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PSICOPATOLOGIA DEL DSA ED
      ADOLESCENZA



…ed uno sguardo alla normativa…

     di Rossana Gabrieli

   TERAMO, 27 ottobre 2010
- …ma mio figlio è diventato dislessico
  perché noi genitori ci siamo
  separati???....
Spesso, alla dislessia si accompagna anche un
disagio emotivo o un disturbo psicopatologico.

Durante l’XI° Congresso Nazionale
dell’AID (2008) è emerso che 4
bambini dislessici su 10 manifestano
un deficit di attenzione e che più
della metà di individui con un DSA,
sia adulti che bambini, sviluppano
problematiche di tipo emotivo,
comportamentale e relazionale.
La letteratura internazionale concorda nel rilevare
  che una parte dei soggetti con DSA presenta
   anche disturbi di carattere psicopatologico.


 Bandura (1999): la scarsa autoefficacia percepita
 e la mancanza di autostima derivanti da problemi
 scolastici costituirebbero fattori predittivi della
 sindrome depressiva
 Grover (2005): le difficoltà scolastiche, già a
 partire dalla prima classe della scuola primaria,
 diventano fattore di rischio nelle manifestazioni
 ansiose
Trascurare la relazione tra disagio
 psicologico e dislessia è rischioso
 almeno quanto sottovalutarne gli
 effetti sul piano
 dell’apprendimento: se la
 dislessia può essere compensata,
 infatti, le conseguenze sul piano
 emotivo e psicopatologico
 possono persistere,
 condizionando la vita futura.
La dislessia è classificata dal DSM-IV tra i
disturbi specifici di apprendimento, dove
per “disturbo specifico di apprendimento”
dobbiamo intendere i soli disturbi delle
abilità scolastiche (oltre alla dislessia:
disortografia, discalculia, disgrafia).
L’International Dyslexia Association e l’
Associazione Italiana Dislessia
definiscono:
“La dislessia evolutiva è una disabilità
specifica dell’apprendimento di origine
neurobiologica”.
In Europa, secondo i dati
forniti dalla European Society
of Dyslexia, il problema della
dislessia interessa
complessivamente almeno
l’8% della popolazione
europea, con una maggiore
incidenza nei maschi rispetto
alle femmine.
C’è ancora da sottolineare
l’importanza dell’interazione tra
fattori biologici ed ambientali
nell’insorgenza del disturbo specifico
di apprendimento.
G. Stella (2007) sostiene che “se
l’ambiente è ostile anche le disabilità
lievi verranno messe in evidenza; se
l’ambiente è favorevole, allora le
disabilità lievi avranno
un’espressività così bassa da
scomparire”.
Al fine di ottenere una corretta
interpretazione del problema e,
conseguentemente, poter adottare le
scelte riabilitative e terapeutiche più
idonee, è importante, durante la fase
diagnostica, condurre un’analisi
psicologica per indagare tutte quelle
espressioni di disagio emotivo e
sociale che possono accompagnare il
disturbo di apprendimento.
Le due diverse condizioni (DSA e
psicopatologia) non necessariamente
hanno una natura indipendente, ma
le espressioni psicopatologiche
possono rappresentare l’esito di
un’esperienza emotiva e relazionale
a sfondo negativo che emerge a
causa del problematico percorso di
apprendimento che il bambino
dislessico si trova ad affrontare.
La letteratura scientifica riferisce una comorbilità pari al
  50% dei casi analizzati proprio tra disturbi specifici di
apprendimento e disturbi psicopatologici -elencati nel DSM
      IV- sia esternalizzati che internalizzati, quali:
  disturbi dell’umore, disturbi d’ansia,
  disturbi somatoformi; dette manifestazioni
  possono condurre all’allontanamento dalla
  scuola e, in ogni caso, influiscono
  negativamente sul recupero delle difficoltà
  di apprendimento;
  disturbo da deficit di attenzione e
  iperattività, disturbo oppositivo-
  provocatorio, disturbi della condotta; tale
  genere di problemi può favorire il
  disadattamento scolastico e la devianza
  sociale.
Possiamo indicare, in maniera più analitica,
  le seguenti percentuali di comorbilità:
 ansia generalizzata 25% (Biederman J., Newcorn
 J., Sprich S., 1991)
 disturbo bipolare 11% (Biederman J., Faraone S.,
 Mennin D., Mundi E., O’Donnel D., Wozniak J.,
 1997)
 disturbo oppositivo-provocatorio dal 54 al 67%
 (Barkley R.A, McMurray M.B, Edelbrock C.,
 Robbins K., 1990)
 disturbo della condotta dal 44 al 50%
 (Biederman J., Newcorn J., Sprich S., 1991)
 cefalea, con una maggiore frequenza rispetto alle
 precedenti patologie (Barkley R.A, McMurray
 M.B, Edelbrock C., Robbins K., 1990).
È facile intuire come la
contemporaneità di disturbi
differenti, in assenza di un percorso
valutativo e diagnostico accurato,
possa complicare la messa in atto di
un piano di interventi adeguato.
QUALCHE ESEMPIO
“Sono Mattia e ho 19 anni. Prima di
 risolvere la mia situazione ho attraversato
 varie peripezie. All’asilo i miei disegni
 erano indecifrabili…ma i grossi problemi
 sono iniziati con la scuola elementare.
 Scrivevo male e leggevo peggio. Ero
 continuamente sollecitato a fare meglio e,
 siccome la cosa non avveniva, sono
 arrivate le brontolate poi i brutti voti e la
 costrizione a riscrivere il compito dopo
 aver strappato la pagina. Questa
 punizione mi gettava nella disperazione
 più violenta perché per me aver scritto
 quella pagina aveva voluto dire una
 grande fatica fisica e mentale”.
“…E io incominciavo a leggere
piano…Impiegavo sempre un’eternità
a leggere una parola intera e,
quando finivo, avevo dimenticato
quali erano le lettere all’inizio. Così la
parola perdeva significato e non
trovavo il nome da dare alla
cosa…Pensavo di non
riuscire a far niente di giusto che
avesse un riconoscimento qualsiasi
da parte degli altri”.
“Mio figlio in prima elementare è stato
 annientato nella sua identità di
 persona…reputato incapace, stupido,
 svogliato e pigro, è diventato in pochi
 mesi un bambino depresso e
 psicologicamente distrutto. Invece era
 semplicemente dislessico…Ora fa la quinta
 elementare, ma le difficoltà sono sempre
 dietro l’angolo. Basta una supplente poco
 competente o una presa in giro di un
 compagno per riaprire in lui una profonda
 ferita. La sua autostima è un cristallo che
 si frantuma con un semplice tocco”.
Nel 1969, il Dipartimento della Sanità
U.S.A. avverte che “…il fallimento
iniziale dello studente
nell’apprendimento della lettura può
avere enormi conseguenze in termini
di adattamento emotivo, tendenza
alla delinquenza, problemi di
abbandono degli studi, difficoltà ad
ottenere un impegno…”.
L’insorgenza di una disfunzionalità di tipo
psicosociale laddove è presente un DSA
non è affatto scontata e, in ogni caso,
essa è strettamente in relazione con la
gravità dello stesso disturbo di
apprendimento, del numero e del tipo di
caratteristiche ad essa correlate e della
presenza di fattori che influiscono sulla
prognosi globale del soggetto.
Tuttavia, non è difficile osservare come,
nel bambino dislessico, spesso la
sofferenza si aggiunge a sofferenza.
Il soggetto può mettere in atto le strategie più disparate per
cercare di fronteggiare “l’emergenza scuola” e contenere il
       proprio disagio; infatti, non di rado il dislessico:
  - lamenta disturbi somatici quando deve
  recarsi a scuola
  - ha crisi di pianto
  - rifiuta di svolgere le attività che sono per
  lui fonte di disagio e di umiliazione
  - è aggressivo o molesto nei confronti dei
  compagni
  - si distrae durante la lezione e lo
  svolgimento dei compiti scolastici
  - si isola e cerca di “nascondersi” nel
  gruppo classe.
Un dato preoccupante ci viene fornito da
uno studio di Luciano e Savage (2007): i
bambini che presentano un DSA sono, più
spesso degli altri coetanei, vittime di atti
di bullismo a scuola. In questa cornice,
poco confortante, non c’è da stupirsi che si
sviluppi nel bambino dislessico una forte
componente ansiogena, legata sia alle
proprie prestazioni che al tipo di relazione
instaurata con gli insegnanti ed i
compagni.
L’atteggiamento della scuola
Il ruolo della scuola nell’intercettare i
segnali di disagio e nell’intervenire
tempestivamente è fondamentale.
Sono, infatti, proprio gli insegnanti
che possono cogliere per primi le
situazioni critiche evidenziate
dall’alunno nel percorso di
apprendimento
Una delle aggravanti del disturbo è
costituita dal suo mancato
riconoscimento.
Una delle aggravanti del disturbo è
costituita dal suo mancato
riconoscimento. Strumenti essenziali
perché la dislessia possa essere
riconosciuta e compresa sono la
formazione ad hoc di insegnanti e
dirigenti scolastici e la garanzia di
una diagnosi effettuata da un’ equipe
specialistica qualificata.
L’insegnante ha il dovere di
conoscere le caratteristiche di un
disturbo specifico di apprendimento e
sapere che taluni aspetti possono,
almeno in parte, essere modificati.
Ma deve anche accettare il fatto che
qualcosa non si modificherà.
L’approccio metodologico-didattico
sarà flessibile: non è il bambino
dislessico che deve adattarsi alla
strategia di insegnamento del
docente, semmai è esatto il
contrario.
In troppi casi nel passato – e purtroppo
ancora oggi –si finisce con l’etichettare
come “impreparato”, “distratto”,
“svogliato” o, peggio ancora, “poco
intelligente” l’alunno dislessico solo perché
si è incapaci di interpretarne le difficoltà.
Quando questo accade, l’alunno elabora
un’immagine di sé improntata alla sfiducia
che si traduce successivamente e
facilmente in demotivazione e
disinteresse.
Sarà importante, allora, introdurre
opportuni “rinforzi emotivi”,
instaurando relazioni empatiche che
aiutino l’alunno a recuperare fiducia
in se stesso, sicurezza, motivazione
al fare.
L’instaurarsi di una relazione positiva
tra insegnante e bambino dislessico
contribuirà a fargli superare l’ansia e
gli offrirà modalità adeguate per
esprimere le proprie emozioni.
L’atteggiamento della famiglia
I genitori assistono alle “defaillance”
scolastiche del figlio
Può capitare che costringano il
bambino ad estenuanti e faticosi
esercizi di lettura, con il solo risultato
di incrementare il senso di
frustrazione del proprio figlio.
Il pericolo maggiore, come sempre, è
ignorare o rifiutare l’esistenza di un
disturbo, il che, detto in altri termini,
significa, da parte dei genitori, non
accettare la “diversità” del figlio e sentirsi
narcisisticamente feriti, avendo investito
tutto sulla sua riuscita scolastica.
Sarebbe auspicabile, invece, che il
bambino potesse essere aiutato in ambito
familiare a compensare la sua fatica nei
compiti di lettura e scrittura, magari
valorizzando le sue competenze relative
ad attività di tipo extrascolastico che
maggiormente lo gratificano.
Il rapporto che il bambino ha instaurato
con i genitori e, in particolare, con il
caregiver che solitamente è la madre,
costituisce una delle variabili ambientali
che incidono maggiormente sugli esiti del
suo percorso evolutivo
Quanto più egli percepirà nella madre un
atteggiamento teso alla comprensione e
all’accoglienza, tanto più sarà in grado di
controllare e superare i fattori negativi che
possono influenzarne lo sviluppo affettivo,
emotivo e cognitivo.
La complessa interazione tra difficoltà
scolastiche e componenti emotive,
affettive e relazionali del soggetto può
condurre al rafforzamento e alla
cronicizzazione dei disturbi presentati.
Nel bambino dislessico, il fallimento legato
all’insuccesso scolastico ricade sulla
percezione del Sé. Egli si forma un’idea
negativa circa le proprie abilità e la sua
possibilità di riuscita in un ambiente che
gli richiede performance al di sopra delle
sue capacità.
Quale “sé” nel ragazzo dislessico?
Chapman (1988) descrive una
componente del sé, il “Sé
accademico”, vale a dire la
rappresentazione di se stesso sul
piano scolastico, che nei bambini con
DSA è particolarmente rilevante in
quanto non di rado determina una
fragilità interiore, a riflettere una
sensibile debolezza dell’autostima.
La ricerca ha rivelato che i soggetti
con DSA hanno una concezione
statica dell’intelligenza con frequenza
significativamente maggiore rispetto
ai controlli non-DSA. Ne consegue
che i primi appaiono demotivati e
non investono nell’impegno
personale.
I soggetti con un disturbo di
apprendimento hanno la tendenza ad
attribuire le performance positive a
fattori esterni, estranei al loro
controllo (locus of control esterno) e
le esperienze fallimentari a variabili
interne (locus of control interno).
Da ciò scaturisce un atteggiamento
passivo rispetto alla realtà.
Le persone che riconducono il
successo a fattori incontrollabili, non
agiscono in maniera produttiva per
raggiungere gli obiettivi prefissati,
finendo con il confermare
l’insuccesso pronosticato, in una
sorta di “profezia che si autoavvera”.
(Bandura, 1997): se non si è convinti
delle proprie capacità nel
raggiungere gli obiettivi prefissati
cade la motivazione e diminuisce
l’impegno. I bambini con DSA,
rispetto ai bambini senza difficoltà di
apprendimento, tendono a rinunciare
facilmente e abbandonano il lavoro
alle prime difficoltà
Scuola, famiglia, comunità sociale in cui il
ragazzo è inserito dovrebbero aiutare
quest’ultimo, attraverso una
collaborazione sinergica, a sviluppare una
concezione positiva di sé e delle proprie
potenzialità, ma soprattutto dovrebbero
rivedere il proprio atteggiamento e le
proprie aspettative, considerando gli
interessi e le reali capacità e necessità
della persona.
Esaminiamo più specificatamente alcuni tra gli esiti
emotivi, comportamentali e relazionali correlati alla
                    dislessia.
  - Rabbia e aggressività: nasce dalla
  constatazione che si è, in qualche modo,
  “diversi dagli altri”, i quali riescono a
  conseguire risultati, a livello scolastico,
  impossibili per il dislessico; nasce anche
  dalla sofferenza per non essere compresi.
  Tali emozioni possono manifestarsi
  attraverso schemi comportamentali quali
  dissentire, offendere e minacciare,
  compiere atti distruttivi diretti
  intenzionalmente a danneggiare cose o
  persone.
- Vergogna e perdita di autostima:
l’umiliazione che sorge dall’uscire
perdenti nel rapporto con gli altri si
traduce in senso di inferiorità. La
certezza della sconfitta induce il
bambino ad isolarsi e ad evitare
situazioni di confronto con i suoi
compagni. Imporre la lettura ad un
alunno dislessico di fronte alla classe,
per esempio, costituisce
un’esperienza umiliante che accentua
il suo sentimento di vergogna.
- Paura, ansia e depressione. La
paura è una risposta adattiva legata
alla percezione di una minaccia. Nel
caso di un bambino dislessico tale
minaccia può essere rappresentata
da lettere e numeri da decifrare, dal
giudizio dell’insegnante, da un
ambiente ostile. L’espressione
patologica della paura è costituita dal
disturbo ansioso, che si può
manifestare attraverso attacchi di
panico e fobie.
Daniel, Walsh, Goldston, Arnold,
(2006) osservano che gli adolescenti
con difficoltà di lettura abbandonano
la scuola in percentuale 6 volte
maggiore rispetto agli altri e hanno
pensieri e gesti suicidi in misura 3
volte maggiore.
In conclusione
Occorre lavorare sulle potenzialità della
persona. Per fare questo, sono necessarie
conoscenza e competenza da parte di
coloro che sono responsabili dello sviluppo
del bambino. Soprattutto, è indispensabile
la giusta dose di sensibilità per
comprendere quanto dolore può
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Psicopatia del dsa ed adolescenza, abruzzo, Gabrieli

  • 1. PSICOPATOLOGIA DEL DSA ED ADOLESCENZA …ed uno sguardo alla normativa… di Rossana Gabrieli TERAMO, 27 ottobre 2010
  • 2. - …ma mio figlio è diventato dislessico perché noi genitori ci siamo separati???....
  • 3. Spesso, alla dislessia si accompagna anche un disagio emotivo o un disturbo psicopatologico. Durante l’XI° Congresso Nazionale dell’AID (2008) è emerso che 4 bambini dislessici su 10 manifestano un deficit di attenzione e che più della metà di individui con un DSA, sia adulti che bambini, sviluppano problematiche di tipo emotivo, comportamentale e relazionale.
  • 4. La letteratura internazionale concorda nel rilevare che una parte dei soggetti con DSA presenta anche disturbi di carattere psicopatologico. Bandura (1999): la scarsa autoefficacia percepita e la mancanza di autostima derivanti da problemi scolastici costituirebbero fattori predittivi della sindrome depressiva Grover (2005): le difficoltà scolastiche, già a partire dalla prima classe della scuola primaria, diventano fattore di rischio nelle manifestazioni ansiose
  • 5. Trascurare la relazione tra disagio psicologico e dislessia è rischioso almeno quanto sottovalutarne gli effetti sul piano dell’apprendimento: se la dislessia può essere compensata, infatti, le conseguenze sul piano emotivo e psicopatologico possono persistere, condizionando la vita futura.
  • 6. La dislessia è classificata dal DSM-IV tra i disturbi specifici di apprendimento, dove per “disturbo specifico di apprendimento” dobbiamo intendere i soli disturbi delle abilità scolastiche (oltre alla dislessia: disortografia, discalculia, disgrafia). L’International Dyslexia Association e l’ Associazione Italiana Dislessia definiscono: “La dislessia evolutiva è una disabilità specifica dell’apprendimento di origine neurobiologica”.
  • 7. In Europa, secondo i dati forniti dalla European Society of Dyslexia, il problema della dislessia interessa complessivamente almeno l’8% della popolazione europea, con una maggiore incidenza nei maschi rispetto alle femmine.
  • 8. C’è ancora da sottolineare l’importanza dell’interazione tra fattori biologici ed ambientali nell’insorgenza del disturbo specifico di apprendimento. G. Stella (2007) sostiene che “se l’ambiente è ostile anche le disabilità lievi verranno messe in evidenza; se l’ambiente è favorevole, allora le disabilità lievi avranno un’espressività così bassa da scomparire”.
  • 9. Al fine di ottenere una corretta interpretazione del problema e, conseguentemente, poter adottare le scelte riabilitative e terapeutiche più idonee, è importante, durante la fase diagnostica, condurre un’analisi psicologica per indagare tutte quelle espressioni di disagio emotivo e sociale che possono accompagnare il disturbo di apprendimento.
  • 10. Le due diverse condizioni (DSA e psicopatologia) non necessariamente hanno una natura indipendente, ma le espressioni psicopatologiche possono rappresentare l’esito di un’esperienza emotiva e relazionale a sfondo negativo che emerge a causa del problematico percorso di apprendimento che il bambino dislessico si trova ad affrontare.
  • 11. La letteratura scientifica riferisce una comorbilità pari al 50% dei casi analizzati proprio tra disturbi specifici di apprendimento e disturbi psicopatologici -elencati nel DSM IV- sia esternalizzati che internalizzati, quali: disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, disturbi somatoformi; dette manifestazioni possono condurre all’allontanamento dalla scuola e, in ogni caso, influiscono negativamente sul recupero delle difficoltà di apprendimento; disturbo da deficit di attenzione e iperattività, disturbo oppositivo- provocatorio, disturbi della condotta; tale genere di problemi può favorire il disadattamento scolastico e la devianza sociale.
  • 12. Possiamo indicare, in maniera più analitica, le seguenti percentuali di comorbilità: ansia generalizzata 25% (Biederman J., Newcorn J., Sprich S., 1991) disturbo bipolare 11% (Biederman J., Faraone S., Mennin D., Mundi E., O’Donnel D., Wozniak J., 1997) disturbo oppositivo-provocatorio dal 54 al 67% (Barkley R.A, McMurray M.B, Edelbrock C., Robbins K., 1990) disturbo della condotta dal 44 al 50% (Biederman J., Newcorn J., Sprich S., 1991) cefalea, con una maggiore frequenza rispetto alle precedenti patologie (Barkley R.A, McMurray M.B, Edelbrock C., Robbins K., 1990).
  • 13. È facile intuire come la contemporaneità di disturbi differenti, in assenza di un percorso valutativo e diagnostico accurato, possa complicare la messa in atto di un piano di interventi adeguato.
  • 15. “Sono Mattia e ho 19 anni. Prima di risolvere la mia situazione ho attraversato varie peripezie. All’asilo i miei disegni erano indecifrabili…ma i grossi problemi sono iniziati con la scuola elementare. Scrivevo male e leggevo peggio. Ero continuamente sollecitato a fare meglio e, siccome la cosa non avveniva, sono arrivate le brontolate poi i brutti voti e la costrizione a riscrivere il compito dopo aver strappato la pagina. Questa punizione mi gettava nella disperazione più violenta perché per me aver scritto quella pagina aveva voluto dire una grande fatica fisica e mentale”.
  • 16. “…E io incominciavo a leggere piano…Impiegavo sempre un’eternità a leggere una parola intera e, quando finivo, avevo dimenticato quali erano le lettere all’inizio. Così la parola perdeva significato e non trovavo il nome da dare alla cosa…Pensavo di non riuscire a far niente di giusto che avesse un riconoscimento qualsiasi da parte degli altri”.
  • 17. “Mio figlio in prima elementare è stato annientato nella sua identità di persona…reputato incapace, stupido, svogliato e pigro, è diventato in pochi mesi un bambino depresso e psicologicamente distrutto. Invece era semplicemente dislessico…Ora fa la quinta elementare, ma le difficoltà sono sempre dietro l’angolo. Basta una supplente poco competente o una presa in giro di un compagno per riaprire in lui una profonda ferita. La sua autostima è un cristallo che si frantuma con un semplice tocco”.
  • 18. Nel 1969, il Dipartimento della Sanità U.S.A. avverte che “…il fallimento iniziale dello studente nell’apprendimento della lettura può avere enormi conseguenze in termini di adattamento emotivo, tendenza alla delinquenza, problemi di abbandono degli studi, difficoltà ad ottenere un impegno…”.
  • 19. L’insorgenza di una disfunzionalità di tipo psicosociale laddove è presente un DSA non è affatto scontata e, in ogni caso, essa è strettamente in relazione con la gravità dello stesso disturbo di apprendimento, del numero e del tipo di caratteristiche ad essa correlate e della presenza di fattori che influiscono sulla prognosi globale del soggetto. Tuttavia, non è difficile osservare come, nel bambino dislessico, spesso la sofferenza si aggiunge a sofferenza.
  • 20. Il soggetto può mettere in atto le strategie più disparate per cercare di fronteggiare “l’emergenza scuola” e contenere il proprio disagio; infatti, non di rado il dislessico: - lamenta disturbi somatici quando deve recarsi a scuola - ha crisi di pianto - rifiuta di svolgere le attività che sono per lui fonte di disagio e di umiliazione - è aggressivo o molesto nei confronti dei compagni - si distrae durante la lezione e lo svolgimento dei compiti scolastici - si isola e cerca di “nascondersi” nel gruppo classe.
  • 21. Un dato preoccupante ci viene fornito da uno studio di Luciano e Savage (2007): i bambini che presentano un DSA sono, più spesso degli altri coetanei, vittime di atti di bullismo a scuola. In questa cornice, poco confortante, non c’è da stupirsi che si sviluppi nel bambino dislessico una forte componente ansiogena, legata sia alle proprie prestazioni che al tipo di relazione instaurata con gli insegnanti ed i compagni.
  • 22. L’atteggiamento della scuola Il ruolo della scuola nell’intercettare i segnali di disagio e nell’intervenire tempestivamente è fondamentale. Sono, infatti, proprio gli insegnanti che possono cogliere per primi le situazioni critiche evidenziate dall’alunno nel percorso di apprendimento
  • 23. Una delle aggravanti del disturbo è costituita dal suo mancato riconoscimento. Una delle aggravanti del disturbo è costituita dal suo mancato riconoscimento. Strumenti essenziali perché la dislessia possa essere riconosciuta e compresa sono la formazione ad hoc di insegnanti e dirigenti scolastici e la garanzia di una diagnosi effettuata da un’ equipe specialistica qualificata.
  • 24. L’insegnante ha il dovere di conoscere le caratteristiche di un disturbo specifico di apprendimento e sapere che taluni aspetti possono, almeno in parte, essere modificati. Ma deve anche accettare il fatto che qualcosa non si modificherà. L’approccio metodologico-didattico sarà flessibile: non è il bambino dislessico che deve adattarsi alla strategia di insegnamento del docente, semmai è esatto il contrario.
  • 25. In troppi casi nel passato – e purtroppo ancora oggi –si finisce con l’etichettare come “impreparato”, “distratto”, “svogliato” o, peggio ancora, “poco intelligente” l’alunno dislessico solo perché si è incapaci di interpretarne le difficoltà. Quando questo accade, l’alunno elabora un’immagine di sé improntata alla sfiducia che si traduce successivamente e facilmente in demotivazione e disinteresse.
  • 26. Sarà importante, allora, introdurre opportuni “rinforzi emotivi”, instaurando relazioni empatiche che aiutino l’alunno a recuperare fiducia in se stesso, sicurezza, motivazione al fare. L’instaurarsi di una relazione positiva tra insegnante e bambino dislessico contribuirà a fargli superare l’ansia e gli offrirà modalità adeguate per esprimere le proprie emozioni.
  • 27. L’atteggiamento della famiglia I genitori assistono alle “defaillance” scolastiche del figlio Può capitare che costringano il bambino ad estenuanti e faticosi esercizi di lettura, con il solo risultato di incrementare il senso di frustrazione del proprio figlio.
  • 28. Il pericolo maggiore, come sempre, è ignorare o rifiutare l’esistenza di un disturbo, il che, detto in altri termini, significa, da parte dei genitori, non accettare la “diversità” del figlio e sentirsi narcisisticamente feriti, avendo investito tutto sulla sua riuscita scolastica. Sarebbe auspicabile, invece, che il bambino potesse essere aiutato in ambito familiare a compensare la sua fatica nei compiti di lettura e scrittura, magari valorizzando le sue competenze relative ad attività di tipo extrascolastico che maggiormente lo gratificano.
  • 29. Il rapporto che il bambino ha instaurato con i genitori e, in particolare, con il caregiver che solitamente è la madre, costituisce una delle variabili ambientali che incidono maggiormente sugli esiti del suo percorso evolutivo Quanto più egli percepirà nella madre un atteggiamento teso alla comprensione e all’accoglienza, tanto più sarà in grado di controllare e superare i fattori negativi che possono influenzarne lo sviluppo affettivo, emotivo e cognitivo.
  • 30. La complessa interazione tra difficoltà scolastiche e componenti emotive, affettive e relazionali del soggetto può condurre al rafforzamento e alla cronicizzazione dei disturbi presentati. Nel bambino dislessico, il fallimento legato all’insuccesso scolastico ricade sulla percezione del Sé. Egli si forma un’idea negativa circa le proprie abilità e la sua possibilità di riuscita in un ambiente che gli richiede performance al di sopra delle sue capacità.
  • 31. Quale “sé” nel ragazzo dislessico? Chapman (1988) descrive una componente del sé, il “Sé accademico”, vale a dire la rappresentazione di se stesso sul piano scolastico, che nei bambini con DSA è particolarmente rilevante in quanto non di rado determina una fragilità interiore, a riflettere una sensibile debolezza dell’autostima.
  • 32. La ricerca ha rivelato che i soggetti con DSA hanno una concezione statica dell’intelligenza con frequenza significativamente maggiore rispetto ai controlli non-DSA. Ne consegue che i primi appaiono demotivati e non investono nell’impegno personale.
  • 33. I soggetti con un disturbo di apprendimento hanno la tendenza ad attribuire le performance positive a fattori esterni, estranei al loro controllo (locus of control esterno) e le esperienze fallimentari a variabili interne (locus of control interno). Da ciò scaturisce un atteggiamento passivo rispetto alla realtà.
  • 34. Le persone che riconducono il successo a fattori incontrollabili, non agiscono in maniera produttiva per raggiungere gli obiettivi prefissati, finendo con il confermare l’insuccesso pronosticato, in una sorta di “profezia che si autoavvera”.
  • 35. (Bandura, 1997): se non si è convinti delle proprie capacità nel raggiungere gli obiettivi prefissati cade la motivazione e diminuisce l’impegno. I bambini con DSA, rispetto ai bambini senza difficoltà di apprendimento, tendono a rinunciare facilmente e abbandonano il lavoro alle prime difficoltà
  • 36. Scuola, famiglia, comunità sociale in cui il ragazzo è inserito dovrebbero aiutare quest’ultimo, attraverso una collaborazione sinergica, a sviluppare una concezione positiva di sé e delle proprie potenzialità, ma soprattutto dovrebbero rivedere il proprio atteggiamento e le proprie aspettative, considerando gli interessi e le reali capacità e necessità della persona.
  • 37. Esaminiamo più specificatamente alcuni tra gli esiti emotivi, comportamentali e relazionali correlati alla dislessia. - Rabbia e aggressività: nasce dalla constatazione che si è, in qualche modo, “diversi dagli altri”, i quali riescono a conseguire risultati, a livello scolastico, impossibili per il dislessico; nasce anche dalla sofferenza per non essere compresi. Tali emozioni possono manifestarsi attraverso schemi comportamentali quali dissentire, offendere e minacciare, compiere atti distruttivi diretti intenzionalmente a danneggiare cose o persone.
  • 38. - Vergogna e perdita di autostima: l’umiliazione che sorge dall’uscire perdenti nel rapporto con gli altri si traduce in senso di inferiorità. La certezza della sconfitta induce il bambino ad isolarsi e ad evitare situazioni di confronto con i suoi compagni. Imporre la lettura ad un alunno dislessico di fronte alla classe, per esempio, costituisce un’esperienza umiliante che accentua il suo sentimento di vergogna.
  • 39. - Paura, ansia e depressione. La paura è una risposta adattiva legata alla percezione di una minaccia. Nel caso di un bambino dislessico tale minaccia può essere rappresentata da lettere e numeri da decifrare, dal giudizio dell’insegnante, da un ambiente ostile. L’espressione patologica della paura è costituita dal disturbo ansioso, che si può manifestare attraverso attacchi di panico e fobie.
  • 40. Daniel, Walsh, Goldston, Arnold, (2006) osservano che gli adolescenti con difficoltà di lettura abbandonano la scuola in percentuale 6 volte maggiore rispetto agli altri e hanno pensieri e gesti suicidi in misura 3 volte maggiore.
  • 41. In conclusione Occorre lavorare sulle potenzialità della persona. Per fare questo, sono necessarie conoscenza e competenza da parte di coloro che sono responsabili dello sviluppo del bambino. Soprattutto, è indispensabile la giusta dose di sensibilità per comprendere quanto dolore può nascondersi dietro un atteggiamento di ostilità e di chiusura o dietro un comportamento provocatorio ed evitare, così, di stigmatizzare il bambino “diverso”, segnandone il destino.