioni spesso rispet-
tino un rapporto pari a 1,618, che non a caso è stato definito numero d’oro.
1,61803398874989... (il numero d’oro)
Che cos`è il Rapporto Aureo?
è il rapporto geometrico tra due entità a e b , tale che:
(a+b) : a = a : b
ossia tale che la parte maggiore sia media proporzionale tra la parte minore e la somma delle due.
C’è un metodo per ottenere dei numeri che se rapportati tra loro danno come risultato un numero che si avvicina
sempre più al numero d’oro man mano che i numeri diventano grandi.
Questi numeri sono quelli appartengono alla serie di Fibonacci una serie in cui ogni termine si ottiene dalla
somma dei due precedenti.
I primi elementi sono pertanto:
1,1,2,3,5,8,13,21,34,55,89,144,.......
A partire da tale successione, se formiamo una serie di tipo frazionario, emergono i seguenti rapporti:
1/1; 2/1; 3/2; 5/3; 8/5; 13/8; 21/13; 34/21; 55/34, 89/55; 144/89 ecc.
i cui valori decimali approssimati sono:
1; 2; 1,5; 1, 666; 1,6; 1,625; 1,615; 1, 619; 1, 617; 1, 6181; 1, 6180 ecc.
In Arte
In alcune opere d’arte, appartenenti al passato e al presente, e in molte opere di artisti, da Leonardo da
Vinci a Seurat e a Salvator Dalì, possiamo trovare richiami alla sezione aurea (o divina proporzione). La
proporzione aurea si ritrova nell’arte italiana a partire dal rinascimento. Gli artisti hanno poi continuato
a operare seguendo questa logica in maniera più o meno inconsapevole. Il pointillista George Seurat ne
era perfettamente conscio. Il padre del divisionismo ha sempre avuto presente la sezione aurea nella defin-
izione della struttura dei suoi quadri. Nell’opera La Parade del 1888 sono di facile individuazione i molti
rettangoli aurei. Anche il surrealista Salvator Dalì aveva conoscenza del rapporto aureo. Le dimensioni del
dipinto Il sacramento dell’Ultima Cena, opera che risale al 1955, sono quelle di un rettangolo aureo e altri rettangoli aurei compaiono nella
disposizione delle figure. I
In natura e in architettura
La sezione aurea emerge in natura come risultato della dinamica di alcuni sistemi. È stato ritrovato, tra l’altro, nella struttura delle conchiglie,
nella dimensione delle foglie, nella distribuzione dei rami negli alberi, nella disposizione dei semi di girasole, e nel corpo umano. Vista la sua dif-
fusione in natura, veniva considerato esteticamente piacevole e di buon auspicio, perciò veniva usato anche per le creazioni umane. Diversi dipinti
sono stati composti secondo la sezione aurea; edifici, giardini e monumenti sono stati progettati con rettangoli aurei. Per esempio alcune teorie,
non da tutti condivise, ne attribuiscono l’applicazione al Partenone di Atene. La pianta di quest’ultimo risulta essere un rettangolo con lati di
dimensioni tali che la lunghezza sia pari alla radice di cinque volte la larghezza, mentre nell’architrave in facciata il rettangolo aureo è ripetuto più
volte. Altre applicazioni si trovano nel design, e studi recenti mostrano che continua ancora a giocare un ruolo importante nella nostra percezione
della bellezza.
Nella moda (modellistica)
Nel campo dell’abbigliamento, in particolare nella modellistica, da indagini successive di Leonardo Da Vinci è scatu-
rita la rappresentazione della figura maschile divisa in 8 moduli, che ha un’armonia analoga a quella del corpo fem-
minile, anche se sussistono lievi differenze, come ad esempio spalla e bacino nella donna sono iscrivibili in un rettan-
golo mentre per l’uono in un trapezio.
Il ruolo dell’estetica al giorno d’oggi
Gli studi e le interpretazioni letterarie e filosofiche del passato riguardo il concetto di estetismo, hanno lasciato una traccia molto profonda nel
mondo odierno, ed è possibile accorgersene ed evidenziarlo soltanto guardandoci intorno.
Quanto può influenzare oggi l’aspetto di una persona? Quale ruolo può avere la bellezza nel mondo dello spettacolo, del lavoro o della
scuola? Quanto conta l’apparire? Ricerche e indagini psicologiche e scientifiche mostrano come le persone di aspetto gradevole siano molto più
avvantaggiate di quelle meno attraenti, in tutti i campi. Sembra impossibile in che in un mondo “evoluto” e progredito come il nostro, possano
esistere dei criteri basati sulla superficialità, invece che sull’essere e non apparire. Eppure mai come ora questo aspetto è reso importante.
Scientificità dell’argomento
Da sempre esistono detti come “Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace” oppure “la bellezza sta negli occhi di chi guarda”. Al con-
trario invece, è stato provato attraverso degli studi psicologici, che la bellezza ha delle leggi tutt’altro che soggettive: la statura, la conformazione
dei denti, la grandezza della pupilla, il colore dell’iride, la presenza di occhiali, l’assenza o presenza di barba, la lunghezza e il colore dei capelli, la
grandezza e rotondità di occhi e labbra, le proporzioni del volto, la colorazione della pelle, la forma e grandezza del naso, il peso, la conformazione
muscolare, il rapporto tra larghezza dei fianchi e della vita, la conformazione delle gambe, la presenza di difetti dermatologici come ne, lentiggini,
per citare solo alcuni esempi che la ricerca ha dimostrato contribuire significativamente alla valutazione dell’attrattività estetica di un individuo.
Conseguenze della bellezza/non bellezza nella quotidianità
Per rendersi conto dell’importanza nella vita di tutti i giorni, basti pensare al caso negativo. Una sfigurazione del volto in seguito ad un incidente
o a una malattia dermatologica possono minare a fondo l’autostima e compromettere l’opportunità di avere buoni rapporti interpersonali, di tro-
vare un partner o un lavoro. Si può pensare ai problemi di autostima e sicurezza di sé suscitati dall’acne negli adolescenti e a tutti i tentativi messi
in atto per nascondere ed eliminare le rughe e altri segni della vecchiaia. Se mettiamo a confronto una persona bella con una meno attraente, a
parità di contenuto comunicativo, le persone belle sono più persuasive di quelle esteticamente meno affascinanti. Inoltre, trovano più facilmente
lavoro e tendono ad avere impieghi più prestigiosi. Sul piano giudiziario, le persone gradevoli tendono a essere giudicate meno colpevoli rispetto
a persone non attraenti e il loro comportamento, anche se sbagliato, viene giustificato da “cause esterne”, anziché associarlo alla volontà colpevole
dell’individuo.
Bellezza nel lavoro
L’attrattività di una persona gioca un ruolo importante anche nell’assunzione per un posto di lavoro. Infatti, come ci si aspetta dalle ricerche prec-
edenti, le persone belle tendono a raggiungere postazioni di lavoro più prestigiose e con più successo, dovuto all’autostima.
Estetica nella politica
Nell’ambito politico, più che negli altri, il ruolo della bellezza dovrebbe essere molto subordinato a quello della personalità, dell’intelligenza.
Un esempio evidente, si è verificato in una ricerca svolta durante la campagna elettorale che vedeva come sfidanti Kennedy e Nixon dove in un
sondaggio emerse che chi ascoltava la radio propendeva per Nixon, mentre i telespettatori preferivano il più affascinante Kennedy.
Conclusioni
Da quanto analizzato si evince il fondamentale ruolo che la bellezza ha assunto fin dai tempi dell’antichità, e che tutt’oggi continua ad avere. Ho
sempre visto la bellezza come sinonimo di sentimento. Bello è ciò che riesce a trasmetterci sensazioni, ciò che riesce a coinvolgerci, a stupirci e tal-
volta anche ci spaventa. Tale concezione può trovare interpretazione nel sublime, così grande ed elevato, esso è in grado di trasmetterci fortissime
emozioni che spaziano dall’incanto al vero e proprio terrore. La potenza di tali sentimenti, racchiusa nella bellezza e nella sua massima espressione,
il sublime, mi hanno spinto alla elaborazione di una tesina che avesse proprio tale concezione come tema principale.Ho trovato interessante in-
terpretare il pensiero e lo stile di vita di personaggi che come D’Annunzio, Baudelaire, Wilde, hanno fatto della loro vita una vera e propria opera
d’arte, cristallizzando il concetto di bellezza e facendo di esso tutta la loro vita.Il loro stile di vita, così narcisista ed egocentrico, è stato per me
ispirazione nel trovare un titolo che si adattasse alla mia tesina. Un titolo che oltretutto penso possa descrivere parte dell’importanza che al giorno
d’oggi all’estetica viene attribuita. La bellezza appare quasi come un paradiso, in quanto sinonimo di grazia, armonia ma l’eccessiva importanza che
ad essa viene attribuita, la porta però a trasformarsi in un qualcosa di artificiale, finto, soltanto apparente. Dando troppa importanza all’estetica, si
rischia che vengano dimenticati i veri valori in grado di rendere davvero bella una persona, in altre parole i valori che hanno origine dall’interiorità.

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  • 2. Premessa Nella stesura di questa tesina ho voluto mettere in evidenza un particolare modo di concepire l’arte e la bellezza. Una concezione che non si limita solamente al puro giudizio estetico, ma che cerca di spingersi oltre, ricercando il vero significato del termine “bello” all’interno dei sentimenti e delle sensazioni che un’opera d’arte, una poesia, una formula matematica possono trasmetterci. A tal proposito mi e’ stato utile prendere di esem- pio uno dei luoghi comuni piu’ usati quando si parla di “bellezza”, ossia: “ non e’ bello cio’ che e’ bello, ma e’ bello cio’ che piace”. Ma è proprio così? E anche se fosse, se davvero il bello è ciò che piace soggettivamente, perché in determinate epoche storiche o in determinate culture piacciono alcune cose che non piacciono più in altri contesti o in altri periodi? Certo, è sempre dal gusto personale che giudichiamo la bellezza e non sempre ci ritroviamo ad apprezzare quello che i nostri avi consideravano come sinonimo di bellezza. Le modelle tondeggianti dei quadri rinas- cimentali difficilmente rappresentano la bellezza femminile così come ci viene proposta oggi dalle sfilate di moda, dalle pubblicità o dalle pellicole cinematografiche. Ma allora è questa la bellezza? La bellezza è moda? Non è bello ciò che è bello e ma è bello ciò che è di moda? Ma che cos’è la moda in fondo se non un’accettazione culturale condivisa e provvisoria dell’estetica del momento? E se la bellezza fosse proprio resistere alla moda? Quell’equilibrio d’armonia e forma che rimane immutabile a dispetto di ogni stravaganza proposta da stilisti e fotografi, la verità è che non può esistere una scienza del bello partendo da questi presupposti, un tramonto, un fiore in un prato primaverile, un paesaggio di montagna… Difficilmente possiamo negare la loro bellezza e l’emozione che da sempre provocano nell’animo umano, ma se proviamo a spiegare oggettivamente perché tali cose sono belle difficilmente vi riusciamo e tutto rimane racchiuso in una sfera troppo personale e intima per essere tradotta in concetti oggettivi e univoci. Una scienza del bello i questi termini non esiste e non è mai esistita e forse è anche riduttivo e banale provare a crearne una. Perché un’opera d’arte può a ragione considerarsi bella? Nell’arte classica dell’antica Grecia uno dei metri di giudizio più importanti era la corrispondenza tra la for- ma che prendeva l’opera d’arte e la natura stessa. Una statua umana ad esempio era tanto più bella quanto riusciva a riprodurre per imitazione il corpo umano nella natura. L’estetica si riduceva così a una misurazione attenta e anatomica delle parti del corpo, alla ricerca di un’armonia delle forme che voleva essere appunto, imitazione di una perfezione umana idealizzata e forse non reale. . Ma che dire allora dei quadri di Picasso? Se li valutiamo secondo l’estetica classica come possiamo definirli belli? Eppure, soffermandoci ad esempio su uno dei più famosi quadri di Picasso, Guernica, non possiamo che rimanere incantati di fronte alle sensazioni che esso è in grado di suscitare in noi. Siamo davanti a un quadro le cui dimensioni ci danno già l’idea dell’entità della tragedia, si aggiunga poi a questo fatto quantitativo, il silenzio gridato dalla tela. Guernica di Picasso ci ha dato un esempio di violenza trattenuta nella tela, eppure essa fuoriesce prepotente e nel suo movimento produce in noi osservatori un’immobilità stupefatta. Il principio dell’imitazione della natura si è dimostrato quindi limitativo escludendo arbitrariamente tutta una serie di opere d’arte capaci di darci emozione ma che si allontanano dai canoni stessi presenti in natura e che anzi a volte ribaltano il concetto stesso di bellezza introducendo quello che Croce definiva: “il bello dell’orrido”.
  • 3. Il principio dell’estetica basata sull’imitazione della natura entra definitiva- mente in crisi con l’avvento della macchina fotografica: Qui bastava premere un pulsante e qualsiasi paesaggio o figura umana si ritrovavano impressi su pel- licola così come erano in natura facendo sparire la figura stessa di artista come creatore originale della sua opera. La pittura, la scultura e la stessa fotografia dovevano perciò trovare altri parametri per proporsi come opere d’arte che non fossero soltanto banali imitazioni della realtà. Un quadro astratto può essere di gran lunga più bello artisticamente della fotografia digitale similmente perfetta di un depliant turistico. E qui torniamo alla domanda dalla quale siamo partiti: ma allora che cos’è la bellezza? E restringendo ancora il campo, che cos’è la bellezza in arte? La bellezza è quello che riesce a trasmetterci emozioni, a farci quindi emozionare o, ancora meglio, a comunicarci le emozioni e gli stati d’animo di un artista. In questa prospettiva, liberi da ogni criterio imitativo della realtà, l’arte diviene sublimazione della realtà stessa, un qualcosa che la trascende e la supera, un qualcosa non separabile dall’artista che la riproduce. Il David di Donatello, un quadro di Picasso, ci offrono emozione proprio perché sono belli di una bellezza che trascende la pura e semplice rap- presentazione ma ci comunicano un qualcosa che appartiene al mondo stesso dell’artista, una concezione del mondo che non è il mondo stesso, ma l’universo più intimo e profondo dell’artista. Eccola la vera bellezza, quella bellezza capace di resistere alle mode, quella bellezza non misurabile con il centimetro, la bellezza di una forma che, forse incomprensibile immediatamente, ci racconta dell’uomo che l’ha creata e rimane immortale e duratura.
  • 4. Il Culto del bello: “ L’Esteta, una nuova figura umana” Prima di arrivare a capire chi realmente sia l’esteta e quale concezione abbia della bellezza, è importante riuscire a inquadrare questa figura all’interno dell’Estetismo, un movimento artistico e letterario della seconda metà dell’Ottocento. Esso rappresenta una tendenza del Decadentismo autonomamente sviluppatasi grazie a figure come Walter Pater e John Ruskin, che trova il suo massimo splendore grazie alle opere di Oscar Wilde. Ma l’estetismo non si limita a essere un movimento unicamente artistico e letterario, infatti, riesce a influen- zare le stesse vite degli intellettuali che ne fanno parte. Il principio fondamentale di questo movimento (l’arte per il gusto dell’arte) consiste nel vedere l’Arte come rappresentazione di se stessa, possedente una vita in- dipendente proprio come il Pensiero, che procede solo per le sue vie. L’Estetismo presenta anche un continuo invito a godere della giovinezza fuggente, un edonismo nuovo in cui l’esaltazione del piacere è morbosamente collegata alla corruzione della decadenza e in cui la bellezza è intesa come manifestazione del genio ma superiore, al contempo, al genio stesso. Esso nutre un fortissimo disprezzo per la volgarità e la folla, e, nello stesso tempo, un’ossessiva predilezione per la mondanità, per la vita frivola e capricciosa, per gli oggetti minuti e preziosi. La vita stessa deve essere vissuta come un’opera d’arte. Tale con- cetto viene ripreso da Oscar Wilde nel suo saggio La Decadenza della Menzogna nel quale sostiene che sia la vita a imitare l’arte. Ciò non deriva solo dall’istinto imitativo della vita ma anche dal fatto che il fine della vita è quello di trovare espressione, e che l’arte è l’espressione stessa. L’esteta, uomo e letterato, è una figura complessa e molto intrigante. E’ colui che assume come principio regolatore della sua vita non i val- ori morali, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, ma solo il bello, ed esclusivamente in base ad esso agisce e giudica la realtà. Da qui deriva il desiderio di distruggere e allontanare tutto quanto stia al di fuori dell’arte, e tutti gli oggetti che possano definirsi utili e funzionali. L’esteta dirà dunque che l’arte è arte perché inutile, e che nulla di utile può essere bello, trasformando la bellezza nella nemica dell’utilità. Non dirà che l’arte è libera da costrizioni morali e che non può essere giudicata, ma dirà che l’arte è un grido levato contro la morale, riprendendo così la concezi- one moralistica e inutile dell’arte secondo Oscar Wilde, racchiusa nella seguente citazione: “Ogni arte è insieme superficie e simbolo. Coloro che scendono sotto la superficie lo fanno a loro rischio. L’arte rispecchia lo spettatore, non la vita. La diversità di opinioni intorno a un’opera d’arte dimostra che l’opera è nuova, complessa e vitale. Possiamo perdonare a un uomo di aver fatto una cosa utile se non l’ammira. L’unica scusa per aver fatto una cosa inutile è di ammirarla intensamente. Tutta l’arte è completamente inutile.”
  • 5. Superlativo brillante, sublime deve essere l’esteta, che anela a raggiungere e a identificarsi con il bello. Egli non disdegna oltretutto l’uso di sostante stupefacenti: l’alcool e l’oppio sono certamente dei vizi, ma esistono per ragioni estetiche. L’artista è convinto che il senso della vita non sia rac- chiuso nella realtà, ma nell’immaginazione di essa. La visione e il sogno sono più belli di qualsiasi realtà mediocre, essendo la bellezza un’immagine che ci colpisce e che ci trasmette emozioni. Da qui nasce la ricerca del piacere e la convinzione dell’esteta che la sua salvezza risieda proprio nei vizi. Il vizio, accostato al senso dell’orrido e del ripugnante, diviene indispensabile per definire il concetto di bellezza. Amare la vita significa renderla unica, perfetta, sovrumana, fino all’esasperazione delle perversioni sadiche che procurano sublime e crudele piacere. La donna, che grande importanza ha fra i pensieri di un esteta, spesso non è altro che una cavia di esperimenti, una fonte di piacere e sensazioni straordinarie. Quando la sua bellezza sfiorirà, egli procederà a una sostituzione di persona. L’esteta lusinga, corteggia e seduce solo per vedersi all’azione; più che nel fine, il suo interesse si focalizza nella seduzione, facendo prevalere l’estetica a ciò che è la sostanza vera e propria dell’amore. Ciò che allontana l’esteta dalla donna e dall’amore verso di essa è quel suo essere naturale. Riprendendo le parole di Baudelaire: “La donna è il contrario del dandy. Dunque deve fare orrore. La donna è naturale, cioè abominevole.” Viene rinnegato anche il matrimonio, in quanto antiestetico. Esso viene visto come un impegno deprecabile che uccide la bellezza e il piacere, un rifugio per i deboli, una condanna al tedio. Edonista, colto, amorale, insoddisfatto ed egoista, così si presenta l’esteta, che in fin dei conti non fa altro che evadere dalla vita comune, dalla volgarità borghese e dall’orrore di una società dominata dall’interesse materiale e del profitto, per rifugiarsi in una Torre d’avorio, in una superba solitudine in cui esistono solo Arte e Bellezza, ideali per i quali è disposto a sacrificare la vita. Tuttavia questo suo modo di vivere eccentrico e concentrato esclusivamente sull’attimo, sul piacere immediato, fa sì che l’impossibilità di rivivere le situazioni passate si trasformi in un insolvibile problema esistenziale. Il dramma dell’esteta sta appunto nell’invecchiare e nel perdere il prestigio con il passare degli anni, come Oscar Wilde ha ben messo in evidenza nel suo bellissimo libro Il ritratto di Dorian Gray.
  • 6. La Bellezza come valore assoluto Figure come Wilde, ma anche come D’Annunzio e Baudelaire sono molto importanti se si vuole real- mente entrare nell’ottica dell’esteta e capire la visione che egli ha nei confronti della vita e dell’arte. Questi tre grandi autori, hanno indirizzato la loro esistenza verso una continua ricerca della bellezza, incarnando perfettamente l’ideale del Dandy e dell’esteta , a tal punto da istituire una vera e propria “DIVISA ESTETICA”, infatti secondo Wilde, ogni esteta, durante le cerimonie, occasioni importanti o serate di gala, o ancora più semplicemente quando gli andava, doveva indossarla mostrando al mondo la sua anima completamente proiettata verso la bellezza. Essa era composta da un paio di pantaloni lunghi fino al ginocchio, che oggi chiameremmo ‘alla zuava’ - ma differentemente da questi erano molto attillati, di velluto scuro; delle lunghe calze di seta scure e degli scarpini di vernice neri con dei lunghi fiocchi; una giacca da frac con le code piatte; una camicia bianca con lo sparato altrettanto candido e inamidato, il papillon bianco da frac. Wilde variava poi in diversi modi la sua ‘divisa’: invece della giacca da frac e della camicia da sera, indossava una giacca corta ed un morbido panciotto di velluto, e un faz- zoletto da collo, sovente azzurro o verde. Con tale divisa, egli si faceva accogliere nei salotti mondani di Londra, e si mostrò abbigliato allo stesso modo durante il suo lungo giro di conferenze che tenne in America. Proprio là, Wilde veniva spesso criticato dai giornali, e preso in giro volgarmente per il suo ab- bigliamento; tentò allora, durante alcune conferenze, di vestirsi normalmente, ma l’evidente delusione del pubblico lo costrinse a cambiare idea. La divisa estetica di Oscar Wilde non era che la divisa che veniva usata allora dalla Massoneria Inglese, ancora oggi in uso in alcune logge, della quale Wilde era stato un felice membro durante la gioventù. Ma non era nuova, tra i dandy, l’uso di una sorta di ‘divisa’: per primo Brummel lanciò la moda della giubba blu dai bottoni d’oro abbinata ai pantaloni color crema, assai attillati, con i lucidi stivali neri al ginocchio; e, tra gli alti risvolti della giubba, abbagliava per il suo candore la cravatta, morbida scultura, alla quale il dedicava molte ore di pazienza. In seguito, Baudelaire adottò come ‘divisa’ una lunga mantella nera, un largo papillon altrettanto scuro, tagliato di sbieco, ed un completo comprendente uno stretto panciotto dall’abbottonatura assai accollata, del quale venivano sbottonati i primi tre o quattro bottoni. D’Annunzio, invece di destreggiarsi con un solo colore, preferiva dare al suo guardaroba lo sgargiante sfavillìo della varietà più totale, sempre usando, però, sotto tutti gli abiti, delle camicie da un alto colletto duro, nelle foggie più disparate. Il dandy novecentesco preferiva invece non farsi troppo notare tra la folla, indossando abiti sì perfetti, e tagliati su misura, ma assai poco particolari se giudicati da un occhio inesperto. L’occhiello, oggi si arriva a chiedersi a che cosa serva, quell’asola, lì, sul risvolto della giacca. Il più delle volte è chiuso; le poche volte che è aperto, i più inesperti cercano un bottone dietro all’altro risvolto, e, delusi dal non trovarlo, si accontentano di infilarci una piccola spilla, che il più delle volte provoca un fastidioso sberluccichìo negli occhi del passante. Sappiamo invece che, da asola per chiudere le antiche giubbe ottocentesche fino al collo, è diventato un ornamento nec- essario specialmente per il dandy, che non lo vuole vedere inviolato, e provvede subitamente infilandoci il gambo di qualche fiore, possibilmente raro, ma principalmente attraente.
  • 7. E’ straordinaria la fioritura degli occhielli fin-de-siécle: dall’orchidea di Montesquiou al garofano verde di Oscar Wilde. La gardenia di Jean Coc- teau arrivava ogni mattina da Londra, per poi fiorire nell’occhiello del giovane poeta. Ma con gli orrori della prima guerra, i petali erano appassiti rapidamente, liquidando ogni sfarzo troppo evidente. Nel turbinio degli anni Venti i fiori erano di nuovo sbocciati sulle giacche dei dandies, ma avevano perso la loro naturalezza. Il fiore all’occhiello del dandy simboleggia il suo amore per il decorativo; se la decorazione è data poi dall’odiata natura, è da privilegiare. Solo la natura al servizio dell’uomo è ammissibile; Ma simboleggia anche l’idea che ha il dandy della vita: bella e profumata, ma allo stesso tempo terribile e odiosa; il fiore è anche interpretato come la rappresentazione ‘naturale’ del dandy: nasce dalla terra, dal fango, ma poi si innalza verso l’alto, bellissimo ma delicato. Il fiore all’occhiello del dandy è la vita tramutata in decorazione. Il dandy è uno degli ultimi che, a malincuore, ripone il bastone da passeggio, elegante rimasuglio della spada da gentiluomo dell’Acien Régime. Oltre alla divisa estetica adottata per distinguersi dalla massa questi tre autori si sono distinti anche per il loro stile di vita e per le loro opere che divennero anch’esse strumento di distinzione . Gabriele D’Annunzio e il “vivere inimitabile” Gabriele D’Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1 marzo 1938) è stato uno scrittore, drammaturgo e poeta italiano, simbolo del decadentismo ed eroe di guerra. Fu un personaggio eccentrico ed esteta, come tuttora testimoniato dagli interni della sua residenza al Vittoriale, discusso, amato od odiato. Oltre a quella letteraria ebbe anche una notevole carriera politica, divenendo personaggio di primo piano nella nostra storia nazionale per la sua azione favorevole all’intervento italiano nella prima guerra mondiale. Partecipò inoltre alla leggendaria “Beffa di Buccari” (una località vicino a fiume), al volo su Trieste e nel 1919 organizzò la marcia su Fiume. Inoltre prese parte a quei movimenti che poi permisero la vittoria del Fascismo. Le teorie superomistiche Gabriele D’Annunzio, nella sua fase superomistica, è profondamente influenzato dal pensiero del filosofo Nietzsche. Egli dà, infatti, molto rilievo al rifiuto del conformismo borghese e dei principi egualitari, all’esaltazione dello spirito “dionisiaco”, al vitalismo pieno e libero dai limiti imposti dalla morale tradizionale, al rifiuto dell’etica della pietà, dell’altruismo, all’esaltazione dello spirito della lotta e dell’affermazione di sé. Rispetto al pensiero originale di Nietzsche queste idee assumono una più accentuata coloritura aristocratica, perdendo le loro caratteristiche pret-
  • 8. tamente filosofiche. Il superuomo dannunziano, così come viene presentato nelle due opere Trionfo della Morte e Le Vergini delle Rocce, è un individuo proteso all’affermazione di sé, in grado di distinguersi per la sua ideologia politica. Essendo egli un aristocratico, disprezza la plebe e lo Stato fondato sui principi democratici. In D’Annunzio il superuomo assomiglia all’esteta, ma si distingue da esso per il suo desiderio di agire. Il superuomo pensa che la civiltà sia un dono dei pochi ai tanti e per questo motivo si vuole elevare al di sopra della massa; è l’esteta attivo, che cerca di realizzare la sua superiorità a danno delle persone comuni. Per quanto D’Annunzio possa essersi ispirato a Nietzsche nell’elaborazione delle sue teorie, rimane comunque impossibile instaurare una coin- cidenza di idee fra i due, se non altro perché Nietzsche, nel parlare di Superuomo, non pensava a un individuo, bensì a modello di umanità del tutto nuova rispetto alla presente. Vivere la vita come opera d’arte Ciò che maggiormente caratterizza la vita di Gabriele D’Annunzio è il desiderio in lui radicato di un vivere inimitabile, di non restare mai nell’ombra. La vita di D’Annunzio è esplicitamente concepita e progettata dallo scrittore, secondo la concezione dell’estetismo, come un’opera d’arte, e presenta molti tratti romanzeschi. Per lui la vita è inscindibile dall’arte e nell’arte totalmente consiste. Tutta la mia vita è innamoratamente congiunta alla mia arte, come apparve e appare nella mia meditazione occulta e nella mia azione palese Con l’estetismo D’Annunzio cerca di innalzare la sua istintiva sensualità nell’amore, nel piacere, nel bello. Dunque l’arte si basa soprattutto sulla sua sensualità che si ha quando il poeta sente con gioia e voluttà i profumi, i colori, i suoni e con la sua immaginazione rendeva tutto più bello, per questo D’Annunzio non seguì nessuna regola d’arte. Egli sostituì il senso estetico al senso morale e visse intensamente al di fuori di ogni regola del comune comportamento civile: “Habere non haberi” (“possedere, non essere posseduto”) e “Memento audere semper” (“ricordati di osare sempre”, da cui la sigla “M.A.S.” che denominò i motoscafi di attacco impiegati nella “Beffa di Buccari”) furono i motti a lui più cari. D’Annunzio definisce “Vivere Inimitabile” la continua tensione dell’esteta verso uno stile che distingua, verso un modo per distaccarsi dalla massa. Non bisogna pensare alla vita cercandone l’artisticità all’interno dei gesti o nelle grandi scelte, bensì nel modo di trasformare in vita vera quella che può essere solo uno stanco trascinamento di un’esistenza: “vivere è la cosa più rara al mondo, la maggior parte della gente esiste e nulla più”, diceva Oscar Wilde. Egli faceva questo con il suo stile, la sua oratoria, la sua capacità unica di affascinare l’uditorio, col suo modo di abbigliarsi, col suo rifiuto più totale della banalità come il peggiore dei peccati. Lo stile inevitabile consiste nel creare un proprio stile e renderlo immortale, far sì che rimanga nella labile mente dei posteri (sempre pronti a dimenticare ciò che è banale, comune, di tutti), per assicurarsi la vita eterna: ecco l’unico modo per essere immortali. Sta a noi fare il nostro stile inimitabile, coi nostri atteggiamenti, le nostre pose, i nostri modi di fare, la nostra cultura. L’importante è non morire nella banalità o condurre un’esistenza di basso profilo: DISTINGUERSI è il primo comandamento di questa filosofia. Solo così potrà esistere la possibilità di vivere una vita inimitabile, una vita che sia davvero tale, e non solo esistenza.
  • 9. Le donne e gli amori Il capitolo delle donne e delle avventure sentimentali è senza fine. Nelle ultime indagini biografiche, per quanto esaus- tive, riescono a enumerare tutte le relazioni di D’Annunzio con dame dell’aristocrazia, signore borghesi, attrici, dan- zatrici, pittrici, cantanti liriche, prostitute. Sono esperienze vissute tutte con diversa intensità, ma tutte rapidamente trascorse, in omaggio all’unica vera musa dannunziana: il piacere. La donna è vista dunque come uno strumento, un tramite per il raggiungimento di intense sensazioni, permettendo così a D’annunzio di dare origine al personaggio della donna fatale. Egli prende dal decadentismo europeo tema della superiorità femminile e lo fa suo, l’uomo è debole, fragile, sottomesso la donna lo domina, gli succhia energia, è lus- suriosa, perversa, crudele esercita sull’uomo un potere cui lui non può sfuggire e che lo porta inevitabilmente alla follia o alla distruzione! La donna è Nemica e come un’antagonista si oppone all’uomo fragile esprimendo quindi un conflitto profondo. Pertanto viene paragonata a un mostro, una sorta di vampiro, come Baudelaire anche descrive, dai tratti diabolici e ingannatori. Il “Piacere” Ne Il piacere, romanzo scritto nel 1888, la figura della donna fatale è impersonata da Elena Muti (amante che successivamente abbandonerà il protagonista), che emana un fascino perverso e seducente e dalla fisicità prorompente che non possono lasciare indifferente l’uomo e anzi lo sot- tomettono inevitabilmente. Vittima è Andrea Sperelli che in Lei sembra aver trasferito parte della sua personalità, difatti l’allontanamento di lei rompe il precedente equilibrio, sconvolge l’eroe e lo confonde totalmente. La conseguenza che ne deriva è il tentativo di Andrea di ritrovare lei in qualcun’altra, di ripetere la precedente esperienza nel tentativo di ritrovare se stesso e la sua stabilità come era accaduto con Elena. Infine si arriva alla sovrapposizione tra due donne, che rappresentano anche il classico conflitto tra la donna angelica e la donna sensuale, infatti, in un incontro amoroso Andrea chiama la spirituale Maria Ferres, che ha finalmente deciso di concederglisi, con il nome di Elena, finisce quindi con perderle entrambe. Sperelli incarna la più classica delle definizioni dell’estetismo inteso come usurpazione dei valori morali da parte di quelli estetici, sur- rogazione della morale attraverso l’estetica. Questo concetto è ben presentato dall’autore all’inizio del suo romanzo, il quale, riferendosi a Sperelli, sentenzia: “..egli aveva smarrito ogni volontà e ogni moralità. La volontà, abdicando, aveva ceduto lo scettro agli istinti; il senso estetico aveva sostituito il senso morale.” Sulla convinzione di D’Annunzio che traspare da questa citazione, vale a dire che l’atteggiamento estetico porti a un decadimento del senso morale, si basa lo sviluppo del romanzo, che vorrebbe essere il racconto della progressiva corruzione di un’anima. Come il Dorian Gray di Wilde, anche Il Piacere è una Bibbia dell’estetismo che tenta di distruggere una morale antiesteta. Ne “Il Piacere” di D’Annunzio spesso la narrazione è un monologo del protagonista (focalizzazione intera sul protagonista), ma riportato con la tenacia del discorso indiretto libero. Altrove invece riappare il narratore onnisciente (focalizzazione esterna) che ci descrive dall’esterno il suo personaggio (in genere nelle pagine maggiormente critiche e di riflessione). Il lessico utilizzato è conforme al comportamento e all’educazione da esteta di Andrea Sperelli e soprattutto all’ambiente aristocratico in cui si svolgono i fatti: pregiato, quasi artefatto, aulico e molto ricercato, in par- ticolar modo nella descrizione degli ambienti e nell’analisi degli stati d’animo; si prendano ad esempio l’uso di parole tronche, o le forme arcaiche e letterarie, come nel caso di articoli e preposizioni articolate.
  • 10. Baudelaire : il poeta maledetto “...colossale, tragico, sublime... angelo ribelle” (Benedetto Croce di Baudelaire) Insieme ad Oscar Wilde, Charles Baudelaire è considerato il massimo vate del dandismo ottocentesco, at- tento a ogni regola e a ogni particolare. Nato a Parigi il 9 Aprile 1821, è stato un poeta e critico letterario francese. Sei anni dopo la sua nascita perde il padre e la madre si risposa l’anno successivo con un militare, il comandante Aupick. Il patrigno e il ragazzo non vanno d’accordo finché Charles non è inviato in collegio dove i giorni trascorrono pigri e malinconici. La sua famiglia gli impone allora un processo giudiziario: Baudelaire riceve ormai soltanto una modesta rata mensile. Dopo un viaggio trascorso in Oriente Charles è di ritorno a Parigi, pronto per sperperare il denaro della sua eredità trascorrendo una vita da dandy elegante e raffinato. Ciò portò il generale ad affibbiare al giovane poeta l’avvocato Ancelle, con lo scopo di control- lare le sue spese. E a ragione: quando si pensa a una persona con le mani bucate non si avrà che una vaga idea della predisposizione alla spesa di Baudelaire; dal sarto era capace di dilapidare tutto lo stipendio che Ancelle gli elargiva mensilmente. Innamorato della pittura, affascinato dalle immagini, amico di pittori del calibro di Courbet e Delacroix, Baudelaire inizia a scrivere critiche d’arte. Diventa parte attiva dei saloni parigini rivolgendo alla pittura uno sguardo nuovo, assolutamente moderno. Traduce oltretutto le opere di Edgar Allan Poe. Dandy “artificiale” Con la sua opera “Il Pittore della Vita Moderna” abbozza elegantemente la figura del dandy, e delle sue regole di vita: teorizza per primo l’innaturalità come fattore principale dell’essere dandy, l’odio per il convenzionale, l’indifferenza verso la morale, la politica, la sorte dell’umanità. Egli è “l’ammalato di spleen” per eccellenza, e sotto il peso di questa malattia, scrive poesie intense e allo stesso tempo fredde, tipiche di un dandy, insomma. Se fosse solo per il lungo abito nero, il largo colletto bianco, un grosso papillon di seta (fattosi tagliare appositamente di sbieco), il guanto rosa pastello, i capelli tinti di biondo e raccolti a boccoli dietro le orecchie, scambieremmo Baudelaire più per un pederasta che per un dandy, ma il suo sguardo freddo e intenso e la sua andatura altera ci rivelano il suo intenso desiderio d’apparire il più artificiale possibile, il più innaturale possibile, perché la natura è opera di Dio, e Charles odia Dio con tutte le sue forze; “Dio è l’unico essere che, per regnare, non ha nemmeno bisogno di esistere.” Baudelaire odia anche la folla: la folla che guarda, che osserva, che giudica, che ride, che attira e respinge sempre il dandy; non bisogna dimenticare che per il dandy, “Sarebbe dolce essere contemporaneamente vittima e carnefice”
  • 11. La poetica Le opere di Baudelaire sono come un avvertimento della crisi che avrebbe avvolto la società del suo tempo. Sono opere sublimi in grado di affas- cinare e scandalizzare allo stesso tempo. La sua poesia è incentrata su una perfezione musicale dello stile, da lui definita “matematica”. Baudelaire non appartiene a nessuna scuola, è indipendente. A ispirarlo sono i sentimenti di stampo puramente romantico, ma nonostante ciò non possiamo accostarlo al romanticismo perché le sue emozioni vengono espresse in una forma nuova e innovativa. Baudelaire è una persona che si apprezza solo dopo aver gustato l’amarezza della vita, è il poeta pervertito, dei vizi, del desiderio e della paura della morte, ma anche la ricerca ansiosa dell’ideale, il desiderio e la paura della morte, la fuga dalla vita monotona e normale, la complessità e le contraddizioni dell’uomo, furono temi ricorrenti della sua poesia. Egli è l’espressione più veritiera degli istinti umani, per questo viene criticato e accettato soltanto da pochi, gli appartenenti al gruppo anticonformista della società. Viene ostacolato ed etichettato come “poeta maledetto” perché è l’unico a mettere a nudo l’essere umano per quel che è, e ciò provoca molto fastidio nella classe perbenista del tempo. La negazione della morale collettiva e la rappresentazione del male, del grottesco sono le colonne portanti della vita e del pensiero di Baudelaire . “I fiori del Male” Dal 1845, Baudelaire pensa a una raccolta di poesie, ma il titolo I Fiori del male apparirà solo nel 1855. Questa raccolta diede parecchio scandalo, e costò al poeta un lungo processo e una altrettanto importante condanna psicologica ma, nonostante questo, continuò a pubblicare clandestinamente le poesie accusate di immoralità. Dopo l’edizione del 1857 con cento po- emi, quella del 1861 presenta centoventisette poemi. Il titolo sorprende per l’unione di due termini contraddittori: il fiore, simbolo di purezza e bellezza, e il male che evoca un’idea di peccato. Baudelaire stesso spiega di aver tentato di “estrarre la bellezza del male”. I poemi che costituiscono la raccolta sono organizzati secondo un’architettura ben precisa. Scrive il poeta: “Il solo elogio che faccio a questo libro e che si riconosce che non è un album ma ha un inizio e una fine” In questa raccolta si trova tutto: amore, morte, male di vivere e peccato. Essa divisa in sei parti che rappresentano le tappe di un viaggio immaginario del poeta verso la morte, per fuggire dallo spleen, dall’angoscia esistenziale. Nella prima poesia che funge da prologo, il poeta invita “l’ipocrita lettore” a non chiudere gli occhi sulla sua condizione e a seguirlo in questo viaggio che ripercorre le tappe del viaggio reale verso l’Inferno che è la vita. Spleen come raggiungimento dei “paradisi artificiali” All’interno della raccolta di poesie, il poeta spesso riporta al concetto di “Spleen”, inteso come tedio, accidia, o meglio male di vivere. Come diceva Woody Allen: “non si è mai così soli come a New York all’ora di punta”. Ecco cos’è lo spleen, lo spleen è il non vivere, il “galleggiare” sopra alle metropoli, trovarsi in una capitale guardarsi attorno e non sapere cosa fare, il dover ricorrere alle droghe e all’alcool per sfuggire alla realtà dell’indifferenza della gente e raggiungere così un rifugio all’interno dei “paradisi artificiali”. Attraverso l’esperienza sessuale, gli amori proibiti e i paradisi artificiali, l’uomo cerca di conoscere la sua vera natura, senza raggiungerla mai. Non resta che la rivolta contro Dio, che ha voluto l’uomo nella sua condizione, e l’invocazione a Satana. Satana sembra il cardine della sua filosofia e del suo modo di scrivere ma tutto ciò è errato. Alla fine della raccolta, il conflitto tra spleen e ideale, salvezza e dannazione, non trova soluzione. Resta, potente e disperata, la speranza del poeta di
  • 12. un viaggio che lo conduca fuori dell’Universo in uno spazio sconosciuto, liberato definitivamente dal Tempo. “La sete insaziabile di tutto ciò che è al di là, e che rivela la vita, è la prova più viva della nostra immortalità”. È dunque con la poesia e attraverso la poesia, con la musica e attraverso la musica, che l’anima intravede gli splendori situati dietro la tomba”, scrive il poeta nelle sue note. Grazie alla creazione poetica, il poeta sopporta la situazione reale e giunge alla conoscenza del mondo. Oscar Wilde : La vita imita l’arte Oscar Wilde (1854-1900) è noto per i suoi aspetti particolari: era un anticonformista, un dandy (che at- tribuisce particolare importanza al l’aspetto fisico), un intrattenitore meraviglioso e un parlatore brillante, la sua conversazione è una combinazione provocante di satira, il paradosso e epigramma attraverso il quale ogni istituzione vittoriana e il valore viene criticato e ridicolizzato. Ha un modo eccentrico di vestire e il comportamento: indossa un costume estetico di giacca di velluto, calzoni al ginocchio, calze di seta nera, cravatta strana e fiori esotici all’occhiello, e usa a camminare su e giù per Piccadilly con un girasole in mano . In costante bisogno di soldi per vivere fino alla sua vita mondana, Wilde accetta un invito a tenere una conferenza negli Stati Uniti e in Canada nel 1882, pronuncing al suo arrivo a New York, la sua famosa frase: “Non ho nulla da dichiarare tranne il mio genio” , In risposta alla domanda di routine l’ufficiale delle Dogane. La vita per lui deve essere simile a un art-lavoro e quindi la sua stessa vita è un esempio di questo nella sua ricerca spericolata del piacere. Inoltre, ha una relazione omosessuale con Lord Alfred Douglas, che fece infuriare il marchese di Queensberry, padre di Douglas che ha accusato Wilde di essere un sodomita. Purtroppo le accuse sono provate vere, e Wilde viene arrestato, processato e condannato ai lavori forzati a due anni. In questo periodo scrisse “La ballata del carcere di Reading” e “De Profundis”, una lunga epistola dedicata a Douglas, dove accusa l’amico di essere stato la causa della sua rovina. Concezioni dell’autore Wilde non vuole essere serio o scrivere sul serio, perché era convinto che la serietà era noiosa e solo un atteggiamento da persone che avevano poca fantasia. Sentiva che uno scrittore non può comunicare idee importanti come sono, ma dove arricchirle di commedia e paradossi. Secondo Wilde l’artista non deve imitare la vita, ma deve crearne una diversa e che il vero artista è una figura isolata, diversa dal resto della società. La sua omosessualità ha aumentato questo sentimento e lo ha aiutato a vedere i crimini come una risposta comprensibile a una soci- età che considerava volgare e disumana. A causa della loro comune opposizione alla società, i criminali e gli artisti erano, secondo Wilde, simili . “Ho messo il mio talento nel mio lavoro, ma il mio genio nella mia vita” Questa frase si pone come una dichiarazione ironica riguardante l’atteggiamento dello scrittore alla sua vita e di lavoro. Secondo: la sua mente, la sua vita e l’arte, erano inestricabilmente legati insieme, entrambi dovevano essere prodotti da uno sforzo individuale, la vita come l’arte è pari a un processo creativo. Per crearli, Wilde sostiene che una maschera doveva essere messo su, e così l’individuo, nel corso della sua vita, come l’artista nelle sue opere non furono mai così vero come quando indossavano una maschera.
  • 13. The Picture of Dorian Gray (traduzione in inglese) “The only way to get rid of a temptation is to yield to it.” It is the only novel written by Wilde. When it is first published in 1890, it is fiercely attacked by critics who judge it immoral, in fact the novel challenges all the fundamental values and beliefs of Victorian society. This story is a 19th century’s versus of the myth of Faust. The story is told by a third-person omniscient nar- rator. It is unobtrusive and the characters introduce themselves. He describes their feeling and thoughts from inside their minds. The Plot (traduzione in inglese) The novel is the story of Dorian Gray, a typical dandy, that’s to say a heroic figure, created by Wilde, that is the living protest against this democratic levelling, he is at his ease everywhere and in every situation. He is against any social convention. Nothing can surprise him. He is never vulgar. He presents all the canons of the classical beauty: handsome, young, aristocratic, refined. His sex is ambiguous: he unites the feminine grace and the male virility. When his friend painter Basil Hallward paints his picture he can translate on it even the soul of Dorian, the young is enchanted by it and together Hanry Watton, an elegant and cynic man, whose principles have corrupted him, makes a reflection on the fugacity of the time and desires intensely to transfer the passing of the time on the picture and to remain always beautiful and young. His desire is so strong that it really happens. So he lives a dissolute life, in search of the most unrestrained pleasures: he despises the love of Sybil Vane, a kind actress because an evening her performance, for a bodily discomfort, isn’t perfect as always. It will conduce her to suicide. At this point the decadence of Dorian’s soul begins, he becomes a criminal, his physical aspect remains beautiful, but inside he becomes cruel and cruel. The signs of the time and of his decadence appear on the picture, where his face becomes evil and it is furrowed with wrinkles, so, to appease his conscience he puts the picture in the attic even if every evening he goes to look it: every day the signs of the decline increases. The picture remem- bers to Dorian the deception of his double life, showing him his real face, unknown to everyone in its own cruel eloquence up to, overcome by unhappiness, he brakes the picture with a knife and he immediately falls down dead, as if he has stabbed himself. The servitude rush to the place and they look a wonderful picture of their master and on the floor a dead man with an evening dress, with a knife in the heart, with an old and cruel face. They understand that he is their master only for his rings. Allegorical Meaning (traduzione in inglese) This novel is profoundly allegoric; The novel highlights the Wilde’s aesthetic creed, like the cult of beauty making the life a work of art. The moral of this novel is that every excess must be punished and reality cannot be escaped. When Dorian destroys the picture he cannot avoid the punish- ment for all his sins. He thinks that wicked people are always very old and ugly. He realise that his parallelism is not true, because he himself is an example of this.
  • 14. La Belle Epoque Il periodo storico legato alla Belle Epoque è lo stesso in cui Oscar Wilde venne arrestato con l’accusa di omoses- sualità. Accusa che lo porterà a scontare due anni di lavori forzati. L’autore de Il Ritratto di Dorian Gray morirà il 30 Novembre 1900 a Parigi, assolutamente dimenticato, in un alberghetto delle Belle Arti. Introduzione La Belle époque è un periodo storico, culturale e artistico che va dalla fine dell’Ottocento e si conclude una tren- tina d’anni dopo con lo scoppio della prima guerra mondiale. L’espressione Belle Époque (L’epoca bella, I bei tempi) nacque in Francia prima della prima guerra mondiale per definire il periodo immediatamente anteriore (1885- 1914). Essa nasce in parte da una realtà storica (fu davvero un periodo di sviluppo, spensieratezza, fede nel progresso) e in parte da un sentimento di nostalgia. Il trauma della guerra aveva, infatti, portato a idealizzare la realtà. Dalla fine dell’Ottocento in poi le invenzioni e progressi della tecnica erano stati all’ordine del giorno. I benefici che queste scoperte avevano portato nella vita delle persone erano diventati sempre più visibili: illuminazione di case e strade, servizi igienici, minore paura di affrontare la malattia e l’ignoto. Tutto questo aveva determinato un pro- fondo ottimismo sulle possibilità dell’uomo, a cui niente sembrava precluso. La realtà era stata abbellita anche per non risentire troppo dei traumi postbellici. Ma, senza meno, questo periodo è in Francia ricordato come un passato dorato che fu ridotto in frantumi dallo scoppio della guerra. L’era del progresso e della crescita demografica Fu quello il periodo in cui la tecnologia liberò tutte le sue potenzialità, esercitando una straordinaria forza di attrazione culturale e psicologica. La vita materiale nelle società occidentali fu modificata come mai prima era successo dai risultati dell’innovazione tecnica, dai progressi della scienza e dall’incremento della produzione industriale. Dall’impiego su scala mondiale dell’energia elettrica e dalla possibilità di trasportarla ovunque derivarono una lunga serie di applicazioni pratiche che cambiarono in meglio la vita degli uomini (dall’illuminazione privata e pubblica all’elettrificazione delle ferrovie). Anche il telefono conobbe una rapida diffusione. Nel 1895 la scoperta fatta da Guglielmo Marconi inaugurò l’era della telegrafia senza fili e aprì la strada all’invenzione della radio, contribuendo a ridurre l’incidenza della distanza nelle relazioni umane. L’automobile e l’aeroplano intanto facevano la loro apparizione, mentre la scienza compiva progressi eccezionali grazie all’avanzamento della chimica e della biologia. Il ciclo economico, dalla metà degli anni Novanta del XIX secolo, fu all’insegna di un forte e prolungato incremento produttivo, che finì per contagiare non solo gli ambienti finanziari ma anche la platea dei consumatori, in forte crescita numerica, al punto che molti osservatori hanno collocato alla fine dell’Ottocento la nascita della moderna società dei consumi. All’inizio del Novecento il mondo oc- cidentale aveva molte ragioni d’orgoglio: debellata la maggior parte delle epidemie e ridotta notevolmente la mortalità infantile, gli abitanti del pianeta toccavano ormai il miliardo e mezzo. Alla crescita demografica fece riscontro un impressionante aumento della produzione industriale e del commercio mondiale, che tra il 1896 e il 1913 raddoppiarono. Nello stesso 1913 la rete ferroviaria del globo aveva raggiunto un milione di chilometri e le automobili cominciavano ad affollare le strade delle metropoli americane ed europee.
  • 15. Nascita di nuove correnti artistiche Dopo la grande depressione (detta anche crisi del 1929, grande crisi o crollo di Wall Street), la Francia entrò in un periodo di crescita economica alquanto sostenuta che si può far derivare dalla seconda rivoluzione industriale. Nacquero il cabaret, il cancan, il cinema, nuove invenzioni resero la vita più facile a tutti i ceti e livelli sociali, la scena culturale prosperava, e l’arte prendeva nuove forme con l’impressionismo e l’Art Nouveau. Il termine Belle Epoque può anche descrivere, infatti, visto il fiorire di nuovi stili e modi, l’arte e l’architettura di questo periodo in altri Stati. Gli abitanti delle città avevano scoperto il piacere di uscire, anche e soprattutto dopo cena, di recarsi a chiacchierare nei caffè e assistere a spet- tacoli teatrali. Le vie e le strade cittadine erano piene di colori: manifesti pubblicitari, vetrine con merci di ogni tipo, eleganti magazzini. Questa mentalità e questo modo di affrontare la vita aveva condizionato anche i settori produttivi. In tutta Europa si erano sviluppate una serie di cor- renti artistiche giunte a teorizzare che ogni produzione umana poteva divenire un’espressione artistica. Ogni oggetto e ogni luogo divenivano un’elegante decorazione, un motivo floreale, una linea curva e arabanesca. Quando iniziò il nuovo secolo, Parigi volle celebrarlo con un’incredibile mostra nella quale venivano esposte tutte le innovazioni più recenti: l’esposizione universale (o “Exposition Universelle”). Per assistere a questa gigantesca fiera, nel 1900 persone da tutto il mondo sbarcavano in Francia per prendervi parte. La gente ne visitava ogni parte e ne ammirava tutti gli aspetti: scale mobili dette “Tapis roulant”, tram elettrici, si assaggiavano le cento varietà di tè importato dall’India. L’Europa era in pace da trent’anni (1780 ‘ca), cioè da quando la Germania aveva inaugurato un’industrializzazione e sviluppo che venivano garantiti da una nuova politica di equilibrio. Nessuno pensava più, quindi, che la guerra potesse devastare ancora il mondo; perciò nel 1896 ebbero luogo le prime Olimpiadi, che da allora si svolsero ogni quattro anni. Il periodo che va dal 1890 al 1914 fu caratterizzato da un periodo di euforia e frivolezza, denominato “Bélle époque”, “bei tempi”. L’Art Nouveau: il nuovo gusto borghese Sono proprio questi caratteri della Belle Epoque che resero riconoscibili la nascita di nuove correnti, che as- sunsero nomi differenti a seconda degli stati in cui fiorirono: Liberty (o floreale) in Italia Art Nouveau in Francia Modern Style in Inghilterra Jugendstil in Germania Sezession in Austria Modernismo in SpagnaL’orientamento artistico dell’Art Nouveau, che come abbiamo già visto si diffuse in diversi Paesi con nomi differenti, e che percorse un po’ tutta l’Europa tra il 1890 e la prima guerra mondiale, può ben essere considerato il corrispondente dell’estetismo nel campo delle arti visive. Il nome attribuito all’orientamento artistico deriva da quello di un negozio parigino, «l’Art Nouveau Bing», aperto nel 1895 da Siegfrid “Samuel” Bing, che sfoggiava alcuni oggetti dal design innovativo, tra cui mobili, tinture, tappeti e vari oggetti d’arte. Essa mise al centro del loro programma, il predominio della decorazione e la conseguente determinazione della forma attraverso l’ornamento, la volontà di diffondere la bellezza nella vita quotidiana, l’estensione dell’artisticità agli oggetti si uso comune, imponendo i tratti caratteristici della loro ricerca formale,
  • 16. non solo in pittura e in architettura, ma anche nella decorazione di interni, nel mobilio, nei manifesti pubblicitari e nell’abbigliamento. Caratteristiche Una delle caratteristiche più importanti dello stile è l’ispirazione alla natura, di cui studia gli elementi strutturali, traducendoli in una linea di- namica e ondulata, con tratto «a frusta». Semplici figure sembravano prendere vita e evolversi naturalmente in forme simili a piante o fiori. Diversamente dai pittori simbolisti, tuttavia, l’Art Nouveau possedeva un determinato stile visivo; e al contrario dei Preraffaelliti che prediligevano rivolgere lo sguardo al passato, l’Art Nouveau non si formalizzava nell’adoperare nuovi materiali, superfici lavorate, e l’astrazione al servizio del puro design. Molto ricercate erano le forme organiche, le linee curve, con ornamenti a predilezione vegetale o floreale. Le stampe giapponesi, con forme altrettanto curvilinee, superfici illustrate, vuoti contrastanti, e l’assoluta piattezza di alcune stampe, furono un’importante fonte di ispirazione. Altro fattore di grande importanza è che l’Art Nouveau non rinnegò l’uso dei macchinari, ma vennero usati e integrati nella creazione dell’opera. In termini di materiali adoperati la fonte primaria furono certamente il vetro e il ferro battuto, portando a una vera e propria forma di scultura e architettura. Anche i gioielli offrivano uno spettacolo straordinario e sovvertivano la concezione che aveva regnato indiscussa sino a quel tempo. L’oggetto prezioso diventava una scultura, assemblava diversi tipi di metallo o di materiale, di per sé anche non prezioso come l’oro, per supportare perle, pietre semi-preziose prima sconosciute o non molto sfruttate. I gioielli riproducevano fiori, animali, insetti intrecciati e av- volti da foglie e rami, tra cui si affacciavano esili forme umane, evanescenti meravigliose creature realizzate con tecniche creative nuove o rivisitate come lo smalto-cattedrale o come lastre sottilissime di opale, madreperla, cristallo di rocca. Oggi l’Art Nouveau è considerata precorritrice dei movimenti più innovativi del ventesimo secolo, come l’espressionismo, il cubismo, il surrealismo e l’Art Deco. Gustav Klimt “Sono bravo a dipingere e disegnare; lo credo io stesso e lo dicono anche gli altri […]. Sono un pittore che dipinge tutti i santi giorni dalla mattina alla sera […]. Chi vuole sapere di più su di me, cioè sull’artista, l’unico che vale la pena di conoscere, osservi attentamente i miei dipinti per rintracciarvi chi sono e cosa voglio.” Singolare fu, per la pittura, l’apporto di uno dei massimi esponenti dell’Art Nouveau, il pittore austriaco Gustav Klimt (1862-1918), che interpretò in modo personale e originalissimo lo spirito del suo tempo. Gustav Klimt nasce il 14 luglio 1862 a Buamgarten, vicino a Vienna, da una modesta famiglia. Già a quattordici anni inizia a frequentare la Scuola d’Arte e Mestieri della capitale, dove ha modo di approfondire le diverse tecniche utilizzate nell’arte più classica (fondamentale per la sua arte), come l’affresco e il mosaico, ma anche di venire in contatto con i fermenti innovativi del momento (elementi che riuscirà ad amalgamare generando uno stile unico). Il Ministero della Cultura e dell’Educazione commissiona a Klimt e a un suo compagno di studi la decorazione di alcuni saloni dell’Università di Vienna. Inizia ufficialmente la sua brevissima carriera di artista, infatti, la decorazione per l’aula magna dell’Università di Vienna, avente per tema la filosofia, la medicina e la giurisprudenza, provocò innumerevoli critiche da parte delle autorità viennesi, che gli contestarono il contenuto erotico e l’insolita impostazione dei dipinti. Tali scandali segnarono la fine della carriera ufficiale di Klimt. Ma potrà mai un genio fermarsi per via delle critiche? Certamente no, decide quindi di
  • 17. ribellarsi ai canoni ufficiali liberando l’arte dalle regole e dai pregiudizi. Klimt, utilizzando le innovazioni decorative dell’”Art Nouveau”, sviluppò uno stile ricco e complesso ispirandosi spesso alla composizione dei mosaici bizantini, studiati a Ravenna. Attività artistica Gustav Klimt fu uno dei più eccellenti pittori della sua epoca e una figura di rilievo nella storia culturale austriaca. Formatosi artisticamente nel solco della tradizione, sviluppò presto uno stile unico e personale che lo pose in primo piano nell’avanguardia. L’incarico più importante ricevuto da Klimt negli anni della maturità furono i mosaici per la sala da pranzo del palazzo Stoclet di Bruxelles. Klimt iniziò a dipingere paesaggi solo verso i trentacinque anni. Li realizzava durante le vacanze e difatti mostrano di preferenza i luoghi frequentati d’estate dai ricchi viennesi. I paesaggi costituiscono una parte sostanziale dell’opera dell’artista: sono oltre cinquanta e pertanto rappresentano un quarto di tutta la sua opera pittorica pervenutaci. Gustav Klimt fu uno dei più grandi disegnatori dei suoi tempi. Oltre ai frequenti bozzetti per i dipinti, eseguì molti disegni come opere a sé stanti. I primi, spesso eseguiti a carboncino, sono in stile tradizionale e mostrano una solida tecnica; i successivi invece più liberi e delicati, in genere eseguiti a matita o a pastello. Il tema preferito era la donna nuda o semivestita. Molti disegni sono particolarmente erotici e mostrano la donna sdraiata sul letto o su un divano in atteggiamenti decisamente provocatori ma rappresentati con tale eleganza e tenerezza da non risultare mai volgari. Le allegorie sulla condizione umana sono tra i dipinti più complessi ed enigmatici di Klimt. Dal momento che raramente commentava le sue opere, è spesso difficile individuare il significato dei suoi dipinti meno convenzionali, anche se gli scopi paiono abbastanza evidenti. Il tema centrale è il sesso, che viene però trattato nei modi più disperati e riflette l’opinione che Klimt aveva delle donne, viste come idoli bellissimi o tenere madri, ma anche come predatrici che si servono del loro fascino come di una trappola fatale. Un esempio di tale concezione viene rappresentato dal pittore, nel dipinto “Giuditta I”. Giuditta I “Giuditta I” è un dipinto a olio su tela di cm 84 x 42 realizzato nel 1901 ed esposto all’Österreichische Galerie Belvedere di Vienna. Quest’opera rappresenta la maturità del pittore austriaco: è contraddistinto da un linguaggio di forte astrazione simbolica e dall’uso massiccio dell’oro. Rac- chiusa in una cornice di rame sbalzato (realizzata da suo fratello Georg, scultore e cesellatore), Klimt dipinge per la prima volta (una seconda Giuditta seguirà nel 1909) la bella eroina biblica. Il soggetto è stato sempre utilizzato quale metafora del potere di seduzione delle donne, che riesce a vincere anche la forza virile più bruta. In clima simbolista la figura di Giuditta si presta ovviamente alla esaltazione della femme fatale crudele e seduttrice, che porta alla rovina e alla morte il proprio amante. Tale concezione della donna è perfettamente ripresa dall’esteta. Il pittore raffigura la protagonista come una donna moderna, con il volto di Adele Bloch-Bauer, esponente dell’alta società viennese. L’immagine ha un taglio verticale molto accentuato con la figura di Giuditta, di grande valenza erotica, a dominare l’immagine quasi per intero. La testa di Oloferne appare appena di scorcio, in basso a destra, tagliata per oltre la metà dal bordo della cornice. Da notare la notevole differenza tra gli incarnati della figura, che hanno una resa tridimensionale, e le vesti, trattate con un decorativismo bidimensionale molto accentuato. Dietro la testa di Giuditta è rappresentato un paesaggio arcaico e stilizzato di colline e alberi, che richiama i motivi decorativi geometrici tratti dalle ceramiche micenee.
  • 18. La divina proporzione (La sezione Aurea) Sin dai tempi antichi l’Uomo ha desiderato essere circondato dalla bellezza. Ma ancor di più l’essere umano si chiede: “ Che cos’è la bellezza? Perché una cosa sembra bella e un’altra no?” Così l’uomo è diventato osservatore, ha iniziato a studiare la bellezza e l’armonia perfetta e ha capito che l’armonia è il principio della bellezza e che quest’ultima nasce dal mettere in ordine le singole parti con l’insieme, così che ogni parte sarà in armonia con le altre e con il tutto, facendo nascere così la bellezza. La sezione aurea, o “rapporto divino”, o come lo chiamano “costante dell’armonia” è uno dei rapporti più antichi usati per dare proporzione agli oggetti. Sembra che già nell’antico Egitto e a Babilonia si conoscesse il rapporto divino. Esso era noto anche presso i Greci, considerato come un valore proporzionale ideale. Pitagora diceva che il principio del mondo è il numero , che il mondo consiste di opposti e che solo l’armonia può portare ciò che i due contrari all’unità perfetta. Il sistema delle pro- porzioni ideali del corpo umano è stato scoperto dagli scultori greci Policleto, Miron , Fidia. Platone diceva che l’Universo stesso è costruito secondo il Rapporto Aureo. Anche nell’epoca del Rinascimento italiano, il grande Leonardo da Vinci e pittori come Bernardo Luini, Sandro Botticelli, Piero della Francesca usavano la sezione aurea nelle loro opere. Un largo contribuito, alla conoscenza ed alla divulgazione di questo metodo di suddivisione armonica, è stato dato dal matematico Luca Pacioli con la pubblicazione del libro “La divina proporzione”, illustrato con i disegni di Leonardo. Il grande astronomo del XIX ° secolo Johannes Keplero ha evidenziato la famosa proporzione in botanica. Keplero considerava il rapporto aureo come un “tesoro” della geometria: “ La geometria ha due grandi tesori: uno è il teorema di Pitagora, l’altro la divisione di un segmento in estrema e media ragione; il primo può essere paragonato ad un sacco di oro, il secondo ad un gioiello prezioso . ” Nel XIX ° secolo il tedesco Zeising ha fatto un lavoro grandioso: ha misurato circa 2.000 corpi umani ed alla fine è giunto alla conclusione che i corpi più armoniosi rispecchiano il Rapporto Aureo. Nei anni ’90 del secolo scorso lo scienziato americano Mark Barr è stato il primo a determinare con la lettera greca la divina proporzione. Insomma dai tempi più antichi la proporzione divina è stata presa in considerazione per ottenere la dimensione armonica delle cose. Dalla geometria all’architettura, dalla pittura alla musica, fino alla natura del creato possiamo osservare come tali rappresentazioni spesso rispet- tino un rapporto pari a 1,618, che non a caso è stato definito numero d’oro. 1,61803398874989... (il numero d’oro)
  • 19. Che cos`è il Rapporto Aureo? è il rapporto geometrico tra due entità a e b , tale che: (a+b) : a = a : b ossia tale che la parte maggiore sia media proporzionale tra la parte minore e la somma delle due. C’è un metodo per ottenere dei numeri che se rapportati tra loro danno come risultato un numero che si avvicina sempre più al numero d’oro man mano che i numeri diventano grandi. Questi numeri sono quelli appartengono alla serie di Fibonacci una serie in cui ogni termine si ottiene dalla somma dei due precedenti. I primi elementi sono pertanto: 1,1,2,3,5,8,13,21,34,55,89,144,....... A partire da tale successione, se formiamo una serie di tipo frazionario, emergono i seguenti rapporti: 1/1; 2/1; 3/2; 5/3; 8/5; 13/8; 21/13; 34/21; 55/34, 89/55; 144/89 ecc. i cui valori decimali approssimati sono: 1; 2; 1,5; 1, 666; 1,6; 1,625; 1,615; 1, 619; 1, 617; 1, 6181; 1, 6180 ecc.
  • 20. In Arte In alcune opere d’arte, appartenenti al passato e al presente, e in molte opere di artisti, da Leonardo da Vinci a Seurat e a Salvator Dalì, possiamo trovare richiami alla sezione aurea (o divina proporzione). La proporzione aurea si ritrova nell’arte italiana a partire dal rinascimento. Gli artisti hanno poi continuato a operare seguendo questa logica in maniera più o meno inconsapevole. Il pointillista George Seurat ne era perfettamente conscio. Il padre del divisionismo ha sempre avuto presente la sezione aurea nella defin- izione della struttura dei suoi quadri. Nell’opera La Parade del 1888 sono di facile individuazione i molti rettangoli aurei. Anche il surrealista Salvator Dalì aveva conoscenza del rapporto aureo. Le dimensioni del dipinto Il sacramento dell’Ultima Cena, opera che risale al 1955, sono quelle di un rettangolo aureo e altri rettangoli aurei compaiono nella disposizione delle figure. I In natura e in architettura La sezione aurea emerge in natura come risultato della dinamica di alcuni sistemi. È stato ritrovato, tra l’altro, nella struttura delle conchiglie, nella dimensione delle foglie, nella distribuzione dei rami negli alberi, nella disposizione dei semi di girasole, e nel corpo umano. Vista la sua dif- fusione in natura, veniva considerato esteticamente piacevole e di buon auspicio, perciò veniva usato anche per le creazioni umane. Diversi dipinti sono stati composti secondo la sezione aurea; edifici, giardini e monumenti sono stati progettati con rettangoli aurei. Per esempio alcune teorie, non da tutti condivise, ne attribuiscono l’applicazione al Partenone di Atene. La pianta di quest’ultimo risulta essere un rettangolo con lati di dimensioni tali che la lunghezza sia pari alla radice di cinque volte la larghezza, mentre nell’architrave in facciata il rettangolo aureo è ripetuto più volte. Altre applicazioni si trovano nel design, e studi recenti mostrano che continua ancora a giocare un ruolo importante nella nostra percezione della bellezza. Nella moda (modellistica) Nel campo dell’abbigliamento, in particolare nella modellistica, da indagini successive di Leonardo Da Vinci è scatu- rita la rappresentazione della figura maschile divisa in 8 moduli, che ha un’armonia analoga a quella del corpo fem- minile, anche se sussistono lievi differenze, come ad esempio spalla e bacino nella donna sono iscrivibili in un rettan- golo mentre per l’uono in un trapezio.
  • 21. Il ruolo dell’estetica al giorno d’oggi Gli studi e le interpretazioni letterarie e filosofiche del passato riguardo il concetto di estetismo, hanno lasciato una traccia molto profonda nel mondo odierno, ed è possibile accorgersene ed evidenziarlo soltanto guardandoci intorno. Quanto può influenzare oggi l’aspetto di una persona? Quale ruolo può avere la bellezza nel mondo dello spettacolo, del lavoro o della scuola? Quanto conta l’apparire? Ricerche e indagini psicologiche e scientifiche mostrano come le persone di aspetto gradevole siano molto più avvantaggiate di quelle meno attraenti, in tutti i campi. Sembra impossibile in che in un mondo “evoluto” e progredito come il nostro, possano esistere dei criteri basati sulla superficialità, invece che sull’essere e non apparire. Eppure mai come ora questo aspetto è reso importante. Scientificità dell’argomento Da sempre esistono detti come “Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace” oppure “la bellezza sta negli occhi di chi guarda”. Al con- trario invece, è stato provato attraverso degli studi psicologici, che la bellezza ha delle leggi tutt’altro che soggettive: la statura, la conformazione dei denti, la grandezza della pupilla, il colore dell’iride, la presenza di occhiali, l’assenza o presenza di barba, la lunghezza e il colore dei capelli, la grandezza e rotondità di occhi e labbra, le proporzioni del volto, la colorazione della pelle, la forma e grandezza del naso, il peso, la conformazione muscolare, il rapporto tra larghezza dei fianchi e della vita, la conformazione delle gambe, la presenza di difetti dermatologici come ne, lentiggini, per citare solo alcuni esempi che la ricerca ha dimostrato contribuire significativamente alla valutazione dell’attrattività estetica di un individuo. Conseguenze della bellezza/non bellezza nella quotidianità Per rendersi conto dell’importanza nella vita di tutti i giorni, basti pensare al caso negativo. Una sfigurazione del volto in seguito ad un incidente o a una malattia dermatologica possono minare a fondo l’autostima e compromettere l’opportunità di avere buoni rapporti interpersonali, di tro- vare un partner o un lavoro. Si può pensare ai problemi di autostima e sicurezza di sé suscitati dall’acne negli adolescenti e a tutti i tentativi messi in atto per nascondere ed eliminare le rughe e altri segni della vecchiaia. Se mettiamo a confronto una persona bella con una meno attraente, a parità di contenuto comunicativo, le persone belle sono più persuasive di quelle esteticamente meno affascinanti. Inoltre, trovano più facilmente lavoro e tendono ad avere impieghi più prestigiosi. Sul piano giudiziario, le persone gradevoli tendono a essere giudicate meno colpevoli rispetto a persone non attraenti e il loro comportamento, anche se sbagliato, viene giustificato da “cause esterne”, anziché associarlo alla volontà colpevole dell’individuo. Bellezza nel lavoro L’attrattività di una persona gioca un ruolo importante anche nell’assunzione per un posto di lavoro. Infatti, come ci si aspetta dalle ricerche prec- edenti, le persone belle tendono a raggiungere postazioni di lavoro più prestigiose e con più successo, dovuto all’autostima.
  • 22. Estetica nella politica Nell’ambito politico, più che negli altri, il ruolo della bellezza dovrebbe essere molto subordinato a quello della personalità, dell’intelligenza. Un esempio evidente, si è verificato in una ricerca svolta durante la campagna elettorale che vedeva come sfidanti Kennedy e Nixon dove in un sondaggio emerse che chi ascoltava la radio propendeva per Nixon, mentre i telespettatori preferivano il più affascinante Kennedy. Conclusioni Da quanto analizzato si evince il fondamentale ruolo che la bellezza ha assunto fin dai tempi dell’antichità, e che tutt’oggi continua ad avere. Ho sempre visto la bellezza come sinonimo di sentimento. Bello è ciò che riesce a trasmetterci sensazioni, ciò che riesce a coinvolgerci, a stupirci e tal- volta anche ci spaventa. Tale concezione può trovare interpretazione nel sublime, così grande ed elevato, esso è in grado di trasmetterci fortissime emozioni che spaziano dall’incanto al vero e proprio terrore. La potenza di tali sentimenti, racchiusa nella bellezza e nella sua massima espressione, il sublime, mi hanno spinto alla elaborazione di una tesina che avesse proprio tale concezione come tema principale.Ho trovato interessante in- terpretare il pensiero e lo stile di vita di personaggi che come D’Annunzio, Baudelaire, Wilde, hanno fatto della loro vita una vera e propria opera d’arte, cristallizzando il concetto di bellezza e facendo di esso tutta la loro vita.Il loro stile di vita, così narcisista ed egocentrico, è stato per me ispirazione nel trovare un titolo che si adattasse alla mia tesina. Un titolo che oltretutto penso possa descrivere parte dell’importanza che al giorno d’oggi all’estetica viene attribuita. La bellezza appare quasi come un paradiso, in quanto sinonimo di grazia, armonia ma l’eccessiva importanza che ad essa viene attribuita, la porta però a trasformarsi in un qualcosa di artificiale, finto, soltanto apparente. Dando troppa importanza all’estetica, si rischia che vengano dimenticati i veri valori in grado di rendere davvero bella una persona, in altre parole i valori che hanno origine dall’interiorità.