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Siamo animali narrativi
Leggere racconti significa fare un gioco attraverso il quale si impara a dar senso all'imensità
delle cose che sono accadute e accadono e accadranno nel mondo reale.
-Umberto Eco
E' risaputo che sin da piccoli avvertiamo la necessità di essere avvolti dalle storie: le
raccontiamo a noi stessi, giocando a “facciamo finta di”, e abbiamo bisogno che ci vengano
raccontate. Persino di notte non siamo in grado di rinunciare alle storie, e così i nostri sogni
hanno trame, protagonisti, punti di vista, battute. Ma perché abbiamo bisogno di mondi
fantastici? Perché, come Peter Pan, vogliamo restare in questa Isola che non c'è e, sì,
rinunciamo alle macchinine e ai travestimenti e alle bambole, ma non abbandoniamo i
racconti, le storie?
Più di una risposta ce la fornisce Umberto Eco, quando ci porta nel bosco della narrazione, e ci
fa vedere quanto la finzione narrativa ci sia funzionale per comprendere il mondo, noi stessi e
l'Altro.
A questo punto vi starete chiedendo se il mio entusiasmo non mi stia portando un po' fuori
traccia, facendomi esagerare. Magari ne sto facendo una questione più importante di quel che
è? Forse. Ma riflettiamoci insieme. Che succede quando siete in poltrona a leggere un libro, o a
guardare un film o una serie tv? Siete consapevoli del fastidio alla schiena per la posizione
mantenuta troppo a lungo, o dell'allarme del vicino che risuona in tutto il vicinato facendo
abbaiare i cani del quartiere? Oppure la vostra mente è impegnata nella storia, a seguirla, ad
impararla, e -perché no- a cercare dentro di essa il 'non detto', tutto quello che sta tra le righe?
Le storie hanno l'ammaliante potere di penetrare nel nostro cervello e di assumerne il
controllo. Il narratore ci tiene in pugno. Quante volte ci siamo commossi davanti alla pagina di
un romanzo o davanti allo schermo della televisione, e quante volte abbiamo riso con i nostri
personaggi.
Ma vediamo la questione più da vicino. Uno dei più profondi misteri che riguardano il potere
che la finzione narrativa esercita su di noi riguarda il grado di empatia che il narratore è in
grado di suscitare nel suo pubblico. In poche parole: cosa ci succede quando ascoltiamo una
storia? Ne diventiamo parte. In che modo, chiediamoci.
Il racconto, abbiamo già visto, ci permette di dare un senso al caos della nostra esistenza e del
mondo e questo magico principio regolatore, che scende su di noi come una manna dal cielo, è
individuato da Aristotele nel mythos. La trama, o il plot, se ci piace essere anglofoni, e
leggermente più specifici.
Nella Poetica, Aristotele definisce regole ben specifiche affinché una storia (nel suo caso
specifico, una sceneggiatura teatrale) risulti sensata, ovvero affinché un racconto sia coerente
con se stesso e con il messaggio che vuole trasmettere al pubblico. In questo, troviamo un
punto di partenza per la conoscenza del nostro magico principio regolatore. La trama è
l'imbastitura, la rete che ci serve per filtrare l'esistenza e coglierne il senso.
Ma c'è un altro elemento del racconto con il quale ci rapportiamo direttamente. Il personaggio.
di ale93
Se il plot è la base della nostra storia, il personaggio ne è l'abitante. Ora, se volessimo guardare
al protagonista come farebbe Aristotele, esso sarebbe un vero e proprio attore, nel senso
etimologico del termine. Mosso qui e là per mettere in moto il mythos e svilupparlo nel
migliore dei modi; un catalizzatore, potremmo chiamarlo. Colui che permette alla storia di
realizzarsi.
Ma dopo Aristotele le teorie sulla narrazione si sono susseguite con una velocità
impressionante e ci hanno permesso di giungere in maniera relativamente lineare alla
Strategia Dickens, che no, non è un metodo pubblicitario, ma la riflessione -estremamente
attuale- sulla costruzione dei personaggi fittizi.
Quando pensiamo alle nostre storie preferite, ci vengono in mente i personaggi che le hanno
vissute. Pensiamo a loro come a degli amici lontani che ci hanno raccontato le loro avventure.
Ci sembrano delle persone reali, non è così? Ma perché e, soprattutto, come?
Ciò che Dickens faceva era renderci cari i suoi protagonisti, mostrandoceli non solo in virtù
della storia che andava a raccontare (ed è proprio in questo che prendeva la tangente rispetto
alla Poetica del nostro Aristotele), ma come persone. Con le loro insicurezze, le loro speranze
per il futuro, le loro manie. Rendeva i suoi protagonisti simili ai lettori.
Giunti a questo punto potremmo pensare che siamo animali narrativi perché, da un lato le
storie ci mettono l'anima in pace: hanno un inizio, uno svolgimento e una fine ben delineati,
coerenti e ben strutturati. Non dobbiamo sforzarci di chiederci all'infinito perché succedono le
cose che succedono, alla fine ogni nostra domanda avrà una risposta. E dall'altra parte, ci
piacciono le storie perché i personaggi ci somigliano: qualcuno ha le nostre stesse fobie,
qualcun altro lo stesso modo camminare; siamo in grado di identificarci in loro e vivere
insieme le stesse avventure. Giusto. Siamo fatti così, siamo proprio fatti così, cantava la
Cristina nazionale.
Ma non si tratta solo di questo. E, attenzione, qui potrei farmi prendere la mano, ma voglio
porla su un piano specifico: siamo animali narrativi perché siamo riflessivi. Sin dall'antichità
l'uomo non ha potuto fare a meno di chiedersi infiniti perché e di inventare modi sempre
nuovi per provare a rispondere alle sue domande. L'uomo s'interroga sul mondo e su se stesso,
pensa. L'uomo... fa filosofia.
Eccola là, vi sento dire. Lo so, lo so: chi studia Filosofia trova sempre il modo di riportare ogni
cosa all'ambito dei suoi studi. Ma se vi dicessi che tutti noi facciamo filosofia senza
accorgercene nell'esatto istante in cui ci immergiamo in una storia, voi che faccia fareste?
E lo so che vi è capitato di chiedervi perché quel personaggio, proprio quello lì che vi sta a
cuore, agisca e ragioni in un certo modo. So che ogni tanto, guardando una puntata di The
Walking Dead o di Lost vi siete chiesti cosa avreste fatto in quella specifica situazione. Non
sembrava poi così noioso, vero? Eppure, stavamo tutti quanti pensando come filosofi. Così
come pensano da filosofi coloro che, davanti ad un foglio, s'interrogano circa gli aspetti
dell'esistenza di cui vogliono parlare. “Che cosa accade al personaggio? Qual è il senso del suo
viaggio? Cosa racconta la sua storia?” sono tutte domande che somigliano incredibilmente a
quelle che si sono posti per anni i grandi della Filosofia. D'altronde, Merleau-Ponty ci diceva
che “in ogni racconto c'è un'idea filosofica”, qualcosa che ci spinge a rimuginare, a rigirarci
quel racconto nella testa e a giocarci per capirne ogni sfaccettatura e significato. Talvolta, a
rielaborarlo. (Quanti di voi approfondiscono aspetti di sage, racconti, serie tv, film, li
vivisezionano e li analizzano, portando alla luce sempre nuove interpretazioni? Riformulo la
domanda: quanti di voi scrivono fanfiction?)
Ed è questo il potere della finzione narrativa: trascinarci in un bosco, con le sue regole e i suoi
abitanti, farci sentire parte di quel mondo, e farci riflettere su quel mondo. È in questo modo
che “s'impara a dar senso all'immensità delle cose che sono accadute, accadono e accadranno
nel mondo reale”.

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  • 1. 1 Siamo animali narrativi Leggere racconti significa fare un gioco attraverso il quale si impara a dar senso all'imensità delle cose che sono accadute e accadono e accadranno nel mondo reale. -Umberto Eco E' risaputo che sin da piccoli avvertiamo la necessità di essere avvolti dalle storie: le raccontiamo a noi stessi, giocando a “facciamo finta di”, e abbiamo bisogno che ci vengano raccontate. Persino di notte non siamo in grado di rinunciare alle storie, e così i nostri sogni hanno trame, protagonisti, punti di vista, battute. Ma perché abbiamo bisogno di mondi fantastici? Perché, come Peter Pan, vogliamo restare in questa Isola che non c'è e, sì, rinunciamo alle macchinine e ai travestimenti e alle bambole, ma non abbandoniamo i racconti, le storie? Più di una risposta ce la fornisce Umberto Eco, quando ci porta nel bosco della narrazione, e ci fa vedere quanto la finzione narrativa ci sia funzionale per comprendere il mondo, noi stessi e l'Altro. A questo punto vi starete chiedendo se il mio entusiasmo non mi stia portando un po' fuori traccia, facendomi esagerare. Magari ne sto facendo una questione più importante di quel che è? Forse. Ma riflettiamoci insieme. Che succede quando siete in poltrona a leggere un libro, o a guardare un film o una serie tv? Siete consapevoli del fastidio alla schiena per la posizione mantenuta troppo a lungo, o dell'allarme del vicino che risuona in tutto il vicinato facendo abbaiare i cani del quartiere? Oppure la vostra mente è impegnata nella storia, a seguirla, ad impararla, e -perché no- a cercare dentro di essa il 'non detto', tutto quello che sta tra le righe? Le storie hanno l'ammaliante potere di penetrare nel nostro cervello e di assumerne il controllo. Il narratore ci tiene in pugno. Quante volte ci siamo commossi davanti alla pagina di un romanzo o davanti allo schermo della televisione, e quante volte abbiamo riso con i nostri personaggi. Ma vediamo la questione più da vicino. Uno dei più profondi misteri che riguardano il potere che la finzione narrativa esercita su di noi riguarda il grado di empatia che il narratore è in grado di suscitare nel suo pubblico. In poche parole: cosa ci succede quando ascoltiamo una storia? Ne diventiamo parte. In che modo, chiediamoci. Il racconto, abbiamo già visto, ci permette di dare un senso al caos della nostra esistenza e del mondo e questo magico principio regolatore, che scende su di noi come una manna dal cielo, è individuato da Aristotele nel mythos. La trama, o il plot, se ci piace essere anglofoni, e leggermente più specifici. Nella Poetica, Aristotele definisce regole ben specifiche affinché una storia (nel suo caso specifico, una sceneggiatura teatrale) risulti sensata, ovvero affinché un racconto sia coerente con se stesso e con il messaggio che vuole trasmettere al pubblico. In questo, troviamo un punto di partenza per la conoscenza del nostro magico principio regolatore. La trama è l'imbastitura, la rete che ci serve per filtrare l'esistenza e coglierne il senso. Ma c'è un altro elemento del racconto con il quale ci rapportiamo direttamente. Il personaggio. di ale93
  • 2. Se il plot è la base della nostra storia, il personaggio ne è l'abitante. Ora, se volessimo guardare al protagonista come farebbe Aristotele, esso sarebbe un vero e proprio attore, nel senso etimologico del termine. Mosso qui e là per mettere in moto il mythos e svilupparlo nel migliore dei modi; un catalizzatore, potremmo chiamarlo. Colui che permette alla storia di realizzarsi. Ma dopo Aristotele le teorie sulla narrazione si sono susseguite con una velocità impressionante e ci hanno permesso di giungere in maniera relativamente lineare alla Strategia Dickens, che no, non è un metodo pubblicitario, ma la riflessione -estremamente attuale- sulla costruzione dei personaggi fittizi. Quando pensiamo alle nostre storie preferite, ci vengono in mente i personaggi che le hanno vissute. Pensiamo a loro come a degli amici lontani che ci hanno raccontato le loro avventure. Ci sembrano delle persone reali, non è così? Ma perché e, soprattutto, come? Ciò che Dickens faceva era renderci cari i suoi protagonisti, mostrandoceli non solo in virtù della storia che andava a raccontare (ed è proprio in questo che prendeva la tangente rispetto alla Poetica del nostro Aristotele), ma come persone. Con le loro insicurezze, le loro speranze per il futuro, le loro manie. Rendeva i suoi protagonisti simili ai lettori. Giunti a questo punto potremmo pensare che siamo animali narrativi perché, da un lato le storie ci mettono l'anima in pace: hanno un inizio, uno svolgimento e una fine ben delineati, coerenti e ben strutturati. Non dobbiamo sforzarci di chiederci all'infinito perché succedono le cose che succedono, alla fine ogni nostra domanda avrà una risposta. E dall'altra parte, ci piacciono le storie perché i personaggi ci somigliano: qualcuno ha le nostre stesse fobie, qualcun altro lo stesso modo camminare; siamo in grado di identificarci in loro e vivere insieme le stesse avventure. Giusto. Siamo fatti così, siamo proprio fatti così, cantava la Cristina nazionale. Ma non si tratta solo di questo. E, attenzione, qui potrei farmi prendere la mano, ma voglio porla su un piano specifico: siamo animali narrativi perché siamo riflessivi. Sin dall'antichità l'uomo non ha potuto fare a meno di chiedersi infiniti perché e di inventare modi sempre nuovi per provare a rispondere alle sue domande. L'uomo s'interroga sul mondo e su se stesso, pensa. L'uomo... fa filosofia. Eccola là, vi sento dire. Lo so, lo so: chi studia Filosofia trova sempre il modo di riportare ogni cosa all'ambito dei suoi studi. Ma se vi dicessi che tutti noi facciamo filosofia senza accorgercene nell'esatto istante in cui ci immergiamo in una storia, voi che faccia fareste? E lo so che vi è capitato di chiedervi perché quel personaggio, proprio quello lì che vi sta a cuore, agisca e ragioni in un certo modo. So che ogni tanto, guardando una puntata di The Walking Dead o di Lost vi siete chiesti cosa avreste fatto in quella specifica situazione. Non sembrava poi così noioso, vero? Eppure, stavamo tutti quanti pensando come filosofi. Così come pensano da filosofi coloro che, davanti ad un foglio, s'interrogano circa gli aspetti dell'esistenza di cui vogliono parlare. “Che cosa accade al personaggio? Qual è il senso del suo viaggio? Cosa racconta la sua storia?” sono tutte domande che somigliano incredibilmente a quelle che si sono posti per anni i grandi della Filosofia. D'altronde, Merleau-Ponty ci diceva che “in ogni racconto c'è un'idea filosofica”, qualcosa che ci spinge a rimuginare, a rigirarci quel racconto nella testa e a giocarci per capirne ogni sfaccettatura e significato. Talvolta, a rielaborarlo. (Quanti di voi approfondiscono aspetti di sage, racconti, serie tv, film, li vivisezionano e li analizzano, portando alla luce sempre nuove interpretazioni? Riformulo la domanda: quanti di voi scrivono fanfiction?) Ed è questo il potere della finzione narrativa: trascinarci in un bosco, con le sue regole e i suoi abitanti, farci sentire parte di quel mondo, e farci riflettere su quel mondo. È in questo modo che “s'impara a dar senso all'immensità delle cose che sono accadute, accadono e accadranno nel mondo reale”.