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Unione Europea: la BCE frena o stimola la
crescita ?
Friedrich Magnani
(31 gennaio 2006)
Unione Europea: la BCE frena o stimola la crescita ?
Il 6 dicembre 2005 la Banca Centrale Europea, per la prima volta dopo
due anni e mezzo, alza il costo del denaro portando dal 2% al 2,25% il
tasso d’interesse di riferimento per l’area euro: decisione motivata dai
rincari dei prezzi energetici che ha spinto l’inflazione complessiva su livelli
superiori al 2%.
Friedrich Magnani
Mentre i mercati festeggiano la stretta tanto attesa i governi europei non tardano ad
esprimere il loro dissenso. La scuola del rigore nel mantenimento della stabilità dei prezzi
(iniziata con la Bundesbank) non convince anche molti premi nobel dell’economia che
preferirebbero una politica di “ wait and see”, secondo le parole dell’economista Robert
Mundell al Millenium Colloquia di Venezia (1-3 dicembre 2005), nel timore che questo
aumento del costo del denaro possa soffocare l’incipiente ripresa. A parere di altri economisti
la bassa crescita delle grandi economie europee ha ben poco a che fare con i tassi
d’interesse. Così scrive il professore di Harvard, Alberto Alesina su Il Sole 24 Ore del 19
novembre scorso sostenendo che la stagnazione dipenda piuttosto da altri fattori quali la
rigidità dei mercati dei beni e del lavoro e la scarsa concorrenza nel settore dei servizi.
A quasi due mesi di distanza i timori sembrano affievolirsi mentre sembra prendere strada
un cauto ottimismo. “L’economia mondiale sta migliorando”. Così si esprime il presidente della
Banca Centrale Europea, Jean-Claude Trichet al meeting dei governatori delle banche
centrali europee di Basilea lo scorso 9 gennaio, ricordando altresì di tener presente come i
prezzi siano sempre ancorati alle aspettative d’inflazione. La più recente stima dell’Eurostat
conferma un +0,6% di PIL per l’area euro25 nel quarto trimestre 2005 e per i primi mesi del
2006, malgrado l’impatto degli elevati prezzi del petrolio. Questi ultimi continuano a far
mantenere relativamente alto il tasso d’inflazione nell’eurozona che rimane stabile al 2,2% di
dicembre. Le aspettative inflazionistiche sui prezzi energetici danno ragione ai timori della
BCE.
Se torniamo indietro nella storia delle grandi strette monetarie troviamo quella della
Bundesbank dei primi anni’90. Essa alzo i tassi d’interesse e riuscì ad evitare ondate
inflazionistiche in una Germania da poco riunificata e alle prese con pesanti costi di
ricostruzione nei Laender dell’Est. L’impatto di tale decisione sui tassi di cambio costrinse
alcuni Paesi europei ad uscire dal Sistema Monetario Europeo e usare la leva della
svalutazione competitiva. Furono anni fondamentali per il processo di integrazione europea
che portarono alla firma del noto Trattato di Maastricht e dei suoi ancor più noti parametri
che da qualche anno l’Europa non rispetta più.
La mossa della BCE è lontana dall’essere drastica come quella della Bundesbank ma non
1 di 3Copyright (c) Equilibri.net - (31 gennaio 2006)
dimentichiamoci che l’Istituto di Francoforte ha preso in pieno l’eredità della banca centrale
tedesca.
Dagli anni’60 fino alla fine degli anni’70 molti economisti sostennero la tesi che un più alto
tasso d’inflazione avrebbe garantito nel lungo termine un minor tasso di disoccupazione
partendo dai presupposti della famosa teoria dell’illusione monetaria dell’economista Phillips.
In quegl’anni gli obbiettivi della stabilità monetaria e della lotta all’inflazione non furono
considerati una priorità. Le conseguenze si fecero presto sentire. Alle prime crisi energetiche
degli anni’70 l’Europa e gli Stati Uniti conobbero nuovamente, come non accadeva da anni,
un tasso d’inflazione a due cifre. All’inflazione seguirono le note strette monetarie come
quelle della FED del governatore Volker che fu alla base del nuovo corso di politica
economica dell’allora presidente Reagan. In vista della moneta unica anche l’Europa come già
ricordato prima decise di stringere la cinghia e di tenere alta l’attenzione sulla stabilità
monetaria, presupposto fondamentale perché ci fosse la fiducia dei mercati internazionali
nella moneta unica. Tutti i Paesi europei con qualche eccezione ( il debito pubblico che
l’Italia continuò a mantenere oltre la soglia del 60% del PIL) seguirono pedissequamente le
decisioni prese a Maastricht ed entrarono trionfalmente nell’ultima fase del processo di
unione economica e monetaria.
Arrivati all’euro e siamo già al nuovo millennio, si allenta la tensione e i governi europei a
fronte di nuove politiche di spesa pubblica iniziano a mal sopportare i vincoli posti a
Maastricht e consolidati con il Patto di Stabilità e Crescita nel 1997. Il rigore lascia spazio alle
“interpretazioni intelligenti” e quindi in pratica a una maggior autonomia dei governi nazionali
nella gestione dei loro deficit di bilancio. Ed è così che Francia, Germania e Italia
oltrepassano il limite del deficit al 3% del PIL.
La politica monetaria, da molti anni è ormai una prerogativa delle banche centrali e non più
dei governi. Il signoraggio, (l’asservimento della banca centrale al governo del Paese) e
quindi “lo stampar moneta” per far fronte ai deficit pubblici, è stato da tempo abbandonato. Le
banche centrali sono fiere della loro autonomia che ne garantisce l’imparzialità e l’efficacia nel
raggiungimento dei loro obbiettivi. I Paesi europei non possono più stimolare la competitività
delle loro esportazioni con svalutazioni della loro moneta. Tra questi l’Italia ne soffre di più
anche a causa di una bassa diversificazione produttiva dei beni all’esportazione.
A fronte di ciò molto diffusa è l’opinione che spetti quindi alla Banca Centrale Europea porre
nelle sue priorità la crescita piuttosto che un basso tasso d’inflazione, immettendo o drenando
liquidità monetaria in funzione delle aspettative inflazionistiche o deflazionistiche. Se i Paesi
europei optassero per delle politiche di bilancio troppo espansive aumentando la spesa
pubblica la BCE non dovrebbe far altro che aumentare i tassi d’interesse per garantire la
stabilità dei prezzi e viceversa, orientarsi verso una politica di bassi tassi d’interesse nel caso
di recessione o di bassa crescita. Questo è quello che è accaduto fino a ora. Ma quando
essa, alza pur lievemente, i tassi in un periodo di bassa crescita come questo i timori che
l’alto costo del denaro possa diminuire gli investimenti nei membri UE è alto. Alla
diminuzione degli investimenti seguono quella della produzione e quindi, nel lungo periodo,
dell’occupazione. Un più alto tasso di disoccupazione crea com’è noto malcontento e
sfiducia nel governo in carica che avrebbe poche chance di essere rieletto. Prioritario
dunque per i governi nazionali pensare al breve periodo. Nel lungo siamo tutti morti,
sosteneva con un po’ d’ironia Sir Maynard Keynes.
La Federal Reserve statunitense a differenza dell’istituto di Francoforte menziona
esplicitamente nel suo statuto il duplice compito di guardare all’inflazione e alla crescita del
2 di 3Copyright (c) Equilibri.net - (31 gennaio 2006)
Paese. Ciò che non spetta invece alla BCE che ha poteri molto più limitati. In Europa, spetta
direttamente ai Paesi membri occuparsi della crescita delle proprie economie nel rispetto dei
vincoli di bilancio. La decisione della BCE del 6 dicembre scorso è stata ampiamente
anticipata dai mercati internazionali che avevano gia reagito positivamente prima che i tassi
fossero rialzati. La strategia della Banca Centrale Europea è quella di preavvisare i mercati
sulle eventuali decisioni future, una volta fissata la soglia di sopportabilità del tasso
d’inflazione. Tali decisioni risultano ovviamente scontate se si conosce bene il ruolo di una
banca centrale. Più alte sono le aspettative inflazionistiche, più alta è la probabilità che Essa
possa alzare nuovamente i tassi.
Se la BCE dopo aver contrastato sin dall’aprile ’99 la bolla del 2000 con un aumento di 225
punti base dei suoi tassi, averli poi gradualmente ridotti di 275 punti sino al 6 giugno 2003
ed infine stabilizzati al minimo del 2% sino al 6 dicembre 2005, avesse voluto stimolare
ancor più l’economia dei paesi della zona euro riducendoli ulteriormente avrebbe sortito
conseguenze che gli odierni critici trascurano: 1°) l’obiettivo di un’inflazione europea
armonizzata non superiore al 2% annuo avrebbe dovuto essere abbandonato, passando ad
esempio, al 2,5% o il 3%, 2°) il cambio dell’euro in dollari sarebbe ultimamente peggiorato,
con due conseguenze: a) deterioramento della ragione di scambio, ossia perdita nel PIL
europeo, per una maggiore esportazione extra-europea senza miglioramento della bilancia
dei pagamenti a causa del rincaro maggiore delle importazioni, soprattutto petrolio, b)
attenuata pressione su imprese e stati membri per indurli a realizzare riforme strutturali.
Conclusioni
In sintesi, oggi la BCE viene da molti incolpata come responsabile dell’insufficiente sviluppo
dell’economia europea, più di recente, della mancata ripresa. Ma altrettanto giustamente
potrebbe dirsi che il ritardo della ripresa è largamente imputabile alle mancate riforme
strutturali che avrebbero reso l’Europa più competitiva in un mondo che andava rapidamente
globalizzandosi. Dove è la verità?
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  • 1. Unione Europea: la BCE frena o stimola la crescita ? Friedrich Magnani (31 gennaio 2006)
  • 2. Unione Europea: la BCE frena o stimola la crescita ? Il 6 dicembre 2005 la Banca Centrale Europea, per la prima volta dopo due anni e mezzo, alza il costo del denaro portando dal 2% al 2,25% il tasso d’interesse di riferimento per l’area euro: decisione motivata dai rincari dei prezzi energetici che ha spinto l’inflazione complessiva su livelli superiori al 2%. Friedrich Magnani Mentre i mercati festeggiano la stretta tanto attesa i governi europei non tardano ad esprimere il loro dissenso. La scuola del rigore nel mantenimento della stabilità dei prezzi (iniziata con la Bundesbank) non convince anche molti premi nobel dell’economia che preferirebbero una politica di “ wait and see”, secondo le parole dell’economista Robert Mundell al Millenium Colloquia di Venezia (1-3 dicembre 2005), nel timore che questo aumento del costo del denaro possa soffocare l’incipiente ripresa. A parere di altri economisti la bassa crescita delle grandi economie europee ha ben poco a che fare con i tassi d’interesse. Così scrive il professore di Harvard, Alberto Alesina su Il Sole 24 Ore del 19 novembre scorso sostenendo che la stagnazione dipenda piuttosto da altri fattori quali la rigidità dei mercati dei beni e del lavoro e la scarsa concorrenza nel settore dei servizi. A quasi due mesi di distanza i timori sembrano affievolirsi mentre sembra prendere strada un cauto ottimismo. “L’economia mondiale sta migliorando”. Così si esprime il presidente della Banca Centrale Europea, Jean-Claude Trichet al meeting dei governatori delle banche centrali europee di Basilea lo scorso 9 gennaio, ricordando altresì di tener presente come i prezzi siano sempre ancorati alle aspettative d’inflazione. La più recente stima dell’Eurostat conferma un +0,6% di PIL per l’area euro25 nel quarto trimestre 2005 e per i primi mesi del 2006, malgrado l’impatto degli elevati prezzi del petrolio. Questi ultimi continuano a far mantenere relativamente alto il tasso d’inflazione nell’eurozona che rimane stabile al 2,2% di dicembre. Le aspettative inflazionistiche sui prezzi energetici danno ragione ai timori della BCE. Se torniamo indietro nella storia delle grandi strette monetarie troviamo quella della Bundesbank dei primi anni’90. Essa alzo i tassi d’interesse e riuscì ad evitare ondate inflazionistiche in una Germania da poco riunificata e alle prese con pesanti costi di ricostruzione nei Laender dell’Est. L’impatto di tale decisione sui tassi di cambio costrinse alcuni Paesi europei ad uscire dal Sistema Monetario Europeo e usare la leva della svalutazione competitiva. Furono anni fondamentali per il processo di integrazione europea che portarono alla firma del noto Trattato di Maastricht e dei suoi ancor più noti parametri che da qualche anno l’Europa non rispetta più. La mossa della BCE è lontana dall’essere drastica come quella della Bundesbank ma non 1 di 3Copyright (c) Equilibri.net - (31 gennaio 2006)
  • 3. dimentichiamoci che l’Istituto di Francoforte ha preso in pieno l’eredità della banca centrale tedesca. Dagli anni’60 fino alla fine degli anni’70 molti economisti sostennero la tesi che un più alto tasso d’inflazione avrebbe garantito nel lungo termine un minor tasso di disoccupazione partendo dai presupposti della famosa teoria dell’illusione monetaria dell’economista Phillips. In quegl’anni gli obbiettivi della stabilità monetaria e della lotta all’inflazione non furono considerati una priorità. Le conseguenze si fecero presto sentire. Alle prime crisi energetiche degli anni’70 l’Europa e gli Stati Uniti conobbero nuovamente, come non accadeva da anni, un tasso d’inflazione a due cifre. All’inflazione seguirono le note strette monetarie come quelle della FED del governatore Volker che fu alla base del nuovo corso di politica economica dell’allora presidente Reagan. In vista della moneta unica anche l’Europa come già ricordato prima decise di stringere la cinghia e di tenere alta l’attenzione sulla stabilità monetaria, presupposto fondamentale perché ci fosse la fiducia dei mercati internazionali nella moneta unica. Tutti i Paesi europei con qualche eccezione ( il debito pubblico che l’Italia continuò a mantenere oltre la soglia del 60% del PIL) seguirono pedissequamente le decisioni prese a Maastricht ed entrarono trionfalmente nell’ultima fase del processo di unione economica e monetaria. Arrivati all’euro e siamo già al nuovo millennio, si allenta la tensione e i governi europei a fronte di nuove politiche di spesa pubblica iniziano a mal sopportare i vincoli posti a Maastricht e consolidati con il Patto di Stabilità e Crescita nel 1997. Il rigore lascia spazio alle “interpretazioni intelligenti” e quindi in pratica a una maggior autonomia dei governi nazionali nella gestione dei loro deficit di bilancio. Ed è così che Francia, Germania e Italia oltrepassano il limite del deficit al 3% del PIL. La politica monetaria, da molti anni è ormai una prerogativa delle banche centrali e non più dei governi. Il signoraggio, (l’asservimento della banca centrale al governo del Paese) e quindi “lo stampar moneta” per far fronte ai deficit pubblici, è stato da tempo abbandonato. Le banche centrali sono fiere della loro autonomia che ne garantisce l’imparzialità e l’efficacia nel raggiungimento dei loro obbiettivi. I Paesi europei non possono più stimolare la competitività delle loro esportazioni con svalutazioni della loro moneta. Tra questi l’Italia ne soffre di più anche a causa di una bassa diversificazione produttiva dei beni all’esportazione. A fronte di ciò molto diffusa è l’opinione che spetti quindi alla Banca Centrale Europea porre nelle sue priorità la crescita piuttosto che un basso tasso d’inflazione, immettendo o drenando liquidità monetaria in funzione delle aspettative inflazionistiche o deflazionistiche. Se i Paesi europei optassero per delle politiche di bilancio troppo espansive aumentando la spesa pubblica la BCE non dovrebbe far altro che aumentare i tassi d’interesse per garantire la stabilità dei prezzi e viceversa, orientarsi verso una politica di bassi tassi d’interesse nel caso di recessione o di bassa crescita. Questo è quello che è accaduto fino a ora. Ma quando essa, alza pur lievemente, i tassi in un periodo di bassa crescita come questo i timori che l’alto costo del denaro possa diminuire gli investimenti nei membri UE è alto. Alla diminuzione degli investimenti seguono quella della produzione e quindi, nel lungo periodo, dell’occupazione. Un più alto tasso di disoccupazione crea com’è noto malcontento e sfiducia nel governo in carica che avrebbe poche chance di essere rieletto. Prioritario dunque per i governi nazionali pensare al breve periodo. Nel lungo siamo tutti morti, sosteneva con un po’ d’ironia Sir Maynard Keynes. La Federal Reserve statunitense a differenza dell’istituto di Francoforte menziona esplicitamente nel suo statuto il duplice compito di guardare all’inflazione e alla crescita del 2 di 3Copyright (c) Equilibri.net - (31 gennaio 2006)
  • 4. Paese. Ciò che non spetta invece alla BCE che ha poteri molto più limitati. In Europa, spetta direttamente ai Paesi membri occuparsi della crescita delle proprie economie nel rispetto dei vincoli di bilancio. La decisione della BCE del 6 dicembre scorso è stata ampiamente anticipata dai mercati internazionali che avevano gia reagito positivamente prima che i tassi fossero rialzati. La strategia della Banca Centrale Europea è quella di preavvisare i mercati sulle eventuali decisioni future, una volta fissata la soglia di sopportabilità del tasso d’inflazione. Tali decisioni risultano ovviamente scontate se si conosce bene il ruolo di una banca centrale. Più alte sono le aspettative inflazionistiche, più alta è la probabilità che Essa possa alzare nuovamente i tassi. Se la BCE dopo aver contrastato sin dall’aprile ’99 la bolla del 2000 con un aumento di 225 punti base dei suoi tassi, averli poi gradualmente ridotti di 275 punti sino al 6 giugno 2003 ed infine stabilizzati al minimo del 2% sino al 6 dicembre 2005, avesse voluto stimolare ancor più l’economia dei paesi della zona euro riducendoli ulteriormente avrebbe sortito conseguenze che gli odierni critici trascurano: 1°) l’obiettivo di un’inflazione europea armonizzata non superiore al 2% annuo avrebbe dovuto essere abbandonato, passando ad esempio, al 2,5% o il 3%, 2°) il cambio dell’euro in dollari sarebbe ultimamente peggiorato, con due conseguenze: a) deterioramento della ragione di scambio, ossia perdita nel PIL europeo, per una maggiore esportazione extra-europea senza miglioramento della bilancia dei pagamenti a causa del rincaro maggiore delle importazioni, soprattutto petrolio, b) attenuata pressione su imprese e stati membri per indurli a realizzare riforme strutturali. Conclusioni In sintesi, oggi la BCE viene da molti incolpata come responsabile dell’insufficiente sviluppo dell’economia europea, più di recente, della mancata ripresa. Ma altrettanto giustamente potrebbe dirsi che il ritardo della ripresa è largamente imputabile alle mancate riforme strutturali che avrebbero reso l’Europa più competitiva in un mondo che andava rapidamente globalizzandosi. Dove è la verità? 3 di 3Copyright (c) Equilibri.net - (31 gennaio 2006)