Report di analisi dei risultati dell'indagine "Le aziende e la crisi: come gestirla, come superarla" svolta dall'Osservatorio Legislazione e Mercati di Fondazione CUOA
Berto. From Italy with love - Annual Meeting CUOA 2014
Report d indagine "Le aziende e la crisi"
1. Osservatorio Legislazione & Mercati
CUOA Finance
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INDAGINE
Le aziende e la crisi: come gestirla, come superarla
Il supporto della banca e delle professioni
(V Panel Osservatorio Legislazione & Mercati, 15 – 16 ottobre 2010)
Il V Panel 2010 dell’Osservatorio Legislazione & Mercati investe il tema maggiormente
dibattuto nell’ultimi mesi, vale a dire la percezione da parte del mondo imprenditoriale e
bancario del fenomeno della crisi economica e finanziaria, con lo sguardo volutamente
gettato al di là del dato congiunturale e proteso a cogliere gli spunti, le idee, i mezzi
tecnici ritenuti necessari al definitivo superamento del ristagno produttivo e finanziario.
Il campione considerato include 100 risposte provenienti da aziende e 50
risposte provenienti da istituti bancari e finanziari.
Il campione delle imprese registra una lieve prevalenza di piccolo medie imprese
(fatturati sino a 50 milioni, pari a circa il 60% del campione) e una presenza di medio
grandi e grandi imprese (con fatturati, rispettivamente, sino a 250 milioni e oltre tale
soglia pari a poco più del 40%). Il 77% delle imprese aderenti all’indagine è sito in
Veneto e Friuli Venezia Giulia, un ulteriore 7% opera in Emilia Romagna,il 16% sul
restante territorio nazionale.
Quanto alle banche, più dell’81% dei partecipanti all’indagine sono istituti di taglio
tradizionale, il 7% è rappresentato da banche d’affari e il residuo 12% esprime istituti di
altra specializzazione e vocazione. L’estrazione geografica segnala che il 91% del
campione riguarda istituti operanti nel Triveneto.
L’indagine è stata condotta mediante quesiti a risposte bloccate con facoltà di fornire
una sola risposta, al precipuo fine di cogliere con la massima possibile precisione,
rispetto ai differenti temi trattati, l’orientamento prevalente degli intervistati. Come si
noterà, infatti, le risposte si incentrano su valutazioni talora molto sfumate, per le quali
sarebbe presumibile una tendenziale condivisione di tutte o quasi tutte le risposte.
L’indagine è stata costruita su undici quesiti valutativi rivolti sia alle imprese che alle
banche, mentre alle prime sono stati posti due quesiti aggiuntivi specifici di taglio
prettamente congiunturale.
La prima e ovvia domanda, avente ad oggetto l’impatto della crisi sull’azienda, rivela
una risposta alquanto prevedibile ancorché più ottimistica rispetto alle fosche
aspettative suggerite dal corso degli eventi. Sebbene il 79% del campione dichiari di
aver risentito della crisi economica in corso, il 31% dichiara che la contrazione del
fatturato si è mantenuta entro limiti poco rilevanti, il 9% dichiara un fatturato
sostanzialmente stabile, mentre il 12% denuncia addirittura un incremento. Il quadro
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2. complessivo denota quindi che solo poco meno della metà del campione (48%) ha
avvertito pesanti ripercussioni nel quadro congiunturale negativo. Il dato è
estremamente significativo, in quanto testimonia, al di là di contrari convincimenti, una
buona solidità delle imprese italiane e una buona capacità di autonoma reazione anche
a stati di mercato particolarmente gravi. In breve, una su due ha resistito al pesante
urto del periodo.
Ancor più interessante l’esito dell’indagine relativa agli strumenti di reazione esperiti
dalle imprese per fronteggiare l’andamento critico dei mercati. La logica ristrutturativa,
basata sul metodo più diretto e socialmente più impattante (riduzione del personale e
ricorso alla CIG) riguarda solo il 29% del campione, circa l’8% si orienta verso la
ristrutturazione del debito, uno scarso 7% pensa a soluzioni di tipo aggregativo. Il dato
invece più significativo, testimone della predetta capacità di autorigenerazione, è
rappresentato dal 56% delle imprese intervistate le quali dichiarano che il più efficace
strumento anticrisi è rappresentato dalla definizione di nuove strategie di business.
Nuovamente, dunque l’impresa ritiene di poter trovare in se stessa motivazioni e
risorse sufficienti per riorientare la propria strategia, mentre appare sicuramente
significativo – e in qualche misura alquanto sorprendente – il fatto che le aziende non
considerino il problema finanziario quale una priorità o ne valutino la sua soluzione
come un mezzo di uscita dalla criticità. Dato questo che si presta ad una bivalente
lettura, ora basata sull’effettivo convincimento della “secondarietà” del problema
rispetto al primario obiettivo di rafforzamento delle strategie aziendali, ora frutto di una
crescente sfiducia nella possibilità di intrattenere un costruttivo dialogo con il sistema
creditizio.
Venendo a profili più specifici e riferiti ai quesiti rivolti a entrambe le categorie di
operatori, alla domanda riguardante gli interventi necessari al sistema per il
superamento definitivo della crisi, la visione delle aziende e delle banche converge
(41% delle prime e 43% delle seconde) nel ritenere prioritario l’investimento in
formazione teso a favorire il diffondersi di una maggior cultura finanziaria. Le aziende
credono poi fortemente (40%) utile un intervento legislativo di revisione delle norme
che impattano sulla gestione aziendale, opinione condivisa, sia pur in termini
lievemente più contenuti (30%), anche dal mondo bancario. Il terzo intervento
suggerito (accordi di settore per migliorare la relazione fra banca e impresa) viene
ritenuto il vero strumento di uscita dalla crisi da parte di un abbondante quarto delle
banche (circa il 27%), mentre le aziende si mostrano più tiepide al riguardo (poco più
del 19%). Quest’ultimo dato, coerente con la scarsa importanza attribuita dalle imprese
alla ristrutturazione del debito rivelata dalle risposte al precedente quesito, parrebbe
avvalorare la seconda lettura sopra suggerita, che vede un sistema imprenditoriale
forse deluso dalla, e comunque poco fiducioso nella, praticabilità di un effettivo dialogo
col mondo bancario: la maggior disponibilità di quest’ultimo alla ricerca di questa
soluzione pare testimoniare una sorta di rincorsa della realtà bancaria nei confronti di
quella imprenditoriale. Estremamente positivo, invece, il dato dianzi enunciato circa la
crescente coscienza dell’indispensabilità di un maggior acculturamento finanziario in
funzione di una altrettanto più cosciente gestione dei rapporti creditizi.
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3. Il problema dell’intervento sulle regole vede pressoché concordi, come si è appena
notato, i due attori del mercato. Scendendo nel dettaglio e domandando quale tipo di
intervento normativo parrebbe concretamente auspicabile, entrambi gli attori
giungono a conclusioni pressoché identiche. Il 48% delle aziende e il 45% delle
banche non ritengono prioritaria una variazione del sistema attuale, attraverso
addizione o ablazione di norme, bensì reputano fondamentale una loro
semplificazione. Circa il 31% delle aziende e il 32% delle banche considerano invece
essenziale l’abolizione di norme superflue e inutili, mentre solo il 21% delle imprese e il
22% delle banche auspica l’introduzione di nuove regole atte a colmare lacune
normative. Il dato segnala una condivisa “stanchezza” dell’intero sistema verso
l’establishment normativo e la sua sostanziale inadeguatezza a servire gli effettivi
quotidiani bisogni del mercato: la richiesta di semplificazione e/o di abolizione
normativa rappresenta infatti la priorità di fondo per l’80% di entrambi i campioni.
Un significativo e, per taluni versi, preoccupante scollamento di vedute si registra
invece là dove si interroghi il mercato circa i fattori che potrebbero agevolare
l’impresa nel rapporto con la banca. Il 31% delle aziende trova onerose le condizioni
praticate, mentre solo poco più del 3% del mondo bancario condivide questa lettura. La
quale, se da un lato appare espressione di una fisiologica contrapposizione di
interessi, per altro verso sembra esprimere il fondamento di quella sostanziale difficoltà
di dialogo fra i due versanti emergente dai tiepidi giudizi sopra esaminati che il mondo
aziendale esprime in merito all’efficacia di soluzioni o accordi volti a migliorare quel
dialogo. Per vero, tale rilievo pare confermato dalle stesse ammissioni del sistema
bancario, il cui 58% non esita a dichiarare che una maggior celerità nella risposta alla
clientela, unitamente ad una maggior certezza della medesima (quasi 38%),
potrebbero contribuire al miglioramento del rapporto. Posizione nella sostanza sposata
dalla maggioranza delle imprese (circa il 70%) con una netta prevalenza del requisito
di celerità (poco più del 40%) rispetto a quello di certezza (29% circa). E’
estremamente significativa, in questo senso, la presa di coscienza da parte dello
stesso mondo bancario della necessità di agire pesantemente sul versante della
qualità del servizio.
In che modo sta modificandosi l’approccio al credito da parte delle banche?
Muovendo dalla visione di quest’ultime, la concessione di credito porrebbe oggi
primaria enfasi sui fondamentali dell’impresa e sulla credibilità dei piani economici e
finanziari (30% per ciascun profilo). Un’enfasi ancora accentuata sui dati prettamente
quantitativi è dichiarata dal 20% del campione bancario, mentre il restante 20%
privilegia ancora la valutazione del trend pregresso e attuale. La percezione delle
imprese non si discosta molto da questa visione. Il 29% delle aziende ritiene che le
banche prestino oggi maggior attenzione ai fondamentali dell’impresa e il 26%
concorda nel ritenere preminente la credibilità dei piani economici e finanziari. Il
giudizio si sbilancia sensibilmente in relazione ai due restanti fattori: più del 35% delle
imprese ritiene che la visione quantitativa stia prevalendo e che invece stia perdendo
terreno il rilievo dell’aspetto andamentale del rapporto (neanche il 10% delle imprese lo
ritiene più un fattore determinante). Prescindendo da questo scollamento di opinioni in
merito agli approcci di taglio tradizionale (che segnerebbe un ripiegamento prudenziale
e “aritmetico” del sistema bancario, svalutandosi con ciò il rilievo della condotta del
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4. cliente), il dato più significativo è che oltre la metà del sistema bancario pare aver
ritarato il suo metodo valutativo in ragione delle potenzialità di sviluppo dell’impresa: un
indicatore importante di un processo di svecchiamento nell’approccio all’erogazione del
credito che viene confermato, in quanto avvertito come tale, da una quasi eguale quota
del mondo imprenditoriale. In altri termini, tende a contare di più il dato prospettico, se
vogliamo la “scommessa” sul futuro aziendale più che la ragionieristica considerazione
del dato contingente.
Alquanto sorprendente l’esito dell’indagine circa la percezione, da parte delle imprese,
dell’utilizzo del rating bancario. Le banche escludono radicalmente che le imprese lo
percepiscano come uno strumento capace di produrre una fedele fotografia
dell’impresa quali che ne siano le concrete condizioni di salute finanziaria. Secondo il
18% delle banche, le imprese ritengono che il corretto e flessibile uso del rating sia di
giovamento solo alle imprese in buona salute, ma è la percezione negativa a farla da
padrona. Secondo l’82% delle banche, le imprese ritengono che le banche utilizzino il
rating in termini rigidi e poco flessibili. Diversa la percezione dei diretti interessati. Il
giudizio negativo è condiviso dal 42% del campione (l’esatta metà di quello bancario),
un 13% ritiene invece che il corretto e flessibile utilizzo del rating consenta un tracciato
fedele dell’impresa quali che siano le sue condizioni, mentre sale al 45% (quasi il triplo,
dunque, della analoga percezione bancaria) la percentuale di aziende che ritengono
che l’uso corretto del rating raggiunga il suo scopo solo per le imprese in buona salute.
Con ogni probabilità il divario di valutazione dipende da un fattore prettamente
quantitativo, ovvio essendo che un rating positivo su un’impresa in ottime condizioni
reagisca altrettanto positivamente sul costo dell’indebitamento. Singolare comunque la
circostanza che siano le banche, più che le aziende stesse, a ritenere che il rating sia
da quest’ultime percepito come uno strumento sostanzialmente mal utilizzato.
Le opinioni tendono a riavvicinarsi nel momento in cui si indaghi il metodo di
comunicazione del rating dal sistema bancario a quello imprenditoriale. Il 22% delle
banche ritiene di comunicare il rating in termini chiari e puntuali capaci di consentire
l’adozione di coerenti scelte da parte delle imprese. Ma quest’ultime ne convengono
solo in parte: solo il 12% ritiene la comunicazione efficace. Sorprende invece come
nuovamente le difficoltà e le inefficienze di comunicazione sia avvertite dallo stesso
sistema bancario. Sia il 63% delle banche, sia il 63% delle imprese convengono sul
fatto che le banche adottino un metodo di comunicazione del tutto impreciso e
superficiale inidoneo a consentire alle imprese di adottare scelte conseguenti e
coerenti, così come il 15% circa delle banche dichiara di non comunicare affatto il
rating (percentuale che sale al 25% nella visione delle imprese). Nuovamente una
difficoltà di dialogo o, in definitiva, una “condivisa avversione” (o refrattarietà) per
questo strumento valutativo (profilo questo che spiegherebbe la rilevanza meramente
quantitativa della valutazione parzialmente positiva espressa nel quesito precedente)?
Giudizi qualitativamente difformi si registrano invece in merito al ruolo del
professionista in sede di supporto alle imprese in stato critico. Il 41% delle banche
ritiene il professionista un ausilio essenzialmente volto a far prendere coscienza
all’azienda delle sue reali esigenze finanziarie, mentre il 26% reputa la presenza
professionale un fattore di miglioramento nel dialogo banca – impresa. Un altro 26%
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5. vede nel professionista un ausilio allo sviluppo della capacità di compiere scelte di
bilancio e finanziarie improntate a maggior trasparenza e solo un modesto 7% del
mondo bancario ritiene il professionista capace di assistere l’impresa nell’attuazione
efficace delle sue strategie. Su quest’ultimo punto l’opinione delle aziende è
nettamente opposta. Circa il 37% ritiene il professionista, prima di tutto, un valido
assistente strategico, il 23% condivide la posizione delle banche circa la funzione del
professionista quale stimolatore di trasparenza, solo il 17% lo ritiene utile nel dialogo
bancario, mentre il 23% lo reputa essenziale nella presa di coscienza del reale
fabbisogno finanziario. Questa diversa impostazione non stupisce se si considera il
diverso approccio e la diversa aspettativa che l’uno e l’altro versante dispiegano e
maturano nei confronti del professionista che intervenga in favore di un’azienda in crisi:
per quest’ultima un consulente e un “protettore” del patrimonio aziendale, per la banca
un facilitatore nella gestione del rapporto critico. Resta comunque confermata e
condivisa, sia pur per ritenute opposte esigenze, l’essenzialità della figura
professionale nella gestione della congiuntura critica.
Le opinioni tendono a riavvicinarsi su un altro tema di massimo rilievo nella gestione
della crisi imprenditoriale, vale a dire la reale possibilità di conciliare politiche di
contenimento e riduzione dei costi con politiche di nuovi investimenti. La
stragrande maggioranza delle imprese (84%) e delle banche (75%) reputano la
conciliazione possibile solo a patto di una precisa analisi della sostenibilità finanziaria
degli investimenti: possibilità che viene ammessa dall’11% delle imprese e dal 21%
delle banche solo in presenza di una forte patrimonializzazione dell’impresa. Concorde
nell’affermare l’inconciliabilità degli obiettivi il 4% circa sia delle banche che delle
imprese. La sintesi del dato esprime dunque un atteggiamento fortemente possibilista,
che si pone quale buon auspicio nel percorso di raggiungimento di obiettivi condivisi
dai due versanti.
Ma quali, fra gli investimenti, andrebbero privilegiati quali strumenti anticrisi?
Contrariamente alle attese, le banche non credono per nulla (0%) e le imprese credono
veramente poco (3%) nella forza di una pubblicità aggressiva. Si pensa di più alla
sostanza: prevalgono gli investimenti di ricerca e sviluppo (lo credono il 50% delle
banche e il quasi il 43% delle imprese) e gli investimenti di innovazioni di processo tesi
a ridurre costi e sprechi e a razionalizzare la produzione (lo pensano il 38% delle
imprese e il 35% delle banche). Gli investimenti in formazione sono ritenuti prioritari dal
16% delle imprese e dal 15% delle banche. Quest’ultimo dato non appare in
contraddizione con quello riferito al terzo quesito in tema di rilevanza della formazione:
in quella sede infatti la formazione cui si allude è volta all’acculturamento finanziario,
mentre la formazione aziendale tout court è avvertita, nella scala delle priorità
decisionale, come inferiore rispetto agli obiettivi di sostanza sopra indicati. Nel
complesso il dato appare invece coerente con le risultanze dell’indagine sul secondo
quesito: se, come si è visto, la metà del mercato vede nella definizione di nuove
strategie di business il principale percorso di fuga dalla crisi, diviene spiegabile, nella
definizione delle priorità, che l’investimento in ricerca e sviluppo assuma una
collocazione privilegiata.
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6. Come si è rilevato in relazione al secondo quesito, solo il 7% delle imprese ritiene le
soluzioni di aggregazione un efficace strumento per combattere il ristagno
economico. Aprendo lo spettro valutativo e domandando alle imprese e alle banche se
comunque le aggregazioni sono destinate ad aumentare, il mondo imprenditoriale
mantiene un atteggiamento molto prudente, quando non diffidente. Il 30% lo ritiene
inevitabile in relazione all’acuirsi delle sfide competitive, mentre il 27% esclude che la
mentalità imprenditoriale favorisca un simile processo, cui si aggiunge il residuo 43%
per il quale l’aggregazione è destinata ad avere ampio futuro solo se attuata in forma
leggera, prioritariamente attraverso soluzioni di carattere contrattual-cooperativo (joint
venture, consorzi, etc.). Traspare evidente dal dato una complessiva (70% del
campione), forte resistenza del mondo imprenditoriale a soluzioni in grado di intaccare
lo zoccolo proprietario aziendale. Similare la posizione assunta dal mondo bancario:
crede allo sviluppo dell’aggregazione il 37% del campione, lo ritiene impraticabile per
ragioni di mentalità il 30% e preconizza soluzioni leggere il 33%. Se il dato può essere
testimone di un, in sé apprezzabile, “orgoglio proprietario”, esso nondimeno lancia
segnali preoccupanti circa l’effettiva possibilità delle aziende di aprirsi al capitale terzo
e di ridurre la loro dipendenza dal mondo bancario, il quale non casualmente esprime
previsioni sostanzialmente collimanti.
Siffatto atteggiamento di tendenziale chiusura del sistema imprenditoriale trova
indiretta ma inequivoca conferma nell’esito della indagine sull’ultimo quesito, teso a
verificare il sentiment del mercato sul private equity quale strumento alternativo di
finanziamento. Appena il 10% delle imprese ne preconizza uno sviluppo in ragione del
maggior fabbisogno futuro di capitale di rischio, ma il 35% nega che il private equity
possa conciliarsi con la cultura della piccola e media impresa e il 55% è incline a
ritenere che il private equity in tanto possa funzionare in quanto non si prefigga scopi
meramente finanziari. Le imprese insomma non gradiscono un partner finanziario puro
avulso dalla realtà gestionale: posizione questa in sé alquanto antitetica rispetto al
modello organizzativo e funzionale tipico di siffatta metodologia di investimento. In tale
contesto non appare stupefacente che il mondo bancario a sua volta esprima una
valutazione molto simile. Crede nel private equity il 37% delle banche, non vi crede il
7%, mentre il 56% del mondo bancario esclude un futuro per il private equity solo
finanziario. Una simile presa di posizione, più giustificabile per la cultura dell’impresa
proprietaria, appare meno credibile se professata dal ceto bancario, la cui motivazione
sembra in tal caso più incline ad osteggiare un fenomeno avvertito come
pericolosamente concorrente nella corsa all’alimentazione finanziaria dell’impresa.
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