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OLTRE IL RECINTO DELLA FOLLIA


       A metà degli anni 70, ero al liceo, quando il mio sguardo incredulo, sbigottito,
si è poggiato per la prima volta su un mondo altro. Il mio liceo, a Cagliari, confinava
con il manicomio, così lo chiamavano tutti, e quell’anno la mia aula era ai piani alti
dell’edificio. Incorniciato dalle finestre del corridoio, si apriva un indimenticabile
quadro dell’orrore: corpi nudi e smagriti che si muovevano stancamente in un piazzale,
alcuni si masturbavano… Umanità degradata, animali da allevamento. Spettacolo
letteralmente osceno, cioè tenuto fuori dalla scena sociale da spesse mura, che solo per
una coincidenza mi si presentava davanti…


       Diversi anni dopo, mi trasferii a Bologna e iniziai a lavorare per una cooperativa
sociale, prima con un gruppo di ragazzi immigrati e poi nella scuola con ragazzi
disabili. In una scuola elementare, era il 1997, ho incontrato bambini autistici, un
incontro simile ad un destino. Da quell’anno, per oltre dieci anni, ho sempre avuto a
che fare, eccetto qualche piccola interruzione, con persone autistiche. Bambini come
loro quando io facevo le scuole elementari non si vedevano, erano invisibili, chiusi da
qualche parte. Il loro destino era segnato: la follia non aveva diritto di cittadinanza!


       Tra gli anni del liceo e le mie esperienze come educatore, in mezzo c’è stata la
Legge Basaglia, la legge 180 del 1978. Anche la Cooperativa per cui ho lavorato, come
tante altre, è nata appena dopo questa legge, nel 1979, da un gruppo di medici che
volevano uscire dai loro ambulatori per portare le loro conoscenze nel sociale, da
medici (il nome della Cooperativa, una delle prime di Bologna, è infatti Nuova Sanità).


       Di recente è andato in onda su Rai 1 uno sceneggiato, molto ben fatto, sulla vita
di Basaglia. Anche chi non si è mai occupato di psichiatria può comprendere dalle
immagini la rivoluzione italiana avvenuta in quegli anni. Forse l’unica rivoluzione
realizzata. “Marco cavallo” sfonda il recinto e la follia torna ad abitare la città. Uno
psichiatra divinamente folle ha liberato i folli.


       Le domande che Basaglia iniziò a porsi al suo ingresso nel manicomio di Gorizia
erano apparentemente ingenue: <<Come faccio a sapere che malattia ha una persona
legata in un letto di contenzione da 15 anni? Come faccio a sapere di che cosa soffre un
individuo a cui sono stati tolti, oltre ai suoi abiti, tutti gli oggetti personali, in cui poter
rintracciare una pallida memoria di sé?>>.


        Le domande “ingenue”, in realtà, interrogavano sul senso implicito del
manicomio. Come spesso accade anche ad altre istituzioni, il vero fine è l’auto-
conservazione dell’istituzione stessa, che ha bisogno di qualcuno di cui “prendersi
cura”, della loro “cronicità”. Le “cure”, allora, diventano nel migliore dei casi tecniche
per tenere buoni coloro che non si rassegnavano ad essere cronicamente reclusi dentro i
recinti della follia. La psichiatria, di fatto, in quegli anni legittimava “scientificamente”
solo pratiche di tortura: bagni d´acqua gelata, lobotomia, elettroshock…


        Ripercorrendo le pagine della Storia della follia nell’età classica di Foucault
possiamo scorgere le radici di questa istituzione. Con l’ avvento della Ragione, nel
XVII secolo, si inizia a tracciare una linea di demarcazione tra spazio sociale e follia, e
alla follia si riserva una zona dove potersi manifestare all’oscuro di tutti. Le strutture
lasciate libere dai lebbrosi rivelano finalmente la loro utilità nell’accogliere una vasta
umanità di individui respinti dalla città, diventando ospedali e carceri per individui di
ogni tipo ed estrazione sociale. Emblema delle nuove strutture finalizzate all’isolamento
è l’Hopital General di Parigi, fondato nel 1656, che viene definito da Foucault "il terzo
stato della repressione". Si tratta appunto di uno dei primi ospedali destinati ad
accogliere e "correggere" i folli e gli alienati.

        Ogni forma sociale che si scontra contro la lucida razionalità secentesca viene
imprigionata. Anche certe stravaganze "libertine" come quelle di De Sade saranno viste
affini con la problematica della follia e del delirio; saranno ammesse facilmente la
magia, l’alchimia, le pratiche profanatrici e pure certe forme di sessualità verranno
apparentate con la Sragione. L’omosessualità e la sodomia verranno punite come
sintomi di follia (se pensiamo che sia passato remoto, ricordiamoci che solo nel 1987
l’omosessualità è stata derubricata dal principale manuale diagnostico della psichiatria).

        Quando Basaglia entra nel manicomio di Gorizia, incontra un paesaggio umano
non molto diverso da quello dell’Hopital General. Non solo follia, ma anche miseria,
emarginazione, abbandono, spersonalizzazione, insomma tutti quei parenti stretti della
follia che deviano dalla norma.

       Scrive Basaglia: "La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è
presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe
accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, per
tradurre la ‘follia´ in ‘malattia´ allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua
ragion d´essere che è poi quella di far diventare razionale l´irrazionale. Quando
qualcuno è folle ed entra in manicomio smette di essere ‘folle´ per trasformarsi in
‘malato´. Diventa razionale in quanto malato".

       Il manicomio per guarire il folle gli leva ciò che più rende umani, la propria
soggettività. Per questo Basaglia domanda: "Se a voi, medici e infermieri, togliessero
tutte le cose più care che avete in casa, che cosa resta di voi?" La cura ha ragion
d’essere solo a partire dal riconoscimento della soggettività del folle, una soggettività
con cui entrare in relazione. Andrea Canevaro mi raccontava che un giorno si recò a
trovare Basaglia. Gli operatori sanitari non volevano farlo entrare perché “Il Dottor
Basaglia è impegnato nella terapia di riabilitazione!”. Alla fine riuscì ad entrare e trovò
Basaglia intento a giocare a carte con i “folli”. Giocare a carte era parte della terapia,
una terapia basata sulla relazione.

       Entrare in relazione significa tentare di andare oltre la distanza. Peppe
Dell’Acqua, stretto collaboratore di Basaglia, intervistato da Animazione Sociale per il
trentennale della Legge 180 (quindi nel 2008) risponde così ad una domanda
dell’intervistatore su come avvicinarsi nelle prassi allo spirito della legge:

      Prima ancora di parlare di proposte organizzative, di modelli, bisogna ripartire da un
      gesto, da una scelta fondativa. Basaglia entra nel manico mio di Gorizia e azzera la
      gerarchia, trasgredisce la distanza tra il medico e il paziente, scom mette il suo potere
      e il suo sapere clinico con le persone (corsivo nostro). La riduzione delle distanze e la
      restituzione di possibilità si realizza nell’estenuante lavoro pratico. Alla fine abbiamo
      capito che non esiste altro valore nelle nostre azioni se non quando producono cose
      che si fanno e che si vedono. Che sono evidenti nella loro forza trasformativa, nella
      loro intenzione critica e antagonista.
      Anche la psichiatria parla di “evidence based”, è vero, ma sai quali sono le loro
      evidenze? Di come funzionano i farmaci, di come bisogna legare le persone, di come
      difendersi con sicurezza dall’aggressività e dalla pericolosità del paziente psichiatrico.
      Queste sono le loro evidenze. Le evidenze sulle quali invece noi dobbiamo lavorare
      sono le evidenze delle pratiche. Allora quello che per noi è risultato evidente in questi
      anni è che i territori vanno abitati, che la distanza che si crea tra noi e l’altro va
      abitata, che la follia va abitata.(corsivo nostro)

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Oltre il recinto della follia

  • 1. OLTRE IL RECINTO DELLA FOLLIA A metà degli anni 70, ero al liceo, quando il mio sguardo incredulo, sbigottito, si è poggiato per la prima volta su un mondo altro. Il mio liceo, a Cagliari, confinava con il manicomio, così lo chiamavano tutti, e quell’anno la mia aula era ai piani alti dell’edificio. Incorniciato dalle finestre del corridoio, si apriva un indimenticabile quadro dell’orrore: corpi nudi e smagriti che si muovevano stancamente in un piazzale, alcuni si masturbavano… Umanità degradata, animali da allevamento. Spettacolo letteralmente osceno, cioè tenuto fuori dalla scena sociale da spesse mura, che solo per una coincidenza mi si presentava davanti… Diversi anni dopo, mi trasferii a Bologna e iniziai a lavorare per una cooperativa sociale, prima con un gruppo di ragazzi immigrati e poi nella scuola con ragazzi disabili. In una scuola elementare, era il 1997, ho incontrato bambini autistici, un incontro simile ad un destino. Da quell’anno, per oltre dieci anni, ho sempre avuto a che fare, eccetto qualche piccola interruzione, con persone autistiche. Bambini come loro quando io facevo le scuole elementari non si vedevano, erano invisibili, chiusi da qualche parte. Il loro destino era segnato: la follia non aveva diritto di cittadinanza! Tra gli anni del liceo e le mie esperienze come educatore, in mezzo c’è stata la Legge Basaglia, la legge 180 del 1978. Anche la Cooperativa per cui ho lavorato, come tante altre, è nata appena dopo questa legge, nel 1979, da un gruppo di medici che volevano uscire dai loro ambulatori per portare le loro conoscenze nel sociale, da medici (il nome della Cooperativa, una delle prime di Bologna, è infatti Nuova Sanità). Di recente è andato in onda su Rai 1 uno sceneggiato, molto ben fatto, sulla vita di Basaglia. Anche chi non si è mai occupato di psichiatria può comprendere dalle immagini la rivoluzione italiana avvenuta in quegli anni. Forse l’unica rivoluzione realizzata. “Marco cavallo” sfonda il recinto e la follia torna ad abitare la città. Uno psichiatra divinamente folle ha liberato i folli. Le domande che Basaglia iniziò a porsi al suo ingresso nel manicomio di Gorizia erano apparentemente ingenue: <<Come faccio a sapere che malattia ha una persona legata in un letto di contenzione da 15 anni? Come faccio a sapere di che cosa soffre un
  • 2. individuo a cui sono stati tolti, oltre ai suoi abiti, tutti gli oggetti personali, in cui poter rintracciare una pallida memoria di sé?>>. Le domande “ingenue”, in realtà, interrogavano sul senso implicito del manicomio. Come spesso accade anche ad altre istituzioni, il vero fine è l’auto- conservazione dell’istituzione stessa, che ha bisogno di qualcuno di cui “prendersi cura”, della loro “cronicità”. Le “cure”, allora, diventano nel migliore dei casi tecniche per tenere buoni coloro che non si rassegnavano ad essere cronicamente reclusi dentro i recinti della follia. La psichiatria, di fatto, in quegli anni legittimava “scientificamente” solo pratiche di tortura: bagni d´acqua gelata, lobotomia, elettroshock… Ripercorrendo le pagine della Storia della follia nell’età classica di Foucault possiamo scorgere le radici di questa istituzione. Con l’ avvento della Ragione, nel XVII secolo, si inizia a tracciare una linea di demarcazione tra spazio sociale e follia, e alla follia si riserva una zona dove potersi manifestare all’oscuro di tutti. Le strutture lasciate libere dai lebbrosi rivelano finalmente la loro utilità nell’accogliere una vasta umanità di individui respinti dalla città, diventando ospedali e carceri per individui di ogni tipo ed estrazione sociale. Emblema delle nuove strutture finalizzate all’isolamento è l’Hopital General di Parigi, fondato nel 1656, che viene definito da Foucault "il terzo stato della repressione". Si tratta appunto di uno dei primi ospedali destinati ad accogliere e "correggere" i folli e gli alienati. Ogni forma sociale che si scontra contro la lucida razionalità secentesca viene imprigionata. Anche certe stravaganze "libertine" come quelle di De Sade saranno viste affini con la problematica della follia e del delirio; saranno ammesse facilmente la magia, l’alchimia, le pratiche profanatrici e pure certe forme di sessualità verranno apparentate con la Sragione. L’omosessualità e la sodomia verranno punite come sintomi di follia (se pensiamo che sia passato remoto, ricordiamoci che solo nel 1987 l’omosessualità è stata derubricata dal principale manuale diagnostico della psichiatria). Quando Basaglia entra nel manicomio di Gorizia, incontra un paesaggio umano non molto diverso da quello dell’Hopital General. Non solo follia, ma anche miseria, emarginazione, abbandono, spersonalizzazione, insomma tutti quei parenti stretti della follia che deviano dalla norma. Scrive Basaglia: "La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, per
  • 3. tradurre la ‘follia´ in ‘malattia´ allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d´essere che è poi quella di far diventare razionale l´irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in manicomio smette di essere ‘folle´ per trasformarsi in ‘malato´. Diventa razionale in quanto malato". Il manicomio per guarire il folle gli leva ciò che più rende umani, la propria soggettività. Per questo Basaglia domanda: "Se a voi, medici e infermieri, togliessero tutte le cose più care che avete in casa, che cosa resta di voi?" La cura ha ragion d’essere solo a partire dal riconoscimento della soggettività del folle, una soggettività con cui entrare in relazione. Andrea Canevaro mi raccontava che un giorno si recò a trovare Basaglia. Gli operatori sanitari non volevano farlo entrare perché “Il Dottor Basaglia è impegnato nella terapia di riabilitazione!”. Alla fine riuscì ad entrare e trovò Basaglia intento a giocare a carte con i “folli”. Giocare a carte era parte della terapia, una terapia basata sulla relazione. Entrare in relazione significa tentare di andare oltre la distanza. Peppe Dell’Acqua, stretto collaboratore di Basaglia, intervistato da Animazione Sociale per il trentennale della Legge 180 (quindi nel 2008) risponde così ad una domanda dell’intervistatore su come avvicinarsi nelle prassi allo spirito della legge: Prima ancora di parlare di proposte organizzative, di modelli, bisogna ripartire da un gesto, da una scelta fondativa. Basaglia entra nel manico mio di Gorizia e azzera la gerarchia, trasgredisce la distanza tra il medico e il paziente, scom mette il suo potere e il suo sapere clinico con le persone (corsivo nostro). La riduzione delle distanze e la restituzione di possibilità si realizza nell’estenuante lavoro pratico. Alla fine abbiamo capito che non esiste altro valore nelle nostre azioni se non quando producono cose che si fanno e che si vedono. Che sono evidenti nella loro forza trasformativa, nella loro intenzione critica e antagonista. Anche la psichiatria parla di “evidence based”, è vero, ma sai quali sono le loro evidenze? Di come funzionano i farmaci, di come bisogna legare le persone, di come difendersi con sicurezza dall’aggressività e dalla pericolosità del paziente psichiatrico. Queste sono le loro evidenze. Le evidenze sulle quali invece noi dobbiamo lavorare sono le evidenze delle pratiche. Allora quello che per noi è risultato evidente in questi anni è che i territori vanno abitati, che la distanza che si crea tra noi e l’altro va abitata, che la follia va abitata.(corsivo nostro)