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G a l l e r i a Schubert
gennaio 2017
Di Vicino Gaudio
Ego - Jump -
a dive into the future
Si ringrazia
intrecci Edizioni per la
collaborazione offerta
Alessandro di Vicino Gaudio.
Analisi di un presente storico, tra disillusione e speranze.
A cura di Giulia Kimberly Colombo
L’interesse della ricerca di Alessandro di Vicino Gaudio risiede nella capacità dell’artista
di tradurre una riflessione sociologica quanto mai attuale e per niente scontata in ope-
re complesse, caratterizzate da più livelli di lettura. Gaudio (Napoli, 1985), così si firma
l’artista nelle sue opere, è un giovane ma acuto interprete di una società perennemente
in trasformazione: le sue opere sono finestre da cui osservare le contraddizioni e le irre-
golarità del mondo in cui è immerso ciascuno di noi. Esse si configurano come piccole
aperture interstiziali in mezzo alla rigidità delle regole economiche e delle convenzioni
sociali, mettendo a fuoco con ironia e consapevolezza gli errori, le incoerenze e le false
verità del sistema: tra queste, un mondo del lavoro sempre più difficile, esigente e tal-
volta anche crudele; un sistema di telecomunicazioni estremamente rapido a servizio
di intere generazioni di giovani incapaci, però, di comunicare; il disinteresse di fronte
alle ormai sempre più frequenti tragedie mondiali; e, accanto a ciò, anche altri mali en-
demici della modernità, come il consumismo vorace, l’individualismo e la corruzione.
Alessandro di Vicino Gaudio è alla sua seconda mostra alla Galleria Schubert e con
questo nuovo progetto arricchisce il contenuto che aveva dato avvio alla sua personale
del 2016, “Hybrids”. Questa volta l’esposizione si articola in tre diversi momenti posti
in rapporto di causa-effetto l’uno con l’altro. Lo stesso titolo della mostra riecheggia
questa tripartizione tematica: l’esposizione, infatti, rappresenta una sorta di cammino
interiore che l’uomo compie da una posizione di isolamento ed egocentrismo (“Ego”)
sino al finale salto nel buio (“Jump”), incognita di cambiamento o di disfatta totale. “A
Dive into the Future” è invece un’ipotesi, uno squarcio narrativo su un futuro immagi-
nato a partire dalla disastrosa perdita dei valori in cui versa la società attuale.
Quello sociologico è uno dei livelli di lettura di cui si è detto all’inizio: la critica sociale
è indubbiamente motivo di estremo interesse nell’opera dell’artista, che non concede
mai nulla alla rievocazione malinconica del passato e si concentra piuttosto sul presen-
te con lo slancio entusiasta che appartiene tipicamente ai giovani.
Un secondo livello riguarda invece le scelte stilistiche che, rimandando puntualmen-
te al contenuto, lo riecheggiano e lo problematizzano; l’inserzione del video (e quindi
della tecnologia) nel quadro potrebbe essere letta come un’incoerenza rispetto alle
critiche fatte proprio alla tecnologia e all’uso che se ne fa di questi tempi. Si tratta di
invece di una scelta ponderata: la tecnologia è uno strumento nelle mani dell’uomo e
spetta a questi decidere come servirsene.
È più che mai interessante, oggi, discutere del significato attuale della parola ‘progres-
so’ e le opere di Alessandro di Vicino Gaudio alimentano un dubbio lecito: ha senso
considerare il progresso tecnico/tecnologico come il metro di misura più appropria-
to dello sviluppo raggiunto dalla civiltà? La risposta sembrerebbe propendere per un
secco “no”, eppure è proprio tramite questo mezzo, parte integrante dei suoi quadri
animati, che egli incide attivamente sulla realtà, mostrando allo spettatore delle al-
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ternative allo stato attuale delle cose. Resosi schiavo di un progresso fasullo e fine a
se stesso, l’uomo necessita indubbiamente di disintossicarsi dallo strapotere dei mass
media e di riconsiderare le priorità della comunità intera, oggi incarnate dal profitto a
scapito di un reale benessere psicologico. Gaudio gioca consapevolmente con il video
per innescare una riflessione complessa.
Il suo stile, fresco e immediato, molto vicino all’arte di grandi nomi come Bansky e Nam
June Paik, si colloca a metà strada tra il fumetto, la street-art dei graffiti e la videoarte,
un connubio originale che ormai è diventato il suo marchio di fabbrica. Importanti an-
che i riferimenti letterari alla cosiddetta speculative fiction di autori celeberrimi come
George Orwell e Ray Bradbury, che su mondi futuristici compromessi dal potere dei
media e delle sovrastrutture statali hanno costruito rispettivamente 1984 e Fahrenheit
451.
Puntando l’attenzione sugli aspetti negativi, ma concedendo uno spazio al dubbio e alla
speranza, Alessandro di Vicino Gaudio si mostra protagonista attivo del suo presente
storico, interessante interprete delle anomalie della nostra società e, allo stesso tempo,
da esse autenticamente affascinato.
La letteratura tocca l’artista non soltanto perché motivo di ispirazione: recentissima è
la collaborazione tra Gaudio e lo scrittore Antonio Alvares, per il quale ha realizzato la
copertina del suo ultimo libro Luna il sequestratore di Graal (edito da Intrecci Edizioni).
Si tratta di un’incursione quasi spontanea per un artista il cui stile dinamico e la cui im-
postazione grafica si sposano perfettamente alle pagine di un romanzo di fantascienza.
A sua volta, Antonio Alvares ha scritto un racconto ispirandosi alle opere di Gaudio,
proseguendo nella collaborazione creativa fra i due. Il risultato, davvero notevole, è
proprio qui, in questo catalogo.
5
ERNEST WORLD
di Antonio Alvares
Nevicava, come il più classico dei capodan-
ni newyorkesi. Faceva freddo persino dentro i
taxi, soprattutto se il taxi in questione aveva il
riscaldamento difettoso. L’uomo al volante non
sembrava avere molta voglia di parlare, lui tan-
to meno. Non faceva che guardarsi l’orologio
e preoccuparsi del fatto di essere già in ritardo.
Sua moglie lo avrebbe squartato, poco ma sicuro:
ospiti e portate che avevano richiesto tre giorni
per essere preparate e che solo lei si sarebbe do-
vuta sobbarcare, divincolandosi tra chiacchiere,
libagioni e presentazioni di piatti. Oh, lo sapeva
che Martha ce l’avrebbe fatta a reggere il palco-
scenico anche senza di lui. Non c’era alcun dub-
bio su questo. Era preoccupato piuttosto che,
infine, quando anche l’ultimo ospite se ne fosse
andato, lei gli avrebbe fatto provare la sua stessa
fatica a suon di rimproveri e mazzate.
Fortuna che non sarebbe mai più tornato a casa.
Arrivò al grattacielo senza quasi accorgersene.
Il tassista confidava tanto nell’umanità che non
abbassò nemmeno il vetro di separazione quando
fu il momento di pagare, limitandosi a spingere
invece la cassettina scorrevole tra di loro aggiun-
gendo epigrafico: «Dodici e cinquanta».
«Te ne do quindici perché sei un tipo socievole»
gli rispose entusiasta Ernest. L’altro si corrucciò,
confuso dalla stranezza. «Lascia stare, amico.
Buon anno!» lo salutò quindi, scendendo dalla
vettura.
L’atrio d’ingresso della corporazione era deserto,
ovviamente. A quell’ora, e sotto le feste, soltanto
un povero schiavo si sarebbe trovato lì. L’unica
altra presenza nell’ampio salone era costituita
dalla conturbante ragazza dietro alla reception,
femmina stupenda che Ernest adorava più di
ogni altra cosa. Era un piacere vederla tutte le
mattine all’ingresso, era un piacere vederla sor-
ridere e giocare con lui quando il sole scendeva
oltre l’orizzonte.
«Hey» la salutò Ernest.
Soltanto la voce lo faceva eccitare ogni volta:
«Hey» rispose Jasmina, con quel sussurro sen-
suale di cui solo lei era capace.
«Allora non sono l’unico che lavora l’ultimo
dell’anno».
«Ancora per poco.. poi si festeggia» fece lei, sfio-
randosi le labbra con un dito. «Tu invece? Che fai
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qui? Nessuno a casa che ti aspetta?»
«Per la verità sì, ma non voglio pensarci… capi-
sci? Non in questo momento».
Gli occhi di Jasmina brillarono di malizia:
«Devo sentirmi lusingata, allora! E se ti chiedessi
di venire a fare serata con me? Che ne dici, ti va
di divertirti?»
«Ho almeno vent’anni più di te» replicò Ernest,
più incuriosito che sconcertato. «Non hai una
lampadina nella testa che ti dice che sarebbe una
cosa sbagliata?»
«No» rispose candidamente lei. «Di solito è
un’altra la parte che mi si accende…»
Ernest tentò
di riprendere il
controllo della
situazione: «Ok,
va bene, va bene.
Facciamo così:
prima vedo cosa
vuole il mio capo
e poi ti chiamo,
semmai. Se ri-
mango da solo,
voglio dire».
«Interessante»
annotò Jasmina.
«È un po’ che
non lo faccio in
un ufficio!»
«Non l’avrei detto» gli
sfuggì a Ernest di rifles-
so. Perlomeno Jasmina
ne sembrava felice. «Io
invece mai. Mai fatto in
un ufficio”.
Jasmina mise la ciliegi-
na sulla torta con un ulti-
mo occhiolino seduttore:
«Per i dipendenti non c’è
sovrapprezzo».
«Ok, va bene! Stai attac-
cata al telefono, eh, che
ti chiamo!» le assicurò
Ernest, allontanandosi in
direzione dell’ascensore
visibilmente ringalluz-
zito.
Ventiduesimo piano.
Ernest si diresse a pas-
so spedito in direzione
dell’ufficio del capo, at-
traversando lo stanzone deserto di cabine e po-
stazioni da lavoro. L’ultimo collega se n’era andato
ore prima, fuggendo a prepararsi per una qualsi-
asi festa nella quale imbucarsi. Quel luogo diven-
tava quasi ameno a quell’ora della sera, quando
il giorno non si sentiva altro che ticchettare di
tastiere e cigolio di stampanti al lavoro. La luce
della città entrava attraverso le grandi vetrate
esterne, i primi fuochi d’artificio cominciavano
ad apparire in cielo e c’era una strana quiete per
le strade: la gente era già a cena, pensò Ernest,
tutti a rifocillarsi prima della nottata brava. Tutti
tranne lui.
Entrò nello
studio di Mike e
lo trovò davanti
allo specchio, a
provarsi le cra-
vatte.
«Oh, Ern! Hai
fatto presto!»
esordì quello.
«Speravo di riu-
scire a parlarti,
prima di anda-
re!»
Indosso aveva
un elegante abito
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da sera e scarpe lucidate di fresco. Si era impoma-
tato per bene i capelli e la barba era stata appena
rasata. Quel ragazzino di ventisei anni sembrava
ancora più giovane, nei suoi abiti di classe. Come
vedere un cagnolino vestire quegli imbarazzanti
cappottini che gli comprano i padroni per ad-
dobbarli, nemmeno fossero alberi di natale in
esposizione. Si stava sicuramente preparando per
andare a una festa dell’alta società, a conoscere
sindaci ed eminenze, invitato dal paparino pre-
sidente della compagnia a far parte dell’elite del-
la città. Chissà come festeggiavano capodanno i
ricconi, si do-
mandò Ernest:
c h a m p a g n e
invece di spu-
mante e came-
rieri sull’attenti
invece di zia
Maria che porta
il suo polpet-
tone, poco ma
sicuro; tuttavia
era più incurio-
sito dai discorsi
che si sarebbero
potuti ascoltare
in una serata
del genere. So-
prattutto, chissà
quale incredibile contributo avrebbe portato quel
coglione di Mike, coi suoi discorsi motivazionali
sul lavoro di squadra e la forza del gruppo: «An-
diamo, facciamo, stringiamoci l’un l’altro, con-
quistiamo insieme la meta» e l’altra vagonata di
cazzate che propinava ai dipendenti un giorno sì
e l’altro pure. Lo odiava, Dio quanto lo odiava.
Per la sua arroganza, per la sua discendenza, per
il fatto di non avere alcun merito né diritto nel
comandare gli altri. “Ricordati, figliolo” gli aveva
detto una volta qualcuno, “nella vita si fa carriera
o per geni o per genitali!”
Ed era vero, altroché se lo era.
«Sì Mike» gli rispose Ernest, dopo averlo squa-
drato con disprezzo senza che l’altro se ne ac-
corgesse. «Ho fatto prima che ho potuto. Allora
dimmi, qual è il problema?»
«Dritto al punto, eh?» Mike si girò verso di lui,
facendo vedere l’accostamento sul quale era inde-
ciso: «Che ne dici? Taglio classico o esuberante?»
«Dipende. Dove stai andando?»
«Bah, a una di quelle noiose serate di benefi-
cienza. Però, dopo, ho in programma una nottata
alquanto vivace…»
Ernest propose un’opzione elementare al quale
quell’idiota non aveva ancora pensato: «Portatele
entrambe, allora. Potrai sempre cambiarti a metà
serata».
«Hai ragione» reagì compiaciuto Mike. «Non ci
avevo pensato! È sempre utile avere i consigli dei
vecchietti. Grazie Ern!»
«Figurati… allora, questo problema?»
«Ah sì: sembra che ci sia un errore nel program-
ma: la gente ri-
ferisce di vedere
volti conosciuti.
Nessuno ha vo-
glia di déjà-vu,
Ern: Manda in
pappa il cervel-
lo, quella roba!
Non vogliamo
problemi lega-
li!»
«Capisco…
beh, è normale
che i volti coin-
cidano. L’ap-
plicazione non
può creare dal
niente».
«Sì, ma voglio che trovi comunque una soluzio-
ne» ribadì Mike, finendo di fare il nodo alla cra-
vatta più elegante per la prima frazione di serata.
«Papà ha detto che non si deve ripetere un flop
come per le “vacanze di Primavera”. Non era per
niente contento quando gli abbiamo presentato
gli utili semestrali!»
«Come vuoi, Mike…e, senti, chi mi darai come
aiuto?»
«Ecco» tentennò Mike, falsamente costernato.
«Il fatto è che siamo a corto di gente, Ern. Le va-
canze si avvicinano, capirai sicuramente…»
«Intendi dire che dovrò essere soltanto io ad oc-
cuparmene? Ma così ci vorranno mesi!»
A Mike sfuggì uno di quei sorrisini indifferenti
che tanto lo faceva odiare dalle persone: «Allora
è meglio che ti metta subito al lavoro».
Finito di prepararsi, Mike prese le ultime cose
dalla scrivania: cellulare, mazzetta di banconote
spillate, chiavi della Bentley… «Credo anzi che
ti toccherà spostare le tue ferie» aggiunse poi,
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fingendosi rammaricato. «Papà vuole vedere le
prime demo massimo tra sei settimane, non am-
mette ritardi”.
«Sei settimane?» ripeté irritato Ernest. «Mi
prendi per il culo?»
«Hey, modera il linguaggio!»
«Col cazzo, Mike! Lo sai come la prende mia
moglie se le dico che dovremo spostare la nostra
crociera?»
Mike finì di guardarsi intorno, posando lo
sguardo su mobili e ripiani, frugandosi le tasche
per controllare di aver preso tutto. Non stava
dando alcun peso alle proteste di Ernest, quel
bastardo!
«Mike, maledizione, dì qualcosa!»
«Vuoi che ti dica qualcosa?» fece di rimando
Mike. Si posò il pesante cappotto invernale con
pelliccia sulle spalle e camminò fino a fermarsi
davanti a lui, parandosi a una spanna di distanza.
Ernest lo guardava fisso negli occhi, quei piccoli
occhietti vicini e perfidi. «Ecco cosa c’è, Ern. Da-
vanti a te hai due strade. La prima ti porta dritto
dritto al tuo computer e, tra qualche ora, a casa
da tua moglie: ti potrà accusare di essere arrivato
tardi al cenone, e quando gli dirai che dovrete
spostare le vacanze, potrà alterarsi un po’. Lo ca-
pisco, sai? A volte le donne sono certe spine nel
culo… la informeresti però anche del fatto che
il capo ti ha concesso un extra per le ore di stra-
ordinario, e sono più che certo che alla fine te la
caveresti egregiamente, facendoti perdonare per
la crociera con un paio di orecchini e un braccia-
letto di perle». Mike, sorridente, gli abbottonò
l’ultimo bottone della camicia, pizzicandogli la
pelle con una scossa di dolore che per un istante
lo fece rabbrividire. «Mentre adesso pensa alla
seconda strada, Ern: oltre ad essere arrivato tardi
al cenone, dovresti dirle di cancellare le vacanze,
non soltanto di spostarle. Dovresti dirle di aver
perso il lavoro, e di non poterti più permettere
vizi e sollazzi, per nessuno dei due. Il cenone al
quale sei arrivato in ritardo sarebbe l’ultimo pa-
sto decente che fareste per molto tempo, perché
mi assicurerei che le altre aziende non leggano
nemmeno il tuo curriculum». 
Ernest era livido in volto. «Mi stai minacciando,
Mike?»
«Beh… sì, dai. Questa è una minaccia. Vorrei
dirti qualcosa a effetto, ma mi piace essere consi-
derato una persona sincera». Mike gli passò ac-
canto posandogli una mano sulla spalla. «Chiudi
tutto e spegni le luci, mi raccomando. Ci vedia-
mo quando torno dalle vacanze in montagna,
così mi aggiorni e controlliamo lo stato dei lavo-
ri» disse, congedandosi da lui con l’espressione
da sbarbatello, strafottente figlio di papà.
«Aspetta, Mike» lo fermò subito Ernest. «Un’al-
tra cosa…»
Mike ebbe appena il tempo di voltare la testa
che un pugno arrivò a colpirlo alla mascella. Fu
talmente repentino che per poco non gli stac-
cò la testa. Quel diretto lo mandò a sbattere il
naso contro lo stipite della porta, riuscendo così
a raddoppiare la sua soddisfazione. Ma ancora
Ernest sentiva che non era abbastanza.
Mike, dopo il primo sconcerto, si riprese nel
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vedersi il naso gocciolante di sangue insozzare
la camicia di seta, non più candida e profumata.
«Sei diventato pazzo, Ern?!» strepitò. «Stupido
figlio di puttana, sei licenziato! E non è tutto: io
ti denuncio, hai capito?! E ti levo anche quelle
poche cose che hai! Ti strapperò via anche le mu-
tande e con quelle…»
Ernest arrivò come un bulldozer a colpirlo anco-
ra. Non era un uomo possente e la forza non era
più quella della gioventù. Però Mike era esile, era
mingherlino, era debole. Arrogante a parole ma,
quando ci fu da misurarsi coi fatti, riusciva solo a
pararsi la testa tra le mani e scivolare a terra, fa-
cendosi accompagnare dal muro. Ernest lo colpì
ancora. E ancora. E ancora. E quando fu troppo
rannicchiato per poterlo comodamente gonfiare
di pugni come una zampogna, incominciò a cal-
pestarlo e schiacciarlo. Di più e con maggiore for-
za, senza fermarsi. Senza tregua. Senza ritegno.
Si fermò quando la faccia di Mike era diventata
ormai una polpetta.
Quante volte l’aveva colpito? Venti, trenta vol-
te? E quante erano state dopo che aveva perso
conoscenza? Non se lo ricordava e nemmeno gli
importava, a dirla tutta. Mike era a terra, in un
lago di sangue che si stava allargando rapidamen-
te. Per andare sul sicuro, Ernest prese a due mani
un grosso soprammobile di metallo a forma di
matrioska e con quello gli ridusse il cranio a
pezzettini, schiacciandoglielo e spremendoglie-
lo con metodici colpi alle zone ancora intatte di
quella testa di cazzo. Ernest rideva, perché chissà
come gli era venuto in mente la moglie Martha
che faceva il suo famoso pesto in casa, e se la im-
maginò lì con lui a schiacciare basilico e pinoli…
sebbene basilico e pinoli di solito non emettes-
sero gli ultimi, scattosi fremiti di vita quando
venivano preparati.
Quando fu soddisfatto si guardò addosso:
aveva la giacca lurida di melma gocciolante e
appiccicosa. Gli schizzi erano isterici sulla sua
camicia, e i pantaloni lordi di filamenti carmi-
ni. D’un tratto la mente abbandonò il pensiero
della moglie, riproponendogli invece quello di
Jasmina, di sotto che ancora lo aspettava. Erano
passati diversi minuti, davvero lo stava sempre
aspettando? Non importava più nemmeno quel-
lo, ormai. Dubitava avrebbe fatto sesso con lui
vedendolo in quelle condizioni, anche se non ci
avrebbe messo la mano sul fuoco. Tornò all’a-
scensore con quel pensiero, attraversando la
quiete immacolata dello stanzone centrale spor-
cando la moquette di impronte di sangue. Lasciò
una scia rossa per terra come tante briciole di
pane, eppure si sentiva bene, Ernest, come mai
prima d’ora! Era stato liberatorio dare a Mike
quanto meritava, non immaginava davvero po-
tesse esserlo tanto… e infine, arrivato all’ascenso-
re, gli venne voglia di provare qualcosa di ancora
più liberatorio. Qualcosa che era già in program-
ma da tempo.
Centoventiseiesimo piano.
Il terrazzo sul tetto era grande, dotato di un
panorama mozzafiato e, ovviamente, deserto.
Ernest dominava la città da lassù: si sentiva lo
strombazzare lontano dei clacson, i rumori di
milioni di persone che aumentavano di intensi-
tà ogni minuto che passava, man mano che ci si
avvicinava alla mezzanotte. Lui si sentiva libero e
felice come non mai. Libero dalle responsabilità
quando si mise a sedere oltre la balaustra, felice
di quella solitudine apparente, solo in mezzo a
una metropoli, quando lasciò che le gambe cion-
dolassero inerti nel vuoto. L’aria era pungente
sul viso ma non gli importava. Nulla importava,
adesso.
Mentre Ernest pontificava sulle ironie della vita
come è possibile fare soltanto a un passo dall’o-
blio, la porta del terrazzo si spalancò di schian-
to: due fidanzatini, entrambi molto giovani,
irruppero abbracciati l’un l’altro in un concerto
di risatine e parole dolci tra innamorati.
Con tutta certezza erano venuti lassù per
stare un po’ da soli e godersi lo skyline dei
grattacieli dall’alto. Si appoggiarono a una
ringhiera facendosi dei selfie a ripetizio-
ne, soltanto dopo qualche secondo il ra-
gazzo si accorse della presenza di Ernest,
a sedere oltre la ringhiera, che li guardava
incuriosito.
«Wow, capo!» esordì il giovincello con
berretto al contrario, i jeans strappati e col
cavallo che arrivava al ginocchio (sebbene
incredibilmente i risvolti agli orli gli te-
nessero le caviglie in vista). Non sembra-
va sconvolto né particolarmente colpito
dalla sua pericolosa posizione. «Che ci fa
un matusa come te quassù?» gli domandò
invece, incuriosito, «Mica vorrai farlo per
davvero?»
«L’idea mi piace, in realtà. Sì» rispose
serafico Ernest. «Credo sia un buon mo-
mento, o perlomeno uno come un altro.
Non ho motivi per non farlo, se preferisci”.
«Che forza, zio, c’hai il veleno nella te-
sta! Io non so se avrei il coraggio» confes-
sò, carico di ammirazione «però mi pare
proprio un gran ficata! Senti ma… ce la
faresti una foto, prima di buttarti?»
«Certo. Perché no?»
Ernest gli scattò una decina di foto, rimanendo
sempre al suo posto. Si fece passare il cellulare del
11
ragazzo e cominciò a farli mettere in pose diver-
se: stile Titanic, lei in braccio a lui, lui che tentò
di andare in braccio a lei, loro che si baciavano…
insistettero perfino per farsi un selfie con il suici-
da: «Così i miei amici su facebook si roderanno il
fegato dall’invidia!» si giustificò lui, quando trovò
il coraggio di proporre quella posa.
Alla fine la ragazza, che sembrava una fanciulla
di buona famiglia innamorata di un bulletto dalle
scarpe ultimo modello, si accorse delle macchie
rossastre che gli avevano sporcato giaccone e ca-
micia.
«Che ti è successo?» domandò con la sua vocetta
angelica. «Ti sei fatto male?»
«Oh, no» garantì Ernest, tranquillizzandola,
«non è mio questo sangue. È del mio capo».
«Il tuo capo?»
«Precisamente. L’ho ucciso non più di dieci
minuti fa: vedi?» disse, mostrando ai ragazzi le
nocche delle mani piagate dai colpi inferti. «L’ho
colpito finché non ha smesso di respirare, poi l’ho
colpito ancora».
Alla tranquillità con la quale Ernest parlava del
delitto la ragazza reagì ritraendosi, con l’espres-
sione ansiosa e non più tanto divertita. Il ragaz-
zo invece era al settimo cielo: «Hai ammazzato
davvero un uomo? Che cosa malata!» esclamò
entusiasta.
«Se vuoi puoi andare a vedere al ventiduesimo
piano. Il cadavere è ancora lì e ci rimarrà almeno
fino alla riapertura, dopo le ferie».
Il giovane si rigirò verso la fidanzatina: «Hai
sentito? Andiamoci a fare una foto anche col ca-
davere, che aspettiamo?!» propose impaziente,
partendo a passo svelto e saltellante verso l’uscita.
La ragazza rimase a qualche metro da Ernest, a
fissarlo dubbiosa.
«Che c’è?» le chiese lui di rimando. «Qualcosa
non va?»
«Perché lo hai ucciso?» replicò lei, serissima.
«Beh… principalmente perché è uno stronzo.
Era, pardon, era uno stronzo. E poi perché mi
trattava di merda tutti i giorni dandomi compiti
impossibili e facendomi richieste folli. Minac-
ciandomi pure. Mi ero semplicemente stancato
di lasciar correre, capisci che intendo?»
«No, veramente no» replicò sincera lei.
«Credimi, lo capirai crescendo».
«E ora come stai?»
«Ad averlo fatto, dici? Bah… ti dirò, mi sento
bene. Sono felice, avrei dovuto farlo prima. Lo
sai invece cos’è la cosa strana? È che Mike, prima
di morire, mi aveva dato un lavoro che credevo
avesse impiegato giorni per essere risolto, e inve-
ce credo di aver già trovato una soluzione. Aveva
ragione in fin dei conti, c’era un problema nell’ap-
plicazione».
«Quindi aveva ragione e l’hai ucciso comun-
que?»
«Non potevo sapere che aveva ragione quando
l’ho fatto. Siete stati voi ad aiutarmi, sai? Se non
foste saliti quassù chissà quanto avrei dovuto cer-
care ancora, prima di trovare l’errore».
«Ah sì? E come ti abbiamo aiutato?»
12
Ernest scosse il capo sorridendole dolcemente.
«Non importa, mia cara. Non importa più, or-
mai».
Il fidanzato, che si era precipitato alla porta, ri-
chiamò ad alta voce la sua ragazza, incontenibile
nella sua voglia di vedere un cadavere dal vivo:
«Allora, Christie, ci muoviamo o no? Dai, prima
che qualcuno chiami i piedipiatti!»
«Io… devo andare».
«Certo, sì» la salutò Ernest. «Ci vediamo presto,
Christie».
Ernest lasciò che anche la ragazza sparisse alla
sua vista. Christie lo salutò con la manina pri-
ma di varcare l’uscita del terrazzo, scuotendo la
mano e i molti braccialetti colorati che portava
al polso. Tornato nuovamente solo, Ernest alzò
gli occhi al cielo: la nottata era tersa, la volta
celeste baluginava dei riflessi rossastri della cit-
tà, nascondendo il firmamento
stellato. Si alzò in piedi come per
avvicinarsi ulteriormente a Dio,
aprendo le braccia alla sua grazia
e benevolenza.
«Proprio una bella serata» disse
tra sé e sé, sporgendosi in avanti.
La gravità lo abbracciò inesorabi-
le, il vuoto lo attirò a sé e la cor-
rente d’aria lo colpì repentina, e
tuttavia niente di tutto ciò riuscì
a togliergli il sorriso felice appar-
so sulle sue labbra.
				
		***
Ernest si risvegliò di soprassalto
nel suo letto, il led della sveglia
segnava le cinque del mattino. La
moglie, Martha, gli ronfava sa-
poritamente accanto emettendo
gorgheggi profondi, e nel guar-
dare la sua sagoma si domandò
come sarebbe potuta essere la sua
vita se avesse fatto scelte diverse.
Quel sogno era ancora vivido
nella sua testa, non ce l’avrebbe
mai fatta a riaddormentarsi. Scel-
se dunque di alzarsi e fare le cose
con calma: la doccia, la barba,
portare fuori Chuck, il piccolo
chiwawa ormai padrone del di-
vano… e sperare che in ufficio, a
trovarsi Mike davanti, quel sogno
non si rivelasse premonitore.
Il caldo. Il fatto di aver riposato tra le tiepide
braccia di Morfeo immaginando il freddo pun-
gente dell’inverno, e ritrovarsi poi a dover sop-
portare il caldo umidiccio della città in Luglio,
era la cosa che più lo snervava. Alle otto di mat-
tina c’era già un caldo insopportabile non ap-
pena si entrava in strada, tanto che un minimo
di refrigerio si poteva trovare soltanto andando
sottoterra, per quanto viziata fosse l’aria della
metropolitana.
Ernest era sveglio da qualche ora e si stava diver-
tendo a osservare i volti assonnati delle persone
intorno, a sedere come lui nei vagoni della metro
ricolmi di pendolari. La maggior parte avevano
cuffie all’orecchie e sonnecchiavano tra i rimbalzi
delle rotaie. Qualcuno leggeva assorto il giornale,
e intanto alle sue spalle i maxischermi della sta-
13
zione mo-
stravano le
immagini
della guer-
ra che si
stava svol-
gendo in
quei giorni
in medio
o r i e n t e .
Ernest os-
servò il
servizio per
un paio di
s e c o n d i ,
poi l’indif-
ferenza e la
lontananza
dal pro-
blema lo
portarono a
riprendere
il suo pas-
satempo di
osservare i
passeggeri
dormienti
del treno.
Si bloccò sul posto quando riconobbe due fidan-
zatini che stavano seduti in disparte, vicino all’al-
tra uscita. Come gli altri, anche il ragazzo portava
le cuffie e sonnecchiava con gli occhialoni scuri
calati sul naso, mentre la ragazza sembrava ripas-
sare la lezione della mattinata nel quaderno sul
suo ventre. Sentitasi osservata, alzò lo sguardo e
guardò nella direzione di Ernest: gli riservò un
sorriso luminoso e sincero, quindi ritornò pron-
tamente ai suoi compiti dimenticandosi della sua
esistenza. A Ernest sembrò di tornare a sentire
il vento gelido dell’abisso falcidiargli la pelle del
viso. Gli venne la nausea e gli toccò mascherare
un rutto nella voce dell’altoparlante che annun-
ciava la stazione successiva. Fortunatamente la
sua.
Si fece largo tra le persone sulla banchina come
a voler scappare da qualcosa di inquietante che
il suo cervello faticava a comprendere, ma si
piantò nuovamente quando riconobbe lo scor-
tese tassista del sogno nel barbone addormenta-
to sui cartoni poco lontano, mentre i lavoratori
gli sfrecciavano accanto senza notarlo. Che poi,
avrebbero notato solo un cumulo di coperte e un
barattolo vuoto per gli spiccioli, nemmeno un
cartello scritto in una grammatica da prima ele-
mentare o una chitarra con la quale guadagnarsi
l’elemosina.
Mentre il treno ripartiva alle sue spalle, Ernest
si tranquillizzò e al tempo stesso si sentì strana-
mente in colpa: quella notte il tassista gli era ap-
parso di poche parole, era sembrato scorbutico
e solitario… o almeno, così l’aveva immaginato.
Non sapeva come mai, ma si sentiva in colpa per
averlo sognato in quella maniera, come qualcuno
che si era anche divertito a sfottere. Non lo aveva
fatto per davvero, certo; non aveva motivo di sen-
tirsi male solo per aver preso in giro un barbone
quando la sua coscienza ignorava che apparte-
nesse a lui la faccia del tassista! Eppure, qualcosa
nello stomaco brontolava la sua disapprovazione.
Arrivato al lavoro fu anche peggio: una fiumana
di colletti bianchi in movimento, tra scale mobili,
ascensori e destinazioni. Si rischiava di perdersi
senza una guida. Per Ernest, che pure conosceva
la strada, la guida era e rimaneva Jasmina; pecca-
to che lei adesso fosse occupata con un ospite del-
la corporazione, quello che sembrava a tutti gli
14
effetti uno sceicco d’Arabia. Aveva un’aria civet-
tuola e flirtava con il ricco petroliere come aveva
flirtato per lui nel sogno, suadente e spudorata.
Ora sembrava più professionale, ma la realtà ha
spesso il vizio di camuffare le cose, rispetto alla
fantasia. Ernest si avvicinò al tornello senza stac-
carle gli occhi di dosso. Avvicinando il badge al
sensore, rimase piantato su di lei e sul corteggia-
mento che stava avvenendo davanti ai suoi occhi.
Per un attimo si bloccò del tutto, quando vide
una mano dello sceicco passare dietro la schie-
na di Jasmina e lei ridacchiare il suo consenso.
Poi qualcuno della fila lo spinse bruscamente da
dietro ed Ernest proseguì triste il suo percorso.
Ventiduesimo piano.
Nel sogno non c’era nessuno nel salone dei com-
puter, soltanto bugigattoli di cartone separati
comeinuncall-center.Iprogrammatorilavorava-
no senza sosta all’applicazione, e quello delle bar-
ricate tra un posto e l’altro era un buon modo per
disincentivare inutili chiacchierate. Anche questa
un’idea di Mike. Ma se durante la notte quel sa-
lone era tranquillo e quieto, adesso intorno a Er-
nest c’erano
a l m e n o
cinquanta
p e r s o n e
che confa-
bu l av ano
tra loro in
una caco-
fonia di
inutili face-
zie. L’argo-
mento della
mattinata
sembrava-
no essere
“le vacanze
estive”, un
tema che a
Ernest de-
stava par-
ticolare di-
sagio sulla
base degli
a v v e n i -
menti della
nottata. «A
spendere i
soldi gua-
dagnati sui
tavoli da giochi e con donnine di facili costumi!»
si vantò uno dei tanti bulli da ufficio che sempre
esistono e resisteranno negli ambienti di lavoro.
Ernest si diresse a capo chino alla sua postazio-
ne, prendendovi posto insieme al solito succo di
frutta e al frutto di metà mattinata. Non fece tem-
po ad accendere il computer che Jim si affacciò a
salutarlo da sopra la parete.
Jim, quindici anni da collega vissuti come una
battaglia navale. Voleva bene a quel faccione ru-
bicondo, almeno finché non incominciava a par-
lare.
«Hey, Ern, che faccia di merda che hai!» lo ac-
colse infatti quello. «Che cos’hai fatto stanotte?
Per caso hai fatto sesso con tua moglie?»
«Per l’amor del cielo, no» rispose sicuro Ernest,
«e nemmeno con la tua, se ci tieni a saperlo».
«Che ti è successo?» riprovò Jim.
«Mike mi ha costretto a lavorare alla app di ca-
podanno. Ho passato la nottata a sognare questo
posto di merda».
«Eh, quello ti ha preso di punta, amico. Non do-
15
vevi fare apprezzamenti sulla biondina dell’altro
giorno».
«E io che ne sapevo fosse sua sorella?»
«Quantomeno potevi accertarti che lui non fosse
a due metri da te» gli fece notare Jimmy. «Quella
è stata proprio una mossa da poco!»
«E tu, invece?» domandò Ernest, tentando di
cambiare argomento. «Come mai sei così conten-
to? Non mi dire che mi stai per dire dove andrai
in vacanza: ti giuro che non lo voglio sapere dove
andrai a inzuppare quel biscottaccio che ti ritrovi
tra le gambe!»
«Macché vacanze, le faccio ogni sera ormai!
Anche ieri ho viaggiato nel…» si interruppe per
sporgersi ancora di più, proseguendo sottovoce,
«ho viaggiato nel web e ho trovato questa qui. La
riconosci?»
Jim gli passò una foto di una signora sulla cin-
quantina, abbastanza attraente sebbene un po’
troppo “dichiarata” per i gusti di Ernest.
«Non so chi sia».
«Ma come? È quella del reparto spedizioni! L’ho
portata in un localaccio dove la mia mente ha
trovato libero sfogo. E della sua, invece, non ne
parliamo, che potrei farti cadere gli ultimi capelli
che ti sono rimasti! Dovresti provare l’esperienza,
Ern. Non te ne pentiresti!»
«Non mi piace il cyber-porno, lo sai».
Jim si affrettò a correggerlo: «Ma puoi anche far-
lo girare off-line. È come se fosse un sogno tuo e
tuo soltanto, con la differenza che in questo hai
un controllo di ciò che accade, lo puoi registrare,
rivederlo e tutto è più nitido».
«Sognare alla vecchia maniera no?» tentò di
contrastarlo Ernest.
«E dai» ribadì Jim. «Non hai mai sognato di
scoparti qualcuno che conosci, magari qualcuno
di famoso, nel tuo caso probabilmente anche un
altro uomo? Cosa ci sarebbe di diverso?»
«Non so» continuò a resistere Ernest. «Mi sem-
bra sbagliato, o forse semplicemente non fa per
me».
La sirena di inizio turno suonò al di sopra delle
voci, richiamando tutti alle proprie tastiere e ai
propri monitor.
«Secondo me proprio provare» ripropose Jim,
prima di uscire dalla sua visuale «almeno non ti
ritroveresti quella faccia di merda. E poi sei un
dipendente: l’applicazione è dell’azienda per cui
lavori, avresti pure lo sconto!»
Dopo qualche minuto di lavoro, Ernest ripensò
però al consiglio di Jimmy e gli venne voglia di
indagare più a fondo sulla versione pornografi-
ca. Chissà che sogno ci avrebbe fatto su Jasmina.
Controllò che nessuno passasse dietro la sua ca-
bina e cominciò a navigare le ultime novità. In
effetti ce n’erano tante interessanti, proiezioni di
donne che solleticavano non poco la sua fantasia.
D’un tratto però si cominciò a sentire una donna
piangere, nella grande stanza piena di impiegati.
Era una signora sulla cinquantina, fermata da
Mike il bastardo in mezzo ai corridoi mentre lei
si dirigeva quatta quatta alla sua postazione, per
non fare accorgere nessuno che era in ritardo di
qualche minuto. Signora Bristol, gli pareva che la
chiamassero: l’aveva vista qualche volta sgattaio-
lare dalle macchinette automatiche con le mani
piene di biscotti, dolci e patatine. Sembrava la
controfigura di Mrs. Doubtfire, solo più vecchia
e avvilente.
La signora piangeva in modo inconsolabile: «Per
favore» diceva, «la supplico» singhiozzava, «non
può licenziarmi. Ho cinquantotto anni! Chi me
lo dà un lavoro con la crisi che c’è?»
«Dovevi pensarci prima di arrivare tardi al
tuo posto» replicò impassibile Mike. «Come te
ne trovo fuori cinquecento, con quarant’anni di
meno e al quaranta percento di quello che pren-
di te. È un favore che vi facciamo quando deci-
diamo di tenere gente come te, lo capisci no? Tu
rubi tempo alla società e la società se lo riprende
con gli interessi, funzionano così le cose alla Dre-
am Society. E per fare vedere che siamo persone
comprensive, ti concedo cinque minuti per pren-
dere la tua roba e liberare la scrivania, ma solo se
mi prometti di smettere di piangere! Qui ci sono
persone che lavorano, non le puoi mica disturba-
16
re con i tuoi gemiti!»
Tutto l’ufficio guardava la signora Bristol tentare
di porre un freno al pianto a dirotto, e cercare al-
meno così di conservare un briciolo della propria
dignità. Dopo qualche secondo iniziò a sembrare
in grado di controllarsi. Mentre si guardava in-
torno soddisfatto, tra tutti Mike si accorse pro-
prio di lui, che sbirciava da sopra il suo pannello
quella scena pietosa.
«Ah, Ernest, proprio te!» esordì felice quel co-
glione incravattato, incamminandosi verso di lui.
«Aspetta a rimetterti a lavorare, ti devo parlare!
Voi rimettetevi all’opera, invece: dai ragazzi, dai,
sta a noi creare i sogni delle persone! Andiamo,
squadra! Hop hop!»
Lasciò la donna alle sue spalle, già dimenticata.
Faccenda chiusa, e lo era anche per i suoi colle-
ghi che si rimisero chini a battere sui tasti per
creare nuove e complesse simulazioni. Ernest si
rammentò all’ultimo momento della pagina por-
nografica e per fortuna la chiuse prima che Mike
lo raggiungesse, lasciando in bella vista la finestra
del lavoro sul quale aveva lavorato tutta la notte.
«Grazie ancora, Ern, per aver accettato l’incari-
co» gli disse Mike, stringendogli la spalla in un
gesto accomodante che doveva aver visto in qual-
che film di serie B. «È una fortuna poter contare
su gente come te. Allora, alla fine ce l’hai fatta a
risolvere il problema?»
«Si, capo» rispose Ernest. «Ho ben chiaro il da
farsi. Mi ci vorranno un paio di mesi, ma se vuo-
le affidarmi qualcuno in aiuto farei sicuramente
prima».
«No» rispose Mike, falsamente rammaricato
come nel sogno. Aveva ragione, dopotutto: quel
difetto dava sui nervi! «Mi dispiace, lo sai: siamo
in periodo di vacanze, la gente direbbe di no an-
che a un lauto straordinario, pur di andarsene da
qualche parte. Sei da solo, purtroppo. In quanto
conti di farcela per le correzioni?» domandò poi,
ritornando a bomba sull’argomento. «Dobbiamo
cominciare a ripassare tutto, per l’autunno deve
essere pronto e mancano ancora un sacco di cose
da fare. Non hai due mesi, mi servono tempi più
brevi, Ern! Dammi qualcosa a cui aggrapparmi,
su!»
«Un mese per le prime righe di codice…» rispo-
se alla fine Ernest, sconsolato.«Un mese e mezzo
in caso di complicazioni. Mi ci metto a lavorare
subito dopo il mio rientro, ok?»
Il capo lo squadrò con un espressione perplessa:
«Non puoi posticipare le ferie? È una cosa impor-
tante per la società, dobbiamo rifarci degli utili
scandalosi delle vacanze di primavera: le ambien-
tazioni erano troppo inglesi, maledizione!»
«Sissignore» concordò Ernest. «L’ho provata.
È vero, troppo fiabesca per i gusti della gente di
città».
«Ah sì?» s’incuriosì Mike, «E cos’avresti fatto,
tu? No aspetta, non dirmelo. Ne riparliamo verso
Natale. Allora è deciso: tre settimane! Una volta
finito il lavoro potrai rilassarti dove vuoi, ti con-
cedo un paio di giorni in più, se vuoi».
Tre settimane! Ernest gli aveva chiesto un mese
e quello tirava la corda anche su quello.
«Grazie signore» si costrinse invece a dire, cer-
cando di apparire il più onesto possibile. «È mol-
to gentile da parte sua».
«Vero?» ribadì Mike, radioso. «Ah, siete fortu-
nati ad avere me, ragazzi» disse ad alta voce, al-
lontanandosi dalla sua postazione con una cam-
minata trionfante.
Lasciato solo, Ernest guardò ancora in direzione
della donna appena licenziata: aveva appena fini-
to di raccogliere i suoi effetti personali e sgom-
brata la sua postazione. Singhiozzava e tremava,
ma nessuno dei colleghi di una vita si era girato
a consolarla o avvicinato a parlarle. Lavoravano
tutti con auricolare e microfoni, davanti ai loro
schermi, e a nessuno importava della sua sorte.
Ernest la seguì con lo sguardo fino all’uscita del-
lo stanzone. Nessuno la salutò. Senza più niente
da guardare, Ernest si rimise seduto al suo posto.
Non si rimise subito all’opera, però: dopo che la
realtà si era dimostrata anche peggio della fanta-
sia non ne aveva alcuna voglia! Aprì invece una
nuova finestra dell’applicazione e, stavolta, andò
nel reparto “Feste a Tema”. Selezionò “Festa col-
leghi d’ufficio” e “Vacanze di Natale”. Nelle perso-
nalizzazioni della trama inserì delle interessanti
spunte: “Licenziamento Collega”, “Assassinio del
proprio capo”, “Linciaggio Pubblico”.
Quella notte anche la povera donna avrebbe
avuto modo di vendicarsi per quello che aveva
subito, e stavolta lui non avrebbe “lavorato”. Si
sarebbe goduto il sogno pieno, anche a costo di
pagarlo: perché Jim aveva ragione, non poteva
permettersi di presentarsi al lavoro stanco com’e-
ra. Se al capo diceva male rischiava di fare una
brutta fine, e lui non voleva essere licenziato.
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Edvard Munch
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Ego - Jump - a dive into the future

  • 1.
  • 3. G a l l e r i a Schubert gennaio 2017 Di Vicino Gaudio Ego - Jump - a dive into the future
  • 4. Si ringrazia intrecci Edizioni per la collaborazione offerta
  • 5. Alessandro di Vicino Gaudio. Analisi di un presente storico, tra disillusione e speranze. A cura di Giulia Kimberly Colombo L’interesse della ricerca di Alessandro di Vicino Gaudio risiede nella capacità dell’artista di tradurre una riflessione sociologica quanto mai attuale e per niente scontata in ope- re complesse, caratterizzate da più livelli di lettura. Gaudio (Napoli, 1985), così si firma l’artista nelle sue opere, è un giovane ma acuto interprete di una società perennemente in trasformazione: le sue opere sono finestre da cui osservare le contraddizioni e le irre- golarità del mondo in cui è immerso ciascuno di noi. Esse si configurano come piccole aperture interstiziali in mezzo alla rigidità delle regole economiche e delle convenzioni sociali, mettendo a fuoco con ironia e consapevolezza gli errori, le incoerenze e le false verità del sistema: tra queste, un mondo del lavoro sempre più difficile, esigente e tal- volta anche crudele; un sistema di telecomunicazioni estremamente rapido a servizio di intere generazioni di giovani incapaci, però, di comunicare; il disinteresse di fronte alle ormai sempre più frequenti tragedie mondiali; e, accanto a ciò, anche altri mali en- demici della modernità, come il consumismo vorace, l’individualismo e la corruzione. Alessandro di Vicino Gaudio è alla sua seconda mostra alla Galleria Schubert e con questo nuovo progetto arricchisce il contenuto che aveva dato avvio alla sua personale del 2016, “Hybrids”. Questa volta l’esposizione si articola in tre diversi momenti posti in rapporto di causa-effetto l’uno con l’altro. Lo stesso titolo della mostra riecheggia questa tripartizione tematica: l’esposizione, infatti, rappresenta una sorta di cammino interiore che l’uomo compie da una posizione di isolamento ed egocentrismo (“Ego”) sino al finale salto nel buio (“Jump”), incognita di cambiamento o di disfatta totale. “A Dive into the Future” è invece un’ipotesi, uno squarcio narrativo su un futuro immagi- nato a partire dalla disastrosa perdita dei valori in cui versa la società attuale. Quello sociologico è uno dei livelli di lettura di cui si è detto all’inizio: la critica sociale è indubbiamente motivo di estremo interesse nell’opera dell’artista, che non concede mai nulla alla rievocazione malinconica del passato e si concentra piuttosto sul presen- te con lo slancio entusiasta che appartiene tipicamente ai giovani. Un secondo livello riguarda invece le scelte stilistiche che, rimandando puntualmen- te al contenuto, lo riecheggiano e lo problematizzano; l’inserzione del video (e quindi della tecnologia) nel quadro potrebbe essere letta come un’incoerenza rispetto alle critiche fatte proprio alla tecnologia e all’uso che se ne fa di questi tempi. Si tratta di invece di una scelta ponderata: la tecnologia è uno strumento nelle mani dell’uomo e spetta a questi decidere come servirsene. È più che mai interessante, oggi, discutere del significato attuale della parola ‘progres- so’ e le opere di Alessandro di Vicino Gaudio alimentano un dubbio lecito: ha senso considerare il progresso tecnico/tecnologico come il metro di misura più appropria- to dello sviluppo raggiunto dalla civiltà? La risposta sembrerebbe propendere per un secco “no”, eppure è proprio tramite questo mezzo, parte integrante dei suoi quadri animati, che egli incide attivamente sulla realtà, mostrando allo spettatore delle al-
  • 6. 4 ternative allo stato attuale delle cose. Resosi schiavo di un progresso fasullo e fine a se stesso, l’uomo necessita indubbiamente di disintossicarsi dallo strapotere dei mass media e di riconsiderare le priorità della comunità intera, oggi incarnate dal profitto a scapito di un reale benessere psicologico. Gaudio gioca consapevolmente con il video per innescare una riflessione complessa. Il suo stile, fresco e immediato, molto vicino all’arte di grandi nomi come Bansky e Nam June Paik, si colloca a metà strada tra il fumetto, la street-art dei graffiti e la videoarte, un connubio originale che ormai è diventato il suo marchio di fabbrica. Importanti an- che i riferimenti letterari alla cosiddetta speculative fiction di autori celeberrimi come George Orwell e Ray Bradbury, che su mondi futuristici compromessi dal potere dei media e delle sovrastrutture statali hanno costruito rispettivamente 1984 e Fahrenheit 451. Puntando l’attenzione sugli aspetti negativi, ma concedendo uno spazio al dubbio e alla speranza, Alessandro di Vicino Gaudio si mostra protagonista attivo del suo presente storico, interessante interprete delle anomalie della nostra società e, allo stesso tempo, da esse autenticamente affascinato. La letteratura tocca l’artista non soltanto perché motivo di ispirazione: recentissima è la collaborazione tra Gaudio e lo scrittore Antonio Alvares, per il quale ha realizzato la copertina del suo ultimo libro Luna il sequestratore di Graal (edito da Intrecci Edizioni). Si tratta di un’incursione quasi spontanea per un artista il cui stile dinamico e la cui im- postazione grafica si sposano perfettamente alle pagine di un romanzo di fantascienza. A sua volta, Antonio Alvares ha scritto un racconto ispirandosi alle opere di Gaudio, proseguendo nella collaborazione creativa fra i due. Il risultato, davvero notevole, è proprio qui, in questo catalogo.
  • 7. 5 ERNEST WORLD di Antonio Alvares Nevicava, come il più classico dei capodan- ni newyorkesi. Faceva freddo persino dentro i taxi, soprattutto se il taxi in questione aveva il riscaldamento difettoso. L’uomo al volante non sembrava avere molta voglia di parlare, lui tan- to meno. Non faceva che guardarsi l’orologio e preoccuparsi del fatto di essere già in ritardo. Sua moglie lo avrebbe squartato, poco ma sicuro: ospiti e portate che avevano richiesto tre giorni per essere preparate e che solo lei si sarebbe do- vuta sobbarcare, divincolandosi tra chiacchiere, libagioni e presentazioni di piatti. Oh, lo sapeva che Martha ce l’avrebbe fatta a reggere il palco- scenico anche senza di lui. Non c’era alcun dub- bio su questo. Era preoccupato piuttosto che, infine, quando anche l’ultimo ospite se ne fosse andato, lei gli avrebbe fatto provare la sua stessa fatica a suon di rimproveri e mazzate. Fortuna che non sarebbe mai più tornato a casa. Arrivò al grattacielo senza quasi accorgersene. Il tassista confidava tanto nell’umanità che non abbassò nemmeno il vetro di separazione quando fu il momento di pagare, limitandosi a spingere invece la cassettina scorrevole tra di loro aggiun- gendo epigrafico: «Dodici e cinquanta». «Te ne do quindici perché sei un tipo socievole» gli rispose entusiasta Ernest. L’altro si corrucciò, confuso dalla stranezza. «Lascia stare, amico. Buon anno!» lo salutò quindi, scendendo dalla vettura. L’atrio d’ingresso della corporazione era deserto, ovviamente. A quell’ora, e sotto le feste, soltanto un povero schiavo si sarebbe trovato lì. L’unica altra presenza nell’ampio salone era costituita dalla conturbante ragazza dietro alla reception, femmina stupenda che Ernest adorava più di ogni altra cosa. Era un piacere vederla tutte le mattine all’ingresso, era un piacere vederla sor- ridere e giocare con lui quando il sole scendeva oltre l’orizzonte. «Hey» la salutò Ernest. Soltanto la voce lo faceva eccitare ogni volta: «Hey» rispose Jasmina, con quel sussurro sen- suale di cui solo lei era capace. «Allora non sono l’unico che lavora l’ultimo dell’anno». «Ancora per poco.. poi si festeggia» fece lei, sfio- randosi le labbra con un dito. «Tu invece? Che fai
  • 8. 6 qui? Nessuno a casa che ti aspetta?» «Per la verità sì, ma non voglio pensarci… capi- sci? Non in questo momento». Gli occhi di Jasmina brillarono di malizia: «Devo sentirmi lusingata, allora! E se ti chiedessi di venire a fare serata con me? Che ne dici, ti va di divertirti?» «Ho almeno vent’anni più di te» replicò Ernest, più incuriosito che sconcertato. «Non hai una lampadina nella testa che ti dice che sarebbe una cosa sbagliata?» «No» rispose candidamente lei. «Di solito è un’altra la parte che mi si accende…» Ernest tentò di riprendere il controllo della situazione: «Ok, va bene, va bene. Facciamo così: prima vedo cosa vuole il mio capo e poi ti chiamo, semmai. Se ri- mango da solo, voglio dire». «Interessante» annotò Jasmina. «È un po’ che non lo faccio in un ufficio!» «Non l’avrei detto» gli sfuggì a Ernest di rifles- so. Perlomeno Jasmina ne sembrava felice. «Io invece mai. Mai fatto in un ufficio”. Jasmina mise la ciliegi- na sulla torta con un ulti- mo occhiolino seduttore: «Per i dipendenti non c’è sovrapprezzo». «Ok, va bene! Stai attac- cata al telefono, eh, che ti chiamo!» le assicurò Ernest, allontanandosi in direzione dell’ascensore visibilmente ringalluz- zito. Ventiduesimo piano. Ernest si diresse a pas- so spedito in direzione dell’ufficio del capo, at- traversando lo stanzone deserto di cabine e po- stazioni da lavoro. L’ultimo collega se n’era andato ore prima, fuggendo a prepararsi per una qualsi- asi festa nella quale imbucarsi. Quel luogo diven- tava quasi ameno a quell’ora della sera, quando il giorno non si sentiva altro che ticchettare di tastiere e cigolio di stampanti al lavoro. La luce della città entrava attraverso le grandi vetrate esterne, i primi fuochi d’artificio cominciavano ad apparire in cielo e c’era una strana quiete per le strade: la gente era già a cena, pensò Ernest, tutti a rifocillarsi prima della nottata brava. Tutti tranne lui. Entrò nello studio di Mike e lo trovò davanti allo specchio, a provarsi le cra- vatte. «Oh, Ern! Hai fatto presto!» esordì quello. «Speravo di riu- scire a parlarti, prima di anda- re!» Indosso aveva un elegante abito
  • 9. 7 da sera e scarpe lucidate di fresco. Si era impoma- tato per bene i capelli e la barba era stata appena rasata. Quel ragazzino di ventisei anni sembrava ancora più giovane, nei suoi abiti di classe. Come vedere un cagnolino vestire quegli imbarazzanti cappottini che gli comprano i padroni per ad- dobbarli, nemmeno fossero alberi di natale in esposizione. Si stava sicuramente preparando per andare a una festa dell’alta società, a conoscere sindaci ed eminenze, invitato dal paparino pre- sidente della compagnia a far parte dell’elite del- la città. Chissà come festeggiavano capodanno i ricconi, si do- mandò Ernest: c h a m p a g n e invece di spu- mante e came- rieri sull’attenti invece di zia Maria che porta il suo polpet- tone, poco ma sicuro; tuttavia era più incurio- sito dai discorsi che si sarebbero potuti ascoltare in una serata del genere. So- prattutto, chissà quale incredibile contributo avrebbe portato quel coglione di Mike, coi suoi discorsi motivazionali sul lavoro di squadra e la forza del gruppo: «An- diamo, facciamo, stringiamoci l’un l’altro, con- quistiamo insieme la meta» e l’altra vagonata di cazzate che propinava ai dipendenti un giorno sì e l’altro pure. Lo odiava, Dio quanto lo odiava. Per la sua arroganza, per la sua discendenza, per il fatto di non avere alcun merito né diritto nel comandare gli altri. “Ricordati, figliolo” gli aveva detto una volta qualcuno, “nella vita si fa carriera o per geni o per genitali!” Ed era vero, altroché se lo era. «Sì Mike» gli rispose Ernest, dopo averlo squa- drato con disprezzo senza che l’altro se ne ac- corgesse. «Ho fatto prima che ho potuto. Allora dimmi, qual è il problema?» «Dritto al punto, eh?» Mike si girò verso di lui, facendo vedere l’accostamento sul quale era inde- ciso: «Che ne dici? Taglio classico o esuberante?» «Dipende. Dove stai andando?» «Bah, a una di quelle noiose serate di benefi- cienza. Però, dopo, ho in programma una nottata alquanto vivace…» Ernest propose un’opzione elementare al quale quell’idiota non aveva ancora pensato: «Portatele entrambe, allora. Potrai sempre cambiarti a metà serata». «Hai ragione» reagì compiaciuto Mike. «Non ci avevo pensato! È sempre utile avere i consigli dei vecchietti. Grazie Ern!» «Figurati… allora, questo problema?» «Ah sì: sembra che ci sia un errore nel program- ma: la gente ri- ferisce di vedere volti conosciuti. Nessuno ha vo- glia di déjà-vu, Ern: Manda in pappa il cervel- lo, quella roba! Non vogliamo problemi lega- li!» «Capisco… beh, è normale che i volti coin- cidano. L’ap- plicazione non può creare dal niente». «Sì, ma voglio che trovi comunque una soluzio- ne» ribadì Mike, finendo di fare il nodo alla cra- vatta più elegante per la prima frazione di serata. «Papà ha detto che non si deve ripetere un flop come per le “vacanze di Primavera”. Non era per niente contento quando gli abbiamo presentato gli utili semestrali!» «Come vuoi, Mike…e, senti, chi mi darai come aiuto?» «Ecco» tentennò Mike, falsamente costernato. «Il fatto è che siamo a corto di gente, Ern. Le va- canze si avvicinano, capirai sicuramente…» «Intendi dire che dovrò essere soltanto io ad oc- cuparmene? Ma così ci vorranno mesi!» A Mike sfuggì uno di quei sorrisini indifferenti che tanto lo faceva odiare dalle persone: «Allora è meglio che ti metta subito al lavoro». Finito di prepararsi, Mike prese le ultime cose dalla scrivania: cellulare, mazzetta di banconote spillate, chiavi della Bentley… «Credo anzi che ti toccherà spostare le tue ferie» aggiunse poi,
  • 10. 8 fingendosi rammaricato. «Papà vuole vedere le prime demo massimo tra sei settimane, non am- mette ritardi”. «Sei settimane?» ripeté irritato Ernest. «Mi prendi per il culo?» «Hey, modera il linguaggio!» «Col cazzo, Mike! Lo sai come la prende mia moglie se le dico che dovremo spostare la nostra crociera?» Mike finì di guardarsi intorno, posando lo sguardo su mobili e ripiani, frugandosi le tasche per controllare di aver preso tutto. Non stava dando alcun peso alle proteste di Ernest, quel bastardo! «Mike, maledizione, dì qualcosa!» «Vuoi che ti dica qualcosa?» fece di rimando Mike. Si posò il pesante cappotto invernale con pelliccia sulle spalle e camminò fino a fermarsi davanti a lui, parandosi a una spanna di distanza. Ernest lo guardava fisso negli occhi, quei piccoli occhietti vicini e perfidi. «Ecco cosa c’è, Ern. Da- vanti a te hai due strade. La prima ti porta dritto dritto al tuo computer e, tra qualche ora, a casa da tua moglie: ti potrà accusare di essere arrivato tardi al cenone, e quando gli dirai che dovrete spostare le vacanze, potrà alterarsi un po’. Lo ca- pisco, sai? A volte le donne sono certe spine nel culo… la informeresti però anche del fatto che il capo ti ha concesso un extra per le ore di stra- ordinario, e sono più che certo che alla fine te la caveresti egregiamente, facendoti perdonare per la crociera con un paio di orecchini e un braccia- letto di perle». Mike, sorridente, gli abbottonò l’ultimo bottone della camicia, pizzicandogli la pelle con una scossa di dolore che per un istante lo fece rabbrividire. «Mentre adesso pensa alla seconda strada, Ern: oltre ad essere arrivato tardi al cenone, dovresti dirle di cancellare le vacanze, non soltanto di spostarle. Dovresti dirle di aver perso il lavoro, e di non poterti più permettere vizi e sollazzi, per nessuno dei due. Il cenone al quale sei arrivato in ritardo sarebbe l’ultimo pa- sto decente che fareste per molto tempo, perché mi assicurerei che le altre aziende non leggano nemmeno il tuo curriculum».  Ernest era livido in volto. «Mi stai minacciando, Mike?» «Beh… sì, dai. Questa è una minaccia. Vorrei dirti qualcosa a effetto, ma mi piace essere consi- derato una persona sincera». Mike gli passò ac- canto posandogli una mano sulla spalla. «Chiudi tutto e spegni le luci, mi raccomando. Ci vedia- mo quando torno dalle vacanze in montagna, così mi aggiorni e controlliamo lo stato dei lavo- ri» disse, congedandosi da lui con l’espressione da sbarbatello, strafottente figlio di papà. «Aspetta, Mike» lo fermò subito Ernest. «Un’al- tra cosa…» Mike ebbe appena il tempo di voltare la testa che un pugno arrivò a colpirlo alla mascella. Fu talmente repentino che per poco non gli stac- cò la testa. Quel diretto lo mandò a sbattere il naso contro lo stipite della porta, riuscendo così a raddoppiare la sua soddisfazione. Ma ancora Ernest sentiva che non era abbastanza. Mike, dopo il primo sconcerto, si riprese nel
  • 11. 9 vedersi il naso gocciolante di sangue insozzare la camicia di seta, non più candida e profumata. «Sei diventato pazzo, Ern?!» strepitò. «Stupido figlio di puttana, sei licenziato! E non è tutto: io ti denuncio, hai capito?! E ti levo anche quelle poche cose che hai! Ti strapperò via anche le mu- tande e con quelle…» Ernest arrivò come un bulldozer a colpirlo anco- ra. Non era un uomo possente e la forza non era più quella della gioventù. Però Mike era esile, era mingherlino, era debole. Arrogante a parole ma, quando ci fu da misurarsi coi fatti, riusciva solo a pararsi la testa tra le mani e scivolare a terra, fa- cendosi accompagnare dal muro. Ernest lo colpì ancora. E ancora. E ancora. E quando fu troppo rannicchiato per poterlo comodamente gonfiare di pugni come una zampogna, incominciò a cal- pestarlo e schiacciarlo. Di più e con maggiore for- za, senza fermarsi. Senza tregua. Senza ritegno. Si fermò quando la faccia di Mike era diventata ormai una polpetta. Quante volte l’aveva colpito? Venti, trenta vol- te? E quante erano state dopo che aveva perso conoscenza? Non se lo ricordava e nemmeno gli importava, a dirla tutta. Mike era a terra, in un lago di sangue che si stava allargando rapidamen- te. Per andare sul sicuro, Ernest prese a due mani un grosso soprammobile di metallo a forma di matrioska e con quello gli ridusse il cranio a pezzettini, schiacciandoglielo e spremendoglie- lo con metodici colpi alle zone ancora intatte di quella testa di cazzo. Ernest rideva, perché chissà come gli era venuto in mente la moglie Martha che faceva il suo famoso pesto in casa, e se la im- maginò lì con lui a schiacciare basilico e pinoli… sebbene basilico e pinoli di solito non emettes- sero gli ultimi, scattosi fremiti di vita quando venivano preparati. Quando fu soddisfatto si guardò addosso: aveva la giacca lurida di melma gocciolante e appiccicosa. Gli schizzi erano isterici sulla sua camicia, e i pantaloni lordi di filamenti carmi- ni. D’un tratto la mente abbandonò il pensiero della moglie, riproponendogli invece quello di Jasmina, di sotto che ancora lo aspettava. Erano passati diversi minuti, davvero lo stava sempre aspettando? Non importava più nemmeno quel- lo, ormai. Dubitava avrebbe fatto sesso con lui vedendolo in quelle condizioni, anche se non ci avrebbe messo la mano sul fuoco. Tornò all’a- scensore con quel pensiero, attraversando la quiete immacolata dello stanzone centrale spor- cando la moquette di impronte di sangue. Lasciò una scia rossa per terra come tante briciole di pane, eppure si sentiva bene, Ernest, come mai prima d’ora! Era stato liberatorio dare a Mike quanto meritava, non immaginava davvero po- tesse esserlo tanto… e infine, arrivato all’ascenso- re, gli venne voglia di provare qualcosa di ancora più liberatorio. Qualcosa che era già in program- ma da tempo. Centoventiseiesimo piano. Il terrazzo sul tetto era grande, dotato di un panorama mozzafiato e, ovviamente, deserto. Ernest dominava la città da lassù: si sentiva lo strombazzare lontano dei clacson, i rumori di milioni di persone che aumentavano di intensi- tà ogni minuto che passava, man mano che ci si avvicinava alla mezzanotte. Lui si sentiva libero e felice come non mai. Libero dalle responsabilità quando si mise a sedere oltre la balaustra, felice di quella solitudine apparente, solo in mezzo a una metropoli, quando lasciò che le gambe cion- dolassero inerti nel vuoto. L’aria era pungente sul viso ma non gli importava. Nulla importava, adesso. Mentre Ernest pontificava sulle ironie della vita come è possibile fare soltanto a un passo dall’o-
  • 12. blio, la porta del terrazzo si spalancò di schian- to: due fidanzatini, entrambi molto giovani, irruppero abbracciati l’un l’altro in un concerto di risatine e parole dolci tra innamorati. Con tutta certezza erano venuti lassù per stare un po’ da soli e godersi lo skyline dei grattacieli dall’alto. Si appoggiarono a una ringhiera facendosi dei selfie a ripetizio- ne, soltanto dopo qualche secondo il ra- gazzo si accorse della presenza di Ernest, a sedere oltre la ringhiera, che li guardava incuriosito. «Wow, capo!» esordì il giovincello con berretto al contrario, i jeans strappati e col cavallo che arrivava al ginocchio (sebbene incredibilmente i risvolti agli orli gli te- nessero le caviglie in vista). Non sembra- va sconvolto né particolarmente colpito dalla sua pericolosa posizione. «Che ci fa un matusa come te quassù?» gli domandò invece, incuriosito, «Mica vorrai farlo per davvero?» «L’idea mi piace, in realtà. Sì» rispose serafico Ernest. «Credo sia un buon mo- mento, o perlomeno uno come un altro. Non ho motivi per non farlo, se preferisci”. «Che forza, zio, c’hai il veleno nella te- sta! Io non so se avrei il coraggio» confes- sò, carico di ammirazione «però mi pare proprio un gran ficata! Senti ma… ce la faresti una foto, prima di buttarti?» «Certo. Perché no?» Ernest gli scattò una decina di foto, rimanendo sempre al suo posto. Si fece passare il cellulare del
  • 13. 11 ragazzo e cominciò a farli mettere in pose diver- se: stile Titanic, lei in braccio a lui, lui che tentò di andare in braccio a lei, loro che si baciavano… insistettero perfino per farsi un selfie con il suici- da: «Così i miei amici su facebook si roderanno il fegato dall’invidia!» si giustificò lui, quando trovò il coraggio di proporre quella posa. Alla fine la ragazza, che sembrava una fanciulla di buona famiglia innamorata di un bulletto dalle scarpe ultimo modello, si accorse delle macchie rossastre che gli avevano sporcato giaccone e ca- micia. «Che ti è successo?» domandò con la sua vocetta angelica. «Ti sei fatto male?» «Oh, no» garantì Ernest, tranquillizzandola, «non è mio questo sangue. È del mio capo». «Il tuo capo?» «Precisamente. L’ho ucciso non più di dieci minuti fa: vedi?» disse, mostrando ai ragazzi le nocche delle mani piagate dai colpi inferti. «L’ho colpito finché non ha smesso di respirare, poi l’ho colpito ancora». Alla tranquillità con la quale Ernest parlava del delitto la ragazza reagì ritraendosi, con l’espres- sione ansiosa e non più tanto divertita. Il ragaz- zo invece era al settimo cielo: «Hai ammazzato davvero un uomo? Che cosa malata!» esclamò entusiasta. «Se vuoi puoi andare a vedere al ventiduesimo piano. Il cadavere è ancora lì e ci rimarrà almeno fino alla riapertura, dopo le ferie». Il giovane si rigirò verso la fidanzatina: «Hai sentito? Andiamoci a fare una foto anche col ca- davere, che aspettiamo?!» propose impaziente, partendo a passo svelto e saltellante verso l’uscita. La ragazza rimase a qualche metro da Ernest, a fissarlo dubbiosa. «Che c’è?» le chiese lui di rimando. «Qualcosa non va?» «Perché lo hai ucciso?» replicò lei, serissima. «Beh… principalmente perché è uno stronzo. Era, pardon, era uno stronzo. E poi perché mi trattava di merda tutti i giorni dandomi compiti impossibili e facendomi richieste folli. Minac- ciandomi pure. Mi ero semplicemente stancato di lasciar correre, capisci che intendo?» «No, veramente no» replicò sincera lei. «Credimi, lo capirai crescendo». «E ora come stai?» «Ad averlo fatto, dici? Bah… ti dirò, mi sento bene. Sono felice, avrei dovuto farlo prima. Lo sai invece cos’è la cosa strana? È che Mike, prima di morire, mi aveva dato un lavoro che credevo avesse impiegato giorni per essere risolto, e inve- ce credo di aver già trovato una soluzione. Aveva ragione in fin dei conti, c’era un problema nell’ap- plicazione». «Quindi aveva ragione e l’hai ucciso comun- que?» «Non potevo sapere che aveva ragione quando l’ho fatto. Siete stati voi ad aiutarmi, sai? Se non foste saliti quassù chissà quanto avrei dovuto cer- care ancora, prima di trovare l’errore». «Ah sì? E come ti abbiamo aiutato?»
  • 14. 12 Ernest scosse il capo sorridendole dolcemente. «Non importa, mia cara. Non importa più, or- mai». Il fidanzato, che si era precipitato alla porta, ri- chiamò ad alta voce la sua ragazza, incontenibile nella sua voglia di vedere un cadavere dal vivo: «Allora, Christie, ci muoviamo o no? Dai, prima che qualcuno chiami i piedipiatti!» «Io… devo andare». «Certo, sì» la salutò Ernest. «Ci vediamo presto, Christie». Ernest lasciò che anche la ragazza sparisse alla sua vista. Christie lo salutò con la manina pri- ma di varcare l’uscita del terrazzo, scuotendo la mano e i molti braccialetti colorati che portava al polso. Tornato nuovamente solo, Ernest alzò gli occhi al cielo: la nottata era tersa, la volta celeste baluginava dei riflessi rossastri della cit- tà, nascondendo il firmamento stellato. Si alzò in piedi come per avvicinarsi ulteriormente a Dio, aprendo le braccia alla sua grazia e benevolenza. «Proprio una bella serata» disse tra sé e sé, sporgendosi in avanti. La gravità lo abbracciò inesorabi- le, il vuoto lo attirò a sé e la cor- rente d’aria lo colpì repentina, e tuttavia niente di tutto ciò riuscì a togliergli il sorriso felice appar- so sulle sue labbra. *** Ernest si risvegliò di soprassalto nel suo letto, il led della sveglia segnava le cinque del mattino. La moglie, Martha, gli ronfava sa- poritamente accanto emettendo gorgheggi profondi, e nel guar- dare la sua sagoma si domandò come sarebbe potuta essere la sua vita se avesse fatto scelte diverse. Quel sogno era ancora vivido nella sua testa, non ce l’avrebbe mai fatta a riaddormentarsi. Scel- se dunque di alzarsi e fare le cose con calma: la doccia, la barba, portare fuori Chuck, il piccolo chiwawa ormai padrone del di- vano… e sperare che in ufficio, a trovarsi Mike davanti, quel sogno non si rivelasse premonitore. Il caldo. Il fatto di aver riposato tra le tiepide braccia di Morfeo immaginando il freddo pun- gente dell’inverno, e ritrovarsi poi a dover sop- portare il caldo umidiccio della città in Luglio, era la cosa che più lo snervava. Alle otto di mat- tina c’era già un caldo insopportabile non ap- pena si entrava in strada, tanto che un minimo di refrigerio si poteva trovare soltanto andando sottoterra, per quanto viziata fosse l’aria della metropolitana. Ernest era sveglio da qualche ora e si stava diver- tendo a osservare i volti assonnati delle persone intorno, a sedere come lui nei vagoni della metro ricolmi di pendolari. La maggior parte avevano cuffie all’orecchie e sonnecchiavano tra i rimbalzi delle rotaie. Qualcuno leggeva assorto il giornale, e intanto alle sue spalle i maxischermi della sta-
  • 15. 13 zione mo- stravano le immagini della guer- ra che si stava svol- gendo in quei giorni in medio o r i e n t e . Ernest os- servò il servizio per un paio di s e c o n d i , poi l’indif- ferenza e la lontananza dal pro- blema lo portarono a riprendere il suo pas- satempo di osservare i passeggeri dormienti del treno. Si bloccò sul posto quando riconobbe due fidan- zatini che stavano seduti in disparte, vicino all’al- tra uscita. Come gli altri, anche il ragazzo portava le cuffie e sonnecchiava con gli occhialoni scuri calati sul naso, mentre la ragazza sembrava ripas- sare la lezione della mattinata nel quaderno sul suo ventre. Sentitasi osservata, alzò lo sguardo e guardò nella direzione di Ernest: gli riservò un sorriso luminoso e sincero, quindi ritornò pron- tamente ai suoi compiti dimenticandosi della sua esistenza. A Ernest sembrò di tornare a sentire il vento gelido dell’abisso falcidiargli la pelle del viso. Gli venne la nausea e gli toccò mascherare un rutto nella voce dell’altoparlante che annun- ciava la stazione successiva. Fortunatamente la sua. Si fece largo tra le persone sulla banchina come a voler scappare da qualcosa di inquietante che il suo cervello faticava a comprendere, ma si piantò nuovamente quando riconobbe lo scor- tese tassista del sogno nel barbone addormenta- to sui cartoni poco lontano, mentre i lavoratori gli sfrecciavano accanto senza notarlo. Che poi, avrebbero notato solo un cumulo di coperte e un barattolo vuoto per gli spiccioli, nemmeno un cartello scritto in una grammatica da prima ele- mentare o una chitarra con la quale guadagnarsi l’elemosina. Mentre il treno ripartiva alle sue spalle, Ernest si tranquillizzò e al tempo stesso si sentì strana- mente in colpa: quella notte il tassista gli era ap- parso di poche parole, era sembrato scorbutico e solitario… o almeno, così l’aveva immaginato. Non sapeva come mai, ma si sentiva in colpa per averlo sognato in quella maniera, come qualcuno che si era anche divertito a sfottere. Non lo aveva fatto per davvero, certo; non aveva motivo di sen- tirsi male solo per aver preso in giro un barbone quando la sua coscienza ignorava che apparte- nesse a lui la faccia del tassista! Eppure, qualcosa nello stomaco brontolava la sua disapprovazione. Arrivato al lavoro fu anche peggio: una fiumana di colletti bianchi in movimento, tra scale mobili, ascensori e destinazioni. Si rischiava di perdersi senza una guida. Per Ernest, che pure conosceva la strada, la guida era e rimaneva Jasmina; pecca- to che lei adesso fosse occupata con un ospite del- la corporazione, quello che sembrava a tutti gli
  • 16. 14 effetti uno sceicco d’Arabia. Aveva un’aria civet- tuola e flirtava con il ricco petroliere come aveva flirtato per lui nel sogno, suadente e spudorata. Ora sembrava più professionale, ma la realtà ha spesso il vizio di camuffare le cose, rispetto alla fantasia. Ernest si avvicinò al tornello senza stac- carle gli occhi di dosso. Avvicinando il badge al sensore, rimase piantato su di lei e sul corteggia- mento che stava avvenendo davanti ai suoi occhi. Per un attimo si bloccò del tutto, quando vide una mano dello sceicco passare dietro la schie- na di Jasmina e lei ridacchiare il suo consenso. Poi qualcuno della fila lo spinse bruscamente da dietro ed Ernest proseguì triste il suo percorso. Ventiduesimo piano. Nel sogno non c’era nessuno nel salone dei com- puter, soltanto bugigattoli di cartone separati comeinuncall-center.Iprogrammatorilavorava- no senza sosta all’applicazione, e quello delle bar- ricate tra un posto e l’altro era un buon modo per disincentivare inutili chiacchierate. Anche questa un’idea di Mike. Ma se durante la notte quel sa- lone era tranquillo e quieto, adesso intorno a Er- nest c’erano a l m e n o cinquanta p e r s o n e che confa- bu l av ano tra loro in una caco- fonia di inutili face- zie. L’argo- mento della mattinata sembrava- no essere “le vacanze estive”, un tema che a Ernest de- stava par- ticolare di- sagio sulla base degli a v v e n i - menti della nottata. «A spendere i soldi gua- dagnati sui tavoli da giochi e con donnine di facili costumi!» si vantò uno dei tanti bulli da ufficio che sempre esistono e resisteranno negli ambienti di lavoro. Ernest si diresse a capo chino alla sua postazio- ne, prendendovi posto insieme al solito succo di frutta e al frutto di metà mattinata. Non fece tem- po ad accendere il computer che Jim si affacciò a salutarlo da sopra la parete. Jim, quindici anni da collega vissuti come una battaglia navale. Voleva bene a quel faccione ru- bicondo, almeno finché non incominciava a par- lare. «Hey, Ern, che faccia di merda che hai!» lo ac- colse infatti quello. «Che cos’hai fatto stanotte? Per caso hai fatto sesso con tua moglie?» «Per l’amor del cielo, no» rispose sicuro Ernest, «e nemmeno con la tua, se ci tieni a saperlo». «Che ti è successo?» riprovò Jim. «Mike mi ha costretto a lavorare alla app di ca- podanno. Ho passato la nottata a sognare questo posto di merda». «Eh, quello ti ha preso di punta, amico. Non do-
  • 17. 15 vevi fare apprezzamenti sulla biondina dell’altro giorno». «E io che ne sapevo fosse sua sorella?» «Quantomeno potevi accertarti che lui non fosse a due metri da te» gli fece notare Jimmy. «Quella è stata proprio una mossa da poco!» «E tu, invece?» domandò Ernest, tentando di cambiare argomento. «Come mai sei così conten- to? Non mi dire che mi stai per dire dove andrai in vacanza: ti giuro che non lo voglio sapere dove andrai a inzuppare quel biscottaccio che ti ritrovi tra le gambe!» «Macché vacanze, le faccio ogni sera ormai! Anche ieri ho viaggiato nel…» si interruppe per sporgersi ancora di più, proseguendo sottovoce, «ho viaggiato nel web e ho trovato questa qui. La riconosci?» Jim gli passò una foto di una signora sulla cin- quantina, abbastanza attraente sebbene un po’ troppo “dichiarata” per i gusti di Ernest. «Non so chi sia». «Ma come? È quella del reparto spedizioni! L’ho portata in un localaccio dove la mia mente ha trovato libero sfogo. E della sua, invece, non ne parliamo, che potrei farti cadere gli ultimi capelli che ti sono rimasti! Dovresti provare l’esperienza, Ern. Non te ne pentiresti!» «Non mi piace il cyber-porno, lo sai». Jim si affrettò a correggerlo: «Ma puoi anche far- lo girare off-line. È come se fosse un sogno tuo e tuo soltanto, con la differenza che in questo hai un controllo di ciò che accade, lo puoi registrare, rivederlo e tutto è più nitido». «Sognare alla vecchia maniera no?» tentò di contrastarlo Ernest. «E dai» ribadì Jim. «Non hai mai sognato di scoparti qualcuno che conosci, magari qualcuno di famoso, nel tuo caso probabilmente anche un altro uomo? Cosa ci sarebbe di diverso?» «Non so» continuò a resistere Ernest. «Mi sem- bra sbagliato, o forse semplicemente non fa per me». La sirena di inizio turno suonò al di sopra delle voci, richiamando tutti alle proprie tastiere e ai propri monitor. «Secondo me proprio provare» ripropose Jim, prima di uscire dalla sua visuale «almeno non ti ritroveresti quella faccia di merda. E poi sei un dipendente: l’applicazione è dell’azienda per cui lavori, avresti pure lo sconto!» Dopo qualche minuto di lavoro, Ernest ripensò però al consiglio di Jimmy e gli venne voglia di indagare più a fondo sulla versione pornografi- ca. Chissà che sogno ci avrebbe fatto su Jasmina. Controllò che nessuno passasse dietro la sua ca- bina e cominciò a navigare le ultime novità. In effetti ce n’erano tante interessanti, proiezioni di donne che solleticavano non poco la sua fantasia. D’un tratto però si cominciò a sentire una donna piangere, nella grande stanza piena di impiegati. Era una signora sulla cinquantina, fermata da Mike il bastardo in mezzo ai corridoi mentre lei si dirigeva quatta quatta alla sua postazione, per non fare accorgere nessuno che era in ritardo di qualche minuto. Signora Bristol, gli pareva che la chiamassero: l’aveva vista qualche volta sgattaio- lare dalle macchinette automatiche con le mani piene di biscotti, dolci e patatine. Sembrava la controfigura di Mrs. Doubtfire, solo più vecchia e avvilente. La signora piangeva in modo inconsolabile: «Per favore» diceva, «la supplico» singhiozzava, «non può licenziarmi. Ho cinquantotto anni! Chi me lo dà un lavoro con la crisi che c’è?» «Dovevi pensarci prima di arrivare tardi al tuo posto» replicò impassibile Mike. «Come te ne trovo fuori cinquecento, con quarant’anni di meno e al quaranta percento di quello che pren- di te. È un favore che vi facciamo quando deci- diamo di tenere gente come te, lo capisci no? Tu rubi tempo alla società e la società se lo riprende con gli interessi, funzionano così le cose alla Dre- am Society. E per fare vedere che siamo persone comprensive, ti concedo cinque minuti per pren- dere la tua roba e liberare la scrivania, ma solo se mi prometti di smettere di piangere! Qui ci sono persone che lavorano, non le puoi mica disturba-
  • 18. 16 re con i tuoi gemiti!» Tutto l’ufficio guardava la signora Bristol tentare di porre un freno al pianto a dirotto, e cercare al- meno così di conservare un briciolo della propria dignità. Dopo qualche secondo iniziò a sembrare in grado di controllarsi. Mentre si guardava in- torno soddisfatto, tra tutti Mike si accorse pro- prio di lui, che sbirciava da sopra il suo pannello quella scena pietosa. «Ah, Ernest, proprio te!» esordì felice quel co- glione incravattato, incamminandosi verso di lui. «Aspetta a rimetterti a lavorare, ti devo parlare! Voi rimettetevi all’opera, invece: dai ragazzi, dai, sta a noi creare i sogni delle persone! Andiamo, squadra! Hop hop!» Lasciò la donna alle sue spalle, già dimenticata. Faccenda chiusa, e lo era anche per i suoi colle- ghi che si rimisero chini a battere sui tasti per creare nuove e complesse simulazioni. Ernest si rammentò all’ultimo momento della pagina por- nografica e per fortuna la chiuse prima che Mike lo raggiungesse, lasciando in bella vista la finestra del lavoro sul quale aveva lavorato tutta la notte. «Grazie ancora, Ern, per aver accettato l’incari- co» gli disse Mike, stringendogli la spalla in un gesto accomodante che doveva aver visto in qual- che film di serie B. «È una fortuna poter contare su gente come te. Allora, alla fine ce l’hai fatta a risolvere il problema?» «Si, capo» rispose Ernest. «Ho ben chiaro il da farsi. Mi ci vorranno un paio di mesi, ma se vuo- le affidarmi qualcuno in aiuto farei sicuramente prima». «No» rispose Mike, falsamente rammaricato come nel sogno. Aveva ragione, dopotutto: quel difetto dava sui nervi! «Mi dispiace, lo sai: siamo in periodo di vacanze, la gente direbbe di no an- che a un lauto straordinario, pur di andarsene da qualche parte. Sei da solo, purtroppo. In quanto conti di farcela per le correzioni?» domandò poi, ritornando a bomba sull’argomento. «Dobbiamo cominciare a ripassare tutto, per l’autunno deve essere pronto e mancano ancora un sacco di cose da fare. Non hai due mesi, mi servono tempi più brevi, Ern! Dammi qualcosa a cui aggrapparmi, su!» «Un mese per le prime righe di codice…» rispo- se alla fine Ernest, sconsolato.«Un mese e mezzo in caso di complicazioni. Mi ci metto a lavorare subito dopo il mio rientro, ok?» Il capo lo squadrò con un espressione perplessa: «Non puoi posticipare le ferie? È una cosa impor- tante per la società, dobbiamo rifarci degli utili scandalosi delle vacanze di primavera: le ambien- tazioni erano troppo inglesi, maledizione!» «Sissignore» concordò Ernest. «L’ho provata. È vero, troppo fiabesca per i gusti della gente di città». «Ah sì?» s’incuriosì Mike, «E cos’avresti fatto, tu? No aspetta, non dirmelo. Ne riparliamo verso Natale. Allora è deciso: tre settimane! Una volta finito il lavoro potrai rilassarti dove vuoi, ti con- cedo un paio di giorni in più, se vuoi». Tre settimane! Ernest gli aveva chiesto un mese e quello tirava la corda anche su quello. «Grazie signore» si costrinse invece a dire, cer- cando di apparire il più onesto possibile. «È mol- to gentile da parte sua». «Vero?» ribadì Mike, radioso. «Ah, siete fortu- nati ad avere me, ragazzi» disse ad alta voce, al- lontanandosi dalla sua postazione con una cam- minata trionfante. Lasciato solo, Ernest guardò ancora in direzione della donna appena licenziata: aveva appena fini- to di raccogliere i suoi effetti personali e sgom- brata la sua postazione. Singhiozzava e tremava, ma nessuno dei colleghi di una vita si era girato a consolarla o avvicinato a parlarle. Lavoravano tutti con auricolare e microfoni, davanti ai loro schermi, e a nessuno importava della sua sorte. Ernest la seguì con lo sguardo fino all’uscita del- lo stanzone. Nessuno la salutò. Senza più niente da guardare, Ernest si rimise seduto al suo posto. Non si rimise subito all’opera, però: dopo che la realtà si era dimostrata anche peggio della fanta- sia non ne aveva alcuna voglia! Aprì invece una nuova finestra dell’applicazione e, stavolta, andò nel reparto “Feste a Tema”. Selezionò “Festa col- leghi d’ufficio” e “Vacanze di Natale”. Nelle perso- nalizzazioni della trama inserì delle interessanti spunte: “Licenziamento Collega”, “Assassinio del proprio capo”, “Linciaggio Pubblico”. Quella notte anche la povera donna avrebbe avuto modo di vendicarsi per quello che aveva subito, e stavolta lui non avrebbe “lavorato”. Si sarebbe goduto il sogno pieno, anche a costo di pagarlo: perché Jim aveva ragione, non poteva permettersi di presentarsi al lavoro stanco com’e- ra. Se al capo diceva male rischiava di fare una brutta fine, e lui non voleva essere licenziato.
  • 19. PLAY 70X100 cm acrilico con schermo su MDF 2016 ENTER- TAINMENT WAR 115X100 cmacrilico con schermo su MDF 2016 #TOURISTS 100X70 cm acrilico su MDF 2016 URBAN BATTLE 100X70 cm acrilico su MDF 2016 ROMANTIC CONVER- SATION 100X50 cm acrilico su MDF 2016 CONSUME 70X100 cm acrilico con schermo su MDF 2016 HYBRID 70X100 cm acrilico con schermo su MDF 2016 WORK 70X100 cm acrilico con schermo su MDF 2016 JUMP! 50X70 cm acrilico su MDF 2015 BEFORE THE JUMP 125X70 cm acrilico su MDF 2016 JUMP INTO THE VOID 80X70 cm acrilico su MDF 2016 DREAMING TO FALL 80X70 cm acrilico su MDF 2016 JUMP TO- GHETER 50X70 cm acrilico su MDF 2016 CHARGING STATION 50X70 cm acrilico con schermo su MDF 2016 UPLOAD- START- GAME OVER 50X70 cm acrilico con schermo su MDF 2016 OBSTACLES 75X70 cm acrilico su MDF 2016