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Franco Giori
                               LA VITA AFFETTIVA DELLA CLASSE
                                      il gruppo come risorsa



      Il titolo scelto include tanti problemi, tante questioni legate alla domanda: se, quanto e come è
possibile valorizzare la classe degli affetti, cioè la dimensione affettiva e relazionale del gruppo classe.
Ripensando al titolo fra tutte le cose che mi venivano in mente ho selezionato i concetti e i dati più
importanti, soprattutto in relazione alle più recenti esperienze di incontro con i ragazzi e le loro scuole.
        Poche parole su un primo punto di riflessione; credo nessuno possa mettere in dubbio il grande valore
del gruppo dei pari in adolescenza come luogo previlegiato dove i ragazzi hanno occasione di vivere
preziose esperienze emotive utilissime come sostegno ai processi di separazione e individuazione e dunque
alla crescita psicologica. (a meno che il gruppo non sia troppo triste o non si sia già trasformato in banda). Il
gruppo dei pari nella maggior parte dei casi offre accoglienza e protezione mentre nel contempo permette di
acquisire nuove competenze attraverso variegati meccanismi identificatori e proiettivi, un aiuto prezioso
dunque per la maturazione. Già in questo primo significato il gruppo è una risorsa proprio come aiuto
reciproco fra pari età, utile per realizzare i compiti evolutivi (nei corridoi delle scuole notiamo i compagni
come primi soccorritori quando per qualcuno è emergenza crisi): il gruppo dei pari aiuta a realizzare un sano
distacco dai genitori, fa nascere affetti, incoraggia a nuove esperienze e contribuisce a volte alla formazione
di qualche ideale, sicuramente quello dell’amicizia.
        Se confrontiamo ora il gruppo spontaneo con il gruppo classe osserviamo in primo luogo che il gruppo
classe ha un aspetto strutturale predefinito e un suo preciso ciclo biologico; nasce a partire da una
aggregazione eterodiretta (l’evento istituzionale della formazione della classe), vive poi una sua nascita
psicologica e si trasforma progressivamente costruendo la sua storia e assumendo dunque una tipica
caratterizzazione affettiva fino al suo dissolvimento, alla sua morte solo come gruppo classe (ciascuno di noi
ha esperienza infatti di amicizie lì nate e che durano poi tutta la vita e anche di insegnanti che ricordiamo
per tutta la vita perché ci hanno fatto gustare qualcosa di speciale, magari una paura speciale).
           Possiamo pensare al gruppo classe come una realtà intermedia, come un luogo di confluenza e di
intersezione fra la dimensione istituzionale e l’imprevedibile e spontanea dimensione affettiva; la classe in
altri termini come punto di confluenza fra il sé scolastico e il più ampio sé psicoaffettivo. Il valore, il
significato dell’essere a scuola per un adolescente si inserisce e prende forma all’interno del suo più ampio
mondo affettivo mentre la classe affettiva, più o meno visibile all’esterno, sta dentro la classe istituzionale e
ne condiziona il funzionamento; oggi più che mai occorre avere copresenti questi due aspetti senza scinderli;
questo è uno dei punti focali su cui punto l’attenzione; se compito educativo in generale è favorire i processi
di integrazione di un confuso sé adolescenziale verso la costruzione di una identità autonoma diventa
davvero importante, se riportiamo questo concetto al nostro tema, aver presente la necessità di armonizzare
la dimensione affettiva del gruppo classe con gli obiettivi più strettamente scolastici, così come a livello di
obiettivi cognitivi mi pare nessun approccio teorico può sottovalutare quanto la dimensione emotivo
affettiva influenzi i processi di apprendimento. Anche chi è più ostile o diffidente verso questa dimensione
(“nostro compito è solo insegnare, non siamo né psicologi, né assistenti sociali”) non può esimersi da
assumere una particolare posizione affettiva che dipende proprio da questi pensieri e che ha effetti sulla
relazione con i ragazzi: probabilmente maggiore direttività e investimento sulla prestazione, minore spazio
alla discussione etc. ; a volte può anche andare bene così, non dò su questo un giudizio di valore, ma resta
comunque uno stile relazionale carico di affetti e che li seleziona in un certo modo.
          Come e dove si esprime dunque la dimensione affettiva in classe?
Si esprime dappertutto, non solo nella motivazione, nei processi di apprendimento, nella valutazione
e più in generale in quello che abbiamo definito il sé scolastico, ma si esprime anche in mille episodi e
situazioni della vita quotidiana che solo a volte hanno a che fare con la scuola: una risata incontrollata, un
pianto disperato per un insuccesso, incidenti, lutti, innamoramenti, tradimenti, generosità eroiche e
competizioni esasperate. Si esprime come realtà intrapsichica e come realtà interpersonale, nel rapporto con
sé stessi, con i compagni, con gli insegnanti e con la scuola; sappiamo anche quanto dipenda dal rapporto
con i genitori pur assenti sulla scena.
           La dimensione affettiva in classe può essere sentita come un disturbo, come un bene da utilizzare o
come una realtà che può anche essere ignorata?; la scuola deve considerare solo il tasso di affettività
implicito nella relazione didattica e trascurare o lasciare ad altri quella parte di affettività che resta estranea
alle vicende scolastiche? Seguendo questo ragionamento ad esempio quale pianto, quale rabbia l’insegnante
giudicherà di sua competenza e quale no? Qui il discorso ci può portare lontano, a valutare i confini di ruolo,
l’interpretazione soggettiva del proprio ruolo, la collaborazione con altre professioni, il problema della
formazione e così via; ma proprio qui invece ho modo di entrare più da vicino nel tema previsto anche se
purtroppo o per fortuna le cose si complicano ancora un po’.
          Da qualche anno, a volte solo da qualche mese compaiono a scuola nuove figure o ricompaiono in
veste aggiornata: psicologi, pedagogisti, insegnanti referenti per l’educazione alla salute, insegnanti tutor (di
cui si parlerà in una prossima relazione). Si tratta di persone e ruoli che a volte accompagnano il lavoro degli
insegnanti per realizzare o valorizzare gli obiettivi didattico educativi, a volte invece hanno compiti
indipendenti dagli obiettivi scolastici; in questo secondo caso il tema affettività non è laterale o concomitante
con il compito primario scolastico ma diventa esso stesso l’obiettivo centrale proprio come bene primario a
volte nell’ambito della relazione di aiuto (il cosiddetto sportello di ascolto), a volte come oggetto di studio e
di riflessione in gruppo. Il mio interesse nasce proprio da qui. Non sono un esperto né di didattica né più in
generale di scuola. Vi parlo come psicologo dell’adolescenza. Le riflessioni che vi porto partono da una
occasione offerta a un gruppo di psicologi di lavorare con gruppi classe per parlare di affetti e di prevenzione
dei rischi. Si tratta dell’esperienza Educare per Prevenire promossa dalla Provincia di Milano e realizzata per
molti anni in tante scuole superiori di Milano e Provincia; in essa ho avuto sia compiti di coordinamento sia
la possibilità di partecipare direttamente a diversi incontri con le classi. Troppo tempo ci vorrebbe ora per
raccontarvi la nascita del progetto, gli obiettivi, il metodo di lavoro; fra l’altro è probabile che alcuni di voi
lo conoscano o ne abbiano sentito parlare. Per chi è interessato c’è comunque un volume che nella parte
centrale ne dà ampio resoconto.
        Solo due parole ora: l’esperienza prende avvio nei primi anni novanta, dunque prima della nascita dei
cic, quando meno presente era nella scuola la cultura della prevenzione del malessere, più rari i progetti di
educazione alla salute e agli affetti; un tempo in cui forse il problema non era così sentito.
          Siamo entrati nelle classi con interventi brevi in orario scolastico su richiesta dalla scuola; non
dunque chiamati dai ragazzi. Le classi vedono comparire una figura nuova, che desta curiosità rompendo il
setting scolastico tradizionale; niente valutazioni, pochissime spiegazioni; c’è l’opportunità invece di
discutere in gruppo temi attinenti ai desideri, le difficoltà e i rischi propri dell’età adolescenziale e della
spinta evolutiva che la caratterizza. La cosa interessa, non è difficile di solito stabilire velocemente una
reciproca “alleanza di lavoro” che si basa su questo: offri al gruppo l’occasione per approfondire un
argomento di interesse comune e quindi di utilizzarti come una risorsa, qualcuno che ti aiuta capire meglio
un problema; e a tua volta usi il gruppo, il lavoro di gruppo proprio come mezzo previlegiato, come
principale risorsa per raggiungere quell’obiettivo. Detto così sembra semplice, invece è un lavoro difficile
che non sempre funziona, ma quando funziona può essere di grande soddisfazione per tutti. Attraverso il
lavoro di gruppo, con stimoli adeguati, si arriva a rappresentare, a mettere in scena (a volte nel vero senso
della parola) il desiderio che sta alla base anche dei comportamenti maggiormente rischiosi; è il naturale
bisogno di affermarsi, è la voglia di avventura, la voglia di quel po’ di sana trasgressione connaturata
all’essere adolescenti; è importante che i ragazzi sentano questi come valori riconosciuti dagli adulti, come
parte vitale del loro bisogno di fare esperienza ed emozionarsi per qualcosa; non ce la fanno, ed è giusto così,
a identificarsi con il saggio, quello che dice ”dai retta a me che ho esperienza, fai così perchè quello che
conta nella vita è …”. Hanno invece bisogno di identificarsi con qualcuno che non ha chiaro qual è il loro
bene; cerchiamo di farcelo dire da loro, valorizzando, nella conduzione, le capacità costruttive del gruppo. A
volte utilizziamo o prepariamo noi un testo capace, attraverso l’identificazione con i personaggi
rappresentati, di evocare i nodi conflittuali tipici dell’età: un testo che aiuta a discutere …“fin dove fa bene
sfogarsi in moto , spinellare o cercare altre forme di sballo; o che fa riferimento alla voglia di dimagrire,
graffitare un muro, un treno o a volte il proprio corpo; cerchiamo di non dare risposte definitive ma di far
lavorare il gruppo per aiutarlo a valutare quando si tratta di comportamenti dannosi per sé stessi o per altri e
quando no, (il male può essere fisico, psicologico o sociale); si pensa dunque al confine fra rischi utili,
necessari per crescere rispetto a quelle azioni che soddisfano il puro bisogno di sfogare la tensione per non
sentirsi mortificati e depressi. Non ci occupiamo di patologia. Siamo nella normalità o ai suoi confini. Si
lavora insieme alla ricerca dei significati. Attraverso la discussione nascono giudizi a volte univoci, più
spesso differenziati (magari per sottogruppi) in relazione al diverso livello di maturazione o alla diversa
ideologia affettiva. Tutto ciò consente al conduttore di riportare le diverse posizioni a valori diversi, non
necessariamente antagonisti. Si scopre che se c’è un problema, un conflitto è possibile parlarsi, cercare di
capirsi senza dover trovare a tutti i costi una soluzione con vincitori e vinti. Per fare un esempio se si parla
delle dipendenze e della voglia di farsi una canna il sottogruppo dei serbi e quello degli albanesi avranno
modo di ascoltare le reciproche ragioni; si potrà così ammettere che a volte la voglia di divertirsi e di non
pensare a niente prevale sul resto ma anche il fatto che abituarsi alle canne e a dipendere troppo da qualcosa
di esterno può far permanere in un mondo autoconsolatorio che non aiuta a crescere. Il gruppo sente che
abbiamo fiducia nella capacità di trovare un limite, un confine fra giusto e ingiusto, fra accettabile e
inaccettabile, fra stupido e intelligente. Avendo presente il conflitto focale in adolescenza (autonomia e
dipendenza) è più facile per ogni situazione esaminare quanta voglia resta ancora di coccolarsi nello
spensierato mondo infantile e nel contempo quanto può essere importante trovare coraggio per affrontare
una difficoltà, pensare con la propria testa e raggiungere traguardi che sembravano quasi impossibili. Mi ha
colpito recentemente una ragazza di una prima che come parola da associare al termine adolescenza dice “
viaggio senza ritorno”; mi pare un’immagine suggestiva ed efficace per descrivere l’ambivalenza del
proprio essere in bilico fra il fascino e il timore del futuro. Nella stessa classe altre voci associavano
adolescenza con “caos, ricerca, primi amori, spensieratezza, prime batoste, confusione, sesso,
trasformazione, divertimenti, squilibri”. Anche attraverso questo semplicissimo giochino, usato a volte come
momento introduttivo, ciascuno ha modo di esprimere il proprio punto di vista, il proprio sentimento
prevalente, potendo però vederne anche altri, sia nel compagno sia dentro di sé.; tutto ciò porta a un
confronto utile; si vede ciò che accomuna e ciò che differenzia. L’incertezza, le contraddizioni possono così
essere lette come espressione naturale del proprio momento esistenziale, non come anormalità da far sparire;
ciò senza doversi esporre personalmente, senza dunque essere sollecitati a parlare direttamente di sé.
           Dal punto di vista teorico l’approccio descritto mi pare nel contempo vicino a Winnicot (si attiva
un’area transizionale a metà fra gioco e lavoro, fra bambino e adulto, fra immaturità e maturità), alla teoria
dei codici affettivi di Fornari (in quanto il lavoro di gruppo mira a dare significato e integrare diverse culture
affettive), all’analisi del sé di Senise, (per la qualità della relazione identificatoria instaurata e per l’interesse
verso i processi di individuazione).
           In questi interventi non avevamo obiettivi di ricerca; ma tanti incontri ci hanno permesso,
confrontandoci fra noi, di riassumere e valutare le caratteristiche dei gruppi incontrati, gli interessi
prevalenti, le principali cause di malessere o benessere del gruppo, e soprattutto le elaborazioni utilizzabili
anche in un tempo relativamente breve.
           Certamente l’intervento dell’esperto che entra in classe, fa con i ragazzi un lavoro di buona qualità
e poi se ne va senza sostanzialmente avere rapporti con l’istituzione può andare bene in quei contesti dove
non siano presenti condizioni più o meno evidenti di malessere; in questi altri casi occorrono invece progetti
mirati in cui lo psicologo collabora a diversi livelli con le figure presenti nella scuola: un lavoro di équipe a
valenza clinico-formativa che possa parallelamente essere utile per ragazzi e insegnanti.
          Vi porto ora alcuni dati e riflessioni che mi paiono significative non solo in relazione al progetto
Educare per Prevenire ma più in generale in base ad altre esperienze di educazione agli affetti in classe o
interventi sul malessere.
           Spero possiate ritrovarvi nelle osservazioni che sto per fare o viverle come uno stimolo utile.
           Al di là delle differenze di ruolo infatti, gli adulti in relazione con adolescenti dovrebbero poter
condividere un codice minimo di ascolto e di comprensione almeno dei significati più importanti ed evidenti
presenti nelle loro comunicazioni. Lavorando con adolescenti troviamo infatti la didattica vicina
all’educazione, l’educazione vicina alla clinica così come la clinica è vicina all’educazione in quanto anche
l’obiettivo del lavoro clinico con adolescenti non consiste di solito nel guarire una patologia ma nel favorire
una più chiara rappresentazione di sé e uno sblocco dei processi di individuazione. Al di là di ogni differenza
di ruolo e nel rispetto delle qualità personali di ciascuno sarebbe importante che i ragazzi potessero più
frequentemente trovare quello che Charmet nel suo ultimo libro ha definito un adulto competente.
            Ecco alcuni punti di rilievo:
1)      La classe per numero di presenti non coincide certo con il numero ideale per condurre gruppi
di formazione, però ai ragazzi va bene così, non vogliono rompere quella dimensione e trovarsi al
pomeriggio in un altro contesto magari in base a differenti interessi personali: non è solo una questione
pratica e nemmeno solo il piacere di scansare una lezione ma una questione affettiva di fondo; quella è la
loro classe e tale deve rimanere, e poi più o meno tutti sono interessati alle stesse cose.
       2)      Nella maggior parte dei casi abbiamo trovato molta voglia di essere ascoltati, di confrontarsi in
gruppo e di capire; a volte una vera fame di significati e di valori affettivi.


       3)      Nel relazionarci al gruppo è importante cercare sia la distanza giusta, fra fusionalità e
distacco, (proprio nel rispetto del duplice bisogno di confidenza e di segreto), ma altrettanto importante è
anche credere almeno un po’ in quello che si sta facendo. Quando i ragazzi ti sentono convinto, sentono che
ti piace quello che fai con loro e pensi serva a qualcosa, interagiscono e ti utilizzano molto meglio; in questo
senso non solo è utile un testo capace di trasmettere emozioni, ma anche curare linguaggio, esempi e
metafore in quanto possono essere davvero fattori decisivi.

       4)      Quando il consulente psicologo o psicopedagogista lavora con il gruppo tutti hanno
l’opportunità di ascoltare e di essere ascoltati anche quelli che mai andrebbero a colloquio individuale. Al di
là di ogni altro contenuto si crea così l’occasione per far capire che di fronte a un problema ciò che può far
stare peggio è la sua incomprensibilità e l’impossibilità di essere aiutati. Parlando di prevenzione questo mi
sembra un punto fondamentale che ci vincolerà però a garantire in futuro, in parallelo agli interventi sul
gruppo, anche uno spazio di ascolto individuale, così come sarebbe utilissimo d’altra parte ampliare gli spazi
di incontro con il gruppo.

       5)      Abbiamo trovato di grande utilità favorire un corretto rispecchiamento non valutativo non solo
del conflitto focale adolescenziale e dei più comuni meccanismi di difesa ma anche della propria identità di
gruppo classe come organismo, come soggetto psicologico in crescita: “cosa vi piace del vostro gruppo, cosa
no, come siete, come eravate, cosa si potrebbe modificare. Sentire questo riconoscimento fa bene al gruppo;
…c’è una storia… noto che vi succede così… fate fatica ad ascoltarvi e a comunicare tra voi, …da cosa può
dipendere”. Occorre riportare il problema a loro nel presupposto che anche a loro dispiaccia se le cose non
funzionano e che vorrebbero stare meglio…in questo modo si possono fra l’altro rompere meccanismi di
sfida e recuperare a volte anche solo un minimo di alleanza di lavoro.

       6)       Dopo di me Matteo Lancini svilupperà il tema del malessere a scuola. Mi limito ora a
segnalare ciò che abbiamo trovato quando per diversi motivi la dimensione affettiva non è integrata almeno
un po’ con quella scolastica: all’interno di un quadro di disagio gruppale si può parlare di classi “bloccate” e
altre “agìte”. Nelle prime gli affetti sono molto controllati e nascosti: a volte si tratta di classi neonate, a
volte di classi caratterizzate da divisioni e forti conflittualità inespresse, a volte di classi in cui troppi ragazzi
vivono una immagine mortificata o annoiata del sé scolastico: prevalgono qui timori o sfiducia nella
possibilità di comunicare non solo a livello intergruppale ma anche nel rapporto con gli insegnanti.

       7)      La scissione fra affetti e compito scolastico può portare poi all’altra categoria di classi a
rischio, quelle che abbiamo chiamato “agìte”: qui la dimensione affettiva si esprime con comportamenti non
contenuti o incontenibili. Mi è capitato di entrare in classi in cui dalla prima inquadratura capivo che avrei
dovuto soffrire: due con i dadi da una parte, una ragazza sulle ginocchia del compagno , due che si picchiano
e non si capisce bene se è solo un gioco, l’ultimo a entrare ha in mano la coca e la musica in cuffia.

       8)       Si arriva a queste situazioni quando il malessere individuale di partenza amplifica quello di
gruppo e viceversa; il disadattamento del gruppo fa crescere poi il senso di impotenza negli insegnanti con il
rischio che si strutturino reciproche relazioni di accanimento o una rassegnata distanza senza speranza.
Proprio qui invece occorre recuperare la speranza magari solo una minima contrattualità che dia qualche
significato al proprio essere a scuola. Quando i ragazzi dicono “siamo una classe schifosa, o questa è una
classe di merda” è difficilissimo parlare d’altro, non solo del teorema di Pitagora o del Manzoni, ma anche di
affetti e rischi in generale. Qui il lavoro psicopedagogico e dunque la collaborazione interprofessionale
diventa necessaria; si può, per quanto possibile, cercare di promuovere cambiamenti anche nell’ambito delle
attuali risorse e strutture.
9)       Concludo con un ricordo di Senise che negli ultimi tempi della sua vita si poneva problema di
che fare per i ragazzi che soffrono ma che non riescono o non possono chiedere aiuto: se loro non vengono
da noi -diceva- andremo noi da loro, per intendere non solo la necessità di essere in sintonia con il paziente
ma proprio la necessità di uscire dallo studio e avvicinarci al territorio di vita degli adolescenti; in questo
senso il gruppo-classe, con tutte le sue potenzialità, mi pare al momento il luogo più adatto per sperimentare
nuove strade nel campo della prevenzione.

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Franco Giori - La vita affettiva della classe

  • 1. Franco Giori LA VITA AFFETTIVA DELLA CLASSE il gruppo come risorsa Il titolo scelto include tanti problemi, tante questioni legate alla domanda: se, quanto e come è possibile valorizzare la classe degli affetti, cioè la dimensione affettiva e relazionale del gruppo classe. Ripensando al titolo fra tutte le cose che mi venivano in mente ho selezionato i concetti e i dati più importanti, soprattutto in relazione alle più recenti esperienze di incontro con i ragazzi e le loro scuole. Poche parole su un primo punto di riflessione; credo nessuno possa mettere in dubbio il grande valore del gruppo dei pari in adolescenza come luogo previlegiato dove i ragazzi hanno occasione di vivere preziose esperienze emotive utilissime come sostegno ai processi di separazione e individuazione e dunque alla crescita psicologica. (a meno che il gruppo non sia troppo triste o non si sia già trasformato in banda). Il gruppo dei pari nella maggior parte dei casi offre accoglienza e protezione mentre nel contempo permette di acquisire nuove competenze attraverso variegati meccanismi identificatori e proiettivi, un aiuto prezioso dunque per la maturazione. Già in questo primo significato il gruppo è una risorsa proprio come aiuto reciproco fra pari età, utile per realizzare i compiti evolutivi (nei corridoi delle scuole notiamo i compagni come primi soccorritori quando per qualcuno è emergenza crisi): il gruppo dei pari aiuta a realizzare un sano distacco dai genitori, fa nascere affetti, incoraggia a nuove esperienze e contribuisce a volte alla formazione di qualche ideale, sicuramente quello dell’amicizia. Se confrontiamo ora il gruppo spontaneo con il gruppo classe osserviamo in primo luogo che il gruppo classe ha un aspetto strutturale predefinito e un suo preciso ciclo biologico; nasce a partire da una aggregazione eterodiretta (l’evento istituzionale della formazione della classe), vive poi una sua nascita psicologica e si trasforma progressivamente costruendo la sua storia e assumendo dunque una tipica caratterizzazione affettiva fino al suo dissolvimento, alla sua morte solo come gruppo classe (ciascuno di noi ha esperienza infatti di amicizie lì nate e che durano poi tutta la vita e anche di insegnanti che ricordiamo per tutta la vita perché ci hanno fatto gustare qualcosa di speciale, magari una paura speciale). Possiamo pensare al gruppo classe come una realtà intermedia, come un luogo di confluenza e di intersezione fra la dimensione istituzionale e l’imprevedibile e spontanea dimensione affettiva; la classe in altri termini come punto di confluenza fra il sé scolastico e il più ampio sé psicoaffettivo. Il valore, il significato dell’essere a scuola per un adolescente si inserisce e prende forma all’interno del suo più ampio mondo affettivo mentre la classe affettiva, più o meno visibile all’esterno, sta dentro la classe istituzionale e ne condiziona il funzionamento; oggi più che mai occorre avere copresenti questi due aspetti senza scinderli; questo è uno dei punti focali su cui punto l’attenzione; se compito educativo in generale è favorire i processi di integrazione di un confuso sé adolescenziale verso la costruzione di una identità autonoma diventa davvero importante, se riportiamo questo concetto al nostro tema, aver presente la necessità di armonizzare la dimensione affettiva del gruppo classe con gli obiettivi più strettamente scolastici, così come a livello di obiettivi cognitivi mi pare nessun approccio teorico può sottovalutare quanto la dimensione emotivo affettiva influenzi i processi di apprendimento. Anche chi è più ostile o diffidente verso questa dimensione (“nostro compito è solo insegnare, non siamo né psicologi, né assistenti sociali”) non può esimersi da assumere una particolare posizione affettiva che dipende proprio da questi pensieri e che ha effetti sulla relazione con i ragazzi: probabilmente maggiore direttività e investimento sulla prestazione, minore spazio alla discussione etc. ; a volte può anche andare bene così, non dò su questo un giudizio di valore, ma resta comunque uno stile relazionale carico di affetti e che li seleziona in un certo modo. Come e dove si esprime dunque la dimensione affettiva in classe?
  • 2. Si esprime dappertutto, non solo nella motivazione, nei processi di apprendimento, nella valutazione e più in generale in quello che abbiamo definito il sé scolastico, ma si esprime anche in mille episodi e situazioni della vita quotidiana che solo a volte hanno a che fare con la scuola: una risata incontrollata, un pianto disperato per un insuccesso, incidenti, lutti, innamoramenti, tradimenti, generosità eroiche e competizioni esasperate. Si esprime come realtà intrapsichica e come realtà interpersonale, nel rapporto con sé stessi, con i compagni, con gli insegnanti e con la scuola; sappiamo anche quanto dipenda dal rapporto con i genitori pur assenti sulla scena. La dimensione affettiva in classe può essere sentita come un disturbo, come un bene da utilizzare o come una realtà che può anche essere ignorata?; la scuola deve considerare solo il tasso di affettività implicito nella relazione didattica e trascurare o lasciare ad altri quella parte di affettività che resta estranea alle vicende scolastiche? Seguendo questo ragionamento ad esempio quale pianto, quale rabbia l’insegnante giudicherà di sua competenza e quale no? Qui il discorso ci può portare lontano, a valutare i confini di ruolo, l’interpretazione soggettiva del proprio ruolo, la collaborazione con altre professioni, il problema della formazione e così via; ma proprio qui invece ho modo di entrare più da vicino nel tema previsto anche se purtroppo o per fortuna le cose si complicano ancora un po’. Da qualche anno, a volte solo da qualche mese compaiono a scuola nuove figure o ricompaiono in veste aggiornata: psicologi, pedagogisti, insegnanti referenti per l’educazione alla salute, insegnanti tutor (di cui si parlerà in una prossima relazione). Si tratta di persone e ruoli che a volte accompagnano il lavoro degli insegnanti per realizzare o valorizzare gli obiettivi didattico educativi, a volte invece hanno compiti indipendenti dagli obiettivi scolastici; in questo secondo caso il tema affettività non è laterale o concomitante con il compito primario scolastico ma diventa esso stesso l’obiettivo centrale proprio come bene primario a volte nell’ambito della relazione di aiuto (il cosiddetto sportello di ascolto), a volte come oggetto di studio e di riflessione in gruppo. Il mio interesse nasce proprio da qui. Non sono un esperto né di didattica né più in generale di scuola. Vi parlo come psicologo dell’adolescenza. Le riflessioni che vi porto partono da una occasione offerta a un gruppo di psicologi di lavorare con gruppi classe per parlare di affetti e di prevenzione dei rischi. Si tratta dell’esperienza Educare per Prevenire promossa dalla Provincia di Milano e realizzata per molti anni in tante scuole superiori di Milano e Provincia; in essa ho avuto sia compiti di coordinamento sia la possibilità di partecipare direttamente a diversi incontri con le classi. Troppo tempo ci vorrebbe ora per raccontarvi la nascita del progetto, gli obiettivi, il metodo di lavoro; fra l’altro è probabile che alcuni di voi lo conoscano o ne abbiano sentito parlare. Per chi è interessato c’è comunque un volume che nella parte centrale ne dà ampio resoconto. Solo due parole ora: l’esperienza prende avvio nei primi anni novanta, dunque prima della nascita dei cic, quando meno presente era nella scuola la cultura della prevenzione del malessere, più rari i progetti di educazione alla salute e agli affetti; un tempo in cui forse il problema non era così sentito. Siamo entrati nelle classi con interventi brevi in orario scolastico su richiesta dalla scuola; non dunque chiamati dai ragazzi. Le classi vedono comparire una figura nuova, che desta curiosità rompendo il setting scolastico tradizionale; niente valutazioni, pochissime spiegazioni; c’è l’opportunità invece di discutere in gruppo temi attinenti ai desideri, le difficoltà e i rischi propri dell’età adolescenziale e della spinta evolutiva che la caratterizza. La cosa interessa, non è difficile di solito stabilire velocemente una reciproca “alleanza di lavoro” che si basa su questo: offri al gruppo l’occasione per approfondire un argomento di interesse comune e quindi di utilizzarti come una risorsa, qualcuno che ti aiuta capire meglio un problema; e a tua volta usi il gruppo, il lavoro di gruppo proprio come mezzo previlegiato, come principale risorsa per raggiungere quell’obiettivo. Detto così sembra semplice, invece è un lavoro difficile che non sempre funziona, ma quando funziona può essere di grande soddisfazione per tutti. Attraverso il lavoro di gruppo, con stimoli adeguati, si arriva a rappresentare, a mettere in scena (a volte nel vero senso della parola) il desiderio che sta alla base anche dei comportamenti maggiormente rischiosi; è il naturale bisogno di affermarsi, è la voglia di avventura, la voglia di quel po’ di sana trasgressione connaturata all’essere adolescenti; è importante che i ragazzi sentano questi come valori riconosciuti dagli adulti, come parte vitale del loro bisogno di fare esperienza ed emozionarsi per qualcosa; non ce la fanno, ed è giusto così, a identificarsi con il saggio, quello che dice ”dai retta a me che ho esperienza, fai così perchè quello che conta nella vita è …”. Hanno invece bisogno di identificarsi con qualcuno che non ha chiaro qual è il loro bene; cerchiamo di farcelo dire da loro, valorizzando, nella conduzione, le capacità costruttive del gruppo. A volte utilizziamo o prepariamo noi un testo capace, attraverso l’identificazione con i personaggi rappresentati, di evocare i nodi conflittuali tipici dell’età: un testo che aiuta a discutere …“fin dove fa bene sfogarsi in moto , spinellare o cercare altre forme di sballo; o che fa riferimento alla voglia di dimagrire, graffitare un muro, un treno o a volte il proprio corpo; cerchiamo di non dare risposte definitive ma di far
  • 3. lavorare il gruppo per aiutarlo a valutare quando si tratta di comportamenti dannosi per sé stessi o per altri e quando no, (il male può essere fisico, psicologico o sociale); si pensa dunque al confine fra rischi utili, necessari per crescere rispetto a quelle azioni che soddisfano il puro bisogno di sfogare la tensione per non sentirsi mortificati e depressi. Non ci occupiamo di patologia. Siamo nella normalità o ai suoi confini. Si lavora insieme alla ricerca dei significati. Attraverso la discussione nascono giudizi a volte univoci, più spesso differenziati (magari per sottogruppi) in relazione al diverso livello di maturazione o alla diversa ideologia affettiva. Tutto ciò consente al conduttore di riportare le diverse posizioni a valori diversi, non necessariamente antagonisti. Si scopre che se c’è un problema, un conflitto è possibile parlarsi, cercare di capirsi senza dover trovare a tutti i costi una soluzione con vincitori e vinti. Per fare un esempio se si parla delle dipendenze e della voglia di farsi una canna il sottogruppo dei serbi e quello degli albanesi avranno modo di ascoltare le reciproche ragioni; si potrà così ammettere che a volte la voglia di divertirsi e di non pensare a niente prevale sul resto ma anche il fatto che abituarsi alle canne e a dipendere troppo da qualcosa di esterno può far permanere in un mondo autoconsolatorio che non aiuta a crescere. Il gruppo sente che abbiamo fiducia nella capacità di trovare un limite, un confine fra giusto e ingiusto, fra accettabile e inaccettabile, fra stupido e intelligente. Avendo presente il conflitto focale in adolescenza (autonomia e dipendenza) è più facile per ogni situazione esaminare quanta voglia resta ancora di coccolarsi nello spensierato mondo infantile e nel contempo quanto può essere importante trovare coraggio per affrontare una difficoltà, pensare con la propria testa e raggiungere traguardi che sembravano quasi impossibili. Mi ha colpito recentemente una ragazza di una prima che come parola da associare al termine adolescenza dice “ viaggio senza ritorno”; mi pare un’immagine suggestiva ed efficace per descrivere l’ambivalenza del proprio essere in bilico fra il fascino e il timore del futuro. Nella stessa classe altre voci associavano adolescenza con “caos, ricerca, primi amori, spensieratezza, prime batoste, confusione, sesso, trasformazione, divertimenti, squilibri”. Anche attraverso questo semplicissimo giochino, usato a volte come momento introduttivo, ciascuno ha modo di esprimere il proprio punto di vista, il proprio sentimento prevalente, potendo però vederne anche altri, sia nel compagno sia dentro di sé.; tutto ciò porta a un confronto utile; si vede ciò che accomuna e ciò che differenzia. L’incertezza, le contraddizioni possono così essere lette come espressione naturale del proprio momento esistenziale, non come anormalità da far sparire; ciò senza doversi esporre personalmente, senza dunque essere sollecitati a parlare direttamente di sé. Dal punto di vista teorico l’approccio descritto mi pare nel contempo vicino a Winnicot (si attiva un’area transizionale a metà fra gioco e lavoro, fra bambino e adulto, fra immaturità e maturità), alla teoria dei codici affettivi di Fornari (in quanto il lavoro di gruppo mira a dare significato e integrare diverse culture affettive), all’analisi del sé di Senise, (per la qualità della relazione identificatoria instaurata e per l’interesse verso i processi di individuazione). In questi interventi non avevamo obiettivi di ricerca; ma tanti incontri ci hanno permesso, confrontandoci fra noi, di riassumere e valutare le caratteristiche dei gruppi incontrati, gli interessi prevalenti, le principali cause di malessere o benessere del gruppo, e soprattutto le elaborazioni utilizzabili anche in un tempo relativamente breve. Certamente l’intervento dell’esperto che entra in classe, fa con i ragazzi un lavoro di buona qualità e poi se ne va senza sostanzialmente avere rapporti con l’istituzione può andare bene in quei contesti dove non siano presenti condizioni più o meno evidenti di malessere; in questi altri casi occorrono invece progetti mirati in cui lo psicologo collabora a diversi livelli con le figure presenti nella scuola: un lavoro di équipe a valenza clinico-formativa che possa parallelamente essere utile per ragazzi e insegnanti. Vi porto ora alcuni dati e riflessioni che mi paiono significative non solo in relazione al progetto Educare per Prevenire ma più in generale in base ad altre esperienze di educazione agli affetti in classe o interventi sul malessere. Spero possiate ritrovarvi nelle osservazioni che sto per fare o viverle come uno stimolo utile. Al di là delle differenze di ruolo infatti, gli adulti in relazione con adolescenti dovrebbero poter condividere un codice minimo di ascolto e di comprensione almeno dei significati più importanti ed evidenti presenti nelle loro comunicazioni. Lavorando con adolescenti troviamo infatti la didattica vicina all’educazione, l’educazione vicina alla clinica così come la clinica è vicina all’educazione in quanto anche l’obiettivo del lavoro clinico con adolescenti non consiste di solito nel guarire una patologia ma nel favorire una più chiara rappresentazione di sé e uno sblocco dei processi di individuazione. Al di là di ogni differenza di ruolo e nel rispetto delle qualità personali di ciascuno sarebbe importante che i ragazzi potessero più frequentemente trovare quello che Charmet nel suo ultimo libro ha definito un adulto competente. Ecco alcuni punti di rilievo:
  • 4. 1) La classe per numero di presenti non coincide certo con il numero ideale per condurre gruppi di formazione, però ai ragazzi va bene così, non vogliono rompere quella dimensione e trovarsi al pomeriggio in un altro contesto magari in base a differenti interessi personali: non è solo una questione pratica e nemmeno solo il piacere di scansare una lezione ma una questione affettiva di fondo; quella è la loro classe e tale deve rimanere, e poi più o meno tutti sono interessati alle stesse cose. 2) Nella maggior parte dei casi abbiamo trovato molta voglia di essere ascoltati, di confrontarsi in gruppo e di capire; a volte una vera fame di significati e di valori affettivi. 3) Nel relazionarci al gruppo è importante cercare sia la distanza giusta, fra fusionalità e distacco, (proprio nel rispetto del duplice bisogno di confidenza e di segreto), ma altrettanto importante è anche credere almeno un po’ in quello che si sta facendo. Quando i ragazzi ti sentono convinto, sentono che ti piace quello che fai con loro e pensi serva a qualcosa, interagiscono e ti utilizzano molto meglio; in questo senso non solo è utile un testo capace di trasmettere emozioni, ma anche curare linguaggio, esempi e metafore in quanto possono essere davvero fattori decisivi. 4) Quando il consulente psicologo o psicopedagogista lavora con il gruppo tutti hanno l’opportunità di ascoltare e di essere ascoltati anche quelli che mai andrebbero a colloquio individuale. Al di là di ogni altro contenuto si crea così l’occasione per far capire che di fronte a un problema ciò che può far stare peggio è la sua incomprensibilità e l’impossibilità di essere aiutati. Parlando di prevenzione questo mi sembra un punto fondamentale che ci vincolerà però a garantire in futuro, in parallelo agli interventi sul gruppo, anche uno spazio di ascolto individuale, così come sarebbe utilissimo d’altra parte ampliare gli spazi di incontro con il gruppo. 5) Abbiamo trovato di grande utilità favorire un corretto rispecchiamento non valutativo non solo del conflitto focale adolescenziale e dei più comuni meccanismi di difesa ma anche della propria identità di gruppo classe come organismo, come soggetto psicologico in crescita: “cosa vi piace del vostro gruppo, cosa no, come siete, come eravate, cosa si potrebbe modificare. Sentire questo riconoscimento fa bene al gruppo; …c’è una storia… noto che vi succede così… fate fatica ad ascoltarvi e a comunicare tra voi, …da cosa può dipendere”. Occorre riportare il problema a loro nel presupposto che anche a loro dispiaccia se le cose non funzionano e che vorrebbero stare meglio…in questo modo si possono fra l’altro rompere meccanismi di sfida e recuperare a volte anche solo un minimo di alleanza di lavoro. 6) Dopo di me Matteo Lancini svilupperà il tema del malessere a scuola. Mi limito ora a segnalare ciò che abbiamo trovato quando per diversi motivi la dimensione affettiva non è integrata almeno un po’ con quella scolastica: all’interno di un quadro di disagio gruppale si può parlare di classi “bloccate” e altre “agìte”. Nelle prime gli affetti sono molto controllati e nascosti: a volte si tratta di classi neonate, a volte di classi caratterizzate da divisioni e forti conflittualità inespresse, a volte di classi in cui troppi ragazzi vivono una immagine mortificata o annoiata del sé scolastico: prevalgono qui timori o sfiducia nella possibilità di comunicare non solo a livello intergruppale ma anche nel rapporto con gli insegnanti. 7) La scissione fra affetti e compito scolastico può portare poi all’altra categoria di classi a rischio, quelle che abbiamo chiamato “agìte”: qui la dimensione affettiva si esprime con comportamenti non contenuti o incontenibili. Mi è capitato di entrare in classi in cui dalla prima inquadratura capivo che avrei dovuto soffrire: due con i dadi da una parte, una ragazza sulle ginocchia del compagno , due che si picchiano e non si capisce bene se è solo un gioco, l’ultimo a entrare ha in mano la coca e la musica in cuffia. 8) Si arriva a queste situazioni quando il malessere individuale di partenza amplifica quello di gruppo e viceversa; il disadattamento del gruppo fa crescere poi il senso di impotenza negli insegnanti con il rischio che si strutturino reciproche relazioni di accanimento o una rassegnata distanza senza speranza. Proprio qui invece occorre recuperare la speranza magari solo una minima contrattualità che dia qualche significato al proprio essere a scuola. Quando i ragazzi dicono “siamo una classe schifosa, o questa è una classe di merda” è difficilissimo parlare d’altro, non solo del teorema di Pitagora o del Manzoni, ma anche di affetti e rischi in generale. Qui il lavoro psicopedagogico e dunque la collaborazione interprofessionale diventa necessaria; si può, per quanto possibile, cercare di promuovere cambiamenti anche nell’ambito delle attuali risorse e strutture.
  • 5. 9) Concludo con un ricordo di Senise che negli ultimi tempi della sua vita si poneva problema di che fare per i ragazzi che soffrono ma che non riescono o non possono chiedere aiuto: se loro non vengono da noi -diceva- andremo noi da loro, per intendere non solo la necessità di essere in sintonia con il paziente ma proprio la necessità di uscire dallo studio e avvicinarci al territorio di vita degli adolescenti; in questo senso il gruppo-classe, con tutte le sue potenzialità, mi pare al momento il luogo più adatto per sperimentare nuove strade nel campo della prevenzione.