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Corretto e completato il giorno 11 agosto 2023
(una delle versioni precedenti conteneva periodi spostati
a causa del funzionamento anomalo del mouse )
PERCHÉ NON CREDO IN DIO: CONVERSAZIONI COI
CLASSICI
ESEMPI DI CONVERSAZIONI SULLA RELIGIOSITÀ CONDOTTE SULLA SCORTA DI
ALCUNI CLASSICI DELLA LETTERATURA E DELLA PSICOLOGIA
** L’intento artistico manca del tutto; il modello dei temi scolastici è completamente ignorato; le introduzioni pubblicate sono
ignorate oppure sono messe in discussione (a volte sottoposte a critiche, altre volte integrate esplicitandolo); i commenti sono
personali e i collegamenti tra letture di vario genere e film sono spontanei quanto inusuali; i dialoghi sono comprensibili solo a chi
abbia sensibilità e senso critico e ovviamente conosca bene i libri e i film citati; le citazioni introduttive servono a chiarire come i
collegamenti insoliti presenti in quasi ogni dialogo siano da considerar qualcosa di molto diverso dalla bizzarria, indipendentemente
dal valore (naturalmente modesto) di quel che scrivo io.
CITAZIONI INTRODUTTIVE
“Gli individui con il centro del cervello nell’emisfero destro sono capaci di creare rapidamente e in modo automatico collegamenti insoliti tra cose
apparentemente lontane tra loro.” (Piccola guida per persone intelligenti che non pensano di esserlo, Milletre)
“Gli individui creativi e fuori dall’ordinario mostrano, secondo una logica ben precisa, una tendenza a un pensiero di natura “allusiva”, che forse è in
grado di renderli capaci di trovare collegamenti logici fra idee o situazioni molto distanti (…) Il creativo trova collegamenti inarrivabili ai soggetti
normodotati, ma estremamente logici e privi di gap o imprecisioni atti a invalidarli (…) È come se fossero soggetti ipersensibili alle stimolazioni,
come certi animali il cui olfatto molto sviluppato li rende capaci di annusare qualsiasi traccia olfattiva, anche la più impercettibile. I creativi (…)
presentano una fluenza ideativa e una spiccata preferenza per la complessità delle cose che potrebbero derivare da più elevati livelli di attenzione che
stimola un migliore utilizzo delle aree cerebrali deputate al ragionamento (…) “Sommersi”da stimoli (…) sono in grado di trovare il bandolo della
matassa, (…) riescono (…) a dare un nome alle cose. È molto probabile, inoltre, che i soggetti creativi, oltre a mostrare un livello attentivo superiore
alla media, presentino anche una maggiore e specifica capacità di associazione (…) unita ad un’incredibile velocità di elaborazione (...) La creatività è
la capacità di ristrutturare un vecchio pensiero, (… ) di renderlo nuovo, originale, di arricchire quindi vecchie conoscenze già apprese (…) Un
soggetto, un artista, per essere creativo deve presentare diverse caratteristiche irrinunciabili: deve essere innanzitutto curioso (…) La personalità
creativa è anche caratterizzata dal bisogno di successo: solo puntando in alto, infatti, si possono raggiungere obiettivi insperati (…) Deve essere anche
una persona autoritaria, in grado di ordinare i suoi pensieri e di obbligarsi a perseguirli (…) Il creativo è scarsamente inibito, (…) ha (…) un animo
non convenzionale (…), è intuitivo e (…) versatile (…) Non si ferma in un solo campo e (…) ha la forza di andare avanti (…) Ha una capacità di
autoanalisi non indifferente (…) Gli artisti sono persone solitarie, che amano la solitudine e il silenzio, perché in questi trovano la dimensione giusta
per capire, per comprendere, per scoprire, per creare appunto. (Creatività, E. Balconi e M. Erba)
“Era precisa e metodica, ma ** aveva notato quasi subito che possedeva anche la qualità che per lui era la più preziosa per portare avanti le indagini
difficili. Aveva fantasia e capacità di associazione. In almeno due inchieste complicate, era riuscita a sollevare collegamenti insoliti che ad altri erano
sfuggiti e che avevano condotto a una svolta determinante nelle indagini.” ("La ragazza che giocava con il fuoco", Larsson)
“Tutti i progressi (…) consistono nello scoprire i rapporti. Ora, (…) l’immaginazione è la (…) feconda e meravigliosa ritrovatrice de’ rapporti.”
("Zibaldone", Leopardi)
“Non una riflessione esauriva compiutamente e sostanzialmente l’oggetto, ciascuno si volgeva secondo le più diverse concatenazioni portando ora
avanti ora indietro (…) Il senso di tutte le considerazioni non mi (…) era ben chiaro, ma grazie appunto a quelle debolezze, esse gettavano luce
lontano come lampi (…) Tanti esempi della vita e del pensiero vi si addicevano, sollecitando a trasformare in un concetto più chiaro quello
sentimentale (…) Anche soltanto chiacchierare di qualcosa ha lo stesso senso di appropriarsi del mondo, (…) di improntare l’incerto di sé.”
(“L’uomo senza qualità”, Musil)
“Che non lo vedesse stampato gli importava poco. Lo scriverlo era l’atto culminante di un lungo processo mentale, l’accostamento di tutti gli sparsi
fili del pensiero, la sintesi di tutti i dati dei quali la sua mente era carica (…) Uno sforzo col quale liberava la mente, lasciandola pronta a ricevere ed
elaborare il nuovo materiale e i nuovi problemi. Era in certo qual modo, una cosa simile all’abitudine di certe persone contristate da sofferenze vere o
immaginarie, che ogni tanto rompono, volubili, il loro lungo silenzio per dire una buona volta tutto quello che hanno nel cuore (…) Il desiderio di
scrivere era la cosa più vitale che aveva in sé (…) Aveva una mente di studioso (…) Era per natura molto forte di pensiero e di sensibilità, ed il suo
spirito creativo era ostinato ed impellente (…) A ogni minimo stimolo del mondo esterno sulla sua coscienza, i suoi pensieri, le sue simpatie, le sue
emozioni balzavano (…) Era straordinariamente ricettivo ed entusiasta e la sua immaginazione, che spaziava sempre in alto, lavorava incessantemente
per stabilire relazioni di somiglianza o di differenza (…) Con un rapido sguardo confrontava (…) un’ondata di ricordi (…) La sua immaginazione
analitica cominciava a lavorare (…) moltiplicando, per forza di contrasto, la splendida qualità (…) Il suo cervello era un magazzino accessibilissimo
di ricordi, di fatti e di fantasie (…) Qualunque cosa avvenisse, la mente presentava subito antitesi associate o similitudini, che generalmente si
esprimevano sotto forma di visione (…) che s’accompagnava all’avvenimento presente (…) in maniera automatica (…) Con una tendenza logica alla
conclusione (…) identificando e classificando le sue impressioni, nuove visioni sorgevano nella sua mente (…) Queste visioni sorgevano dalle azioni
o dalle sensazioni del passato, dalle cose e dagli avvenimenti, dai libri di ieri e della settimana scorsa, (…) che fosse sveglio o addormentato.”
(“Martin Eden”, London)
“Le (…) fantasticherie gli si affollavano nel ricordo (…) balzate avanti, improvvise (…), da semplici parole (…) Parlare di queste cose, cercare di
comprenderne la natura e, avendola compresa, cercare lentamente, con umiltà e costanza, di esprimere, di tornare a spremere (…) una immagine di
quella bellezza che siamo giunti a comprendere… questo è l’arte (…) Quando (…) vedi che è quella cosa che è e nessun’altra (…) l’essenza di una
cosa, (…) la mente in quel misterioso istante è un carbone che si spegne (…) Quella qualità (…) dell’immagine (…) viene percepita limpidamente
dalla mente, già arrestata dalla sua interezza e affascinata dalla sua armonia.” (“Ritratto dell’artista da giovane”, J. Joyce)
“In società ero sempre troppo agitato e distratto per poter fermare la mia attenzione su qualcosa di bello. Ci sarebbe voluto, per catturarla, il richiamo
di una realtà che si rivolgesse alla mia immaginazione o (…) qualcosa di generale, comune a diverse apparenze e di esse più vero, capace di
risvegliare, in quanto tale, in me lo spirito interiore assopito, il cui riemergere (…) mi dava gioia”. (“La prigioniera”, Proust)
“Per sbloccarmi e riuscire a scrivere il componimento e superare l’esame di cultura generale, (…) immaginai di parlare con le mie amiche, scrivendo
le mie riflessioni in forma di dialogo e alla fine unii i paragrafi.” (“Piccola guida per persone intelligenti che non pensano di esserlo”,
Milletre)
Cristo e Buddha (...) sono per un superamento del mondo: ma Buddha con una visione razionale, Cristo come destinata vittima sacrificale (...) Il
sacrificio per Cristo è un ordine del suo destino (...) Entrambe le strade sono buone (...) Ma il corso della storia portò all'imitazione di Cristo, con la
quale l'individuo non segue il proprio fatale cammino verso l'interezza, ma cerca di imitare la via seguita da Cristo. Anche in Oriente lo sviluppo
storico portò a una devota imitazione del Buddha, e questi divenne un modello da imitare: con ciò la sua idea perde forza (...) Cristo gridò agli Ebrei:
"Voi siete dèi", ma gli uomini furono incapaci di intendere che cosa volesse dire (...) Quale specie di moralità emerge dalla parabola del cattivo
amministratore (...) Ci si adopera a insegnare idealità che si sa che non potranno mai essere vissute pienamente (...) Il mondo di mio padre è quello di
un uomo che soffre (...) Mio padre non si era mai interessato al simbolismo di Cristo (...) Lo faceva fremere d'orrore ogni pensiero che cercasse di
penetrare le cose religiose (...) Voleva una fede cieca a causa dei suoi dubbi (...) Gli mancava l'esperienza immediata di Dio (...) che io avevo avuto
attraverso i sogni e le immagini (...) e accettando di riflettervi (...) La Chiesa e la teologia gli avevano precluso le vie di accesso diretto a Dio (...) Il
peccato della fede è che anticipa l'esperienza. Voleva contentarsi della sua fede, ma ne fu tradito (...) Mio padre aveva vissuto fino alla morte la
sofferenza preannunciata e vissuta da Cristo, senza mai rendersi conto che ciò era una conseguenza dell'imitazione di Cristo (...) Questa è spesso la
conseguenza del sacrificio dell'intelletto (...) L'accettazione cieca non porta mai a una soluzione, ma nel migliore dei casi a una stasi e va a gravare
sulla generazione seguente (...) Io dovevo pensare e (...) feci un sogno e (...) più tardi capii che esso significava che ero anche costretto a parlare
pubblicamente – in gran parte a mio danno – e che dovevo piegarmi al destino, (...) ma che qualcosa in me diceva "Va bene, ma non del tutto".
Qualcosa in me era determinato a non essere (...) una creatura inconscia (...) come i pesci pescati dagli apostoli (....) e se negli uomini liberi non ci
fosse qualcosa del genere, nessun libro di Giobbe sarebbe stato scritto (...) L'uomo si riserva sempre l'ultima parola (...) Le ambiguità dell'anima
possono annientare un uomo. Alla resa dei conti il fattore decisivo è sempre la coscienza, che è capace di intendere le manifestazioni dell'inconscio e
di prendere posizione di fronte a esse. (Ricordi, sogni, riflessioni, C. G. Jung)
ECCENTRICI DIALOGHI
IL GIRO DEL MONDO IN OTTANTA GIORNI
Quando ho bisogno di approfondire qualcosa che ho intuito, non trovo il senso di un incubo o non riesco a prendere delle decisioni in
merito a qualche problema pratico o no, mi sento sola e come prigioniera della rete che qualcosa in me lancia per permettermi di
trovare l’idea giusta e, qualche volta, di colpo la mia vita mi sembra piatta e insignificante e non riesco nemmeno più a ricordare
come mi sento di solito o come tutto si trasfigura appena ho una visione chiara di qualcosa (un’epifania) o se trovo il modo di
comunicare con precisione un’idea. Sono o mi sento esclusa dalla connessione con tutto il resto solo perché non riesco a inquadrare
qualcosa. É difficile e forse impossibile capirlo per chi non ha un bisogno grande come il mio di espressione. Il fatto è che si butta
l’esca e si attende per giorni e giorni, predisponendosi, a ogni risveglio, a ricevere chiarimenti in proposito dalle attività della
giornata o da eventi fortuiti e ci si apre ad attirare eventi imprevisti al limite anche negativi che portino alla soluzione, all’ispirazione
necessaria. Quando parlo o scrivo di ciò che più mi interessa mi sento come una fiamma e in questi momenti di sospensione la mia
passione mi sembra un cerino in una grande pozza d’acqua. Non è certo una tragedia, non è nemmeno un vero problema, ma si
vuole, si vuole Altro. L'insicurezza, la curiosità eccessiva, gli equivoci, l’ostinazione, l’ignoranza, l’eccessiva stima di sé, un
temperamento monomaniacale, l’aggressività, il dolore…Si può arrivare a recriminare sugli altri quando si misura il successo dei
propri anni basandosi sulle scommesse del passato. Solo il giro del mondo però può insegnare a giudicare se stessi e la vita, mentre
conduce a sorridere infine dello stesso bisogno di misurare, perché la verità sta sempre solo all’orizzonte e l’orizzonte resta sempre
misterioso in ultima analisi e si sposta con chi lo osserva. A volte la vita non accontenterà per farlo solo quando potrà donare tutta se
stessa insieme all'obiettivo limitato, dialetticamente. Come Auda, il messaggio giusto può venire dall’Asia, non tanto nel senso
dell’orientamento culturale orientale, ma perché la sua apparizione è possibile dove meno lo si aspetta e non ha importanza alcuna il
suo veicolo, che sarà assurdo adorare come lo è consacrarsi totalmente a ogni culto, cultura, persona, attività. E col messaggio
giungerà la conoscenza vera e con questa compagni di viaggio per una nuova partenza, che prenderanno il posto di quelle figure
sempre un po’ sfocate dalle aspettative che nascono dall’aver stabilito un traguardo o dal subirlo, in ogni caso rimanendone
incatenati. L’obiettivo, che sia davanti a sè o raggiunto, incatena, perché è creato nel passato, in base alle idee e alle circostanze
sempre parziali del passato. Anche il desiderio più naturale basterà a compromettere col giudizio. Porsi con caparbietà un obiettivo è
tronizzare un’idea: per essa si potrà perdere la vita in un istante o in anni di solitudine e si potrà giungere all’abbruttimento della
violenza o della barbarie. Si può asservirsi a dei traguardi oppure asservire all’esplicazione della propria libertà quanto è suggerito o
imposto dal ruolo sociale o dai propri gusti e caratteristiche, farne la condizione dei propri incontri e esperienze più belli. Camminare
sul filo del rasoio implica la possibilità di guadagnare o perdere la propria vita, ma se si impara ad elevarsi sull’ignoranza e sulla
paura, se si sa limitare la propria aggressività e renderla utile anche ad altri, se si sa dimostrare con la propria generosità almeno a chi
non manca di rispetto che non è solo uno strumento, se nonostante un’idea fissa su qualcuno si sa subirne il fascino fino a liberarlo
almeno in parte dal proprio pregiudizio abituale, se nonostante la stanchezza si accetta di modificare i programmi per accettare
l’ennesima avventura e la si vive con tutta la propria tenerezza…allora, “tutto calcolato”, tra fortune e contrattempi, si può
attraversare la vita senza tagliarsi troppo con la sua lama e, con dei tesori tra i ricordi, perfino vincere in pieno la scommessa, la sola
che offre vittoria reale anche se i suoi termini non possono essere prestabiliti e letti nei dettagli di un verbale. Le caratteristiche
personali appaiono difetti in alcuni contesti e qualità in altri, anche se vengono valutati con lo stesso criterio morale: essi sono doni o
ostacoli secondo punti di vista moltiplicabili a volte secondo traiettorie davvero indefinite del tempo e dello spazio. La contentezza di
sé e il benessere sprigionano dal fondarli sull’accettazione del viaggio, evitando scelte e rifiuti affannati e rigidi (il tipo di scelta
implicato dalla costruzione di un mito di sé) per invece includere: così i propri e altrui limiti appariranno come le premesse
indispensabili dello svilupparsi dei propri destini. Così il senso di un romanzo sta nel mistero della prossima riga, il suo strumento
nelle mancanze dei personaggi, le sue possibilità e la sua dimensione nell’esistenza di chi vi è esterno, la sua verità in un orizzonte
mobile. Così il senso religioso ha bisogno di rifiutare o reinterpretare dogmi e tradizioni.
I FRATELLI KARAMAZOV
X: La mia impressione è che per capire il punto di vista di Dostoevskij bisogna integrare quelli di Alësa e di Ivan e che i due fratelli
siano molto simili: sono due filantropi per quanto in modo diverso, o meglio sono essenzialmente due ragazzi passionali e sensibili al
dolore altrui e al valore della giustizia. Credo che quel che emerge dalla loro discussione alla fine del primo volume sia che hanno
ragione entrambi, ma solo fintanto che non si “buttano sull’astratto”, finché non si mettono a tirar fuori dalle maniche dogmi e lati in
ombra di dogmi come assi. La sensazione che mi dà quella conversazione è simile a quella che ho quando leggo il Vangelo e, proprio
per la saggezza di molte sue massime, non mi capacito degli slanci di fede di Cristo verso un Dio tutto amore nè delle sue
contraddizioni nella definizione del nostro rapporto con la divinità (siamo liberi e amici oppure servi?). La concezione cristiana di
Dio come “Bene” peraltro creò confusioni e grande disagio fin nei primissimi cristiani, come afferma Jung parlando del rapporto tra
Cristo e i simboli del Sé: la realtà, come la personalità umana, è troppo contraddittoria per consentire semplificazioni astratte e teorie
confortanti, le quali sono anzi sempre degne di disprezzo per chi possiede sensibilità e coscienza.
Y: Quel lungo dialogo tra Ivan e Alësa mi fa pensare un po’ a La peste di Camus, al concetto di astratto espresso in quel libro. E
considero allora anche quel che tu hai scritto sul mistero che, come ogni vuoto, spinge a gettarsi in esso, ad approntare reti con
maglie sempre più rigide… insomma, a dar vita agli “ismi” più svariati (“onesto è chi evita le astrazioni facili e, davanti all’abisso del
mistero, si ferma e si impegna in modo razionale”). Del resto come si fa leggendo I Fratelli Karamazov a non pensare a Camus, che
in Lo straniero sembra scrivere buona parte della scena del processo sul canovaccio del processo a Mitja e che in L’uomo in rivolta fa
di Ivan un riferimento assoluto? Non mi avevi parlato anche tu del legame tra questi due scrittori?
X: In L’uomo in rivolta Camus parla a lungo di Ivan, che per lui è il portavoce di Dostoevskij, ma a me non sembra del tutto giusta
questa identificazione, perché Dostoevskij non approva del tutto il punto di vista di Ivan su Fëdor, che non è affatto rappresentato
come “un infame”, anche se così lo definisce Camus. E la conclusione “Tutto è lecito”, non è certo approvata dall’autore a proposito
di Ivan più di quanto fosse quando era riferita a Nikolaj in I demoni. Del resto Camus afferma anche che Ivan ha ucciso il padre
lasciando agire Smerdjakov, mentre nel testo è chiarissimo e viene ribadito più volte che Ivan non è colpevole dell’omicidio
nemmeno in minima parte, perché, non lui, ma una parte inconsapevole e irrazionale di sé ha il presentimento di quanto stava per
accadere a Fëdor. Però capisco che non è di certo vero che l’autore parli attraverso Alësa, anche se il suo cristianesimo pare cosa
certa, anche perché Alësa, per esserne davvero il portavoce, viene rappresentato troppo spesso come un bamboccio ingenuo e troppo
abituato sia a piacere che a dare fiducia a chi ha una natura troppo complessa per essere giudicato con il suo metro. Come mai non
comprende la sua stessa ragazza? (nell’ultima scena che coinvolge Alësa e la sua fidanzata egli non si rende minimamente conto che
lei mente). Quanta parte hanno il segreto di questa ragazza (quello mai svelato nel libro e per il quale lei si “punisce” schiacciandosi
le dita con la porta) e l’eccesso di fiducia e la mancanza di penetrazione di Alësa al riguardo sul precipitare della malattia di Ivan? E
non è un po’ ridicolo il rammarico di Alësa quando si accorge che Ivan lo ha tolto dal piedistallo durante la lunga chiacchierata? E il
disagio che lo coglie poi continuando a parlare con Ivan è ancora più rivelatore, perché fin dal primo ritratto di Alësa si dice che egli
giudica dell’esistenza di Dio e del valore dello starec dopo averci riflettuto per un certo periodo e una volta per tutte, mentre niente e
nessuno possono essere giudicati così: per aderire alla realtà e avvicinarsi alla verità bisogna prendersi molto tempo ed essere sempre
disposti a cambiare idea, pena un certo fraintendimento. L’incomprensione di Alesa mi pare rivelata in particolare dalle pagine
relative al manoscritto dello starec.
Y: Se quella sezione del libro è così fondamentale per capire Alësa, è davvero ironico che tanti lettori si limitino a sfogliarla
infastiditi, come se si trattasse del sermone convenzionale di un prete logorroico…
X: Alla prima lettura anch’io l’ho scorsa rapidamente senza capirla, eppure la sua posizione subito dopo il capitolo sul poema di Ivan
è un segno, un invito a leggerla attentamente. Anche i titoli degli estratti del manoscritto sono un segnale.
Y: Titoli assurdi e così simili a parodie che mi ricordano Milton (definirei anch’io, come molti, Il Paradiso Perduto una riuscita
parodia della Bibbia)
X: Però il riferimento credo sia ai titoli ironici sui capitoli che descrivono il lamento e le azioni di Mitja durante la sua crisi nervosa
(quella che precede l’omicidio) e a quelli sarcastici delle fasi del suo processo (quelli con cui l’autore ironizza sulle teorie folli,
stupide, indifferenti e con sempre più scarso rapporto con la realtà di psicologi e giudici): alcuni dei brani dello scritto dello starec
sono davvero in effetti stupidi e folli e zeppi di astrazioni molto discutibili, come quella per cui sarebbe il valore sommo la verità dei
santi e non piuttosto il destino di coloro per cui essa è inaccessibile o sulle cui sofferenze ingiuste e/o crudeli si è affermata.
Soprattutto nel manoscritto lo starec, attraverso la trascrizione troppo umile e cieca di Alësa, afferma che l’inferno è pieno di uomini
descritti come cani rabbiosi, che rifiutano il Paradiso e desiderano la distruzione del mondo e l’”annullamento” di sé (e qui si usa
un’espressione che Ivan aveva usato parlando del suo desiderio nel capitolo precedente): essi vengono davvero rappresentati come
mostriciattoli che schiumano di rabbia o desiderio di vendetta oppure come ragazzini stupidamente ribelli a causa della loro
immaturità… E si parla del mondo che loro disprezzano quasi come di una specie di possedimento terriero del Signore, marcando
con una serie di pronomi possessivi il principio di proprietà e autorità! All’inizio del romanzo invece lo starec appariva capace di
ascoltare con empatia i fedeli e chi desiderava conoscerne l’opinione e dalle sue parole traspariva un cristianesimo aderente alla
complessità della realtà e pieno di rispetto e acume per i limiti, le qualità e le possibilità implicite nei destini individuali e nelle
personalità degli interlocutori, tra i quali era anche Ivan: Ivan era stato definito dallo starec grande, perché per natura portato a
ponderare questioni non meschine, e la sua ricerca era stata da lui definita elevata, tanto da non poter essere considerata chiusa e
fallimentare nemmeno con la morte. Inoltre, anche se c’è qualcosa di vero nel giudizio dato a un certo punto della condotta di Ivan
quand’è definita un “baloccarsi con la disperazione” o un accumulare per rifiuto, inerzia o paura, sarebbe più esatto parlare in
proposito di blocco e inoltre resta vero che è reale la sofferenza di Ivan per il dolore delle vittime, soprattutto infantili, della crudeltà:
è sincero quando dice che per lui la questione non è il rifiuto di Dio in sé o la ribellione orgogliosa per la ribellione, ma invece
l’impossibilità per lui, data la sua natura sensibile e morale, di consentire alla tortura su cui si basa la creazione e anche di
immaginarsi in un eliso a fare la ola a un Creatore come quello ebraico e cristiano.
Y: In fondo è comprensibile: quando a scuola leggevo Il Paradiso di Dante, mi parevano insopportabili i santi del Paradiso in volo o
tra i fiori, indifferenti al dolore di Pier delle Vigne, Ulisse, Paolo e Francesca. Comunque mi pare che ora, parlando dello starec, tu
voglia marcare di nuovo come la lucidità si offusca quando la riflessione sulla natura della realtà diventa astratta.
X: Appunto. Anche Alësa in fondo non riesce a non dar ragione a Ivan: Alësa non riesce a non ammettere che non potrebbe accettare
di essere l’architetto di una creazione magari dal fine luminoso ma fondata sulla tortura di anche un solo bambino. Se poi egli parla
della presenza dell’amore nel cuore dei torturati dalla violenza, dalle malattie, dalla perdita o dalla debolezza di mente o se rileva la
ricca sensibilità di molti balordi ridicoli (come “Straccio di stoppa”, ma forse anche Fëdor) e se, ubbidiente, sottolinea il mito
dell’innocenza di Cristo, è anche vero che lo fa con immagini deboli e argomenti che convincono poco e non cancellano affatto la
profonda impressione che lasciano i racconti di Ivan di atrocità insensate.
Y: Che libro strano: una volta che lo si è letto non si riesce più a prescinderne, almeno nel considerare libri e film in cui si tratti delle
questioni fondamentali dell’esistenza. Per noi è stato così.
X: E chissà, forse la morte di tutti i figli di Dostoevskij durante l’infanzia, compresa quella del suo bambino Alësa, è in relazione con
quel lungo lamento di Ivan… Voglio dire che una persona sensibile può rinnegare Ivan con la testa e con un atto volontaristico, ma
non può cacciarlo dalla regione profonda di sé. Quel capitolo “fa concorrenza” a Lo straniero misterioso di Twain.
Y: Io invece di nuovo penso a Milton, perché l’elenco di eventi insopportabili che chiude il Paradiso Perduto vi somiglia. Che ci sia
un filo che lega questo libro a quello di Milton? Quando Ivan chiama Alësa “Pater Seraphicus”, tanto da far sì che Alësa si chiede da
dove citasse, è Milton il riferimento? Certo Alësa è più fragile e scosso anche nella fede alla fine del libro: ti ricordi quelle domande
che fa al bambino su Voltaire?
X: Le parole che l’Eva di Milton pensa e dice al serpente e ad Adamo, cadendo nella tentazione, secondo me danno voce allo Spirito
e costituiscono una sintesi delle principali riflessioni su Dio tipiche di chi è dotato di spiritualità e natura morale, mentre gli eventi
che seguono rappresentano l’interpretazione di alcuni aspetti della realtà in base al principio del potere per il potere, ovvero al criterio
che regola la maggioranza dei rapporti tra viventi o tra gli uomini, ma non certo tutto: chi codifica in sistemi e si preoccupa di
diffondere le religioni per lo più ama il comando e lascia che a informare i suoi sforzi sia di regola il principio di autorità, tanto che
chi è dotato di spiritualità e senso della giustizia spesso comprende presto che, se desidera rispettare e coltivare ciò che è morale e
spirituale, deve rassegnarsi a vivere e a pensare al di fuori di ogni istituzione e fede religiose. A proposito di rimandi a Milton, anche
se forse è solo uno strano caso, è curioso notare come alcuni brani del manoscritto dello starec ricordino, in termini rovesciati, Il
cannocchiale d’ambra di Pullman, ispirato a Il paradiso perduto: vi si dice di come, qualora morisse “ciò che è cresciuto in sé”, si
diventerà indifferenti alla vita e si comincerà a odiarla e di come tutto ciò che è cresciuto in sé resterà vivo in virtù dello stretto
legame - come per Pullman in virtù della separazione – rispetto ad altri “mondi misteriosi” da cui Dio avrebbe preso “i semi”. Nel
manoscritto dello starec si parla poi, secondo punti di vista opposti e in termini molto simili a quelli di Ivan e di Pullmann, anche del
sottomettersi ciecamente al Mistero che non si può capire e si definiscono i tre poteri – Mistero, Miracolo, Autorità – per soggiogare
le coscienze, cui si oppongono uomini-ragazzi, quei ribelli all’autorità del Signore Padre, che all’inferno brucerebbero restando fieri,
come gli eretici sul rogo.
Y: L’aver nominato Milton a me intanto ha fatto venire in mente invece il ribelle malinconico di Come vi piace: anche se quel
personaggio di Shakespeare ha sfumature diverse ed è più distaccato e più curioso di Ivan, tra i due noto una parentela lontana
comunque.
X: Quel personaggio di Shakespeare e Ivan sono forse entrambi dei veri e propri archetipi, nel senso che dà Jung al termine. Sono
qualcosa di vivo ed eterno: Ivan non morirà mai e avrà sempre degli eredi indipendentemente dalla volontà di chiunque. Forse Ivan è
al centro anche della mia personalità. Nella scena finale del film Fahrenheit 451 forse io sarei I fratelli Karamazov. Al centro di
L’uomo in rivolta io vedo un messaggio simile a quelli di I fratelli Karamazov. La logica porta a tutto: questo è il messaggio che
discute Camus in L’uomo in rivolta ed è anche il messaggio che Dostoevskij dà attraverso le elucubrazioni di Smerdjakov prima
ancora che con Ivan. Da questa accettazione delle conseguenze di affidarsi alla logica, viene la necessità di un punto fermo che viene
offerto dal sentimento. Si pone la differenza tra sensato e giusto in primo piano: secondo la “testa”, Ivan, in un attimo in cui vi è
trascinato, arriva al “tutto o niente”: per natura è infatti troppo razionale e bisognoso di coerenza quanto poco capace di intimità e di
percepirsi creatura e quindi di accettare serenamente e con indulgenza i propri limiti e la propria complessità (quindi il suo destino);
secondo il sentimento, invece, Ivan arriva a concepire l’idea che si potrebbe esprimere così: “Odio la creazione perché la tortura non
è giusta e ciò resta vero anche se voglio vivere e anche se Dio stesso mi desse di essa una spiegazione, me ne chiarisse il senso”. Se si
rifiuta Dio e il mondo, in nome di un senso di giustizia, quel senso del giusto così forte deve diventare Dio. Io sto con Ivan per quel
suo lungo discorso che è impossibile dimenticare una volta letto e perché quel suo impazzire di dolore e arrivare così vicino al morire
a vent’anni mi è insopportabile. Un senso il destino di Ivan può anche averlo, ma che importa? Quando avevo circa vent’anni, mi
comportai davanti a un frate circondato da diverse persone come Ivan con lo starec, mi tormentavo quanto Ivan sull’inaccettabilità
delle ingiustizie che subivo o vedevo subire ad altri e, come Ivan, dicevo che mi sarei suicidata appena arrivata alla trentina, dato che
quel limite di età, a causa dei miei vent’anni, mi sembrava lontanissimo e non riuscivo a concepire la morte se non in modo molto
astratto. Quando qualcuno mi spinse, con le azioni e gli inviti espliciti, ad anticipare quel suicidio di dieci anni, io evitai di
assecondarlo più per caso forse che per merito e se non impazzii non fu perché non ce ne fosse ormai la possibilità: ora che il mio
percorso di evoluzione è forse quasi al vertice, come faccio a non chiedermi che razza di morte stupida e crudele sarebbe stata la mia
se fosse accaduta allora, quando sapevo della realtà solo il peggio e anche quello in modo limitato e quando non possedevo ancora
davvero me stessa?
Y: Quando frequentavo le medie e ancora nei primi anni del liceo non legavo molto con i miei compagni di classe e istintivamente
avrei cercato piuttosto la compagnia egli insegnanti: così viene descritto Ivan studente e così la biografia descrive Dostoevskij da
giovane. E conoscevo per esperienza il problema che blocca Ivan, come Raskolnikov, quella difficoltà di integrare esigenze del
sentimento e di una natura morale innata con i processi della logica, per cui entrambi questi personaggi finiscono col fare, senza
sapere perché, qualcosa che sanno sconvolgerà la loro vita. Di Raskolnikov si dice che andrà incontro a una “straordinaria rinascita”.
Forse Dostoevskij è Ivan dopo la rinascita…E tu…
X: Sì, io…Ma ora non parliamone. Comunque credo capiti spesso, in effetti, che, dopo l’esperienza di una vera e propria rinascita,
nasca in chi l’ha vissuta un enorme bisogno di esprimersi: non ci si stanca più di parlare e si comincia a scrivere, se non lo si faceva
già. Scrivere però non darà giustificazione al dolore vissuto.
Y: Il medico di La peste forse potrebbe essere definito un Ivan adulto e andato ormai al di là del puro raziocinio e degli estremi della
passione, un uomo capace di vivere e amare contro la logica, ma che potrebbe ancora essere nichilista - se nichilista può essere
definito anche chi è pronto a favorire la distruzione della vita per un valore più alto -, almeno qualora le circostanze permettessero di
esserlo fino in fondo senza provocare ad altri un eccessivo o troppo duraturo dolore… Tra le figure esemplari additate ai lettori dal
libro, quel medico mi pare stare appena un gradino sotto a Rambert. La concezione che questo medico ha di dio e dello scopo
dell’esistenza non è diversa dalla tua.
X: Sì, è vero. Comunque in generale, per quanto mi riguarda, affronterò con razionalità e onestà le due principali questioni poste da I
Fratelli K. : l’unico esempio che seguirò è quello di chi accetta le leggi della realtà considerandole impersonali dati di fatto, senza
cercare di immaginare nulla sul concetto di Dio che non sia una loro semplice constatazione, pur nutrendo rispetto per alcune di esse
(quelle leggi naturali che presiedono allo sviluppo di qualità, personalità e benessere). Se esistesse un Dio personale interventista,
non meriterebbe considerazione...E riguardo al diritto di procreare, il massimo di apertura che concepisco è quella molto cauta e
responsabile che Jung esprime in Lo sviluppo della personalità.
Y: In quanti libri oggi si delinea un atteggiamento simile soprattutto riguardo al concetto di Dio?! Il successo che attualmente ha
molta letteratura fantasy si spiega anche così.
X: Credo di sì. Considera anche solo la quadrilogia di Paolini Il ciclo dell’eredità…Queste righe provengono dal secondo volume
della serie (Brisingr) ed in esse Paolini espone il concetto con grande semplicità e chiarezza per bocca del Vecchio Saggio: “Morte,
povertà, tirannia e altri innumerevoli calamità affliggono la terra: se questa è opera di esseri divini, non sarebbe giusto allora
ribellarsi e negare loro rispetto, obbedienza e devozione? (…) Non ignorare la realtà per trovare conforto, perché altrimenti rendi più
facile agli altri ingannarti”.
Negli ultimi capitoli di Il mondo di Sofia l’autore parla della consapevolezza umana come di uno scopo della creazione: la materia
vuole conoscere se stessa attraverso l’uomo. Egli ne parla come di qualcosa di immenso valore, io invece sono e resto dell’idea di
Ivan: non esiste consapevolezza che valga una sola tortura. Del resto, conoscersi non significa di per sé arrivare a una consapevolezza
morale o che riguardi gli uomini (l’astratto non esiste, esistono individui che la natura forse crea anche al fine di arrivare a una certa
conoscenza, ma che per lei contano pochissimo).
Y: Il senso di giustizia è, a quanto sembra, innato e distribuito dalla natura a pochissime persone, per quanto alcune altre ne abbiano
qualche particella e possano, attraverso l’esperienza e le letture acquisirne qualche altra. Dimostra quanto il senso di cosa è giusto sia
raro anche il fatto che tocca spesso leggere assurdità riguardo alla teoria della reincarnazione, tipica delle grandi regioni orientali:
come si può dire, con Maugham ad esempio, che questa legge annulla il senso di indignazione umana di fronte all’esistenza del
dolore, soprattutto se questo è insopportabile e lungo e se niente nella vita della vittima può farlo apparire giustificato, qualcosa di
scelto o una punizione? Cosa importa l’entità delle ingiustizie compiute in un’ipotetica vita precedente se l’io, nella nuova esistenza è
un altro? Il fatto che per le ingiustizie compiute da qualcuno paghi un altro individuo è anzi proprio il massimo di ingiustizia
concepibile. E ho letto in una rivista un articolo in cui una sedicente esperta di astrologia interessata a questa teoria si chiedeva come
mai tante persone “scelgono” (nell’aldilà che precede la loro nascita) di soffrire tanto nella loro esistenza! Per la gente che soffre lo fa
sempre per propria colpa… tanto importante è poter pensare che non è poi grave non fare niente per evitargli quelle sofferenze. E che
importanza ha vivere di nuovo se non si sarà più se stessi e si perderà perfino il ricordo di ciò che si è costruito e si ama.
X: Di certo, comunque, la “legge” della reincarnazione è così ingiusta che probabilmente è vera o almeno credibile, dato che la
natura ha predisposto che per le colpe dei genitori (colpe non solo morali o volontarie, ma anche quelle coincidenti con eccessi di
virtù e squilibri innati o creati in età in cui più si è indifesi e meno si è responsabili) paghino i figli. Per avere conferma su questo
basta forse l’osservazione e non è sempre indispensabile conoscere i casi raccolti in Lo sviluppo della personalità (la legge stessa di
bilanciamento e misura che regola le vicende storiche umane è una legge di armonia immorale e rivoltante). Un esempio di questa
legge cui ho pensato di recente è tratto dalla storia degli antichi Romani: per la classe dei senatori e quella dei cavalieri che avevano
eseguito gli ordini di Verre e di altri mostriciattoli in parte simili a lui o che ne avevano nascosto i crimini che punizione migliore si
poteva immaginare di infliggere loro gli imperatori? Ma quante persone appartenenti alle classi più alte di grande valore, cultura e
umanità hanno sofferto e sono morti a causa di Tiberio, Caligola, ecc.! E tieni presente che un esempio fatto da Jung al riguardo è
anche peggiore, dato che egli interpreta l’affermazione del Nazismo come una manifestazione della legge di misura, propria
dell’inconscio collettivo, secondo la quale gli aspetti di esso più primitivi e violenti sono insorti per compensare la maggiore
estensione dell’istruzione e del benessere economico (effetto dello sviluppo tecnologico). Il mondo è sicuramente pieno di cose
bellissime: è meraviglioso che esistano coppie come noi legate solo da un affetto profondo e disinteressato, che dei genitori siano in
grado di amare i figli senza narcisismo e di dare loro ciò di cui hanno bisogno, che si possa guarire da molte ferite orribili del corpo e
della mente, che io e altri informiamo gratuitamente su questioni di grande importanza per il benessere. Ed è bello poter essere vicini
agli aspetti migliori della natura – dal giardino di casa soleggiato al paesaggio remoto e speciale – e ciò perfino nonostante il fatto
che un semplice cambiamento di luce spesso basta a infrangere il senso di benessere profondo che questa intimità con la natura a
volte dà e nonostante anche che fu il bel sole che splendeva su Hiroshima a far scegliere al pilota quella città per gettare la bomba
atomica. La vita, quante possibilità inesplorate… Sì, tutto ciò è bello, è verissimo, ma resta il fatto che il prezzo è troppo alto. Ivan
non poteva dire meglio o di più. Non so più se fu la De Beauvoir a scrivere che un oggetto bellissimo, come un raro gioiello, diviene
o dovrebbe essere considerato qualcosa di misero ed orrendo appena si pensi che a per produrlo sono state necessarie la tortura, la
schiavitù e l’omicidio. Fromm, descrivendo la necrofilia e spiegandone origine e conseguenze, fa una importante distinzione per
poter riconoscere il necrofilo quando sottolinea l’importanza di conoscere il motivo per cui una persona odia la vita e spera solo nella
distruzione, pur preferendo ancora vivere la propria esistenza e cercando di aiutare con discrezione e impegno altri a stare meglio: si
può odiare la vita perché la si ama, si può essere spinti dall’odio per le ingiustizie troppo numerose e irrimediabili a odiare la vita, che
tortura uccide e lo fa con indifferenza e magari tra le risate della gente; si odia la vita, si odia la gente. Chamfort affermò che
misantropia vuol dire filantropia e che non è possibile capire molte cose se non invertendo i significati di alcuni termini stabiliti dal
senso comune.
Y: Ma è una filantropia che non spinge a frequentare molti, che porta a rinchiudersi in casa e in sé e resta sterile. Non lascia alcuna
possibilità di tolleranza per chi non è buono, anche quando si tratta di qualcuno che a volte sa offrire qualcosa o di qualcuno che non
ama lo sport della caccia alle streghe.
X: Non si è necessariamente sterili restando in casa ed evitando ogni contatto con chiunque non sia il partner: se tutto quello che ho
scritto e messo in rete non basta a dimostrartelo, significa che ora qualcosa ti impedisce di essere obiettivo. Ammetto che la
tolleranza posta ad esempio dal libro di Giona mi è incomprensibile e di non dare alcun valore agli impulsi generosi se istintivi, se
nati e morti sul momento e rari, e nemmeno alla consapevolezza saltuaria, ai residui di coscienza contraddetti dalla prassi di una vita
e al dolore di chi non ha né l’istinto di ciò che è giusto né la voglia di riflettervi senza pregiudizi interessati. Forse concordo con quel
mafioso che, in Il giorno della civetta, si sfoga abbattendo il concetto di umanità.
Y: Eppure ci sarà una sorgente di questi impulsi saltuari, di quelle manifestazioni spontanee di una coscienza dalla voce tanto fievole
ma inconfondibile! Perché non rispettare almeno quella sorgente?Ciò ti aiuterebbe forse a sopportare meglio loro e la vita stessa.
X: In un libro orrendo di Giussani (l’autore sfruttato dai ciellini di Comunione e Liberazione per sostenere la loro maleodorante
mentalità di casta) egli fa molto in fretta a dimostrare l’esistenza dl suo Dio: egli sentenzia che non può non esserci una sorgente
dell’amore, ma il fatto è che può eccome. L’amore profondo esiste per lo stesso motivo per cui esiste il sadismo (ti rimando a
Fromm): a un certo punto della storia dell’essere c’è stata una deviazione e l’uomo ha cominciato a pensare purtroppo…Tutto il resto
è il risultato delle leggi della psicologia. Quando io ascolto Battiato – di rado del resto – ho sempre cura di farlo con criterio: quando
Battiato canta di un “oceano di silenzio sempre in calma”io penso a quel silenzio particolare che si sperimenta durante una
meditazione ben fatta; Quando canta che “le gioie del più profondo affetto sono solo l’ombra della luce”io penso al fatto che a volte
manifesto un amore particolarmente profondo per te o per me stessa e che, rispetto a quelle occasioni, il resto dell’anno è l’ombra
della luce. Emily Dickinson fu una dei poeti che più ebbe il senso di una sorta di intimità con qualcosa cui dava il nome “Dio” senza
essere religiosa in senso stretto, ma anzi dichiarando di essere avvolta dal mistero e dall’inquietudine e aborrendo il modo di vivere il
senso religioso della Chiesa, alla quale lei non si appoggiò per descrivere questa presenza silenziosa simile a un senso di solennità
avvertito mentre era sola e poteva dialogare con se stessa e intuire certe verità, quando riusciva a trovare le parole giuste per
esprimerle. Comprendere nobilita, restare in se stessi a lungo rimanendo lucidi nobilita, avvertire di essere più vicini alle cose e al
loro senso nobilita e tutto questo rende a volte tutto solenne per un po’. Anche Rainer Maria Rilke e Novalis parlarono di una sorta di
intruso misterioso , una presenza quotidiana illuminante evocata dalla lettura o dalla solitudine amara. Per esprimermi
appoggiandomi a un'immagine di Rilke, una verità può stagliarsi nella mente visionaria o sensibile con forza come il raggio portante
in una ruota (il processo inconscio è al di là di ogni controllo e a ogni intuizione seguirà, prima o dopo, un’altra, magari dalla prima
fecondata). L’inconscio è autonomo, una presenza dotata di vista più ampia di quella cosciente e di leggi proprie e i processi
dell’affettività sono altrettanto profondi che incontrollabili, perciò che bisogno c’è di parlare di un Dio nei termini della fede? Non si
è espresso in parte anche su questo Conrad, quando ribadì il disprezzo del sopranaturale nela sua prefazione a La linea d'ombra?
Perché tirare in causa una qualsiasi divinità rivelata e perfino un Dio padre assurdo come quello cristiano? Non bisogna uscire da una
mentalità radicata nel principio di immanenza se non è indispensabile e a me sembra che tale non lo sia mai. Ammettere una sorgente
dell’amore e del senso della giustizia in un al di là comporta il precipitare nell’assurdo del manicheismo (anche cristiano) oppure
nell’immorale e abbietta giustificazione del dolore più insopportabile con qualche cretinata su vite precedenti peccaminose, sugli
eletti predestinati, magari addirittura santificando la legge del più forte, del più intelligente, ecc. Solo i mostri o i sognatori ostinati
(forse è questo il caso del cristiano onesto Tolkien) e troppo deboli nel ragionamento (per plagio di vecchia data, per vigliaccheria
eccessiva, ecc.) possono assumere posizioni simili senza turbamento. E ancora peggiori forse sono coloro che rispondono a chi li
interroga con frasi del tipo: “non so perché ci sia tanto dolore e tanta ingiustizia, ma credo ci sia una ragione e mi affido a dio”
oppure “Eh ma l’amore…”. Del resto si può appurare subito quanto basso è il livello del “pensatore” Giussani quando si legge il
resto del suo libro a proposito della misteriosa sorgente “X”: egli arriva a scrivere che è giusto - razionale - fidarsi del personaggio di
un libro vecchio di duemila anni e peraltro parecchio rimaneggiato, contraddittorio e oscuro, perché lo è fidarsi della madre e
mangiarne il risotto anche senza prima farlo analizzare per escludere l’ipotesi del veleno (cioè con il fatto che l’atto della fiducia
nella vita a volte ha un senso ed è ragionevole). E non credo sia un caso se ho conosciuto pochissimi ciellini e adepti di qualsiasi altra
setta con in testa, nel cuore, nelle intenzioni e nelle parole stesse altro che la religione degli eletti, quella senza volto e nata con
l’uomo: niente, al di là del narcisismo e degli interessi economici e di protezione reciproca, è riscontrabile nella maggior parte di
loro (per quanto ci siano poche e bellissime eccezioni).
Y: La Chiesa non ha mai sostenuto altro che il principio di autorità e di casta fin dagli inizi: Agostino e quell’altro esaltato sadico di
Paolo non vedevano che una piccola porzione di eletti di cui facevano parte in un mondo destinato all’inferno; Lutero e Calvino
calpestarono il messaggio delle parabole e delle dichiarazioni sui ricchi e sui poveri appena poterono sentirsi protetti e fare gli
interessi della loro classe borghese ormai rafforzatasi e questo perfino nonostante il Vangelo fosse più diffuso al loro tempo grazie
alle traduzioni dal latino; in seguito molti esponenti dell’alto clero se ne infischiarono del Vangelo al punto da insinuare che le
parabole sul perdono erano falsi testi interpolati nel corso dei secoli bui, mentre esaltarono messaggi come “costringeteli a entrare” o
“sono venuto a portare la spada” (ne scrisse Voltaire). Da nessun religioso, poi, sono mai stati e saranno mai considerati con la dovuta
serietà i ripetuti esoliciti inviti del “messia” a credere non tanto in lui quanto nello spirito e a pregare soli e senza parole. Chi si
arricchisce sente il bisogno di fare tabula rasa dei diritti dei poveri e di non mescolarsi. I ciellini sono quasi tutti benestanti e questo
deve pur avere un significato.
X: Esopo o Fedro scrisse della sofferenza eterna predestinata dell’asino? Dopo essere stato reso schiavo, percosso di continuo e
affamato in vita, anche dopo morto l’asino avrebbe sofferto, dato che la sua pelle sarebbe servita a rivestire tamburi. Ragionando
come la gente, potrei dire che non era allora tanto grave percuoterlo e affamarlo. Io però sono, come l’asino, nata con una natura e
una famiglia che non mi hanno lasciato scampo e fin dall’infanzia ho subito la tortura fisica e psicologia e i giudizi ingiusti e
indifferenti di quasi tutti quelli che ho incontrato, ma da anni ormai raccolgo felicità e benessere e mi sento realizzata e, per certi
versi, perfino fortunata. Il principio alla base della religione degli eletti è privo di senso.
Y: Mi sembra che questa consapevolezza dovrebbe permetterti di avere uno sguardo sereno, che invece non vedo mai.
X: Non basta che ci sia qualche legge positiva a regolare i destini (almeno quelli umani) per spingere chi ha avuto una vita come la
mia ad abbracciare il mondo e l’esistenza, come se si potesse dire che davvero, con l’atteggiamento giusto, la vita è pur sempre bella.
Levi racconta di essere finito nel lager perché era andato a fare il partigiano in montagna senza avere i mezzi per rendere i rischi non
troppo grandi. Scrisse di essere stato vittima della legge naturale secondo la quale si può intraprendere un’azione solo se si ha la
capacità di realizzarla. Racconta anche che, al momento della cattura, avrebbe potuto salvarsi facilmente se solo gli fosse venuto in
mente o qualcuno gli avesse suggerito di mentire sul suo essere ebreo, per via della situazione particolare in quel luogo, ma che le
leggi ferree della realtà non permisero niente del genere. A me è accaduto lo stesso: ho agito a lungo in modo imprudente e
irrazionale e pertanto ho “meritato” le torture fisiche e psicologiche insopportabili e lunghissime e l’essere stata così vicina a morire a
un’età tanto giovane e senza alle spalle nessuna gioia, serenità, tregua. È tutto tanto semplice… E da quando ho potuto iniziare a
comportarmi in modo più razionale e coerente, ecco che la mia vita è migliorata progressivamente e io con essa. Tutto semplicissimo!
Levi scrisse poi che le leggi razziali e la giovane età gli avevano impedito di avere una vita sociale, di fare esperienza e di leggere
quanto basta per adeguarsi a quelle leggi che lo rovinarono con un’ingiustizia, quindi, assoluta e immensa. Io allora affermo che la
famiglia, il mio cervello col centro nel posto sbagliato, la mia Carta Natale, le malattie congenite e create e mai curate dalla famiglia
nell’infanzia e oltre, la mancanza totale di informazioni essenziali per vivere e un incontro incredibilmente sfortunato durante
l’adolescenza determinarono 27 o 28 anni di debolezza, disperazione e sofferenza senza rimedio, anni che non potranno mai essere
compensati da tutto ciò che ho ricevuto da te, dalla natura del luogo dove ora vivo e dalla ricchezza dei doni della mia mente nella
vegliao nel sonno. Finchè non ho ricevuto un aiuto abbastanza adatto a me e al momento giusto non mi è mai servito a niente capire
bene persone e situazioni. Soluzioni valide "in generale" ce n’erano sempre state ed io ne conoscevo alcune all’epoca, ma nessuna era
adatta alle forze e ai mezzi di cui disponevo e a volte nemmeno ai miei valori e alla mia natura meno modificabili. Le “vere”
soluzioni a problemi difficili da sopportare e da risolvere di solito sono poche. Ce n’erano di soluzioni adatte a me, ma per conoscerle
avrei dovuto ascoltarle da qualcuno, avere i titoli dei libri in cui le si espone nei dettagli, avere alle spalle esperienze che non avevo
fatto e non potevo vivere.
Y: Avere tanti problemi fin dall’infanzia ed essere stati lasciati sempre soli ad affrontarli fino a farli accumulare ed esserne stati
bloccati nella comunicazione - e ciò mentre si divide casa con grandi bugiardi! - genera di per sé passività anche in chi, pur non
avendo innato sangue freddo, è però un ribelle e possiede la forza e il coraggio del carattere. Forse sei stata troppo passiva...Sei sicura
di aver cercato davvero quelle soluzioni?
X: Certo! Nel modo possibile a chi non sa parlare, non sa agire bene senza riferimenti e senza una base…ma sì, le ho cercate.
Comunque, passività o non passività, ci sono situazioni da cui è difficilissimo uscire per qualsiasi ragazzo che non può contare sulla
famiglia. Io dico sempre che una cosa è avere tanti problemi (come ne ho da dieci anni) e un’altra cosa è non avere l’essenziale per
iniziare a vivere (una casa dove vivere soli o con una persona scelta e possibilità di esprimersi a parole e azioni, di informarsi, di
seguire progetti personali e di avere ogni giorno diversi momenti di serenità senza evadere e senza fingere). Iniziare a vivere quasi a
trent’anni è iniziare troppo tardi, con malattie, problemi sociali ed economici grandi e irrimediabili e immenso rancore. E c’è chi non
ottiene nulla neanche così tardi. A corrispondere alle pretese della gente che si possa mantenere la testa e i nervi saldi in ogni
situazione ed a ogni età ci sono solo i film (vedi i primi film Harry Potter e, ecc. o Le ali della libertà, un film di cui anche Levi
scrisse con disprezzo) e alcuni libri (vedi Matilda di Dahl), mai la realtà. E se io e Levi o altri non eletti fossimo nati degli stupidi –
tanto per usare un termine caro a tutti – ancora di più il nostro destino e l’aggressività altrui sarebbero stati ingiusti (concetto questo
incomprensibile per la gente solo perché il mondo è fatto di mostri per il 90 per cento). No, non accetto la Vita, il mondo, e spesso
vorrei che tutto venisse distrutto una volta per sempre.
Y: Non c’è abbraccio, sorriso o dono concreto che possa farti cambiare idea. É vero, la natura non ha alcun interesse per gli individui,
ma solo per l’insieme e per di più ciò che essa ottiene dal singolo di rado dà a lungo buoni frutti alla comunità, se ne dà. La tua è
consapevolezza per la consapevolezza, conoscenza di cui si può sempre ridere, non estendibile a tutti e ottenuta a prezzo di
sofferenze e angosce insopportabili accumulate in un’esistenza breve. E hai pure ragione di considerare vita solo gli ultimi anni! E
considerato come va ed è andata a molti altri, si potrebbe dire che devi pure considerarti fortunata!! È insensato e orribile, sì. Pare che
il tuo destino davvero non sia stato di stare bene ma di capire: non può essere un caso se nella tua carta natale si trova predetta una
vita di studio e anche un cambiamento di credo…Però se non c'è dio, non hai nemmeno accanto a te un insopportabile credente e hai
motivi per goderti gli anni che ti rimangono. A dio e alla gente si può non pensare troppo e si può apprezzare la propria vita senza
giustificare la Vita. Non potrai mai riconciliarti con la vita, con la natura e con quel che la gente chiama dio, così come non puoi non
essere misantropa.
X: Infatti. E lo penso pur avendo fiducia in alcune leggi della realtà, te lo ribadisco. Prima di conoscerti i miei tentativi erano minati
alla base dalla convivenza con i miei familiari, ma in seguito ho vissuto con più fiducia di quel che può sembrare, per quanto non
abbia mai confidato nell’aiuto della natura come un qualcosa di garantito. Se non avessi avuto fiducia non avrei iniziato, modificato e
portato a termine molti libri e i miei documenti online e non avrei insistito nei miei tentativi di superare nevrosi e traumi, mangiare e
vestire bene (cosa da tutti ritenuta impossibile), arredare la casa in modo adatto a me, rapportarmi nel modo giusto a emozioni,
fantasie e desideri profondi e naturali quanto contraddittori, confusi e in buona parte irrealizzabili. Se ho realizzato i miei obiettivi,
ciò è dovuto al fatto che la natura è sì, come la definì Leopardi, una “matrigna cattiva”, ma non è tale nel modo in cui lo sono le
persone: le persone cattive non cambiano mai e per loro non conta proprio niente qual è la verità, quanto si insiste con loro e se si
cambia o no, ma la natura spesso, pur essendo indifferente all’ingiustizia, risponde alla perseveranza di quegli sforzi inauditi che
nascono dalla sincerità e dall’essere nel giusto, e cioè ha di bello che anch’essa cambia quando si riesce a cambiare atteggiamento e
se la personalità attivamente si stabilizza in una posizione abbastanza equilibrata. Non si può mai sperare nella gente, ma si può
sperare un po’ nella natura, per quanto hai pur visto come la natura mi ha abbandonato tre anni fa in una situazione così importante e
per le conseguenze della quale ora dovrò morire presto dopo aver cominciato a vivere a 28 e a vivere benino a 30! Io non imito mai
gli altri nella foga con cui semplificano sempre i loro giudizi e gettano tutta la merda possibile su chi e cosa non piace loro. Io anzi
mi sforzo di vedere le qualità ovunque siano e ciò per non rischiare troppo o senza una chiara decisione al riguardo e per non perdere
delle opportunità: anche per via di questa abitudine non sono rimasta a lungo miope da quando ho iniziato a intravedere quanto la vita
può offrire. Non si tratta, quindi, come vedi, di “essere negativi” (una delle espressioni più stupide usate comunemente), dato che so
pur consolarmi di essere viva!
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X: Un sogno (o una visione) sta al centro di molti libri di Dostoevskij e spesso ne cattura e rimanda il senso come un prisma. Nel
caso del sogno di Mitja forse non c’è altrettanto potere magnetico sul significato complessivo del testo, ma l’impressione che esso mi
ha lasciato è forte, per l’analogia inaspettata e involontaria che ne ho tratto subito tra la Siberia e la psichiatria, un ambiente che
probabilmente ricorre negli incubi di molti. Egli sogna prima del processo e il suo sogno puro e pieno di speranza contribuisce a
rovinarlo. Il sogno di Mitja… ecco qualcosa che si dovrebbe aver presente prima di rivolgersi a psicologi, neurologi, psichiatri ecc. Il
sogno può rappresentare bene l’illusione di poter affidarsi.
Y: Ma Mitja non sarebbe mai riuscito a trovare l’equilibrio fuori dal carcere: il mondo per lui è solo un avvicendarsi di tentazioni cui
non sa resistere. Egli non sa decidere. È il tema della “frenesia karamazoviana”. Una specie di heimarmene, in senso stoico, spinto
agli estremi.
X: Il “suo” mondo fuori dalla Russia è immaginato come una terra libera dove si subiranno molte umiliazioni che possono educare,
lasciando il margine per appropriarsi di sé e acquistare dignità con il tempo, mentre la vera Siberia vuol dire schiavitù materiale e
psicologica. La Siberia è ben diversa da quella vaghissimamente descritta in Delitto e Castigo: l’immagine che devi averne è quella
data per esempio in Vacanze di Natale di Maugham.
Y: Allora ora ho capito la ragione del tuo riferimento alla psichiatria: meglio per strada che automi paranoici e schiavi come i reduci
delle carceri siberiane di Maugham e gli ex internati dei nostri manicomi!
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Y: Ivan è l’anima di Fëdor? Egli è l’anima del padre, come Alësa ne è il cuore, Smerdjakov ne è il cervello bacato e Mitja gli istinti
fuori controllo? Ivan è dominato dall’Anima o dall’Animus in senso junghiano? Ivan disprezza troppo Fëdor, te ne sei accorta?
X: Certo, ma lo fa soprattutto perché la gente in genere disprezza troppo lui. Questo è uno dei sottotesti dell’ingresso in Paradiso
descritto nel suo poema.
Y: È per via di quel suo timore, di quel suo senso di giustizia o semplicemente a causa di quel suo esaltarsi? La gente odia gli esaltati
molto più di qualunque criminale.
X: Non è affatto un esaltato. Ivan è passionale e tende all’esaltazione (come i fratelli, del resto), ma quando parla di sé stesso ad
Alësa, nel loro più lungo colloquio, egli dimostra ben altro atteggiamento. La sua sensibilità e la sua nobiltà sono profonde, non sono
le manifestazioni di un eccessivo! La maggioranza è cieca in questo. Per esempio pensa a quante volte sembro esaltarmi io, magari
per un libro, eppure “sotto” non c’è niente: se la passione e un senso di vuoto mi portano a volte a esprimermi con più calore ed
energia del comune, interiormente essi corrispondono soltanto a un giudizio e non alle idiozie che la gente di solito attribuisce ai
modi di fare simili al mio; e lo avrai notato, perché posso passare a un altro argomento (grave o piano) da un momento all’altro,
mentre se questo punto di vista altrui fosse valido, ciò non sarebbe possibile.
Y: La gente però non sa notare cose come queste, non vuole vederle, e ciò nemmeno quando il livello di analisi richiesto per
formulare un giudizio corretto sarebbe molto più basso. Anch’io a volte fraintenderei molte cose se non ne avessi avuto esperienza
personale. Per stare su un piano di banale quotidianità, mi ricordo un episodio recente in cui, parlando con un conoscente a casa sua,
questi mi ha indicato il nipote di una decina d’anni come un pazzo per lui insopportabile in quanto emotivo. Egli lo ridicolizzava in
particolare facendomi notare che il bambino avrebbe avuto un attaccamento smodato e assurdo per dei suoi gatti: mentre osservavo il
bambino alle prese con uno dei suoi cuccioli, egli mi sembrava davvero malato, eppure non faceva niente di diverso da quello che
facevo io a dieci anni con i miei gatti, io che a quell’età non avevo affatto un atteggiamento interiore anormale nei loro confronti né
li consideravo altro da ciò che erano…
IL CONTE DI MONTECRISTO
X: Ho da poco letto i migliori libri di Dumas padre, in cui tanto e senza molta banalità si disquisisce su onore e ricompense,
provvidenza e giustizia. È quel genere di libri che andrebbero forse letti da adolescenti e poi riletti intorno ai 35 anni, tornando al
punto dopo aver compiuto un lungo giro. Sono libri il cui senso appare più chiaro e più lucido se ai termini 1) Dio 2) risposta alla
preghiera e 3) provvidenza sostituisci 1) leggi della coscienza e della nobiltà interiore in quelle rare persone che le possiedono e
inoltre dell’inconscio personale e familiare 2) reazione impersonale della legge di attrazione all’attenzione focalizzata e 3) insieme
delle leggi psicologiche, sociali e naturali. Il discorso fila tranne che in un punto: la moralità del principio motore è un abbaglio
dell’autore o un suo artificio per consolare e illudere il lettore. E va anche bene usare questi libri per consolarsi dell’essere vivi,
purchè riguardo tutto ciò si resti lucidi, soprattutto se a volte si è tormentati da un condizionato desiderio di avere dei figli. Essendo
la coscienza confinata in pochi individui, di rado il destino è morale e non è né giusto per gli altri né vantaggioso per sé illudersi al
riguardo. Concordo con Dumas, quando, come Jung, ripete che la perseveranza è spesso la chiave, ma non dimentico che nella vita
quasi sempre - e di persona - si paga la debolezza e si pagano inoltre gli eccessi e gli squilibri sempre - o di persona o attraverso il
destino dei figli -, ma quasi mai invece si paga la cattiveria (si tratti di egoismo, indifferenza, ostinazione nei pregiudizi, crudeltà
consapevole) - nè di persona né nei figli - , a meno che essa non sia sfociata in malattia, debolezza o altri eccessi. Ora io vedo che di
rado accade che fare del male renda deboli (al contrario narcisismo, sadismo, “necrofilia” rendono invulnerabili alle critiche e capaci
di perseguire il proprio interesse con accanimento e senza scrupoli fino a raggiungere una posizione di grande forza). E inoltre non
trovo che il colmo dell’ingiustizia nel fatto che, per una legge naturale eterna, siano i figli a pagare per eccessi (magari di virtù, come
avvertiva Jung) o colpe dei genitori. Mi lascia fredda, poi, vedere che alcuni figli dei mostri ne bilanciano la personalità e fanno
qualcosa di buono. E infine noto ogni giorno che è rarissimo che una vittima abbia la possibilità di farsi giustizia, anche quando si
salva in exstremis e gradualmente si risolleva. Inoltre trovo le malattie e soprattutto epidemie e bombe atomiche difficilmente
compatibili con l’idea di un destino individuale sensato ed esprimente in qualche modo una legge morale.
Y: A proposito di malattie, credo che peraltro non sia un caso che Dumas le ignori del tutto in questi libri. E ho il sospetto che, se lo
avesse fatto, avrebbe detto, per bocca di Edmondo o di Athos, qualche assurdità simile nel tono all’affermazione di Dantes che
l’impegno di consegnare la lettera, che lo perdette, è stata un capriccio della sorte e che Dio permette ai malvagi di vivere abbastanza
e spesso molto a lungo perché desidera compiere attraverso di loro le sue vendette, quindi per colpire anche qualche malvagio. Del
resto si sa che così la pensava sulla peste Manzoni, un altro ammiratore della provvidenza. Bisognerebbe leggere la descrizione dei
sintomi della peste gatta da Tucidide per comprendere fino a che punto questa affermazione di Manzoni sia una sorta di barbarie del
pensiero. E, del resto, quando Dumas descrive gli effetti della cella di isolamento su Edmondo e sullo scienziato non tiene
minimamente conto delle reali conseguenze che su chiunque hanno la solitudine costante, il buio, il cibo malsano e scarso o anche
solo povero di vitamina C. Pellico e Tolstoj avrebbero scritto ben altro al riguardo.
X: Vero. Però mentre parlavi pensavo a una cosa: è vero che si parla di malvagi quando vengono tirate in causa le vendette di Dio,
però in I tre moschettieri e in Vent’anni dopo, Miledy e suo figlio finiscono anche col pareggiare i conti (di dio?) con delle
imperfezioni di persone nel complesso di valore: pensa, non solo alla scelta del convento di milady, ma al fatto che il nome falso
assunto da madame Bonacieux è lo stesso della cameriera di milady con la quale d’Artagnan la aveva tradita, pur senza dimenticarla
e senza coinvolgimento, e che è quel nome a spingere milady a conoscere la ragazza, che poi riconosce e uccide per essere stata
ingannata da lui; pensa al fatto che Athos perde un figlio come milady aveva perso il suo per mano di Athos; e la consegna della
lettera a Dantes sembra messo in relazione con la minaccia eccessiva da lui fatta al collega anche al di là della rabbia conseguente e
decisiva di costui... In molti altri libri, del passato e recenti, ho ritrovato parallelismi simili e dal messaggio lasciato del tutto o in
parte implicito. Per esempio in Il lupo dei mari London avvicina alcuni elementi narrativi in un modo che sembra casuale e non viene
sottolineato, mentre, in realtà, indica corrispondenze che fanno pensare ad una legge; e questa legge determina, come nei libri di
Dumas, una specie di regolamento di conti e non tiene conto della gravità di ciò che si è compiuto e delle condizioni difficili che
hanno portato a compiere quell’atto crudele, eccessivo o debole ma, in ogni caso, dalle conseguenze per sé e altri: il cuoco Mugridge
perde un piede e finisce con lo zoppicare come il protagonista che aveva obbligato a lavorare con un ginocchio inservibile; il cuoco
viene reso storpio da Larsen, il quale presto diviene anch’egli un invalido; Leach, al momento giusto, non trova il coltello con cui
uccidere Larsen, che così fugge e poi lo uccide davanti agli altri e di un coltello mancava per la prima volta il cuoco Mugridge
quando Leach lo aveva assalito e quasi ammazzato di pugni nell’indifferenza generale, dopo averlo altre volte trattato ingiustamente
per sfogare la rabbia suscitata da altri…Nella saga fantasy recente Le cronache del ghiaccio e del fuoco questo modo di costruire la
trama è anche troppo evidente e un po’ ingenuo: molti personaggi, con il tempo, finiscono per subire, almeno in parte, le sofferenze o
la morte che hanno causato (anche qui chi rende qualcuno storpio o cerca di farlo diviene poi in qualche modo altrettanto storpio, chi
uccide in un determinato modo viene ucciso in modo simile o da chi ha assistito e ha rischiato di essere una delle sue vittime, ecc.). E
non sono solo i libri per ragazzi o di evasione ha esibire un simile intento, ma libri di ogni genere e tempo, anche se solitamente gli
scrittori scelgono di farlo in modo meno appariscente e costante. Qualche volta ho avuto l’impressione che cose simili accadano
davvero, mi è sembrato di scorgere situazioni, create dal caso e da un mio irrazionale lasciarmi andare, che tornavano a capitarmi e si
svolgevano in modo stranamente molto simile a distanza di anni e con persone diverse, perché non le avevo affrontate o almeno non
le avevo meditate a lungo e portate sempre con me e perché il mio modo di agire non era cambiato; oppure mi è successo di subire
qualcosa che altri avevano creduto di subire da me anche se io avevo avuto ben altro in testa e si sbagliavano. Chissà se intendeva
anche questo Musil, quando scrisse che le stesse cose ritornano e che la realtà si sviluppa sulla base dell’apparenza, non della verità,
e a partire dai fatti, non dalle intenzioni e dalle circostanze.
ETICA NICOMACHEA CON INTRODUZIONE
X: Ascolta: "Ci sembra assai significativa, in proposito, la sua motivazione della condanna del suicidio, quella specie di pubblica
infamia, che colpisce il suicida, rivela, secondo Aristotele, che chi subisce ingiustizia e, in realtà, la comunità politica, non
l'individuo stesso che si è ucciso. Ben più profonda (senza peraltro disconoscere la parte di verità che la tesi aristotelica pure
contiene) ci sembra la lezione di Socrate che, nel Fedone, si dice convinto che gli dèi si prendono cura degli uomini e che questi
sono come un loro amato possesso: perciò non è lecito all'uomo sottrarsi volontariamente con la morte. Il suicidio è, per Socrate,
un'ingiustizia verso gli dèi". Ascoltato bene ogni parola? Questo è il commento idiota all'Etica Nicomachea che ho appena letto
nell'edizione del libro che ho trovato in biblioteca! A parte che non si dovrebbe dare giudizi così personali nella critica e soprattutto
nelle stampe indirizzate anche alla scuola e senza motivarli ampiamente e con riflessioni proprie, perché scrivere queste idiozie?
Niente giustifica l'espressione "amato possesso" e riguardo all'idealista Socrate, bisognerebbe rimandare questo imbecille almeno a
quanto di questo presunto saggio scrisse Nietzsche. La verità è che, tirando in causa Dio, la condanna del suicida appare irrevocabile,
nobile e più difficile da confutare (non si può ragionare quando si dà per scontato ciò che dipende da un atto di fede religioso, cioè da
uno slancio privo di fondamento razionale). È comodo il concetto di Dio per chi considera gli altri come strumenti. L'uomo è stato
anche troppo bene definito un rapace sadico e davvero grande è il numero delle persone che pretendono il controllo su tutti, su tutto...
Dio è un buono spauracchio, un comodissimo alibi, sfruttato almeno quanto l'astratto concetto di Società.
Y: Sì. E nessuno può negare, però, che di rado qualcuno arriva a suicidarsi se non è stato calpestato da una società ingiusta, resa
immodificabile dalle leggi eterne ("divine") della violenza.
X: La falsa moralità attribuisce valore agli individui in quanto utili alla "comunità", che è in realtà un assembramento di caste con
diritti e possibilità ben diversi. Questa "morale" tanto comoda, sostenuta da Aristotele e da questo critico, è stata ed è ribadita da
un'infinità di mostriciattoli con la mania del potere, ma anche accusata e demolita dai saggi di ogni tempo (da Cicerone ad alcuni
degli indiscussi padri della psicanalisi).
Y: Da poco ho letto Non ho parole e mi ha colpito la quasi ingenua affermazione che l'importante è appunto che tutti partono dallo
stesso punto di partenza. Goldoni motivava così la distanza tra le classi e l'esigenza di soffocare le ribellioni soprattutto giovanili del
suo tempo. Era un conservatore e non non ha voluto o saputo essere lucido in questo caso, come lo fu invece altre volte. Nessuno
parte dallo stesso punto di partenza (nemmeno se nato dagli stessi genitori). Comunque credo che l'arroganza nota ed evidente di
Aristotele indichi di per sé che egli mancava della sensibilità e dell'umiltà indispensabili a pronunciarsi sul suicidio (vedi la critica di
Bacone all'allontanamento di Aristotele da Eraclito e dagli altri pensatori capaci di rispettare il mistero che avvolge l'essere e di
accettare i limiti della ragione, del cuore e della capacità conoscitiva umani)!
X: Detrae valore ai suoi giudizi già la passività con cui egli avalla la mentalità misogina e schiavista del tempo, perché essere così
acquiescenti nei confronti della tradizione è sempre un grave limite. E ciò appare evidente considerando quanti hanno saputo elevarsi
su di essa nella sua stessa epoca (vedi con quanta indifferenza Tucidide trascura, oltre agli oracoli, i pettegolezzi sulle donne e quelli
sui nemici e quanto appare grande la sua obiettività se confrontata con l'atteggiamento di Erodoto; vedi Apuleio, un autore che
giudica implicitamente ma con imparzialità la condizione delle donne e degli schiavi in Grecia). Quanto, poi, a quel che Aristotele
scrive sul potere genitoriale sui figli e a quello della famiglia sulle donne, non vedo che soluzione diversa dal suicidio egli prevedesse
per un figlio o una moglie che venissero maltrattati gravemente, dato che essi erano altrettanto privi di diritti del più misero schiavo.
Bisogna ripetere che la libertà di decidere della propria intimità e se vivere o morire è sacra e che chi nega questo principio è un
violento o uno degli alibi di cui ogni violento si servirà sempre.
Y: E oggi sono parecchi i "suicidati" dai familiari e dall'organizzazione del lavoro col benestare della legge...
X: E ancora di più i casi di malattia, rovina e morte seguiti a TSO decisi per individui da sempre tormentati e poi diffamati e buttati
per strada o percossi e minacciati dai loro "cari". E, come in altri tempi, le vittime sono per lo più donne e ragazzi. A volte la vittima
si ritrova intorno una massa di "sconosciuti" che sentenzia e la vuole umiliata e/o morta; altre volte essa ha intorno soprattutto
disattenzione o totale indifferenza ma tant'è... In La meglio gioventù uno dei protagonisti si suicida dopo aver tentato di evitarlo: si
reca in visita dai familiari e lancia, sulla porta, uno sguardo al fratello, sguardo cui io avrei saputo rispondere e che il fratello invece
non raccoglie (o almeno non in tutte le sue implicazioni). Parlare non sempre si può, perché i blocchi emotivi che colpiscono la
comunicazione si possono affrontare solo con la persona giusta (questa deve avere sensibilità innata e a lungo coltivata e inoltre
conoscenza di come quei blocchi si formano, peggiorano o migliorano o almeno l'affetto, la pazienza e la capacità di ascolto
necessari per renderla progressivamente ed efficacemente comprensibile con l'autoanalisi a che ne è paralizzato). Risolvere certi
blocchi richiede molto tempo e di solito non si arriva mai a superarli del tutto o almeno non si arriva spesso a riuscirci sotto l'influsso
di ogni tipo di emozione (io ho imparato a parlare bene, come vedi, ma quando qualcosa mi deprime molto all'improvviso non so
ancora reagire...sotto l'influsso di una tristezza inaspettata e profonda torno a essere bloccata, per quanto sappia dominare ansia,
rabbia e paura meglio di tanti altri).
Y: Il fratello, a suicidio avvenuto, afferma di aver voluto rispettare la libertà del morto, di chi cioè aveva "scelto" di non chiedere
nulla...Chi è bloccato non sceglie affatto! Il fratello mente? In questi casi il problema è mancanza di intuizione, è ignoranza, è
disinteresse, è menzogna comoda a se stessi, è raggiro degli altri?
X: Comunque sia, è questa sua interpretazione a spingerlo a giustificare il ricovero coatto di chi tenta il suicidio e anche a giustificare
a se stesso la sua mancanza di disponibilità e sensibilità in un momento decisivo. La vita non offre a tutti la possibilità di superare
blocchi e altre idiosincrasie. Chi non trova le informazioni che gli servono necessita dei libri che le contengono e non di essere
ignorato per poi essere imprigionato da psichiatri quasi sempre sadici e quindi legato e drogato finché rimbecillisce, impazzisce, si
ammala fisicamente e si ritrova a sopravvivere da zombie o morto precocemente di malattia o per un ulteriore tentativo (più
fortunato) di suicidio fuori o dentro il manicomio!!
Y: Tu lanceresti insomma, potendo, un messaggio a tutti, un semplice messaggio che suonerebbe così: "Ascoltate le domande
inespresse e poi, con gentilezza e rispetto, per lo meno distribuite indirizzi di documenti come i miei ed elenchi di titoli di libri di
Fromm e di Jung e poi di capolavori della saggistica e della letteratura di ogni tempo. Fatelo, oppure, bastardi, lasciate morire chi
vuole andar via!"
X: I libri giusti e l'autoanalisi forniscono il principale e il più grande aiuto che si possa avere quando si soffre e non si sa come
combattere la disperazione. Il dialogo con una persona amata e in cui si possa aver fiducia è un aiuto fondamentale, ma che può
venire solo dopo, di solito, e comunque che da solo non può bastare quando si è arrivati ormai a una seria nevrosi.
Y: Matteo, il suicida di quel film, era un buon lettore, ma non aveva trovato i libri giusti?
X: Appunto. La sua ragazza innamorata gli dice che egli teme la vita e gli altri e che si rifugia nei libri perché può chiudere un libro
più facilmente che un rapporto e distrarsi da un libro più facilmente che dalla consapevolezza amara che deriva dal suo passato e dal
suo tipo di lavoro. Ma non tutti i libri sostengono nella fuga nè tutti i libri cantano inni agli assoluti. Ci sono libri dalle cui pagine si
scende fino a se stessi, alle paure, ai desideri profondi e poco consapevoli, ai valori innati e acquisiti più forti, alle abitudini di
pensiero e comportamento condizionate dagli altri o dal passato, a tutti i muri di protezione insensati e asfissianti. Sono libri che è
bene poter chiudere. Si deve leggere con tutta la calma disponibile e in tutta sicurezza, quindi chiudere il libro e poi riaprirlo una
volta calmi e distaccati: si deve cominciare e ricominciare il dialogo con ciò che si sa e non si vorrebbe tener sempre presente e
quello con la propria coscienza, la propria natura immodificabile e il proprio inconscio. È la lettura come meditazione vitale e non
come mero rifugio. Essa prepara a incontrare e a riconoscere la persona giusta e permette di instaurare rapporti sinceri e aperti,
relazioni che a volte, lentamente, riportano alla vita.
IL SIGNORE DEGLI ANELLI
Bisogna innanzitutto consiederare che il libro è stato scritto poco dopo la seconda guerra mondiale, le cui vicende sono state plasmate
da un narcisismo estremo, delirante, avido. Scrivendo del nazismo e della sua prigionia in un lager, Primo Levi definì il bisogno di
prestigio come un'aspirazione ineliminabile della mente umana. Tolkien esprime il suo dissenso a questa mentalità prima di tutto con
la creazione della compagnia dell'anello, che è multiraziale e unita da amicizia, anche se a trasmettere in modo esplicito il messaggio
di Tolkien non è un suo componente ma Faramir: la guerra serve a portare la pace (benessere, ma anche cultura e bellezza), ma non
va ricercata e amata in se stessa e per il prestigio che essa può procurare. É tale la fede di Faramir, che pure per razza e discendenza è
il più vicino a noi di tutti coloro che accompagnano Frodo con la sola eccezione del fratello e che inoltre dimostra di non essere
abituato a ragionare prescindendo del tutto dalla comune sete di prestigio (conosciuta l'intraprendenza di Sam, se ne stupisce e non sa
evitare una domanda a Frodo circa la considerazione di cui godono i giardinieri come Sam tra la sua gente). Sono in linea con la
nobiltà e la mancanza di vanità o sfrenata ambizione di Faramir molti degli aspetti di seguito elencati, che sono forse gli elementi più
originali del libro: l'invenzione degli Hobbit (esseri simili agli uomini forse in tutto eccetto che nell'ossessione per il prestigio
personale); la scelta del ridicolo nome Pungolo per la spada dei coraggiosi Bilbo e Frodo; il fatto che sia Sam che Aragorn e i suoi
guerrieri siano paragonati a dei cani mentre valorosamente combattono gli Orchi; il fatto che Sam e Frodo perfino nei pressi di
Mordor definiscano il loro rapporto quello di padrone e servitore; l'abitudine di Sam – fastidiosa in genere per il lettore fino alle
ultime pagine – di rivolgersi sempre a frodo antecedendo un rispettoso "signor" che sembra contraddire, non solo l'intimità raggiunta
tra loro nel corso del viaggio, ma anche l'abilità e l'autonomia decisionale sempre maggiori di Sam (l'unica eccezione – l'unica
occasione in cui Sam chiama il compagno semplicemente "Frodo" – è quando lo crede morto e l'urgenza della situazione e l'ansia lo
sconvolgono).
L'evoluzione del rapporto tra Frodo e Sam è però certa ed è forse questa a meglio esprimere il valore che possono assumere rapporti e
imprese quando la vanità è assopita e il narcisismo è ridotto al minimo. L'insieme di reciproche scoperte e di cambiamenti nel
relazionarsi di Frodo a Sam viene descritto in pagine che probabilmente sono tra le più belle del libro, perciò mi è impossibile farne
una sintesi adeguata, sebbene il paragrafo seguente possa darne un'idea: inizialmente si dice che il signor Frodo prova grande affetto
soprattutto per Bilbo e Gandalf e che inoltre ha per amici in particolare due Hobbit che nel corso del libro vengono a volte presentati
da Frodo come il signor Tuc e il signor Brandibuck ma non Sam che viene sì trattato come un amico ma non davvero considerato tale
(è il giardiniere per Frodo, che non lo conosce affatto bene e lo presenta e spesso chiama tra sè semplicemente "Samvise Gamgee");
fin dalle prime tappe del viaggio, Frodo scopre che in Sam vi è più di quanto pensasse e superficialmente appaia (in effetti si tratta di
un personaggio gradualmente e bene delineato e anche complesso, nonostante che la sua mente venga definita dall'autore una "mente
semplice"); dopo l'influenza che la prima breve ospitalità degli elfi nella radura ha su entrambi, Frodo si scopre felice che Gandal
abbia scelto come suo compagno Sam anzichè Pipino o Marry; quando rimangono isolati dagli altri componenti della compagnia
dell'anello, Frodo rivolgendosi a Sam dice: "Samvise Gamgee, mio caro Hobbit...anzi Sam, mio più caro Hobbit, mio adorato amico",
come in seguito ripeterà aggiungendo e ripetendo "mio unico amico"(di nuovo tutto è giocato sul nome, come quando Frodo viene
avvelenato da Shelob e sembra a Sam ormai morto); quando scopre che cosa Sam ha saputo fare per salvare entrambi da Smeagol,da
Shelob, dai guardiani del cancello e dagli Orchi della torre, Frodo gli dà la sua spada elfica con una motivazione che appare subito al
lettore sensibile in parte un pretesto e dimostra di esserlo davvero quando in seguito Frodo chiede all'amico di tenerla mentre
vengono onorati come vincitori dai compagni infine riuniti. L'apparente o parziale ritorno finale allo stato iniziale con la riunione di
Frodo a Bilbo e Gandalf e la sua separazione forse non definitiva ma lunga da Sam in realtà sottolineano ancor più il cambiamento
avvenuto in entrambi e la profondità della loro amicizia resi possibili dalla presenza in ciascuno di loro di ciò che serve ad una
evoluzione individuale, a quel tipo di maturazione personale che moltissime persone non raggiungono mai: Frodo e Sam non
difettano della disponibilità all'onestà nel pensiero, nelle parole, nelle azioni e pertanto possono crescere davvero.
Il libro è infatti principalmente un romanzo di formazione come sono tutti o quasi tutti i libri fantasy ed è anzi la trasposizione di ciò
nella forma a dare all'ultima parte della saga quel carattere angoscioso e "adulto" che si pone in contrasto con la prima e conferisce
grandezza all'amicizia e all'eroismo dei protagonisti della guerra contro Sauron: il ragno/demone Shelob è davvero inquietante e un
incontro pesante per il lettore avvolto già da tempo in un'atmosfera deprimente, creata da infiniti dettagli tormentosi, e la violenza
verbale di Saruman nel suo dialogo con Vermilinguo, che non a caso si trova nelle ultime pagine, si potrebbe credere più adatta a
quei libri che fin dall'inizio si rivolgono chiaramente a lettori adulti (è evidente che Tolkien ha voluto esaltare questi episodi mediante
tutte le sue arti di scrittore quanto si era moderato nel rappresentare nella prima parte del viaggio gli incontri, in fondo altrettanto
pericolosi, con alcuni dei Nove Spettri di Sauron, con il Grande Salice e con gli Spettri dei Tumuli).
L'eroismo e la natura ideale di molti dei protagonisti può a volte infastidire il lettore che ha esperienza e sa cosa in realtà si può
aspettarsi dagli altri e in genere si può e non si può chiedere, almeno con qualche speranza fondata, perfino al più caro amico o al
partner e naturalmente ai parenti; tuttavia il carattere archetipico dei personaggi (rimando agli scritti di C. G.Jung), alcune finezze
psicologiche, il valore emblematico della vicenda narrata e l'abilità come scrittore di Tolkien sono tali da poter affascinare anche
alcuni dei lettori con meno inclinazione per questo tipo di letteratura. Il ruolo e il carattere di Sam lo rendono più simpatico di Frodo
ai suoi paesani e probabilmente a molti lettori, ma è ovvio che Frodo – portatore dell'anello, col suo crescente peso, per quasi tutto il
percorso – non è da meno del compagno e forse ne è davvero anche migliore come Bilbo, Gandalf e Faramir lo stimano; in ogni caso
può apparire confermata la previsione che Gandalf, dopo che Frodo è stato ferito dalla lama di uno dei Nove, fa su ciò che questo
eroico mezzuomo sarebbe forse diventato ("come un bicchiere empito di limpida luce, visibile agli occhi meritevoli"). É bello
comunque anche che Sam conquisti la stima del lettore per meriti non poco diversificati e che, se Frodo viene da Faramir dichiarato
senza mezzi termini più intelligente di Sam, in fondo Frodo, rispetto al compagno dimostri soprattutto di saper trovare più spesso le
parole, tacerne altre e comprendere meglio il desiderio altrui dell'anello fino a che è il solo a portarlo: la mente di Sam, definita "lenta
ma scaltra", si dimostra, non solo tale, ma anche capace di iniziativa e spesso tenace e perspicace, con l'aiuto della sensibilità e della
capacità affettiva; inoltre non sempre le parole difettano a Sam, che sceglie bene quelle per descrivere le impressioni lasciate in lui
dagl elfi; a Sam manca, in particolare all'inizio della vicenda, il fascino che a Frodo conferisce la sua inquitudine, ma Sam in parte
acquista anche questo dopo che il suo primo incontro con gli elfi gli lascia la strana e indefinita convinzione di avere un compito da
assolvere nel futuro. Sam e Frodo eguagliano Aragorn nel celare in sè qualcosa di grande e nel realizzarlo.
A proposito dell'inquitudine e della trasformazione di molti dei personaggi bisogna forse riflettere sul fatto che comunemente
l'inquietudine interiore è l'espressione di una vocazione nel senso di una specie di sottile o inconscia intuizione di non stare vivendo
in modo abbastanza fedele a se stessi e di dover agire in modo più corrispondente alla parte più vera di sè: si tratta in fondo di
qualcosa di simile a quella sorta di richiamo che nella contea spinge un Frodo ancora inconsapevole a raggiungere e superare i
confini e le solite strade. Questo sempre meno vago proposito di vivere perchè si pensa di dover realizzare qualcosa di cui non si
scorge ancora bene il profilo può far pensare un po' alla espressione, ripetuta nel libro, "eventi al di là della gioia e della tristezza",
perchè, Frodo e, nell'ultima parte dell'ascesa al monte Fato, anche Sam non sperano davvero nella riuscita della loro impresa e non
fanno quanto fanno per essere felici, nè alla sua conclusione lo sono del tutto (Sam piange e ride allo stesso tempo quando il suo
progetto e il suo sogno si realizzano e il viaggio al di là del mare di Frodo, non guarito, può trasmettere non poca malinconia). Non è
un caso che all'inizio del viaggio a Sam gli elfi sembrino "felici e tristi" e "al di sopra di ciò che piace e non piace" e alla fine del
viaggio egli si ritrovi a piangere e a ridere. Questo concetto di un agire e di un traguardo al di là della gioia come della tristezza è,
secondo me,comprensibile da alcuni individui reduci da un trauma o bloccati per anni nell'espressione di sè da una seria nevrosi nata
nell'infanzia, o meglio credo che questo tipo di persone possa comprendere bene tutto ciò appena si offra loro qualche possibilità di
superare la loro paralisi pur tra innumerevoli e grandi ostacoli, perchè non di rado in casi simili sorge un tipo di determinazione che
la lunga e profonda sofferenza, l'odio di molti o la scarsità di prospettive di successo non possono abbattere, ma credo che queste non
siano questioni da porre a chi vive per accumulare (e non intendo certo solo denaro o immobili) e quindi alla grande massa di persone
dominate, per dirla come Erich Fromm, dall'impulso di avere e non di essere: la maggioranza non sembra in grado di concepire che si
possa volere qualcosa ancora più che la felicità e non sembra poter accettare l'idea di veri e propri rinuncie e sacrifici se non in
sporadici sogni su altri, secondo le comuni infantili (egoistiche, unidirezionali, istintive) aspettative, pretese o fantasie sul prossimo
che emergono nei discorsi o negli atteggiamenti di molti...E ciò affermo pur sapendo che i tre film girati su questa saga sono stati,
come si sul dire, campioni di incassi in tutto il mondo.
Credo che la maggior parte delle persone possa invece approvare che Tolkien abbia deciso di stemperare nel finale l'angoscia terribile
di molte pagine della sua fantasia e della nostra Storia e il pathos della vicenda e di ciò di cui essa è emblema, ma ciò è proprio ciò
che probabilmente non approva affatto un lettore davvero onesto quanto sensibile: non tutti potrebbero perdonare a se stessi di
concepire il dolore eccessivo come redimibile, riscattabile e quindi accettabile in questa vita o nell'indefinito Aldilà sognato dal
cristiano Tolkien... Ammirevole senza duvvio è però la grazia artistica con cui questa leggerezza è ottenuta e la trasfigurazione della
tortura viene fatta, perchè è notevole che il canto con cui il cantastorie esalta Sam sul trono dell'eroe al ritorno da Mordor ricordi i
fuochi di artificio di Gandalf descritti all'inizio del libro, che quei fuochi magici vengano ricordati in qualche modo almeno al lettore
di buona memoria, che perciò tornerà a rileggerli e noterà allora che essi avevano tracciato nel cielo figure rappresentanti alcune delle
vicende più significative del libro: il canto degli elfi nella radura e nella casa di Elrond (uccelli dal dolce canto); la primavera
fatata,gli elanor, le lanterne, le stelle e la barca di Lothlorien (una primavera sbocciata in un attimo, farfalle tra gli alberi, sfavillanti
fiori, falangi di cigni); il Re dei Venti (aquile); l'impresa per mare di Aragorn e forse le emigrazioni verso l'ovest al di là del mare
(navi); gli incantesimi con cui Gandalf combatte (tempeste rosse); gli eserciti e forse la marcia degli Ent (foresta di lance); il monte
Fato (montagna dalla cima incandescente); gli alleati di Sauron e il suo anello del potere (il drago); il terremoto sul monte Fato dopo
la distruzione dell'anello (lo scoppio assordante del drago); la maturazione degli Hobbit e il regno di Aragorn (il pranzo) e il recarsi
infine di Frodo e Bilbo e dei portatori degli elfici anelli magici in una terra bella come i sogni (lo speciale pranzo di famiglia).
Per chiudere un accenno al personaggio di Gollum: lo strano interesse che Gollum ha sempre avuto per le "origini" fa da contrappeso
a quello di Faramir per la storia della civiltà e alla fede di Tolkien negli alti fini della Provvidenza divina, oltre a far pensare al
percorso fatto dalla scienza dell'epoca che ha prodotto la bomba atomica (un'arma che sfrutta appunto l'energia delle origini, ovvero
degli atomi); bisogna anche considerare, a proposito di Gollum, che l'ostracismo deciso da sua nonna e dalla comunità appare
ingiusto sia di per sé (chi resisterebbe alla tentazione di spiare un po' gli altri e di approfittarsi delle scoperte fatte? E il primo suo
omicidio è un'azione impulsiva e che attesta che egli era capace di amicizia), ma anche per le conseguenze deleterie per tutti (presso i
primitivi, i cui riti e miti attestano una conoscenza dell'inconscio migliore di quella di molti di noi, l'ostracismo era considerato così
grave da attirare sulla comunità che lo praticasse gli spiriti maligni e quindi terremoti, alluvioni, epidemie, ecc. e in ogni epoca si
sono riscontrate strane corrispondenze nei fatti, oltre che nella narrativa, con questa credenza, quasi fosse qualcosa di più che la
trasposizione simbolica di un'intuizione vera). In ogni caso da sempre si è scritto molto sul tema dell'ostracismo: i saggi e le opere
letterarie migliori su questa pratica sempre attuale quanto barbara sono testi imprescindibili.
Chi poi desideri comprendere anche meglio questo classico della fantasy dovrebbe tener presente che i parallelismi lessicali
all'interno del libro sono i mezzi forse più utilizzati dall'autore per esprimere i messaggi più importanti e considerare almeno come il
tema dell'invisibilità proprio con questo semplice mezzo retorico viene fin dall'inizio delineato nei due aspetti contrapposti che il
segreto, la fuga e la menzogna possono avere: Bilbo si allontana da casa per lo stesso sentiero di Frodo ed entrambi senza rumore
"come un fruscio sull'erba" si avviano l'uno a trovare, l'altro a distruggere l'anello del potere che può renderli invisibili; il cappello
che Sam indossa mentre si avvia con Frodo lontano dalla contea lo fa "rassomigliare molto a un nano" ovvero a uno degli
accompagnatori del grande viaggio di Bilbo; la compagnia degli hobbit, grazie al loro abituale rispetto per la natura, si inoltra nei
campi così silenziosa da risultare invisibile come se i componenti fossero "muniti ognuno di un anello magico"; quando, avendo
deciso di lasciare gli amici per proteggerli, Frodo scopre che il "suo" segreto non era per loro tale, li apostrofa proprio con la stessa
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  • 1. Corretto e completato il giorno 11 agosto 2023 (una delle versioni precedenti conteneva periodi spostati a causa del funzionamento anomalo del mouse ) PERCHÉ NON CREDO IN DIO: CONVERSAZIONI COI CLASSICI ESEMPI DI CONVERSAZIONI SULLA RELIGIOSITÀ CONDOTTE SULLA SCORTA DI ALCUNI CLASSICI DELLA LETTERATURA E DELLA PSICOLOGIA ** L’intento artistico manca del tutto; il modello dei temi scolastici è completamente ignorato; le introduzioni pubblicate sono ignorate oppure sono messe in discussione (a volte sottoposte a critiche, altre volte integrate esplicitandolo); i commenti sono personali e i collegamenti tra letture di vario genere e film sono spontanei quanto inusuali; i dialoghi sono comprensibili solo a chi abbia sensibilità e senso critico e ovviamente conosca bene i libri e i film citati; le citazioni introduttive servono a chiarire come i collegamenti insoliti presenti in quasi ogni dialogo siano da considerar qualcosa di molto diverso dalla bizzarria, indipendentemente dal valore (naturalmente modesto) di quel che scrivo io. CITAZIONI INTRODUTTIVE “Gli individui con il centro del cervello nell’emisfero destro sono capaci di creare rapidamente e in modo automatico collegamenti insoliti tra cose apparentemente lontane tra loro.” (Piccola guida per persone intelligenti che non pensano di esserlo, Milletre) “Gli individui creativi e fuori dall’ordinario mostrano, secondo una logica ben precisa, una tendenza a un pensiero di natura “allusiva”, che forse è in grado di renderli capaci di trovare collegamenti logici fra idee o situazioni molto distanti (…) Il creativo trova collegamenti inarrivabili ai soggetti normodotati, ma estremamente logici e privi di gap o imprecisioni atti a invalidarli (…) È come se fossero soggetti ipersensibili alle stimolazioni, come certi animali il cui olfatto molto sviluppato li rende capaci di annusare qualsiasi traccia olfattiva, anche la più impercettibile. I creativi (…) presentano una fluenza ideativa e una spiccata preferenza per la complessità delle cose che potrebbero derivare da più elevati livelli di attenzione che stimola un migliore utilizzo delle aree cerebrali deputate al ragionamento (…) “Sommersi”da stimoli (…) sono in grado di trovare il bandolo della matassa, (…) riescono (…) a dare un nome alle cose. È molto probabile, inoltre, che i soggetti creativi, oltre a mostrare un livello attentivo superiore alla media, presentino anche una maggiore e specifica capacità di associazione (…) unita ad un’incredibile velocità di elaborazione (...) La creatività è la capacità di ristrutturare un vecchio pensiero, (… ) di renderlo nuovo, originale, di arricchire quindi vecchie conoscenze già apprese (…) Un soggetto, un artista, per essere creativo deve presentare diverse caratteristiche irrinunciabili: deve essere innanzitutto curioso (…) La personalità creativa è anche caratterizzata dal bisogno di successo: solo puntando in alto, infatti, si possono raggiungere obiettivi insperati (…) Deve essere anche una persona autoritaria, in grado di ordinare i suoi pensieri e di obbligarsi a perseguirli (…) Il creativo è scarsamente inibito, (…) ha (…) un animo non convenzionale (…), è intuitivo e (…) versatile (…) Non si ferma in un solo campo e (…) ha la forza di andare avanti (…) Ha una capacità di autoanalisi non indifferente (…) Gli artisti sono persone solitarie, che amano la solitudine e il silenzio, perché in questi trovano la dimensione giusta per capire, per comprendere, per scoprire, per creare appunto. (Creatività, E. Balconi e M. Erba) “Era precisa e metodica, ma ** aveva notato quasi subito che possedeva anche la qualità che per lui era la più preziosa per portare avanti le indagini difficili. Aveva fantasia e capacità di associazione. In almeno due inchieste complicate, era riuscita a sollevare collegamenti insoliti che ad altri erano sfuggiti e che avevano condotto a una svolta determinante nelle indagini.” ("La ragazza che giocava con il fuoco", Larsson) “Tutti i progressi (…) consistono nello scoprire i rapporti. Ora, (…) l’immaginazione è la (…) feconda e meravigliosa ritrovatrice de’ rapporti.” ("Zibaldone", Leopardi) “Non una riflessione esauriva compiutamente e sostanzialmente l’oggetto, ciascuno si volgeva secondo le più diverse concatenazioni portando ora avanti ora indietro (…) Il senso di tutte le considerazioni non mi (…) era ben chiaro, ma grazie appunto a quelle debolezze, esse gettavano luce lontano come lampi (…) Tanti esempi della vita e del pensiero vi si addicevano, sollecitando a trasformare in un concetto più chiaro quello sentimentale (…) Anche soltanto chiacchierare di qualcosa ha lo stesso senso di appropriarsi del mondo, (…) di improntare l’incerto di sé.” (“L’uomo senza qualità”, Musil) “Che non lo vedesse stampato gli importava poco. Lo scriverlo era l’atto culminante di un lungo processo mentale, l’accostamento di tutti gli sparsi fili del pensiero, la sintesi di tutti i dati dei quali la sua mente era carica (…) Uno sforzo col quale liberava la mente, lasciandola pronta a ricevere ed elaborare il nuovo materiale e i nuovi problemi. Era in certo qual modo, una cosa simile all’abitudine di certe persone contristate da sofferenze vere o immaginarie, che ogni tanto rompono, volubili, il loro lungo silenzio per dire una buona volta tutto quello che hanno nel cuore (…) Il desiderio di scrivere era la cosa più vitale che aveva in sé (…) Aveva una mente di studioso (…) Era per natura molto forte di pensiero e di sensibilità, ed il suo spirito creativo era ostinato ed impellente (…) A ogni minimo stimolo del mondo esterno sulla sua coscienza, i suoi pensieri, le sue simpatie, le sue emozioni balzavano (…) Era straordinariamente ricettivo ed entusiasta e la sua immaginazione, che spaziava sempre in alto, lavorava incessantemente per stabilire relazioni di somiglianza o di differenza (…) Con un rapido sguardo confrontava (…) un’ondata di ricordi (…) La sua immaginazione analitica cominciava a lavorare (…) moltiplicando, per forza di contrasto, la splendida qualità (…) Il suo cervello era un magazzino accessibilissimo di ricordi, di fatti e di fantasie (…) Qualunque cosa avvenisse, la mente presentava subito antitesi associate o similitudini, che generalmente si esprimevano sotto forma di visione (…) che s’accompagnava all’avvenimento presente (…) in maniera automatica (…) Con una tendenza logica alla conclusione (…) identificando e classificando le sue impressioni, nuove visioni sorgevano nella sua mente (…) Queste visioni sorgevano dalle azioni
  • 2. o dalle sensazioni del passato, dalle cose e dagli avvenimenti, dai libri di ieri e della settimana scorsa, (…) che fosse sveglio o addormentato.” (“Martin Eden”, London) “Le (…) fantasticherie gli si affollavano nel ricordo (…) balzate avanti, improvvise (…), da semplici parole (…) Parlare di queste cose, cercare di comprenderne la natura e, avendola compresa, cercare lentamente, con umiltà e costanza, di esprimere, di tornare a spremere (…) una immagine di quella bellezza che siamo giunti a comprendere… questo è l’arte (…) Quando (…) vedi che è quella cosa che è e nessun’altra (…) l’essenza di una cosa, (…) la mente in quel misterioso istante è un carbone che si spegne (…) Quella qualità (…) dell’immagine (…) viene percepita limpidamente dalla mente, già arrestata dalla sua interezza e affascinata dalla sua armonia.” (“Ritratto dell’artista da giovane”, J. Joyce) “In società ero sempre troppo agitato e distratto per poter fermare la mia attenzione su qualcosa di bello. Ci sarebbe voluto, per catturarla, il richiamo di una realtà che si rivolgesse alla mia immaginazione o (…) qualcosa di generale, comune a diverse apparenze e di esse più vero, capace di risvegliare, in quanto tale, in me lo spirito interiore assopito, il cui riemergere (…) mi dava gioia”. (“La prigioniera”, Proust) “Per sbloccarmi e riuscire a scrivere il componimento e superare l’esame di cultura generale, (…) immaginai di parlare con le mie amiche, scrivendo le mie riflessioni in forma di dialogo e alla fine unii i paragrafi.” (“Piccola guida per persone intelligenti che non pensano di esserlo”, Milletre) Cristo e Buddha (...) sono per un superamento del mondo: ma Buddha con una visione razionale, Cristo come destinata vittima sacrificale (...) Il sacrificio per Cristo è un ordine del suo destino (...) Entrambe le strade sono buone (...) Ma il corso della storia portò all'imitazione di Cristo, con la quale l'individuo non segue il proprio fatale cammino verso l'interezza, ma cerca di imitare la via seguita da Cristo. Anche in Oriente lo sviluppo storico portò a una devota imitazione del Buddha, e questi divenne un modello da imitare: con ciò la sua idea perde forza (...) Cristo gridò agli Ebrei: "Voi siete dèi", ma gli uomini furono incapaci di intendere che cosa volesse dire (...) Quale specie di moralità emerge dalla parabola del cattivo amministratore (...) Ci si adopera a insegnare idealità che si sa che non potranno mai essere vissute pienamente (...) Il mondo di mio padre è quello di un uomo che soffre (...) Mio padre non si era mai interessato al simbolismo di Cristo (...) Lo faceva fremere d'orrore ogni pensiero che cercasse di penetrare le cose religiose (...) Voleva una fede cieca a causa dei suoi dubbi (...) Gli mancava l'esperienza immediata di Dio (...) che io avevo avuto attraverso i sogni e le immagini (...) e accettando di riflettervi (...) La Chiesa e la teologia gli avevano precluso le vie di accesso diretto a Dio (...) Il peccato della fede è che anticipa l'esperienza. Voleva contentarsi della sua fede, ma ne fu tradito (...) Mio padre aveva vissuto fino alla morte la sofferenza preannunciata e vissuta da Cristo, senza mai rendersi conto che ciò era una conseguenza dell'imitazione di Cristo (...) Questa è spesso la conseguenza del sacrificio dell'intelletto (...) L'accettazione cieca non porta mai a una soluzione, ma nel migliore dei casi a una stasi e va a gravare sulla generazione seguente (...) Io dovevo pensare e (...) feci un sogno e (...) più tardi capii che esso significava che ero anche costretto a parlare pubblicamente – in gran parte a mio danno – e che dovevo piegarmi al destino, (...) ma che qualcosa in me diceva "Va bene, ma non del tutto". Qualcosa in me era determinato a non essere (...) una creatura inconscia (...) come i pesci pescati dagli apostoli (....) e se negli uomini liberi non ci fosse qualcosa del genere, nessun libro di Giobbe sarebbe stato scritto (...) L'uomo si riserva sempre l'ultima parola (...) Le ambiguità dell'anima possono annientare un uomo. Alla resa dei conti il fattore decisivo è sempre la coscienza, che è capace di intendere le manifestazioni dell'inconscio e di prendere posizione di fronte a esse. (Ricordi, sogni, riflessioni, C. G. Jung) ECCENTRICI DIALOGHI IL GIRO DEL MONDO IN OTTANTA GIORNI Quando ho bisogno di approfondire qualcosa che ho intuito, non trovo il senso di un incubo o non riesco a prendere delle decisioni in merito a qualche problema pratico o no, mi sento sola e come prigioniera della rete che qualcosa in me lancia per permettermi di trovare l’idea giusta e, qualche volta, di colpo la mia vita mi sembra piatta e insignificante e non riesco nemmeno più a ricordare come mi sento di solito o come tutto si trasfigura appena ho una visione chiara di qualcosa (un’epifania) o se trovo il modo di comunicare con precisione un’idea. Sono o mi sento esclusa dalla connessione con tutto il resto solo perché non riesco a inquadrare qualcosa. É difficile e forse impossibile capirlo per chi non ha un bisogno grande come il mio di espressione. Il fatto è che si butta l’esca e si attende per giorni e giorni, predisponendosi, a ogni risveglio, a ricevere chiarimenti in proposito dalle attività della giornata o da eventi fortuiti e ci si apre ad attirare eventi imprevisti al limite anche negativi che portino alla soluzione, all’ispirazione necessaria. Quando parlo o scrivo di ciò che più mi interessa mi sento come una fiamma e in questi momenti di sospensione la mia passione mi sembra un cerino in una grande pozza d’acqua. Non è certo una tragedia, non è nemmeno un vero problema, ma si vuole, si vuole Altro. L'insicurezza, la curiosità eccessiva, gli equivoci, l’ostinazione, l’ignoranza, l’eccessiva stima di sé, un temperamento monomaniacale, l’aggressività, il dolore…Si può arrivare a recriminare sugli altri quando si misura il successo dei propri anni basandosi sulle scommesse del passato. Solo il giro del mondo però può insegnare a giudicare se stessi e la vita, mentre conduce a sorridere infine dello stesso bisogno di misurare, perché la verità sta sempre solo all’orizzonte e l’orizzonte resta sempre misterioso in ultima analisi e si sposta con chi lo osserva. A volte la vita non accontenterà per farlo solo quando potrà donare tutta se stessa insieme all'obiettivo limitato, dialetticamente. Come Auda, il messaggio giusto può venire dall’Asia, non tanto nel senso dell’orientamento culturale orientale, ma perché la sua apparizione è possibile dove meno lo si aspetta e non ha importanza alcuna il suo veicolo, che sarà assurdo adorare come lo è consacrarsi totalmente a ogni culto, cultura, persona, attività. E col messaggio giungerà la conoscenza vera e con questa compagni di viaggio per una nuova partenza, che prenderanno il posto di quelle figure sempre un po’ sfocate dalle aspettative che nascono dall’aver stabilito un traguardo o dal subirlo, in ogni caso rimanendone incatenati. L’obiettivo, che sia davanti a sè o raggiunto, incatena, perché è creato nel passato, in base alle idee e alle circostanze sempre parziali del passato. Anche il desiderio più naturale basterà a compromettere col giudizio. Porsi con caparbietà un obiettivo è tronizzare un’idea: per essa si potrà perdere la vita in un istante o in anni di solitudine e si potrà giungere all’abbruttimento della violenza o della barbarie. Si può asservirsi a dei traguardi oppure asservire all’esplicazione della propria libertà quanto è suggerito o imposto dal ruolo sociale o dai propri gusti e caratteristiche, farne la condizione dei propri incontri e esperienze più belli. Camminare sul filo del rasoio implica la possibilità di guadagnare o perdere la propria vita, ma se si impara ad elevarsi sull’ignoranza e sulla paura, se si sa limitare la propria aggressività e renderla utile anche ad altri, se si sa dimostrare con la propria generosità almeno a chi non manca di rispetto che non è solo uno strumento, se nonostante un’idea fissa su qualcuno si sa subirne il fascino fino a liberarlo almeno in parte dal proprio pregiudizio abituale, se nonostante la stanchezza si accetta di modificare i programmi per accettare l’ennesima avventura e la si vive con tutta la propria tenerezza…allora, “tutto calcolato”, tra fortune e contrattempi, si può
  • 3. attraversare la vita senza tagliarsi troppo con la sua lama e, con dei tesori tra i ricordi, perfino vincere in pieno la scommessa, la sola che offre vittoria reale anche se i suoi termini non possono essere prestabiliti e letti nei dettagli di un verbale. Le caratteristiche personali appaiono difetti in alcuni contesti e qualità in altri, anche se vengono valutati con lo stesso criterio morale: essi sono doni o ostacoli secondo punti di vista moltiplicabili a volte secondo traiettorie davvero indefinite del tempo e dello spazio. La contentezza di sé e il benessere sprigionano dal fondarli sull’accettazione del viaggio, evitando scelte e rifiuti affannati e rigidi (il tipo di scelta implicato dalla costruzione di un mito di sé) per invece includere: così i propri e altrui limiti appariranno come le premesse indispensabili dello svilupparsi dei propri destini. Così il senso di un romanzo sta nel mistero della prossima riga, il suo strumento nelle mancanze dei personaggi, le sue possibilità e la sua dimensione nell’esistenza di chi vi è esterno, la sua verità in un orizzonte mobile. Così il senso religioso ha bisogno di rifiutare o reinterpretare dogmi e tradizioni. I FRATELLI KARAMAZOV X: La mia impressione è che per capire il punto di vista di Dostoevskij bisogna integrare quelli di Alësa e di Ivan e che i due fratelli siano molto simili: sono due filantropi per quanto in modo diverso, o meglio sono essenzialmente due ragazzi passionali e sensibili al dolore altrui e al valore della giustizia. Credo che quel che emerge dalla loro discussione alla fine del primo volume sia che hanno ragione entrambi, ma solo fintanto che non si “buttano sull’astratto”, finché non si mettono a tirar fuori dalle maniche dogmi e lati in ombra di dogmi come assi. La sensazione che mi dà quella conversazione è simile a quella che ho quando leggo il Vangelo e, proprio per la saggezza di molte sue massime, non mi capacito degli slanci di fede di Cristo verso un Dio tutto amore nè delle sue contraddizioni nella definizione del nostro rapporto con la divinità (siamo liberi e amici oppure servi?). La concezione cristiana di Dio come “Bene” peraltro creò confusioni e grande disagio fin nei primissimi cristiani, come afferma Jung parlando del rapporto tra Cristo e i simboli del Sé: la realtà, come la personalità umana, è troppo contraddittoria per consentire semplificazioni astratte e teorie confortanti, le quali sono anzi sempre degne di disprezzo per chi possiede sensibilità e coscienza. Y: Quel lungo dialogo tra Ivan e Alësa mi fa pensare un po’ a La peste di Camus, al concetto di astratto espresso in quel libro. E considero allora anche quel che tu hai scritto sul mistero che, come ogni vuoto, spinge a gettarsi in esso, ad approntare reti con maglie sempre più rigide… insomma, a dar vita agli “ismi” più svariati (“onesto è chi evita le astrazioni facili e, davanti all’abisso del mistero, si ferma e si impegna in modo razionale”). Del resto come si fa leggendo I Fratelli Karamazov a non pensare a Camus, che in Lo straniero sembra scrivere buona parte della scena del processo sul canovaccio del processo a Mitja e che in L’uomo in rivolta fa di Ivan un riferimento assoluto? Non mi avevi parlato anche tu del legame tra questi due scrittori? X: In L’uomo in rivolta Camus parla a lungo di Ivan, che per lui è il portavoce di Dostoevskij, ma a me non sembra del tutto giusta questa identificazione, perché Dostoevskij non approva del tutto il punto di vista di Ivan su Fëdor, che non è affatto rappresentato come “un infame”, anche se così lo definisce Camus. E la conclusione “Tutto è lecito”, non è certo approvata dall’autore a proposito di Ivan più di quanto fosse quando era riferita a Nikolaj in I demoni. Del resto Camus afferma anche che Ivan ha ucciso il padre lasciando agire Smerdjakov, mentre nel testo è chiarissimo e viene ribadito più volte che Ivan non è colpevole dell’omicidio nemmeno in minima parte, perché, non lui, ma una parte inconsapevole e irrazionale di sé ha il presentimento di quanto stava per accadere a Fëdor. Però capisco che non è di certo vero che l’autore parli attraverso Alësa, anche se il suo cristianesimo pare cosa certa, anche perché Alësa, per esserne davvero il portavoce, viene rappresentato troppo spesso come un bamboccio ingenuo e troppo abituato sia a piacere che a dare fiducia a chi ha una natura troppo complessa per essere giudicato con il suo metro. Come mai non comprende la sua stessa ragazza? (nell’ultima scena che coinvolge Alësa e la sua fidanzata egli non si rende minimamente conto che lei mente). Quanta parte hanno il segreto di questa ragazza (quello mai svelato nel libro e per il quale lei si “punisce” schiacciandosi le dita con la porta) e l’eccesso di fiducia e la mancanza di penetrazione di Alësa al riguardo sul precipitare della malattia di Ivan? E non è un po’ ridicolo il rammarico di Alësa quando si accorge che Ivan lo ha tolto dal piedistallo durante la lunga chiacchierata? E il disagio che lo coglie poi continuando a parlare con Ivan è ancora più rivelatore, perché fin dal primo ritratto di Alësa si dice che egli giudica dell’esistenza di Dio e del valore dello starec dopo averci riflettuto per un certo periodo e una volta per tutte, mentre niente e nessuno possono essere giudicati così: per aderire alla realtà e avvicinarsi alla verità bisogna prendersi molto tempo ed essere sempre disposti a cambiare idea, pena un certo fraintendimento. L’incomprensione di Alesa mi pare rivelata in particolare dalle pagine relative al manoscritto dello starec. Y: Se quella sezione del libro è così fondamentale per capire Alësa, è davvero ironico che tanti lettori si limitino a sfogliarla infastiditi, come se si trattasse del sermone convenzionale di un prete logorroico… X: Alla prima lettura anch’io l’ho scorsa rapidamente senza capirla, eppure la sua posizione subito dopo il capitolo sul poema di Ivan è un segno, un invito a leggerla attentamente. Anche i titoli degli estratti del manoscritto sono un segnale. Y: Titoli assurdi e così simili a parodie che mi ricordano Milton (definirei anch’io, come molti, Il Paradiso Perduto una riuscita parodia della Bibbia) X: Però il riferimento credo sia ai titoli ironici sui capitoli che descrivono il lamento e le azioni di Mitja durante la sua crisi nervosa (quella che precede l’omicidio) e a quelli sarcastici delle fasi del suo processo (quelli con cui l’autore ironizza sulle teorie folli, stupide, indifferenti e con sempre più scarso rapporto con la realtà di psicologi e giudici): alcuni dei brani dello scritto dello starec
  • 4. sono davvero in effetti stupidi e folli e zeppi di astrazioni molto discutibili, come quella per cui sarebbe il valore sommo la verità dei santi e non piuttosto il destino di coloro per cui essa è inaccessibile o sulle cui sofferenze ingiuste e/o crudeli si è affermata. Soprattutto nel manoscritto lo starec, attraverso la trascrizione troppo umile e cieca di Alësa, afferma che l’inferno è pieno di uomini descritti come cani rabbiosi, che rifiutano il Paradiso e desiderano la distruzione del mondo e l’”annullamento” di sé (e qui si usa un’espressione che Ivan aveva usato parlando del suo desiderio nel capitolo precedente): essi vengono davvero rappresentati come mostriciattoli che schiumano di rabbia o desiderio di vendetta oppure come ragazzini stupidamente ribelli a causa della loro immaturità… E si parla del mondo che loro disprezzano quasi come di una specie di possedimento terriero del Signore, marcando con una serie di pronomi possessivi il principio di proprietà e autorità! All’inizio del romanzo invece lo starec appariva capace di ascoltare con empatia i fedeli e chi desiderava conoscerne l’opinione e dalle sue parole traspariva un cristianesimo aderente alla complessità della realtà e pieno di rispetto e acume per i limiti, le qualità e le possibilità implicite nei destini individuali e nelle personalità degli interlocutori, tra i quali era anche Ivan: Ivan era stato definito dallo starec grande, perché per natura portato a ponderare questioni non meschine, e la sua ricerca era stata da lui definita elevata, tanto da non poter essere considerata chiusa e fallimentare nemmeno con la morte. Inoltre, anche se c’è qualcosa di vero nel giudizio dato a un certo punto della condotta di Ivan quand’è definita un “baloccarsi con la disperazione” o un accumulare per rifiuto, inerzia o paura, sarebbe più esatto parlare in proposito di blocco e inoltre resta vero che è reale la sofferenza di Ivan per il dolore delle vittime, soprattutto infantili, della crudeltà: è sincero quando dice che per lui la questione non è il rifiuto di Dio in sé o la ribellione orgogliosa per la ribellione, ma invece l’impossibilità per lui, data la sua natura sensibile e morale, di consentire alla tortura su cui si basa la creazione e anche di immaginarsi in un eliso a fare la ola a un Creatore come quello ebraico e cristiano. Y: In fondo è comprensibile: quando a scuola leggevo Il Paradiso di Dante, mi parevano insopportabili i santi del Paradiso in volo o tra i fiori, indifferenti al dolore di Pier delle Vigne, Ulisse, Paolo e Francesca. Comunque mi pare che ora, parlando dello starec, tu voglia marcare di nuovo come la lucidità si offusca quando la riflessione sulla natura della realtà diventa astratta. X: Appunto. Anche Alësa in fondo non riesce a non dar ragione a Ivan: Alësa non riesce a non ammettere che non potrebbe accettare di essere l’architetto di una creazione magari dal fine luminoso ma fondata sulla tortura di anche un solo bambino. Se poi egli parla della presenza dell’amore nel cuore dei torturati dalla violenza, dalle malattie, dalla perdita o dalla debolezza di mente o se rileva la ricca sensibilità di molti balordi ridicoli (come “Straccio di stoppa”, ma forse anche Fëdor) e se, ubbidiente, sottolinea il mito dell’innocenza di Cristo, è anche vero che lo fa con immagini deboli e argomenti che convincono poco e non cancellano affatto la profonda impressione che lasciano i racconti di Ivan di atrocità insensate. Y: Che libro strano: una volta che lo si è letto non si riesce più a prescinderne, almeno nel considerare libri e film in cui si tratti delle questioni fondamentali dell’esistenza. Per noi è stato così. X: E chissà, forse la morte di tutti i figli di Dostoevskij durante l’infanzia, compresa quella del suo bambino Alësa, è in relazione con quel lungo lamento di Ivan… Voglio dire che una persona sensibile può rinnegare Ivan con la testa e con un atto volontaristico, ma non può cacciarlo dalla regione profonda di sé. Quel capitolo “fa concorrenza” a Lo straniero misterioso di Twain. Y: Io invece di nuovo penso a Milton, perché l’elenco di eventi insopportabili che chiude il Paradiso Perduto vi somiglia. Che ci sia un filo che lega questo libro a quello di Milton? Quando Ivan chiama Alësa “Pater Seraphicus”, tanto da far sì che Alësa si chiede da dove citasse, è Milton il riferimento? Certo Alësa è più fragile e scosso anche nella fede alla fine del libro: ti ricordi quelle domande che fa al bambino su Voltaire? X: Le parole che l’Eva di Milton pensa e dice al serpente e ad Adamo, cadendo nella tentazione, secondo me danno voce allo Spirito e costituiscono una sintesi delle principali riflessioni su Dio tipiche di chi è dotato di spiritualità e natura morale, mentre gli eventi che seguono rappresentano l’interpretazione di alcuni aspetti della realtà in base al principio del potere per il potere, ovvero al criterio che regola la maggioranza dei rapporti tra viventi o tra gli uomini, ma non certo tutto: chi codifica in sistemi e si preoccupa di diffondere le religioni per lo più ama il comando e lascia che a informare i suoi sforzi sia di regola il principio di autorità, tanto che chi è dotato di spiritualità e senso della giustizia spesso comprende presto che, se desidera rispettare e coltivare ciò che è morale e spirituale, deve rassegnarsi a vivere e a pensare al di fuori di ogni istituzione e fede religiose. A proposito di rimandi a Milton, anche se forse è solo uno strano caso, è curioso notare come alcuni brani del manoscritto dello starec ricordino, in termini rovesciati, Il cannocchiale d’ambra di Pullman, ispirato a Il paradiso perduto: vi si dice di come, qualora morisse “ciò che è cresciuto in sé”, si diventerà indifferenti alla vita e si comincerà a odiarla e di come tutto ciò che è cresciuto in sé resterà vivo in virtù dello stretto legame - come per Pullman in virtù della separazione – rispetto ad altri “mondi misteriosi” da cui Dio avrebbe preso “i semi”. Nel manoscritto dello starec si parla poi, secondo punti di vista opposti e in termini molto simili a quelli di Ivan e di Pullmann, anche del sottomettersi ciecamente al Mistero che non si può capire e si definiscono i tre poteri – Mistero, Miracolo, Autorità – per soggiogare le coscienze, cui si oppongono uomini-ragazzi, quei ribelli all’autorità del Signore Padre, che all’inferno brucerebbero restando fieri, come gli eretici sul rogo. Y: L’aver nominato Milton a me intanto ha fatto venire in mente invece il ribelle malinconico di Come vi piace: anche se quel personaggio di Shakespeare ha sfumature diverse ed è più distaccato e più curioso di Ivan, tra i due noto una parentela lontana comunque.
  • 5. X: Quel personaggio di Shakespeare e Ivan sono forse entrambi dei veri e propri archetipi, nel senso che dà Jung al termine. Sono qualcosa di vivo ed eterno: Ivan non morirà mai e avrà sempre degli eredi indipendentemente dalla volontà di chiunque. Forse Ivan è al centro anche della mia personalità. Nella scena finale del film Fahrenheit 451 forse io sarei I fratelli Karamazov. Al centro di L’uomo in rivolta io vedo un messaggio simile a quelli di I fratelli Karamazov. La logica porta a tutto: questo è il messaggio che discute Camus in L’uomo in rivolta ed è anche il messaggio che Dostoevskij dà attraverso le elucubrazioni di Smerdjakov prima ancora che con Ivan. Da questa accettazione delle conseguenze di affidarsi alla logica, viene la necessità di un punto fermo che viene offerto dal sentimento. Si pone la differenza tra sensato e giusto in primo piano: secondo la “testa”, Ivan, in un attimo in cui vi è trascinato, arriva al “tutto o niente”: per natura è infatti troppo razionale e bisognoso di coerenza quanto poco capace di intimità e di percepirsi creatura e quindi di accettare serenamente e con indulgenza i propri limiti e la propria complessità (quindi il suo destino); secondo il sentimento, invece, Ivan arriva a concepire l’idea che si potrebbe esprimere così: “Odio la creazione perché la tortura non è giusta e ciò resta vero anche se voglio vivere e anche se Dio stesso mi desse di essa una spiegazione, me ne chiarisse il senso”. Se si rifiuta Dio e il mondo, in nome di un senso di giustizia, quel senso del giusto così forte deve diventare Dio. Io sto con Ivan per quel suo lungo discorso che è impossibile dimenticare una volta letto e perché quel suo impazzire di dolore e arrivare così vicino al morire a vent’anni mi è insopportabile. Un senso il destino di Ivan può anche averlo, ma che importa? Quando avevo circa vent’anni, mi comportai davanti a un frate circondato da diverse persone come Ivan con lo starec, mi tormentavo quanto Ivan sull’inaccettabilità delle ingiustizie che subivo o vedevo subire ad altri e, come Ivan, dicevo che mi sarei suicidata appena arrivata alla trentina, dato che quel limite di età, a causa dei miei vent’anni, mi sembrava lontanissimo e non riuscivo a concepire la morte se non in modo molto astratto. Quando qualcuno mi spinse, con le azioni e gli inviti espliciti, ad anticipare quel suicidio di dieci anni, io evitai di assecondarlo più per caso forse che per merito e se non impazzii non fu perché non ce ne fosse ormai la possibilità: ora che il mio percorso di evoluzione è forse quasi al vertice, come faccio a non chiedermi che razza di morte stupida e crudele sarebbe stata la mia se fosse accaduta allora, quando sapevo della realtà solo il peggio e anche quello in modo limitato e quando non possedevo ancora davvero me stessa? Y: Quando frequentavo le medie e ancora nei primi anni del liceo non legavo molto con i miei compagni di classe e istintivamente avrei cercato piuttosto la compagnia egli insegnanti: così viene descritto Ivan studente e così la biografia descrive Dostoevskij da giovane. E conoscevo per esperienza il problema che blocca Ivan, come Raskolnikov, quella difficoltà di integrare esigenze del sentimento e di una natura morale innata con i processi della logica, per cui entrambi questi personaggi finiscono col fare, senza sapere perché, qualcosa che sanno sconvolgerà la loro vita. Di Raskolnikov si dice che andrà incontro a una “straordinaria rinascita”. Forse Dostoevskij è Ivan dopo la rinascita…E tu… X: Sì, io…Ma ora non parliamone. Comunque credo capiti spesso, in effetti, che, dopo l’esperienza di una vera e propria rinascita, nasca in chi l’ha vissuta un enorme bisogno di esprimersi: non ci si stanca più di parlare e si comincia a scrivere, se non lo si faceva già. Scrivere però non darà giustificazione al dolore vissuto. Y: Il medico di La peste forse potrebbe essere definito un Ivan adulto e andato ormai al di là del puro raziocinio e degli estremi della passione, un uomo capace di vivere e amare contro la logica, ma che potrebbe ancora essere nichilista - se nichilista può essere definito anche chi è pronto a favorire la distruzione della vita per un valore più alto -, almeno qualora le circostanze permettessero di esserlo fino in fondo senza provocare ad altri un eccessivo o troppo duraturo dolore… Tra le figure esemplari additate ai lettori dal libro, quel medico mi pare stare appena un gradino sotto a Rambert. La concezione che questo medico ha di dio e dello scopo dell’esistenza non è diversa dalla tua. X: Sì, è vero. Comunque in generale, per quanto mi riguarda, affronterò con razionalità e onestà le due principali questioni poste da I Fratelli K. : l’unico esempio che seguirò è quello di chi accetta le leggi della realtà considerandole impersonali dati di fatto, senza cercare di immaginare nulla sul concetto di Dio che non sia una loro semplice constatazione, pur nutrendo rispetto per alcune di esse (quelle leggi naturali che presiedono allo sviluppo di qualità, personalità e benessere). Se esistesse un Dio personale interventista, non meriterebbe considerazione...E riguardo al diritto di procreare, il massimo di apertura che concepisco è quella molto cauta e responsabile che Jung esprime in Lo sviluppo della personalità. Y: In quanti libri oggi si delinea un atteggiamento simile soprattutto riguardo al concetto di Dio?! Il successo che attualmente ha molta letteratura fantasy si spiega anche così. X: Credo di sì. Considera anche solo la quadrilogia di Paolini Il ciclo dell’eredità…Queste righe provengono dal secondo volume della serie (Brisingr) ed in esse Paolini espone il concetto con grande semplicità e chiarezza per bocca del Vecchio Saggio: “Morte, povertà, tirannia e altri innumerevoli calamità affliggono la terra: se questa è opera di esseri divini, non sarebbe giusto allora ribellarsi e negare loro rispetto, obbedienza e devozione? (…) Non ignorare la realtà per trovare conforto, perché altrimenti rendi più facile agli altri ingannarti”. Negli ultimi capitoli di Il mondo di Sofia l’autore parla della consapevolezza umana come di uno scopo della creazione: la materia vuole conoscere se stessa attraverso l’uomo. Egli ne parla come di qualcosa di immenso valore, io invece sono e resto dell’idea di Ivan: non esiste consapevolezza che valga una sola tortura. Del resto, conoscersi non significa di per sé arrivare a una consapevolezza morale o che riguardi gli uomini (l’astratto non esiste, esistono individui che la natura forse crea anche al fine di arrivare a una certa conoscenza, ma che per lei contano pochissimo).
  • 6. Y: Il senso di giustizia è, a quanto sembra, innato e distribuito dalla natura a pochissime persone, per quanto alcune altre ne abbiano qualche particella e possano, attraverso l’esperienza e le letture acquisirne qualche altra. Dimostra quanto il senso di cosa è giusto sia raro anche il fatto che tocca spesso leggere assurdità riguardo alla teoria della reincarnazione, tipica delle grandi regioni orientali: come si può dire, con Maugham ad esempio, che questa legge annulla il senso di indignazione umana di fronte all’esistenza del dolore, soprattutto se questo è insopportabile e lungo e se niente nella vita della vittima può farlo apparire giustificato, qualcosa di scelto o una punizione? Cosa importa l’entità delle ingiustizie compiute in un’ipotetica vita precedente se l’io, nella nuova esistenza è un altro? Il fatto che per le ingiustizie compiute da qualcuno paghi un altro individuo è anzi proprio il massimo di ingiustizia concepibile. E ho letto in una rivista un articolo in cui una sedicente esperta di astrologia interessata a questa teoria si chiedeva come mai tante persone “scelgono” (nell’aldilà che precede la loro nascita) di soffrire tanto nella loro esistenza! Per la gente che soffre lo fa sempre per propria colpa… tanto importante è poter pensare che non è poi grave non fare niente per evitargli quelle sofferenze. E che importanza ha vivere di nuovo se non si sarà più se stessi e si perderà perfino il ricordo di ciò che si è costruito e si ama. X: Di certo, comunque, la “legge” della reincarnazione è così ingiusta che probabilmente è vera o almeno credibile, dato che la natura ha predisposto che per le colpe dei genitori (colpe non solo morali o volontarie, ma anche quelle coincidenti con eccessi di virtù e squilibri innati o creati in età in cui più si è indifesi e meno si è responsabili) paghino i figli. Per avere conferma su questo basta forse l’osservazione e non è sempre indispensabile conoscere i casi raccolti in Lo sviluppo della personalità (la legge stessa di bilanciamento e misura che regola le vicende storiche umane è una legge di armonia immorale e rivoltante). Un esempio di questa legge cui ho pensato di recente è tratto dalla storia degli antichi Romani: per la classe dei senatori e quella dei cavalieri che avevano eseguito gli ordini di Verre e di altri mostriciattoli in parte simili a lui o che ne avevano nascosto i crimini che punizione migliore si poteva immaginare di infliggere loro gli imperatori? Ma quante persone appartenenti alle classi più alte di grande valore, cultura e umanità hanno sofferto e sono morti a causa di Tiberio, Caligola, ecc.! E tieni presente che un esempio fatto da Jung al riguardo è anche peggiore, dato che egli interpreta l’affermazione del Nazismo come una manifestazione della legge di misura, propria dell’inconscio collettivo, secondo la quale gli aspetti di esso più primitivi e violenti sono insorti per compensare la maggiore estensione dell’istruzione e del benessere economico (effetto dello sviluppo tecnologico). Il mondo è sicuramente pieno di cose bellissime: è meraviglioso che esistano coppie come noi legate solo da un affetto profondo e disinteressato, che dei genitori siano in grado di amare i figli senza narcisismo e di dare loro ciò di cui hanno bisogno, che si possa guarire da molte ferite orribili del corpo e della mente, che io e altri informiamo gratuitamente su questioni di grande importanza per il benessere. Ed è bello poter essere vicini agli aspetti migliori della natura – dal giardino di casa soleggiato al paesaggio remoto e speciale – e ciò perfino nonostante il fatto che un semplice cambiamento di luce spesso basta a infrangere il senso di benessere profondo che questa intimità con la natura a volte dà e nonostante anche che fu il bel sole che splendeva su Hiroshima a far scegliere al pilota quella città per gettare la bomba atomica. La vita, quante possibilità inesplorate… Sì, tutto ciò è bello, è verissimo, ma resta il fatto che il prezzo è troppo alto. Ivan non poteva dire meglio o di più. Non so più se fu la De Beauvoir a scrivere che un oggetto bellissimo, come un raro gioiello, diviene o dovrebbe essere considerato qualcosa di misero ed orrendo appena si pensi che a per produrlo sono state necessarie la tortura, la schiavitù e l’omicidio. Fromm, descrivendo la necrofilia e spiegandone origine e conseguenze, fa una importante distinzione per poter riconoscere il necrofilo quando sottolinea l’importanza di conoscere il motivo per cui una persona odia la vita e spera solo nella distruzione, pur preferendo ancora vivere la propria esistenza e cercando di aiutare con discrezione e impegno altri a stare meglio: si può odiare la vita perché la si ama, si può essere spinti dall’odio per le ingiustizie troppo numerose e irrimediabili a odiare la vita, che tortura uccide e lo fa con indifferenza e magari tra le risate della gente; si odia la vita, si odia la gente. Chamfort affermò che misantropia vuol dire filantropia e che non è possibile capire molte cose se non invertendo i significati di alcuni termini stabiliti dal senso comune. Y: Ma è una filantropia che non spinge a frequentare molti, che porta a rinchiudersi in casa e in sé e resta sterile. Non lascia alcuna possibilità di tolleranza per chi non è buono, anche quando si tratta di qualcuno che a volte sa offrire qualcosa o di qualcuno che non ama lo sport della caccia alle streghe. X: Non si è necessariamente sterili restando in casa ed evitando ogni contatto con chiunque non sia il partner: se tutto quello che ho scritto e messo in rete non basta a dimostrartelo, significa che ora qualcosa ti impedisce di essere obiettivo. Ammetto che la tolleranza posta ad esempio dal libro di Giona mi è incomprensibile e di non dare alcun valore agli impulsi generosi se istintivi, se nati e morti sul momento e rari, e nemmeno alla consapevolezza saltuaria, ai residui di coscienza contraddetti dalla prassi di una vita e al dolore di chi non ha né l’istinto di ciò che è giusto né la voglia di riflettervi senza pregiudizi interessati. Forse concordo con quel mafioso che, in Il giorno della civetta, si sfoga abbattendo il concetto di umanità. Y: Eppure ci sarà una sorgente di questi impulsi saltuari, di quelle manifestazioni spontanee di una coscienza dalla voce tanto fievole ma inconfondibile! Perché non rispettare almeno quella sorgente?Ciò ti aiuterebbe forse a sopportare meglio loro e la vita stessa. X: In un libro orrendo di Giussani (l’autore sfruttato dai ciellini di Comunione e Liberazione per sostenere la loro maleodorante mentalità di casta) egli fa molto in fretta a dimostrare l’esistenza dl suo Dio: egli sentenzia che non può non esserci una sorgente dell’amore, ma il fatto è che può eccome. L’amore profondo esiste per lo stesso motivo per cui esiste il sadismo (ti rimando a Fromm): a un certo punto della storia dell’essere c’è stata una deviazione e l’uomo ha cominciato a pensare purtroppo…Tutto il resto è il risultato delle leggi della psicologia. Quando io ascolto Battiato – di rado del resto – ho sempre cura di farlo con criterio: quando Battiato canta di un “oceano di silenzio sempre in calma”io penso a quel silenzio particolare che si sperimenta durante una meditazione ben fatta; Quando canta che “le gioie del più profondo affetto sono solo l’ombra della luce”io penso al fatto che a volte manifesto un amore particolarmente profondo per te o per me stessa e che, rispetto a quelle occasioni, il resto dell’anno è l’ombra
  • 7. della luce. Emily Dickinson fu una dei poeti che più ebbe il senso di una sorta di intimità con qualcosa cui dava il nome “Dio” senza essere religiosa in senso stretto, ma anzi dichiarando di essere avvolta dal mistero e dall’inquietudine e aborrendo il modo di vivere il senso religioso della Chiesa, alla quale lei non si appoggiò per descrivere questa presenza silenziosa simile a un senso di solennità avvertito mentre era sola e poteva dialogare con se stessa e intuire certe verità, quando riusciva a trovare le parole giuste per esprimerle. Comprendere nobilita, restare in se stessi a lungo rimanendo lucidi nobilita, avvertire di essere più vicini alle cose e al loro senso nobilita e tutto questo rende a volte tutto solenne per un po’. Anche Rainer Maria Rilke e Novalis parlarono di una sorta di intruso misterioso , una presenza quotidiana illuminante evocata dalla lettura o dalla solitudine amara. Per esprimermi appoggiandomi a un'immagine di Rilke, una verità può stagliarsi nella mente visionaria o sensibile con forza come il raggio portante in una ruota (il processo inconscio è al di là di ogni controllo e a ogni intuizione seguirà, prima o dopo, un’altra, magari dalla prima fecondata). L’inconscio è autonomo, una presenza dotata di vista più ampia di quella cosciente e di leggi proprie e i processi dell’affettività sono altrettanto profondi che incontrollabili, perciò che bisogno c’è di parlare di un Dio nei termini della fede? Non si è espresso in parte anche su questo Conrad, quando ribadì il disprezzo del sopranaturale nela sua prefazione a La linea d'ombra? Perché tirare in causa una qualsiasi divinità rivelata e perfino un Dio padre assurdo come quello cristiano? Non bisogna uscire da una mentalità radicata nel principio di immanenza se non è indispensabile e a me sembra che tale non lo sia mai. Ammettere una sorgente dell’amore e del senso della giustizia in un al di là comporta il precipitare nell’assurdo del manicheismo (anche cristiano) oppure nell’immorale e abbietta giustificazione del dolore più insopportabile con qualche cretinata su vite precedenti peccaminose, sugli eletti predestinati, magari addirittura santificando la legge del più forte, del più intelligente, ecc. Solo i mostri o i sognatori ostinati (forse è questo il caso del cristiano onesto Tolkien) e troppo deboli nel ragionamento (per plagio di vecchia data, per vigliaccheria eccessiva, ecc.) possono assumere posizioni simili senza turbamento. E ancora peggiori forse sono coloro che rispondono a chi li interroga con frasi del tipo: “non so perché ci sia tanto dolore e tanta ingiustizia, ma credo ci sia una ragione e mi affido a dio” oppure “Eh ma l’amore…”. Del resto si può appurare subito quanto basso è il livello del “pensatore” Giussani quando si legge il resto del suo libro a proposito della misteriosa sorgente “X”: egli arriva a scrivere che è giusto - razionale - fidarsi del personaggio di un libro vecchio di duemila anni e peraltro parecchio rimaneggiato, contraddittorio e oscuro, perché lo è fidarsi della madre e mangiarne il risotto anche senza prima farlo analizzare per escludere l’ipotesi del veleno (cioè con il fatto che l’atto della fiducia nella vita a volte ha un senso ed è ragionevole). E non credo sia un caso se ho conosciuto pochissimi ciellini e adepti di qualsiasi altra setta con in testa, nel cuore, nelle intenzioni e nelle parole stesse altro che la religione degli eletti, quella senza volto e nata con l’uomo: niente, al di là del narcisismo e degli interessi economici e di protezione reciproca, è riscontrabile nella maggior parte di loro (per quanto ci siano poche e bellissime eccezioni). Y: La Chiesa non ha mai sostenuto altro che il principio di autorità e di casta fin dagli inizi: Agostino e quell’altro esaltato sadico di Paolo non vedevano che una piccola porzione di eletti di cui facevano parte in un mondo destinato all’inferno; Lutero e Calvino calpestarono il messaggio delle parabole e delle dichiarazioni sui ricchi e sui poveri appena poterono sentirsi protetti e fare gli interessi della loro classe borghese ormai rafforzatasi e questo perfino nonostante il Vangelo fosse più diffuso al loro tempo grazie alle traduzioni dal latino; in seguito molti esponenti dell’alto clero se ne infischiarono del Vangelo al punto da insinuare che le parabole sul perdono erano falsi testi interpolati nel corso dei secoli bui, mentre esaltarono messaggi come “costringeteli a entrare” o “sono venuto a portare la spada” (ne scrisse Voltaire). Da nessun religioso, poi, sono mai stati e saranno mai considerati con la dovuta serietà i ripetuti esoliciti inviti del “messia” a credere non tanto in lui quanto nello spirito e a pregare soli e senza parole. Chi si arricchisce sente il bisogno di fare tabula rasa dei diritti dei poveri e di non mescolarsi. I ciellini sono quasi tutti benestanti e questo deve pur avere un significato. X: Esopo o Fedro scrisse della sofferenza eterna predestinata dell’asino? Dopo essere stato reso schiavo, percosso di continuo e affamato in vita, anche dopo morto l’asino avrebbe sofferto, dato che la sua pelle sarebbe servita a rivestire tamburi. Ragionando come la gente, potrei dire che non era allora tanto grave percuoterlo e affamarlo. Io però sono, come l’asino, nata con una natura e una famiglia che non mi hanno lasciato scampo e fin dall’infanzia ho subito la tortura fisica e psicologia e i giudizi ingiusti e indifferenti di quasi tutti quelli che ho incontrato, ma da anni ormai raccolgo felicità e benessere e mi sento realizzata e, per certi versi, perfino fortunata. Il principio alla base della religione degli eletti è privo di senso. Y: Mi sembra che questa consapevolezza dovrebbe permetterti di avere uno sguardo sereno, che invece non vedo mai. X: Non basta che ci sia qualche legge positiva a regolare i destini (almeno quelli umani) per spingere chi ha avuto una vita come la mia ad abbracciare il mondo e l’esistenza, come se si potesse dire che davvero, con l’atteggiamento giusto, la vita è pur sempre bella. Levi racconta di essere finito nel lager perché era andato a fare il partigiano in montagna senza avere i mezzi per rendere i rischi non troppo grandi. Scrisse di essere stato vittima della legge naturale secondo la quale si può intraprendere un’azione solo se si ha la capacità di realizzarla. Racconta anche che, al momento della cattura, avrebbe potuto salvarsi facilmente se solo gli fosse venuto in mente o qualcuno gli avesse suggerito di mentire sul suo essere ebreo, per via della situazione particolare in quel luogo, ma che le leggi ferree della realtà non permisero niente del genere. A me è accaduto lo stesso: ho agito a lungo in modo imprudente e irrazionale e pertanto ho “meritato” le torture fisiche e psicologiche insopportabili e lunghissime e l’essere stata così vicina a morire a un’età tanto giovane e senza alle spalle nessuna gioia, serenità, tregua. È tutto tanto semplice… E da quando ho potuto iniziare a comportarmi in modo più razionale e coerente, ecco che la mia vita è migliorata progressivamente e io con essa. Tutto semplicissimo! Levi scrisse poi che le leggi razziali e la giovane età gli avevano impedito di avere una vita sociale, di fare esperienza e di leggere quanto basta per adeguarsi a quelle leggi che lo rovinarono con un’ingiustizia, quindi, assoluta e immensa. Io allora affermo che la famiglia, il mio cervello col centro nel posto sbagliato, la mia Carta Natale, le malattie congenite e create e mai curate dalla famiglia nell’infanzia e oltre, la mancanza totale di informazioni essenziali per vivere e un incontro incredibilmente sfortunato durante l’adolescenza determinarono 27 o 28 anni di debolezza, disperazione e sofferenza senza rimedio, anni che non potranno mai essere compensati da tutto ciò che ho ricevuto da te, dalla natura del luogo dove ora vivo e dalla ricchezza dei doni della mia mente nella
  • 8. vegliao nel sonno. Finchè non ho ricevuto un aiuto abbastanza adatto a me e al momento giusto non mi è mai servito a niente capire bene persone e situazioni. Soluzioni valide "in generale" ce n’erano sempre state ed io ne conoscevo alcune all’epoca, ma nessuna era adatta alle forze e ai mezzi di cui disponevo e a volte nemmeno ai miei valori e alla mia natura meno modificabili. Le “vere” soluzioni a problemi difficili da sopportare e da risolvere di solito sono poche. Ce n’erano di soluzioni adatte a me, ma per conoscerle avrei dovuto ascoltarle da qualcuno, avere i titoli dei libri in cui le si espone nei dettagli, avere alle spalle esperienze che non avevo fatto e non potevo vivere. Y: Avere tanti problemi fin dall’infanzia ed essere stati lasciati sempre soli ad affrontarli fino a farli accumulare ed esserne stati bloccati nella comunicazione - e ciò mentre si divide casa con grandi bugiardi! - genera di per sé passività anche in chi, pur non avendo innato sangue freddo, è però un ribelle e possiede la forza e il coraggio del carattere. Forse sei stata troppo passiva...Sei sicura di aver cercato davvero quelle soluzioni? X: Certo! Nel modo possibile a chi non sa parlare, non sa agire bene senza riferimenti e senza una base…ma sì, le ho cercate. Comunque, passività o non passività, ci sono situazioni da cui è difficilissimo uscire per qualsiasi ragazzo che non può contare sulla famiglia. Io dico sempre che una cosa è avere tanti problemi (come ne ho da dieci anni) e un’altra cosa è non avere l’essenziale per iniziare a vivere (una casa dove vivere soli o con una persona scelta e possibilità di esprimersi a parole e azioni, di informarsi, di seguire progetti personali e di avere ogni giorno diversi momenti di serenità senza evadere e senza fingere). Iniziare a vivere quasi a trent’anni è iniziare troppo tardi, con malattie, problemi sociali ed economici grandi e irrimediabili e immenso rancore. E c’è chi non ottiene nulla neanche così tardi. A corrispondere alle pretese della gente che si possa mantenere la testa e i nervi saldi in ogni situazione ed a ogni età ci sono solo i film (vedi i primi film Harry Potter e, ecc. o Le ali della libertà, un film di cui anche Levi scrisse con disprezzo) e alcuni libri (vedi Matilda di Dahl), mai la realtà. E se io e Levi o altri non eletti fossimo nati degli stupidi – tanto per usare un termine caro a tutti – ancora di più il nostro destino e l’aggressività altrui sarebbero stati ingiusti (concetto questo incomprensibile per la gente solo perché il mondo è fatto di mostri per il 90 per cento). No, non accetto la Vita, il mondo, e spesso vorrei che tutto venisse distrutto una volta per sempre. Y: Non c’è abbraccio, sorriso o dono concreto che possa farti cambiare idea. É vero, la natura non ha alcun interesse per gli individui, ma solo per l’insieme e per di più ciò che essa ottiene dal singolo di rado dà a lungo buoni frutti alla comunità, se ne dà. La tua è consapevolezza per la consapevolezza, conoscenza di cui si può sempre ridere, non estendibile a tutti e ottenuta a prezzo di sofferenze e angosce insopportabili accumulate in un’esistenza breve. E hai pure ragione di considerare vita solo gli ultimi anni! E considerato come va ed è andata a molti altri, si potrebbe dire che devi pure considerarti fortunata!! È insensato e orribile, sì. Pare che il tuo destino davvero non sia stato di stare bene ma di capire: non può essere un caso se nella tua carta natale si trova predetta una vita di studio e anche un cambiamento di credo…Però se non c'è dio, non hai nemmeno accanto a te un insopportabile credente e hai motivi per goderti gli anni che ti rimangono. A dio e alla gente si può non pensare troppo e si può apprezzare la propria vita senza giustificare la Vita. Non potrai mai riconciliarti con la vita, con la natura e con quel che la gente chiama dio, così come non puoi non essere misantropa. X: Infatti. E lo penso pur avendo fiducia in alcune leggi della realtà, te lo ribadisco. Prima di conoscerti i miei tentativi erano minati alla base dalla convivenza con i miei familiari, ma in seguito ho vissuto con più fiducia di quel che può sembrare, per quanto non abbia mai confidato nell’aiuto della natura come un qualcosa di garantito. Se non avessi avuto fiducia non avrei iniziato, modificato e portato a termine molti libri e i miei documenti online e non avrei insistito nei miei tentativi di superare nevrosi e traumi, mangiare e vestire bene (cosa da tutti ritenuta impossibile), arredare la casa in modo adatto a me, rapportarmi nel modo giusto a emozioni, fantasie e desideri profondi e naturali quanto contraddittori, confusi e in buona parte irrealizzabili. Se ho realizzato i miei obiettivi, ciò è dovuto al fatto che la natura è sì, come la definì Leopardi, una “matrigna cattiva”, ma non è tale nel modo in cui lo sono le persone: le persone cattive non cambiano mai e per loro non conta proprio niente qual è la verità, quanto si insiste con loro e se si cambia o no, ma la natura spesso, pur essendo indifferente all’ingiustizia, risponde alla perseveranza di quegli sforzi inauditi che nascono dalla sincerità e dall’essere nel giusto, e cioè ha di bello che anch’essa cambia quando si riesce a cambiare atteggiamento e se la personalità attivamente si stabilizza in una posizione abbastanza equilibrata. Non si può mai sperare nella gente, ma si può sperare un po’ nella natura, per quanto hai pur visto come la natura mi ha abbandonato tre anni fa in una situazione così importante e per le conseguenze della quale ora dovrò morire presto dopo aver cominciato a vivere a 28 e a vivere benino a 30! Io non imito mai gli altri nella foga con cui semplificano sempre i loro giudizi e gettano tutta la merda possibile su chi e cosa non piace loro. Io anzi mi sforzo di vedere le qualità ovunque siano e ciò per non rischiare troppo o senza una chiara decisione al riguardo e per non perdere delle opportunità: anche per via di questa abitudine non sono rimasta a lungo miope da quando ho iniziato a intravedere quanto la vita può offrire. Non si tratta, quindi, come vedi, di “essere negativi” (una delle espressioni più stupide usate comunemente), dato che so pur consolarmi di essere viva! …………………………………………………………………………………………………………………………………………… ………………… X: Un sogno (o una visione) sta al centro di molti libri di Dostoevskij e spesso ne cattura e rimanda il senso come un prisma. Nel caso del sogno di Mitja forse non c’è altrettanto potere magnetico sul significato complessivo del testo, ma l’impressione che esso mi ha lasciato è forte, per l’analogia inaspettata e involontaria che ne ho tratto subito tra la Siberia e la psichiatria, un ambiente che probabilmente ricorre negli incubi di molti. Egli sogna prima del processo e il suo sogno puro e pieno di speranza contribuisce a rovinarlo. Il sogno di Mitja… ecco qualcosa che si dovrebbe aver presente prima di rivolgersi a psicologi, neurologi, psichiatri ecc. Il sogno può rappresentare bene l’illusione di poter affidarsi.
  • 9. Y: Ma Mitja non sarebbe mai riuscito a trovare l’equilibrio fuori dal carcere: il mondo per lui è solo un avvicendarsi di tentazioni cui non sa resistere. Egli non sa decidere. È il tema della “frenesia karamazoviana”. Una specie di heimarmene, in senso stoico, spinto agli estremi. X: Il “suo” mondo fuori dalla Russia è immaginato come una terra libera dove si subiranno molte umiliazioni che possono educare, lasciando il margine per appropriarsi di sé e acquistare dignità con il tempo, mentre la vera Siberia vuol dire schiavitù materiale e psicologica. La Siberia è ben diversa da quella vaghissimamente descritta in Delitto e Castigo: l’immagine che devi averne è quella data per esempio in Vacanze di Natale di Maugham. Y: Allora ora ho capito la ragione del tuo riferimento alla psichiatria: meglio per strada che automi paranoici e schiavi come i reduci delle carceri siberiane di Maugham e gli ex internati dei nostri manicomi! …………………………………………………………………………………………………………………………………………… ………………… Y: Ivan è l’anima di Fëdor? Egli è l’anima del padre, come Alësa ne è il cuore, Smerdjakov ne è il cervello bacato e Mitja gli istinti fuori controllo? Ivan è dominato dall’Anima o dall’Animus in senso junghiano? Ivan disprezza troppo Fëdor, te ne sei accorta? X: Certo, ma lo fa soprattutto perché la gente in genere disprezza troppo lui. Questo è uno dei sottotesti dell’ingresso in Paradiso descritto nel suo poema. Y: È per via di quel suo timore, di quel suo senso di giustizia o semplicemente a causa di quel suo esaltarsi? La gente odia gli esaltati molto più di qualunque criminale. X: Non è affatto un esaltato. Ivan è passionale e tende all’esaltazione (come i fratelli, del resto), ma quando parla di sé stesso ad Alësa, nel loro più lungo colloquio, egli dimostra ben altro atteggiamento. La sua sensibilità e la sua nobiltà sono profonde, non sono le manifestazioni di un eccessivo! La maggioranza è cieca in questo. Per esempio pensa a quante volte sembro esaltarmi io, magari per un libro, eppure “sotto” non c’è niente: se la passione e un senso di vuoto mi portano a volte a esprimermi con più calore ed energia del comune, interiormente essi corrispondono soltanto a un giudizio e non alle idiozie che la gente di solito attribuisce ai modi di fare simili al mio; e lo avrai notato, perché posso passare a un altro argomento (grave o piano) da un momento all’altro, mentre se questo punto di vista altrui fosse valido, ciò non sarebbe possibile. Y: La gente però non sa notare cose come queste, non vuole vederle, e ciò nemmeno quando il livello di analisi richiesto per formulare un giudizio corretto sarebbe molto più basso. Anch’io a volte fraintenderei molte cose se non ne avessi avuto esperienza personale. Per stare su un piano di banale quotidianità, mi ricordo un episodio recente in cui, parlando con un conoscente a casa sua, questi mi ha indicato il nipote di una decina d’anni come un pazzo per lui insopportabile in quanto emotivo. Egli lo ridicolizzava in particolare facendomi notare che il bambino avrebbe avuto un attaccamento smodato e assurdo per dei suoi gatti: mentre osservavo il bambino alle prese con uno dei suoi cuccioli, egli mi sembrava davvero malato, eppure non faceva niente di diverso da quello che facevo io a dieci anni con i miei gatti, io che a quell’età non avevo affatto un atteggiamento interiore anormale nei loro confronti né li consideravo altro da ciò che erano… IL CONTE DI MONTECRISTO X: Ho da poco letto i migliori libri di Dumas padre, in cui tanto e senza molta banalità si disquisisce su onore e ricompense, provvidenza e giustizia. È quel genere di libri che andrebbero forse letti da adolescenti e poi riletti intorno ai 35 anni, tornando al punto dopo aver compiuto un lungo giro. Sono libri il cui senso appare più chiaro e più lucido se ai termini 1) Dio 2) risposta alla preghiera e 3) provvidenza sostituisci 1) leggi della coscienza e della nobiltà interiore in quelle rare persone che le possiedono e inoltre dell’inconscio personale e familiare 2) reazione impersonale della legge di attrazione all’attenzione focalizzata e 3) insieme delle leggi psicologiche, sociali e naturali. Il discorso fila tranne che in un punto: la moralità del principio motore è un abbaglio dell’autore o un suo artificio per consolare e illudere il lettore. E va anche bene usare questi libri per consolarsi dell’essere vivi, purchè riguardo tutto ciò si resti lucidi, soprattutto se a volte si è tormentati da un condizionato desiderio di avere dei figli. Essendo la coscienza confinata in pochi individui, di rado il destino è morale e non è né giusto per gli altri né vantaggioso per sé illudersi al riguardo. Concordo con Dumas, quando, come Jung, ripete che la perseveranza è spesso la chiave, ma non dimentico che nella vita quasi sempre - e di persona - si paga la debolezza e si pagano inoltre gli eccessi e gli squilibri sempre - o di persona o attraverso il destino dei figli -, ma quasi mai invece si paga la cattiveria (si tratti di egoismo, indifferenza, ostinazione nei pregiudizi, crudeltà consapevole) - nè di persona né nei figli - , a meno che essa non sia sfociata in malattia, debolezza o altri eccessi. Ora io vedo che di rado accade che fare del male renda deboli (al contrario narcisismo, sadismo, “necrofilia” rendono invulnerabili alle critiche e capaci di perseguire il proprio interesse con accanimento e senza scrupoli fino a raggiungere una posizione di grande forza). E inoltre non
  • 10. trovo che il colmo dell’ingiustizia nel fatto che, per una legge naturale eterna, siano i figli a pagare per eccessi (magari di virtù, come avvertiva Jung) o colpe dei genitori. Mi lascia fredda, poi, vedere che alcuni figli dei mostri ne bilanciano la personalità e fanno qualcosa di buono. E infine noto ogni giorno che è rarissimo che una vittima abbia la possibilità di farsi giustizia, anche quando si salva in exstremis e gradualmente si risolleva. Inoltre trovo le malattie e soprattutto epidemie e bombe atomiche difficilmente compatibili con l’idea di un destino individuale sensato ed esprimente in qualche modo una legge morale. Y: A proposito di malattie, credo che peraltro non sia un caso che Dumas le ignori del tutto in questi libri. E ho il sospetto che, se lo avesse fatto, avrebbe detto, per bocca di Edmondo o di Athos, qualche assurdità simile nel tono all’affermazione di Dantes che l’impegno di consegnare la lettera, che lo perdette, è stata un capriccio della sorte e che Dio permette ai malvagi di vivere abbastanza e spesso molto a lungo perché desidera compiere attraverso di loro le sue vendette, quindi per colpire anche qualche malvagio. Del resto si sa che così la pensava sulla peste Manzoni, un altro ammiratore della provvidenza. Bisognerebbe leggere la descrizione dei sintomi della peste gatta da Tucidide per comprendere fino a che punto questa affermazione di Manzoni sia una sorta di barbarie del pensiero. E, del resto, quando Dumas descrive gli effetti della cella di isolamento su Edmondo e sullo scienziato non tiene minimamente conto delle reali conseguenze che su chiunque hanno la solitudine costante, il buio, il cibo malsano e scarso o anche solo povero di vitamina C. Pellico e Tolstoj avrebbero scritto ben altro al riguardo. X: Vero. Però mentre parlavi pensavo a una cosa: è vero che si parla di malvagi quando vengono tirate in causa le vendette di Dio, però in I tre moschettieri e in Vent’anni dopo, Miledy e suo figlio finiscono anche col pareggiare i conti (di dio?) con delle imperfezioni di persone nel complesso di valore: pensa, non solo alla scelta del convento di milady, ma al fatto che il nome falso assunto da madame Bonacieux è lo stesso della cameriera di milady con la quale d’Artagnan la aveva tradita, pur senza dimenticarla e senza coinvolgimento, e che è quel nome a spingere milady a conoscere la ragazza, che poi riconosce e uccide per essere stata ingannata da lui; pensa al fatto che Athos perde un figlio come milady aveva perso il suo per mano di Athos; e la consegna della lettera a Dantes sembra messo in relazione con la minaccia eccessiva da lui fatta al collega anche al di là della rabbia conseguente e decisiva di costui... In molti altri libri, del passato e recenti, ho ritrovato parallelismi simili e dal messaggio lasciato del tutto o in parte implicito. Per esempio in Il lupo dei mari London avvicina alcuni elementi narrativi in un modo che sembra casuale e non viene sottolineato, mentre, in realtà, indica corrispondenze che fanno pensare ad una legge; e questa legge determina, come nei libri di Dumas, una specie di regolamento di conti e non tiene conto della gravità di ciò che si è compiuto e delle condizioni difficili che hanno portato a compiere quell’atto crudele, eccessivo o debole ma, in ogni caso, dalle conseguenze per sé e altri: il cuoco Mugridge perde un piede e finisce con lo zoppicare come il protagonista che aveva obbligato a lavorare con un ginocchio inservibile; il cuoco viene reso storpio da Larsen, il quale presto diviene anch’egli un invalido; Leach, al momento giusto, non trova il coltello con cui uccidere Larsen, che così fugge e poi lo uccide davanti agli altri e di un coltello mancava per la prima volta il cuoco Mugridge quando Leach lo aveva assalito e quasi ammazzato di pugni nell’indifferenza generale, dopo averlo altre volte trattato ingiustamente per sfogare la rabbia suscitata da altri…Nella saga fantasy recente Le cronache del ghiaccio e del fuoco questo modo di costruire la trama è anche troppo evidente e un po’ ingenuo: molti personaggi, con il tempo, finiscono per subire, almeno in parte, le sofferenze o la morte che hanno causato (anche qui chi rende qualcuno storpio o cerca di farlo diviene poi in qualche modo altrettanto storpio, chi uccide in un determinato modo viene ucciso in modo simile o da chi ha assistito e ha rischiato di essere una delle sue vittime, ecc.). E non sono solo i libri per ragazzi o di evasione ha esibire un simile intento, ma libri di ogni genere e tempo, anche se solitamente gli scrittori scelgono di farlo in modo meno appariscente e costante. Qualche volta ho avuto l’impressione che cose simili accadano davvero, mi è sembrato di scorgere situazioni, create dal caso e da un mio irrazionale lasciarmi andare, che tornavano a capitarmi e si svolgevano in modo stranamente molto simile a distanza di anni e con persone diverse, perché non le avevo affrontate o almeno non le avevo meditate a lungo e portate sempre con me e perché il mio modo di agire non era cambiato; oppure mi è successo di subire qualcosa che altri avevano creduto di subire da me anche se io avevo avuto ben altro in testa e si sbagliavano. Chissà se intendeva anche questo Musil, quando scrisse che le stesse cose ritornano e che la realtà si sviluppa sulla base dell’apparenza, non della verità, e a partire dai fatti, non dalle intenzioni e dalle circostanze. ETICA NICOMACHEA CON INTRODUZIONE X: Ascolta: "Ci sembra assai significativa, in proposito, la sua motivazione della condanna del suicidio, quella specie di pubblica infamia, che colpisce il suicida, rivela, secondo Aristotele, che chi subisce ingiustizia e, in realtà, la comunità politica, non l'individuo stesso che si è ucciso. Ben più profonda (senza peraltro disconoscere la parte di verità che la tesi aristotelica pure contiene) ci sembra la lezione di Socrate che, nel Fedone, si dice convinto che gli dèi si prendono cura degli uomini e che questi sono come un loro amato possesso: perciò non è lecito all'uomo sottrarsi volontariamente con la morte. Il suicidio è, per Socrate, un'ingiustizia verso gli dèi". Ascoltato bene ogni parola? Questo è il commento idiota all'Etica Nicomachea che ho appena letto nell'edizione del libro che ho trovato in biblioteca! A parte che non si dovrebbe dare giudizi così personali nella critica e soprattutto nelle stampe indirizzate anche alla scuola e senza motivarli ampiamente e con riflessioni proprie, perché scrivere queste idiozie? Niente giustifica l'espressione "amato possesso" e riguardo all'idealista Socrate, bisognerebbe rimandare questo imbecille almeno a quanto di questo presunto saggio scrisse Nietzsche. La verità è che, tirando in causa Dio, la condanna del suicida appare irrevocabile, nobile e più difficile da confutare (non si può ragionare quando si dà per scontato ciò che dipende da un atto di fede religioso, cioè da uno slancio privo di fondamento razionale). È comodo il concetto di Dio per chi considera gli altri come strumenti. L'uomo è stato anche troppo bene definito un rapace sadico e davvero grande è il numero delle persone che pretendono il controllo su tutti, su tutto... Dio è un buono spauracchio, un comodissimo alibi, sfruttato almeno quanto l'astratto concetto di Società. Y: Sì. E nessuno può negare, però, che di rado qualcuno arriva a suicidarsi se non è stato calpestato da una società ingiusta, resa immodificabile dalle leggi eterne ("divine") della violenza.
  • 11. X: La falsa moralità attribuisce valore agli individui in quanto utili alla "comunità", che è in realtà un assembramento di caste con diritti e possibilità ben diversi. Questa "morale" tanto comoda, sostenuta da Aristotele e da questo critico, è stata ed è ribadita da un'infinità di mostriciattoli con la mania del potere, ma anche accusata e demolita dai saggi di ogni tempo (da Cicerone ad alcuni degli indiscussi padri della psicanalisi). Y: Da poco ho letto Non ho parole e mi ha colpito la quasi ingenua affermazione che l'importante è appunto che tutti partono dallo stesso punto di partenza. Goldoni motivava così la distanza tra le classi e l'esigenza di soffocare le ribellioni soprattutto giovanili del suo tempo. Era un conservatore e non non ha voluto o saputo essere lucido in questo caso, come lo fu invece altre volte. Nessuno parte dallo stesso punto di partenza (nemmeno se nato dagli stessi genitori). Comunque credo che l'arroganza nota ed evidente di Aristotele indichi di per sé che egli mancava della sensibilità e dell'umiltà indispensabili a pronunciarsi sul suicidio (vedi la critica di Bacone all'allontanamento di Aristotele da Eraclito e dagli altri pensatori capaci di rispettare il mistero che avvolge l'essere e di accettare i limiti della ragione, del cuore e della capacità conoscitiva umani)! X: Detrae valore ai suoi giudizi già la passività con cui egli avalla la mentalità misogina e schiavista del tempo, perché essere così acquiescenti nei confronti della tradizione è sempre un grave limite. E ciò appare evidente considerando quanti hanno saputo elevarsi su di essa nella sua stessa epoca (vedi con quanta indifferenza Tucidide trascura, oltre agli oracoli, i pettegolezzi sulle donne e quelli sui nemici e quanto appare grande la sua obiettività se confrontata con l'atteggiamento di Erodoto; vedi Apuleio, un autore che giudica implicitamente ma con imparzialità la condizione delle donne e degli schiavi in Grecia). Quanto, poi, a quel che Aristotele scrive sul potere genitoriale sui figli e a quello della famiglia sulle donne, non vedo che soluzione diversa dal suicidio egli prevedesse per un figlio o una moglie che venissero maltrattati gravemente, dato che essi erano altrettanto privi di diritti del più misero schiavo. Bisogna ripetere che la libertà di decidere della propria intimità e se vivere o morire è sacra e che chi nega questo principio è un violento o uno degli alibi di cui ogni violento si servirà sempre. Y: E oggi sono parecchi i "suicidati" dai familiari e dall'organizzazione del lavoro col benestare della legge... X: E ancora di più i casi di malattia, rovina e morte seguiti a TSO decisi per individui da sempre tormentati e poi diffamati e buttati per strada o percossi e minacciati dai loro "cari". E, come in altri tempi, le vittime sono per lo più donne e ragazzi. A volte la vittima si ritrova intorno una massa di "sconosciuti" che sentenzia e la vuole umiliata e/o morta; altre volte essa ha intorno soprattutto disattenzione o totale indifferenza ma tant'è... In La meglio gioventù uno dei protagonisti si suicida dopo aver tentato di evitarlo: si reca in visita dai familiari e lancia, sulla porta, uno sguardo al fratello, sguardo cui io avrei saputo rispondere e che il fratello invece non raccoglie (o almeno non in tutte le sue implicazioni). Parlare non sempre si può, perché i blocchi emotivi che colpiscono la comunicazione si possono affrontare solo con la persona giusta (questa deve avere sensibilità innata e a lungo coltivata e inoltre conoscenza di come quei blocchi si formano, peggiorano o migliorano o almeno l'affetto, la pazienza e la capacità di ascolto necessari per renderla progressivamente ed efficacemente comprensibile con l'autoanalisi a che ne è paralizzato). Risolvere certi blocchi richiede molto tempo e di solito non si arriva mai a superarli del tutto o almeno non si arriva spesso a riuscirci sotto l'influsso di ogni tipo di emozione (io ho imparato a parlare bene, come vedi, ma quando qualcosa mi deprime molto all'improvviso non so ancora reagire...sotto l'influsso di una tristezza inaspettata e profonda torno a essere bloccata, per quanto sappia dominare ansia, rabbia e paura meglio di tanti altri). Y: Il fratello, a suicidio avvenuto, afferma di aver voluto rispettare la libertà del morto, di chi cioè aveva "scelto" di non chiedere nulla...Chi è bloccato non sceglie affatto! Il fratello mente? In questi casi il problema è mancanza di intuizione, è ignoranza, è disinteresse, è menzogna comoda a se stessi, è raggiro degli altri? X: Comunque sia, è questa sua interpretazione a spingerlo a giustificare il ricovero coatto di chi tenta il suicidio e anche a giustificare a se stesso la sua mancanza di disponibilità e sensibilità in un momento decisivo. La vita non offre a tutti la possibilità di superare blocchi e altre idiosincrasie. Chi non trova le informazioni che gli servono necessita dei libri che le contengono e non di essere ignorato per poi essere imprigionato da psichiatri quasi sempre sadici e quindi legato e drogato finché rimbecillisce, impazzisce, si ammala fisicamente e si ritrova a sopravvivere da zombie o morto precocemente di malattia o per un ulteriore tentativo (più fortunato) di suicidio fuori o dentro il manicomio!! Y: Tu lanceresti insomma, potendo, un messaggio a tutti, un semplice messaggio che suonerebbe così: "Ascoltate le domande inespresse e poi, con gentilezza e rispetto, per lo meno distribuite indirizzi di documenti come i miei ed elenchi di titoli di libri di Fromm e di Jung e poi di capolavori della saggistica e della letteratura di ogni tempo. Fatelo, oppure, bastardi, lasciate morire chi vuole andar via!" X: I libri giusti e l'autoanalisi forniscono il principale e il più grande aiuto che si possa avere quando si soffre e non si sa come combattere la disperazione. Il dialogo con una persona amata e in cui si possa aver fiducia è un aiuto fondamentale, ma che può venire solo dopo, di solito, e comunque che da solo non può bastare quando si è arrivati ormai a una seria nevrosi.
  • 12. Y: Matteo, il suicida di quel film, era un buon lettore, ma non aveva trovato i libri giusti? X: Appunto. La sua ragazza innamorata gli dice che egli teme la vita e gli altri e che si rifugia nei libri perché può chiudere un libro più facilmente che un rapporto e distrarsi da un libro più facilmente che dalla consapevolezza amara che deriva dal suo passato e dal suo tipo di lavoro. Ma non tutti i libri sostengono nella fuga nè tutti i libri cantano inni agli assoluti. Ci sono libri dalle cui pagine si scende fino a se stessi, alle paure, ai desideri profondi e poco consapevoli, ai valori innati e acquisiti più forti, alle abitudini di pensiero e comportamento condizionate dagli altri o dal passato, a tutti i muri di protezione insensati e asfissianti. Sono libri che è bene poter chiudere. Si deve leggere con tutta la calma disponibile e in tutta sicurezza, quindi chiudere il libro e poi riaprirlo una volta calmi e distaccati: si deve cominciare e ricominciare il dialogo con ciò che si sa e non si vorrebbe tener sempre presente e quello con la propria coscienza, la propria natura immodificabile e il proprio inconscio. È la lettura come meditazione vitale e non come mero rifugio. Essa prepara a incontrare e a riconoscere la persona giusta e permette di instaurare rapporti sinceri e aperti, relazioni che a volte, lentamente, riportano alla vita. IL SIGNORE DEGLI ANELLI Bisogna innanzitutto consiederare che il libro è stato scritto poco dopo la seconda guerra mondiale, le cui vicende sono state plasmate da un narcisismo estremo, delirante, avido. Scrivendo del nazismo e della sua prigionia in un lager, Primo Levi definì il bisogno di prestigio come un'aspirazione ineliminabile della mente umana. Tolkien esprime il suo dissenso a questa mentalità prima di tutto con la creazione della compagnia dell'anello, che è multiraziale e unita da amicizia, anche se a trasmettere in modo esplicito il messaggio di Tolkien non è un suo componente ma Faramir: la guerra serve a portare la pace (benessere, ma anche cultura e bellezza), ma non va ricercata e amata in se stessa e per il prestigio che essa può procurare. É tale la fede di Faramir, che pure per razza e discendenza è il più vicino a noi di tutti coloro che accompagnano Frodo con la sola eccezione del fratello e che inoltre dimostra di non essere abituato a ragionare prescindendo del tutto dalla comune sete di prestigio (conosciuta l'intraprendenza di Sam, se ne stupisce e non sa evitare una domanda a Frodo circa la considerazione di cui godono i giardinieri come Sam tra la sua gente). Sono in linea con la nobiltà e la mancanza di vanità o sfrenata ambizione di Faramir molti degli aspetti di seguito elencati, che sono forse gli elementi più originali del libro: l'invenzione degli Hobbit (esseri simili agli uomini forse in tutto eccetto che nell'ossessione per il prestigio personale); la scelta del ridicolo nome Pungolo per la spada dei coraggiosi Bilbo e Frodo; il fatto che sia Sam che Aragorn e i suoi guerrieri siano paragonati a dei cani mentre valorosamente combattono gli Orchi; il fatto che Sam e Frodo perfino nei pressi di Mordor definiscano il loro rapporto quello di padrone e servitore; l'abitudine di Sam – fastidiosa in genere per il lettore fino alle ultime pagine – di rivolgersi sempre a frodo antecedendo un rispettoso "signor" che sembra contraddire, non solo l'intimità raggiunta tra loro nel corso del viaggio, ma anche l'abilità e l'autonomia decisionale sempre maggiori di Sam (l'unica eccezione – l'unica occasione in cui Sam chiama il compagno semplicemente "Frodo" – è quando lo crede morto e l'urgenza della situazione e l'ansia lo sconvolgono). L'evoluzione del rapporto tra Frodo e Sam è però certa ed è forse questa a meglio esprimere il valore che possono assumere rapporti e imprese quando la vanità è assopita e il narcisismo è ridotto al minimo. L'insieme di reciproche scoperte e di cambiamenti nel relazionarsi di Frodo a Sam viene descritto in pagine che probabilmente sono tra le più belle del libro, perciò mi è impossibile farne una sintesi adeguata, sebbene il paragrafo seguente possa darne un'idea: inizialmente si dice che il signor Frodo prova grande affetto soprattutto per Bilbo e Gandalf e che inoltre ha per amici in particolare due Hobbit che nel corso del libro vengono a volte presentati da Frodo come il signor Tuc e il signor Brandibuck ma non Sam che viene sì trattato come un amico ma non davvero considerato tale (è il giardiniere per Frodo, che non lo conosce affatto bene e lo presenta e spesso chiama tra sè semplicemente "Samvise Gamgee"); fin dalle prime tappe del viaggio, Frodo scopre che in Sam vi è più di quanto pensasse e superficialmente appaia (in effetti si tratta di un personaggio gradualmente e bene delineato e anche complesso, nonostante che la sua mente venga definita dall'autore una "mente semplice"); dopo l'influenza che la prima breve ospitalità degli elfi nella radura ha su entrambi, Frodo si scopre felice che Gandal abbia scelto come suo compagno Sam anzichè Pipino o Marry; quando rimangono isolati dagli altri componenti della compagnia dell'anello, Frodo rivolgendosi a Sam dice: "Samvise Gamgee, mio caro Hobbit...anzi Sam, mio più caro Hobbit, mio adorato amico", come in seguito ripeterà aggiungendo e ripetendo "mio unico amico"(di nuovo tutto è giocato sul nome, come quando Frodo viene avvelenato da Shelob e sembra a Sam ormai morto); quando scopre che cosa Sam ha saputo fare per salvare entrambi da Smeagol,da Shelob, dai guardiani del cancello e dagli Orchi della torre, Frodo gli dà la sua spada elfica con una motivazione che appare subito al lettore sensibile in parte un pretesto e dimostra di esserlo davvero quando in seguito Frodo chiede all'amico di tenerla mentre vengono onorati come vincitori dai compagni infine riuniti. L'apparente o parziale ritorno finale allo stato iniziale con la riunione di Frodo a Bilbo e Gandalf e la sua separazione forse non definitiva ma lunga da Sam in realtà sottolineano ancor più il cambiamento avvenuto in entrambi e la profondità della loro amicizia resi possibili dalla presenza in ciascuno di loro di ciò che serve ad una evoluzione individuale, a quel tipo di maturazione personale che moltissime persone non raggiungono mai: Frodo e Sam non difettano della disponibilità all'onestà nel pensiero, nelle parole, nelle azioni e pertanto possono crescere davvero. Il libro è infatti principalmente un romanzo di formazione come sono tutti o quasi tutti i libri fantasy ed è anzi la trasposizione di ciò nella forma a dare all'ultima parte della saga quel carattere angoscioso e "adulto" che si pone in contrasto con la prima e conferisce grandezza all'amicizia e all'eroismo dei protagonisti della guerra contro Sauron: il ragno/demone Shelob è davvero inquietante e un incontro pesante per il lettore avvolto già da tempo in un'atmosfera deprimente, creata da infiniti dettagli tormentosi, e la violenza verbale di Saruman nel suo dialogo con Vermilinguo, che non a caso si trova nelle ultime pagine, si potrebbe credere più adatta a quei libri che fin dall'inizio si rivolgono chiaramente a lettori adulti (è evidente che Tolkien ha voluto esaltare questi episodi mediante tutte le sue arti di scrittore quanto si era moderato nel rappresentare nella prima parte del viaggio gli incontri, in fondo altrettanto pericolosi, con alcuni dei Nove Spettri di Sauron, con il Grande Salice e con gli Spettri dei Tumuli). L'eroismo e la natura ideale di molti dei protagonisti può a volte infastidire il lettore che ha esperienza e sa cosa in realtà si può aspettarsi dagli altri e in genere si può e non si può chiedere, almeno con qualche speranza fondata, perfino al più caro amico o al partner e naturalmente ai parenti; tuttavia il carattere archetipico dei personaggi (rimando agli scritti di C. G.Jung), alcune finezze
  • 13. psicologiche, il valore emblematico della vicenda narrata e l'abilità come scrittore di Tolkien sono tali da poter affascinare anche alcuni dei lettori con meno inclinazione per questo tipo di letteratura. Il ruolo e il carattere di Sam lo rendono più simpatico di Frodo ai suoi paesani e probabilmente a molti lettori, ma è ovvio che Frodo – portatore dell'anello, col suo crescente peso, per quasi tutto il percorso – non è da meno del compagno e forse ne è davvero anche migliore come Bilbo, Gandalf e Faramir lo stimano; in ogni caso può apparire confermata la previsione che Gandalf, dopo che Frodo è stato ferito dalla lama di uno dei Nove, fa su ciò che questo eroico mezzuomo sarebbe forse diventato ("come un bicchiere empito di limpida luce, visibile agli occhi meritevoli"). É bello comunque anche che Sam conquisti la stima del lettore per meriti non poco diversificati e che, se Frodo viene da Faramir dichiarato senza mezzi termini più intelligente di Sam, in fondo Frodo, rispetto al compagno dimostri soprattutto di saper trovare più spesso le parole, tacerne altre e comprendere meglio il desiderio altrui dell'anello fino a che è il solo a portarlo: la mente di Sam, definita "lenta ma scaltra", si dimostra, non solo tale, ma anche capace di iniziativa e spesso tenace e perspicace, con l'aiuto della sensibilità e della capacità affettiva; inoltre non sempre le parole difettano a Sam, che sceglie bene quelle per descrivere le impressioni lasciate in lui dagl elfi; a Sam manca, in particolare all'inizio della vicenda, il fascino che a Frodo conferisce la sua inquitudine, ma Sam in parte acquista anche questo dopo che il suo primo incontro con gli elfi gli lascia la strana e indefinita convinzione di avere un compito da assolvere nel futuro. Sam e Frodo eguagliano Aragorn nel celare in sè qualcosa di grande e nel realizzarlo. A proposito dell'inquitudine e della trasformazione di molti dei personaggi bisogna forse riflettere sul fatto che comunemente l'inquietudine interiore è l'espressione di una vocazione nel senso di una specie di sottile o inconscia intuizione di non stare vivendo in modo abbastanza fedele a se stessi e di dover agire in modo più corrispondente alla parte più vera di sè: si tratta in fondo di qualcosa di simile a quella sorta di richiamo che nella contea spinge un Frodo ancora inconsapevole a raggiungere e superare i confini e le solite strade. Questo sempre meno vago proposito di vivere perchè si pensa di dover realizzare qualcosa di cui non si scorge ancora bene il profilo può far pensare un po' alla espressione, ripetuta nel libro, "eventi al di là della gioia e della tristezza", perchè, Frodo e, nell'ultima parte dell'ascesa al monte Fato, anche Sam non sperano davvero nella riuscita della loro impresa e non fanno quanto fanno per essere felici, nè alla sua conclusione lo sono del tutto (Sam piange e ride allo stesso tempo quando il suo progetto e il suo sogno si realizzano e il viaggio al di là del mare di Frodo, non guarito, può trasmettere non poca malinconia). Non è un caso che all'inizio del viaggio a Sam gli elfi sembrino "felici e tristi" e "al di sopra di ciò che piace e non piace" e alla fine del viaggio egli si ritrovi a piangere e a ridere. Questo concetto di un agire e di un traguardo al di là della gioia come della tristezza è, secondo me,comprensibile da alcuni individui reduci da un trauma o bloccati per anni nell'espressione di sè da una seria nevrosi nata nell'infanzia, o meglio credo che questo tipo di persone possa comprendere bene tutto ciò appena si offra loro qualche possibilità di superare la loro paralisi pur tra innumerevoli e grandi ostacoli, perchè non di rado in casi simili sorge un tipo di determinazione che la lunga e profonda sofferenza, l'odio di molti o la scarsità di prospettive di successo non possono abbattere, ma credo che queste non siano questioni da porre a chi vive per accumulare (e non intendo certo solo denaro o immobili) e quindi alla grande massa di persone dominate, per dirla come Erich Fromm, dall'impulso di avere e non di essere: la maggioranza non sembra in grado di concepire che si possa volere qualcosa ancora più che la felicità e non sembra poter accettare l'idea di veri e propri rinuncie e sacrifici se non in sporadici sogni su altri, secondo le comuni infantili (egoistiche, unidirezionali, istintive) aspettative, pretese o fantasie sul prossimo che emergono nei discorsi o negli atteggiamenti di molti...E ciò affermo pur sapendo che i tre film girati su questa saga sono stati, come si sul dire, campioni di incassi in tutto il mondo. Credo che la maggior parte delle persone possa invece approvare che Tolkien abbia deciso di stemperare nel finale l'angoscia terribile di molte pagine della sua fantasia e della nostra Storia e il pathos della vicenda e di ciò di cui essa è emblema, ma ciò è proprio ciò che probabilmente non approva affatto un lettore davvero onesto quanto sensibile: non tutti potrebbero perdonare a se stessi di concepire il dolore eccessivo come redimibile, riscattabile e quindi accettabile in questa vita o nell'indefinito Aldilà sognato dal cristiano Tolkien... Ammirevole senza duvvio è però la grazia artistica con cui questa leggerezza è ottenuta e la trasfigurazione della tortura viene fatta, perchè è notevole che il canto con cui il cantastorie esalta Sam sul trono dell'eroe al ritorno da Mordor ricordi i fuochi di artificio di Gandalf descritti all'inizio del libro, che quei fuochi magici vengano ricordati in qualche modo almeno al lettore di buona memoria, che perciò tornerà a rileggerli e noterà allora che essi avevano tracciato nel cielo figure rappresentanti alcune delle vicende più significative del libro: il canto degli elfi nella radura e nella casa di Elrond (uccelli dal dolce canto); la primavera fatata,gli elanor, le lanterne, le stelle e la barca di Lothlorien (una primavera sbocciata in un attimo, farfalle tra gli alberi, sfavillanti fiori, falangi di cigni); il Re dei Venti (aquile); l'impresa per mare di Aragorn e forse le emigrazioni verso l'ovest al di là del mare (navi); gli incantesimi con cui Gandalf combatte (tempeste rosse); gli eserciti e forse la marcia degli Ent (foresta di lance); il monte Fato (montagna dalla cima incandescente); gli alleati di Sauron e il suo anello del potere (il drago); il terremoto sul monte Fato dopo la distruzione dell'anello (lo scoppio assordante del drago); la maturazione degli Hobbit e il regno di Aragorn (il pranzo) e il recarsi infine di Frodo e Bilbo e dei portatori degli elfici anelli magici in una terra bella come i sogni (lo speciale pranzo di famiglia). Per chiudere un accenno al personaggio di Gollum: lo strano interesse che Gollum ha sempre avuto per le "origini" fa da contrappeso a quello di Faramir per la storia della civiltà e alla fede di Tolkien negli alti fini della Provvidenza divina, oltre a far pensare al percorso fatto dalla scienza dell'epoca che ha prodotto la bomba atomica (un'arma che sfrutta appunto l'energia delle origini, ovvero degli atomi); bisogna anche considerare, a proposito di Gollum, che l'ostracismo deciso da sua nonna e dalla comunità appare ingiusto sia di per sé (chi resisterebbe alla tentazione di spiare un po' gli altri e di approfittarsi delle scoperte fatte? E il primo suo omicidio è un'azione impulsiva e che attesta che egli era capace di amicizia), ma anche per le conseguenze deleterie per tutti (presso i primitivi, i cui riti e miti attestano una conoscenza dell'inconscio migliore di quella di molti di noi, l'ostracismo era considerato così grave da attirare sulla comunità che lo praticasse gli spiriti maligni e quindi terremoti, alluvioni, epidemie, ecc. e in ogni epoca si sono riscontrate strane corrispondenze nei fatti, oltre che nella narrativa, con questa credenza, quasi fosse qualcosa di più che la trasposizione simbolica di un'intuizione vera). In ogni caso da sempre si è scritto molto sul tema dell'ostracismo: i saggi e le opere letterarie migliori su questa pratica sempre attuale quanto barbara sono testi imprescindibili. Chi poi desideri comprendere anche meglio questo classico della fantasy dovrebbe tener presente che i parallelismi lessicali all'interno del libro sono i mezzi forse più utilizzati dall'autore per esprimere i messaggi più importanti e considerare almeno come il tema dell'invisibilità proprio con questo semplice mezzo retorico viene fin dall'inizio delineato nei due aspetti contrapposti che il segreto, la fuga e la menzogna possono avere: Bilbo si allontana da casa per lo stesso sentiero di Frodo ed entrambi senza rumore "come un fruscio sull'erba" si avviano l'uno a trovare, l'altro a distruggere l'anello del potere che può renderli invisibili; il cappello che Sam indossa mentre si avvia con Frodo lontano dalla contea lo fa "rassomigliare molto a un nano" ovvero a uno degli accompagnatori del grande viaggio di Bilbo; la compagnia degli hobbit, grazie al loro abituale rispetto per la natura, si inoltra nei campi così silenziosa da risultare invisibile come se i componenti fossero "muniti ognuno di un anello magico"; quando, avendo deciso di lasciare gli amici per proteggerli, Frodo scopre che il "suo" segreto non era per loro tale, li apostrofa proprio con la stessa