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Il prodotto Italia: dalla notorietà al consolidamento
Giorgio Castoldi

“L’Italia ha il maggior patrimonio artistico-culturale del mondo”. Quante volte abbiamo sentito
ripetere questa frase?
Qualcuno cerca di rafforzare l’affermazione citando i numeri del Touring Club: 95.000 chiese
monumentali, 40.000 fra rocche e castelli, 30.000 dimore storiche con 4.000 giardini, 36.000 fra
archivi e biblioteche, 20.000 centri storici, 5.600 musei ed aree archeologiche, 1.500 conventi.
Emilio Becheri da anni osserva che per fare un paragone bisognerebbe da una parte definire meglio
l’oggetto del confronto e dall’altra disporre di dati certi da affiancare.
In realtà il punto è un altro: la famosa (e ormai un po’ stucchevole) frase è per lo più usata per
cercare di dare risposta a chi chiede come mai un’offerta così ricca dia luogo a una domanda
continuamente in calo.
La cosa interessante è che chi fornisce una giustificazione formale e retorica, in realtà finisce per
mostrare, forse involontariamente, quella vera.
Il messaggio talvolta implicito ma spesso anche esplicito è che il colpevole è chi non capisce, non
sa, non accorre, non approfitta. Insomma, il colpevole è il turista, che qualche sociologo continua a
contrapporre, nella sua miseria culturale, al ben più preparato e gradevole “viaggiatore”.
Gli aspetti discutibili di questo messaggio sono molti.
Vediamone alcuni.
Il primo è il più banale: il turismo, tutti lo riconoscono a parole, costituisce un consumo di massa e
quindi il suo mercato segue le regole del mass marketing, materia in continua evoluzione ma ormai
studiata in tutti i settori produttivi coinvolti.
In sostanza siamo ancora fermi a quel che il vecchio Kotler (il guru del marketing) stigmatizzava
circa quarant’anni fa: siamo orientati al prodotto e ci occupiamo poco di applicare la regola numero
uno del marketing, che consiste nel comprendere i bisogni dei potenziali consumatori e trasformarli
in desiderio di acquisto.
Ma c’è di più.
Un prodotto, per essere tale, per essere cioè qualche cosa di vendibile, si deve sempre comporre di
tre elementi: una materia prima, una trasformazione, una distribuzione.
E in una cultura che è arrivata al postfordismo, cioè a un modo di produrre e quindi di pensare che
ha perso le sue connotazioni di organizzazione di tipo manifatturiero, sempre più legata al servizio e
inevitabilmente votata dalle delocalizzazioni alla ricerca del servizio creativo, si parla addirittura di
società liquida, cioè di una società che, come l’acqua, non ha forma, ma assume di volta in volta
quella dei contenitori.
In una situazione del genere il valore della materia prima, nella creazione del prodotto, è sempre più
irrilevante. In un paio di scarpe che, già imballate, escono dalla Malaysia a 2,70 dollari e in Europa
sono vendute a più di 100 euro è evidente che non solo la materia prima, ma anche il processo di
trasformazione non valgono quasi nulla.
E il nostro famoso patrimonio artistico altro non è che materia prima.
Come mai la città più visitata del mondo è Las Vegas, che di materia prima (artistica, climatica,
paesaggistica) non ha proprio nulla?
Come mai il ponte di Millau, una bella opera ingegneristica nel centro della Francia, ma pur sempre
un ponte, con il suoi due milioni e mezzo di visitatori, ha otto volte quelli di Agrigento?
Perché Lourdes ha più arrivi turistici di Roma?
L’elenco delle apparenti incongruenze potrebbe continuare a lungo.
Certo, si può dire, chi nel mondo non conosce il Colosseo e non vuole vederlo? La tour Eiffel, il
Big Ben, l’Empire State Building sono simboli noti, visti e rivisti alla televisione, al cinema, sulle
riviste, sui libri di studio.
Si può dire che hanno una bella distribuzione…
E costituiscono una materia prima trasformata dal fatto di essere mostrati dappertutto. Insomma,
una materia prima che diventa un prodotto-notorietà.
Quanti italiani, a Copenhagen, resistono alla tentazione di percorre l’interminabile strada del porto
che conduce a quel deludente oggetto di bronzo che è la sirenetta?
La caratteristica del prodotto-notorietà è questa. Lo si va a vedere perché è conosciuto, non se ne
può fare a meno. Come rinunciare a una fotografia che ha sulla sfondo San Pietro, in particolare
sotto la finestra da cui tutte le domeniche vediamo il Papa in televisione? E farsi ritrarre sotto il
balcone di Romeo e Giulietta a Verona? Oggi ci si può anche sposare.
Il prodotto notorietà è facile per chi lo propone: non deve fare nulla, si costruisce da solo.
Ecco, forse si potrebbe trasformare la frase riferita all’inizio proprio in questi termini: “L’Italia
assomma una quantità molto grande di elementi di patrimonio artistico culturale famosi”.
Beh, però, allora, per un americano, andare al Venice di Las Vegas, dove il Canal Grande è più
grande e ha anche l’acqua pulita è più facile, meno costoso e forse più divertente.
La notorietà è un elemento di trasformazione della materia prima facile ma ambiguo. In molti casi
volatile, come sa chi la notorietà l’ha cercata tramite film e fiction non supportate da altri elementi.
Come sanno a Salsomaggiore, la città che, pur comparendo per qualche giorno all’anno in prima
serata alla televisione grazie a Miss Italia, pur essendo citata in tutti i giornali, nonostante sia vista
da milioni di persone per ore, ancora per la maggior parte degli spettatori ha una collocazione
geografica sconosciuta.
Ma se Firenze ha “quel” Palazzo Vecchio, Venezia ha “quel” San Marco, Napoli ha “quella” Piazza
Politeama non si possono certo cambiare…
Ed ecco l’errore. Le materie prime, tutte le materie prime, come la plastica, possono essere
manipolate, formate, sformate, trasformate nei prodotti più diversi.
La Piazza Argentina di Roma non necessariamente dovrebbe essere un rifugio per gatti, la via dei
Calzaiuoli a Firenze potrebbe anche non essere il regno del fast food, del gelato e
dell’abbigliamento a basso prezzo, la Piazza Duomo a Milano potrebbe anche non ospitare
capannoni con le esposizioni più strane e ingombranti.
Forse la via tracciata da chi organizza esposizioni e mostre di successo, che fanno vedere come la
notorietà si possa consolidare se unita alla divulgazione, è quella giusta.
Forse le destinazioni turistiche, prima di proporle si potrebbe “pensarle”, applicando a esse, in
quanto prodotti, tecniche di marketing collaudate e consolidate.
Forse.

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  • 1. Il prodotto Italia: dalla notorietà al consolidamento Giorgio Castoldi “L’Italia ha il maggior patrimonio artistico-culturale del mondo”. Quante volte abbiamo sentito ripetere questa frase? Qualcuno cerca di rafforzare l’affermazione citando i numeri del Touring Club: 95.000 chiese monumentali, 40.000 fra rocche e castelli, 30.000 dimore storiche con 4.000 giardini, 36.000 fra archivi e biblioteche, 20.000 centri storici, 5.600 musei ed aree archeologiche, 1.500 conventi. Emilio Becheri da anni osserva che per fare un paragone bisognerebbe da una parte definire meglio l’oggetto del confronto e dall’altra disporre di dati certi da affiancare. In realtà il punto è un altro: la famosa (e ormai un po’ stucchevole) frase è per lo più usata per cercare di dare risposta a chi chiede come mai un’offerta così ricca dia luogo a una domanda continuamente in calo. La cosa interessante è che chi fornisce una giustificazione formale e retorica, in realtà finisce per mostrare, forse involontariamente, quella vera. Il messaggio talvolta implicito ma spesso anche esplicito è che il colpevole è chi non capisce, non sa, non accorre, non approfitta. Insomma, il colpevole è il turista, che qualche sociologo continua a contrapporre, nella sua miseria culturale, al ben più preparato e gradevole “viaggiatore”. Gli aspetti discutibili di questo messaggio sono molti. Vediamone alcuni. Il primo è il più banale: il turismo, tutti lo riconoscono a parole, costituisce un consumo di massa e quindi il suo mercato segue le regole del mass marketing, materia in continua evoluzione ma ormai studiata in tutti i settori produttivi coinvolti. In sostanza siamo ancora fermi a quel che il vecchio Kotler (il guru del marketing) stigmatizzava circa quarant’anni fa: siamo orientati al prodotto e ci occupiamo poco di applicare la regola numero uno del marketing, che consiste nel comprendere i bisogni dei potenziali consumatori e trasformarli in desiderio di acquisto. Ma c’è di più. Un prodotto, per essere tale, per essere cioè qualche cosa di vendibile, si deve sempre comporre di tre elementi: una materia prima, una trasformazione, una distribuzione. E in una cultura che è arrivata al postfordismo, cioè a un modo di produrre e quindi di pensare che ha perso le sue connotazioni di organizzazione di tipo manifatturiero, sempre più legata al servizio e inevitabilmente votata dalle delocalizzazioni alla ricerca del servizio creativo, si parla addirittura di società liquida, cioè di una società che, come l’acqua, non ha forma, ma assume di volta in volta quella dei contenitori. In una situazione del genere il valore della materia prima, nella creazione del prodotto, è sempre più irrilevante. In un paio di scarpe che, già imballate, escono dalla Malaysia a 2,70 dollari e in Europa sono vendute a più di 100 euro è evidente che non solo la materia prima, ma anche il processo di trasformazione non valgono quasi nulla. E il nostro famoso patrimonio artistico altro non è che materia prima. Come mai la città più visitata del mondo è Las Vegas, che di materia prima (artistica, climatica, paesaggistica) non ha proprio nulla? Come mai il ponte di Millau, una bella opera ingegneristica nel centro della Francia, ma pur sempre un ponte, con il suoi due milioni e mezzo di visitatori, ha otto volte quelli di Agrigento? Perché Lourdes ha più arrivi turistici di Roma? L’elenco delle apparenti incongruenze potrebbe continuare a lungo. Certo, si può dire, chi nel mondo non conosce il Colosseo e non vuole vederlo? La tour Eiffel, il Big Ben, l’Empire State Building sono simboli noti, visti e rivisti alla televisione, al cinema, sulle riviste, sui libri di studio. Si può dire che hanno una bella distribuzione…
  • 2. E costituiscono una materia prima trasformata dal fatto di essere mostrati dappertutto. Insomma, una materia prima che diventa un prodotto-notorietà. Quanti italiani, a Copenhagen, resistono alla tentazione di percorre l’interminabile strada del porto che conduce a quel deludente oggetto di bronzo che è la sirenetta? La caratteristica del prodotto-notorietà è questa. Lo si va a vedere perché è conosciuto, non se ne può fare a meno. Come rinunciare a una fotografia che ha sulla sfondo San Pietro, in particolare sotto la finestra da cui tutte le domeniche vediamo il Papa in televisione? E farsi ritrarre sotto il balcone di Romeo e Giulietta a Verona? Oggi ci si può anche sposare. Il prodotto notorietà è facile per chi lo propone: non deve fare nulla, si costruisce da solo. Ecco, forse si potrebbe trasformare la frase riferita all’inizio proprio in questi termini: “L’Italia assomma una quantità molto grande di elementi di patrimonio artistico culturale famosi”. Beh, però, allora, per un americano, andare al Venice di Las Vegas, dove il Canal Grande è più grande e ha anche l’acqua pulita è più facile, meno costoso e forse più divertente. La notorietà è un elemento di trasformazione della materia prima facile ma ambiguo. In molti casi volatile, come sa chi la notorietà l’ha cercata tramite film e fiction non supportate da altri elementi. Come sanno a Salsomaggiore, la città che, pur comparendo per qualche giorno all’anno in prima serata alla televisione grazie a Miss Italia, pur essendo citata in tutti i giornali, nonostante sia vista da milioni di persone per ore, ancora per la maggior parte degli spettatori ha una collocazione geografica sconosciuta. Ma se Firenze ha “quel” Palazzo Vecchio, Venezia ha “quel” San Marco, Napoli ha “quella” Piazza Politeama non si possono certo cambiare… Ed ecco l’errore. Le materie prime, tutte le materie prime, come la plastica, possono essere manipolate, formate, sformate, trasformate nei prodotti più diversi. La Piazza Argentina di Roma non necessariamente dovrebbe essere un rifugio per gatti, la via dei Calzaiuoli a Firenze potrebbe anche non essere il regno del fast food, del gelato e dell’abbigliamento a basso prezzo, la Piazza Duomo a Milano potrebbe anche non ospitare capannoni con le esposizioni più strane e ingombranti. Forse la via tracciata da chi organizza esposizioni e mostre di successo, che fanno vedere come la notorietà si possa consolidare se unita alla divulgazione, è quella giusta. Forse le destinazioni turistiche, prima di proporle si potrebbe “pensarle”, applicando a esse, in quanto prodotti, tecniche di marketing collaudate e consolidate. Forse.