4. 4
GLI ZAMPOGNARI
E LA ZAMPOGNA
“ZOPPA” TERAMANA
di Nicolino Farina
U
na mattina di domenica mi sveglio al suono di
una nenia che inconsciamente mi riporta a tempi
remoti ma vissuti. La melodia celestiale si fa più
vicina e le pive della zampogna, prima ancora che dalla
mente, sono riconosciute dal cuore. D’un lampo mi ri-
trovo bambino festante correre per le strette vie, incon-
tro due zampognari che, nel gelo intenso della mattina,
annunciano l’imminenza del Natale a tutta la comunità
del piccolo centro storico.
I musicisti pastori, vestiti come quarant’anni pri-
ma, suscitano lo stesso “quadretto”: persiane che si
aprono lasciando scoprire teste canute o ragazzi col
naso spiaccicato sul vetro, porte e finestre che si soc-
chiudono per lanciare qualche offerta.
In modo inequivocabile gli zampognari per noi abruz-
zesi sono legati alla raffigurazione della Natività. Nel
presepio della cultura contadina abruzzese, vicino alla
Sacra Famiglia, sono
sempre posizionati gli
zampognari e il resto
dei pastori con i loro
armenti. Personaggi
misteriosi, gli zam-
pognari rimandano a
tradizioni antiche, a
modi arcaici pastora-
li tipici dell’Abruzzo,
del Molise, della Cio-
ciaria, ma anche del
sud della Grecia, della
Scozia, di alcune aree
iberiche e francesi e di
ogni altro luogo legato
strettamente alla pa-
storizia. Figure quasi
fuori dal tempo, questi
musici transumanti,
vestiti con cappello a
forma di “pan di Zucche-
ro”, corpetto di montone,
pesanti mantelli di lana e
calzari (cioce) legati alla
caviglia con lacci di cuoio,
rimandano a tempi lontani,
vissuti con dignità nella po-
vertà e nell’essenzialità.
L’evento della Natività fu
annunciato per primo alle
persone più umili, ai pasto-
ri; per questo la tradizione
abruzzese e delle terre
della transumanza nel
presepe inserisce imman-
cabilmente gli zampognari.
Per molti studiosi la zam-
pogna è uno strumento ti-
pico del Molise e poi diffu-
sosi sull’Appennino. Nella
realtà l’origine della zam-
pogna è molto vaga, per-
ché poche sono le notizie e
ancora meno gli strumenti
antichi conservati, quali al S. Cecilia di Roma, a Mo-
naco in Germania, a Pittsburgh negli Usa e in Belgio.
La zampogna che è costituita dall’ancia, dal fusto e dal-
la campana che amplifica il suono, in genere si ricono-
sce tipo logicamente proprio da quest’ultimo elemento.
La zampogna ha tutte le canne o bordoni che guardano
in basso. Le canne sono tre più una divenuta muta: due
sono digitate, rispettivamente, con la mano sinistra e la
mano destra, mentre la terza suona libera.
Le cornamuse, usate anticamente anche in Abruzzo
5. 5
(costruite a Piva di Mareto di Avezzano), invece hanno
una canna che guarda in basso, digitata con entrambe
le mani, e tre canne che guardano in alto e suonano
liberi.
Le zampogne italiane, secondo gli studi più recenti,
sono di tre tipologie: quelle dette “Campagnole” con
la campana aperta; quella detta “Avezzanese” ma
fabbricata a Casellafiume (AQ); quella teramana o
cerquetana detta”Zoppa”.
Quest’ultima è stata classificata grazie a quella antica
trovata da don Nicola Iobbi presso uno zampognaro di
Cerqueto, per il museo etnografico, e lo studio con-
dotto, documenti alla mano, da Maurizio Anselmi.
Tale zampogna è detta zoppa perché è priva della chia-
ve (elemento metallico) utile a chiudere un foro così
distante che con il mignolo non si potrebbe. La “Zoppa”
ha un suono più arcaico sia per come è costruita, sia
per la diversa estensione musicale. Essa si costruiva,
almeno a Pretara, Villa Piano, Casale S. Nicola e For-
ca di Valle, paesi dove ancora esistono costruttori e
figli di costruttori.
Per alcuni studiosi e Vito Giovannelli in primis, la zam-
pogna in Abruzzo nasce zoppa e ad Avezzano si evolve
con la chiave.
In origine, infatti, la zampogna è fatta con le sole canne
con un’ancia semplice e priva di campana. Le zampo-
gne evolute invece hanno il bordone conico e l’ancia
doppia.
La zampogna zoppa cerquetana, unica in Europa ha: la
campana aperta; il ceppo (dove si attaccano le canne)
cilindrico e non a tronco di cono; le canne cilindriche
a pezzo unico; le decorazioni non solo sulla campana
ma anche sulle canne a profilo continuo. L’origine della
zampogna cerquetana è sicuramente “lu frecavente”
(il frega vento), simile al flauto di pan (a 4 o 5 canne)
citato anche da d’Annunzio.
6. 6
S
i stanno avvici-
nando le feste
ed anche i nostri
palati sono pronti e
vogliosi di assaporare
tutto ciò che di godu-
rioso porta il Natale:
torroni, pandori, pa-
nettoni, dolci tipici, e
tanto altro ancora. In
questa gran platea di
succulenze potremmo
di sicuro optare, alme-
no in qualche occasio-
ne, per alcune ricette
più leggere e salutari
anche sotto le festivi-
tà. Qualche pietanza
sicuramente bella da
vedere ma anche buona e sfiziosa, ricca di nutrienti e
di sostanze che riescano a deliziare i sensi e renderci,
in egual modo, felici e soddisfatti. In questo articolo vi
parlerò di ricette invernali, naturali e di facile creazione.
Un menù che potremmo
utilizzare per riempire la
nostra tavolata della Vigilia
ad esempio.
Inizieremo con il presen-
tare un antipasto molto
semplice come dei tortini
di segale con una maione-
se di rapa rossa. Un primo
sfizioso: gnocchi di grano saraceno e Saragolla con salsa
di rape e Ferfellone; proseguendo con un secondo colo-
rato di mini burger vegetali; concludendo, infine, con un
tortino integrale di mela e cannella.
Nel particolare vi offrirò queste due ricette:
IL MENÙ VEGETALE
DELLE FESTE
di Roberta Guidi • Chef Naturopata
BURGER DI LENTICCHIE ROSSE
Ingredienti:
• 120 g di lenticchie rosse bio
• Rosmarino
• Olio EVO
• 50 g di pane integrale di farro raffermo
• Farina per polenta istantanea bio
• 1 cipollotto rosso
• Sale integrale q.b.
• Pepe q.b.
Procedimento:
Lessare in poca acqua le lenticchie insieme al cipollot-
to. A fine cottura sciacquare le lenticchie dall’acqua di
cottura e salare. Aggiungete il pane raffermo in pezzi
mentre lasciate stiepidire qualche minuto. Successiva-
mente amalgamare bene unendo olio e pepe. Amalga-
mare con vigore finché l’impasto risulterà pastoso ed
omogeneo. Far raffreddare in frigorifero. Successiva-
mente porre l’impasto su di una tavolozza, formare del-
le palline uguali e schiacciare con le mani o usare un
coppa pasta per creare dei medaglioni che passeremo
nella farina di mais. Rosolare in padella antiaderente
leggermente unta con olio EVO e rosmarino tritato a
fuoco medio. Girare più volte fino a raggiungere la do-
ratura. Tagliare a metà un buon panino, magari fatto in
casa come quello che vedete in foto, e bruschettare leg-
germente la parte tagliata. Disporre la metà inferiore
del panino su un bel piatto da portata e mettere la foglia
di lattuga, il burger, una fettina sottile di daikon ed una
buona cipolla di tropea in agrodolce. Magari terminare
con una maionese di broccoli fatta in casa et voilà. Buon
appetito!
TORTINO INTEGRALE
DI MELA E CANNELLA
Ingredienti:
• 180 g di farina di grano tipo 2 bio
• 50 g fecola di patate bio
• 200 g di mele bio grattugiate
7. 7
di vita alimentare dell’individuo. Di conseguenza inizia
un percorso personale di cambiamento che la porterà
ad un’evoluzione psicofisica che ha voluto condividere
creando, ormai da 5 anni, corsi ed incontri pratici e teo-
rici sulla cucina naturale. Perfezionatasi presso l’Acca-
demia Chefs di San Benedetto cerca di apportare nozio-
ni utili e creatività in cucina, utilizzando prodotti salutari
con maggiore consapevolezza e competenza. Con tanta
passione e, come afferma spesso lei, “con Tanto Tan-
to Amore!”, vuole lanciare il messaggio dell’alimenta-
zione come fonte primaria di prevenzione e benessere.
Ecco perché, ormai da anni, si batte per informare e
lavorare specialmente con i più piccini, organizzando
seminari nelle scuole e corsi per bambini. Docente dal
2017 presso il Polo Formazione Olistica di Chieti e dal
2018 presso l’Accademia Chefs di San Benedetto.
Tel. 339 1542873 • naturoberta@gmail.com
• 120 ml olio semi di girasole
• 1 vasetto di yogurt di riso bio al naturale
• 1 b di cremortartaro bio
• 150 g zucchero integrale di canna bio
• 80 g mandorle bio
• 3 cucchiaini di scorza di limone non trattato o bio
• Un pizzico di sale integrale
• 1 cucchiaio di cannella bio
Procedimento:
in una ciotola mescolare lo yogurt con l’olio, il sale in-
tegrale, la cannella, lo zucchero integrale e la buccia
di limone. In un’altra terrina unire la farina ed il lievito
e mescolare bene. Mischiare i composti ed aggiunge-
re la mela grattugiata e le mandorle precedentemente
tritate. Foderare gli stampini per muffin alti con i pirot-
tini e versare il composto a cucchiaiate riempiendoli a
metà circa. Infornare in forno preriscaldato a 180 gradi
per circa 30 minuti. Una volta freddi potreste tagliarli a
metà e riempirli con una deliziosa marmellata di mele
fatta in casa o con una crema pasticcera delicata.
BIOGRAFIA IN BREVE:
Roberta Guidi si forma come Naturopata all’Istituto di
Medicina Naturale di Urbino presso la Scuola Italia-
na di Naturopatia. Diplomata con il massimo dei voti
diventa referente abruzzese dell’IMN e, annualmente,
organizza seminari e conferenze sulla medicina natu-
rale, sulla salute e sul benessere della persona a 360
gradi. Le sue competenze nel settore spaziano dalla
floriterapia alla fitoterapia, auricoloterapia, moxibustio-
ne, riflessologia, consulenza individuale, intolleranze
alimentari. Ma sin dagli esordi, si proietta verso la cura
della cucina dando quindi spiccata attenzione allo stile
8. I
maggiori scultori abruzzesi della seconda metà del
Quattrocento, come Silvestro dell’Aquila, Giovan Fran-
cesco Gagliardelli, Giovanni di Biasuccio, Giovannanto-
nio da Lucoli, Paolo Aquilano e Saturnino Gatti, a passo
con i tempi, non disdegnarono di plasmare la creta, por-
tando le statue di terracotta a un livello di eccellenza,
fino ai primi decenni del Cinquecento, appoggiandosi
alle botteghe e ai forni degli artigiani figuli che con la
loro esperienza garantivano la buona riuscita dell’opera.
Nelle botteghe di Nocella, già alla fine del Quattrocento,
dovettero operare alcuni grandi maestri dell’arte scultorea
abruzzese. Gli artigiani figuli camplesi, infatti, utilizzavano
dei grandi forni capaci di raggiungere temperature di al-
MADONNE E SANTI
DELLA SCUOLA
FIGULA DI NOCELLA
di Nicolino Farina
meno 1200 gradi centigra-
di (molto adatti a cuocere
le statue costruite con un
forte spessore di creta).
Queste rare “fornaci” e
l’esperienza degli artigiani
nocellesi erano una ga-
ranzia. Silvesto dell’Aquila,
autore a Campli della “Ma-
donna dei Lumi”, statua
lignea datata 1495, doveva
conoscere le botteghe di
Nocella, così come molti
suoi allievi che operavano
nel territorio limitrofo a
Campli.
Attraverso gli insegna-
menti “carpiti” a questi
valenti artisti, i maestri
artigiani di Nocella co-
minciarono a produrre
autonomamente le statue votive, pressati magari dalle
committenze delle comunità parrocchiali dei piccoli borghi
agricoli dei dintorni che non potevano permettersi l’onora-
rio dell’artista di fama.
Probabilmente, però, le maestranze nocellesi, non digiu-
ni di modellatura plastica cominciarono a sperimentare
i modelli statuari semplicemente per dimostrare la loro
capacità professionale, magari per impreziosire di opere
d’arte la loro rinomata abbazia benedettina.
La versatilità e la duttilità della creta e l’uso della policro-
mia permetteva di raggiungere una vivacità espressionisti-
ca e una varietà descrittiva accattivante per il popolo dei
fedeli. La produzione nocellese, quindi, ha un indirizzo
popolare che soddisfa la gente contadina e collima con le
capacità artigianali dei “vasari” camplesi. Incentrati sui
principi artistici, i caratteri formali e le tipologie codifica-
ti in ambiente aquilano, i figuli di Nocella costruivano le
grandi statue votive perpetuando questi concetti artistici,
praticamente senza nessun cambiamento o influsso di al-
tro canone culturale, per circa 250 anni, vale a dire fino a
quando cesserà la loro produzione statuaria.
Per esempio non tennero conto della scuola scultorea na-
poletana che sviluppava il senso di patetismo, l’aspetto di
gracilità delle figure accentuato dall’andamento fluente e
lineare delle figure.
8
9. I figuli di Nocella costruiranno le loro Madonne sempre
secondo i canoni espressivi rinascimentali della scuola
scultorea abruzzese: quasi sempre riusciranno a carat-
terizzare il complesso statuario con una situazione psico-
logica di differenza tra l’atteggiamento della Madre e del
Figlio. La Madonna appare sempre poco appariscente,
seduta su un “trono”, raramente di effetto scenografico, e
immersa nel gesto sacrale dell’adorazione o della preghie-
ra. Confinata nello spazio, definito dalla forma piramidale
dato dalle vesti poggianti a terra e dal manto tenuto in te-
sta, la Madonna appare ferma,
distaccata, un’icona semplice e,
nello stesso tempo, grandiosa.
Il Bambino sulle sue ginocchia,
seduto, sdraiato o in piedi, inve-
ce, è sempre raffigurato in un
atteggiamento vivace, accatti-
vante e umano.
Con l’era dell’illuminismo e
l’esaltazione del Barocco della
prima metà del Settecento, le
chiese si riempirono di stucchi,
altorilievi e statue di gesso dalle
movenze ardite e “spettacolari”.
A Nocella, da questo momen-
to, non si producono più grandi
statue.
Oggi a Campli si conservano
ancora numerose statue in
terracotta di Nocella. Madonne
in trono con Bambino (spesso
mancante) se ne trovano nel-
le chiese di. S.Maria in Platea
(proveniente dal convento di S.
Bernardino), S. Francesco (re-
sti), S. Giovanni in Castelnuo-
vo, S. Antonio Abate a Piane di Nocella (resti), S. Pietro in
Campovalano, S. Maria a Guazzano, S. Maria ad Venalis
di Roiano, S. Antonio Abate di Garrufo, S. Gennaro di Col-
licelli, S. Michele Arcangelo di Pastinella, Madonna del
Soccorso di Fichieri, S. Maria Assunta di Campiglio. Oltre
le statue di santi nelle chiese di: S. Francesco (due), S.
Maria della Misericordia, S. Antonio Abbate di Garrulo
(due), S. Gennaro di Collicelli, S. Liberatore di Villa Ca-
mera. Senza contare le numerose statue presenti nelle
chiese della provincia limitrofe al comune di Campli.
9
10. 10
Incontri al “Premio Di Venanzo”
LA BELLEZZA DELLA
POSSIBILITÀ
OSSIA IL CINEMA
di Erminia Gullo
R
ecentemente la città di Teramo mi ha ospitata e cul-
lata per il Premio Gianni Di Venanzo, di cui conservo
un ricordo bellissimo. Quando Patrizia Manente mi
ha chiesto di scrivere un articolo per questa rivista, pen-
savamo di proporre qualcosa che riguardasse il cinema.
Quel che mi viene però difficile, in effetti, nonostante me
ne occupi giornalmente, è proprio scrivere di cinema;
non voglio tediare voi lettori su una qualsiasi recensione
o discorso su questa meravigliosa arte. Sarebbe come
avere la pretesa, o forse anche presunzione, di parlare di
qualcosa che è quasi impossibile da esprimere se non per
immagini.
Jean Epstein, grandissimo regista, e teorico della settima
arte, rende con le sue parole fotografia perfetta di quel che
intendo dire e che riporto con piacere: “Le parole slittano
come saponette bagnate intorno a quello che si vorreb-
be dire. Una sera una amico volendomi spiegare tutto
troppo esattamente, di colpo sollevo due volte le braccia
in aria e non disse più niente. Gli ho creduto, come al-
tri sulla parola, io, su quel mutismo stanco. Sulle linea
dell’interlocuzione le interferenze dei sentimenti inat-
tesi ci interrompono. Resta tutto da dire, e si rinuncia
stremati. Allora lo schermo illumina il suo silenzioso
cielo altoparlante. Sicurezza di questo linguaggio che un
occhio quadrato scorre crepitando…”.
Quel che mi interessa sottolineare di questo scritto è l’im-
portanza che riveste la potenza dell’immagine. Non che
l’immagine cinematografica non sia anch’essa un “lin-
guaggio” e quindi - come ogni linguaggio - strutturata se-
condo regole e codici, ma questi codici in alcuni casi, pos-
sono essere sostanzialmente “infranti” e resi propri nella
possibilità immaginifica o di estrema meraviglia che por-
tano con sé. In molti casi, strutturare tali immagini in un
pensiero univoco o preciso, rompe tutta la magia di quello
che è il cinema. Di quello che per me è il cinema. E allora,
soprattutto oggi, non importa che sia la sala cinematogra-
fica a far godere dell’immagine. Quel che importa, quello
di cui non si può fare a meno, è continuare a sognare in
qualcosa di possibile. Di possibilità del senso. Dei sensi.
Proverò a farvi “vedere” quello che intendo facendo riferi-
mento a una fotografia “viva”: l’ultima sequenza di un film
straordinario di Luchino Visconti, Morte a Venezia (1971),
tratto da un racconto di Thomas Mann. Non dirò certo il
contenuto, perché mi auguro che chi non lo avesse ancora
visto possa recuperarlo in queste feste natalizie. Lo splen-
dore di questa sequenza sta anche nella posizione della
cinepresa: la bellezza è immortalata dall’obbiettivo. Attra-
11. 11
verso la soggettività del proprio sguardo. Dove ogni dogma
viene distrutto secondo quella che è la percezione del pro-
prio io. La cinepresa si fa occhio nell’occhio: è guardata da
chi sta guardando e da chi è guardato. Non vi è nessuna
morale in questo sguardo, se non il tripudio della carnali-
tà della bellezza. Il colore del trucco che vediamo scolare
sul viso del protagonista (Aschenbach, interpretato da un
immenso Dirk Bogarde), non ha come solo significato la
decadenza del suo stato fisico e artistico, ma è anche la
testimonianza che ogni organismo vivente, fin dalla sua
origine, non ha fatto altro che produrre dell’artificiale (il
cui significato etimologico è “fatto con arte”). L’artificiale
non è che il segno, il risultato, la traccia dell’interazione
fra ogni organismo vivente e il mondo fenomenico che lo
circonda. Il tentativo di fermare il tempo di Aschenban-
ch, l’imbellettarsi, non ha nulla di non “naturale” per
raggiungere la “bellezza naturale”; nulla di “naturale”
contro “l’artificiale”, ma è semplicemente l’artificiale
che nel volgere del tempo tende a ricadere nel “grado
zero” della natura e ad essere quindi considerato come
naturale. Ciò che percepiamo come “naturale”, appunto,
non è altro che il frutto di cambiamenti continui che se-
condo le epoche, le convenzioni imposte, l’essere sociale,
muta - in parte o del tutto - il suo significato e significan-
te. La perfezione a cui anelava Aschenbanch, quindi, è un
costrutto, e l’arte non può prescindere dall’artifizio. Sen-
za nessuna accezione negativa. Così il trucco che cola di
fronte al tramonto è la nascita di una consapevolezza mai
avuta, è la fine di ogni dogma imposto. È il risultato sof-
ferto di una ricerca, di una scoperta che non ha nessuno
scopo, nessun mezzo, se non la bellezza come fine. Ossia:
l’arte e la sua visione immortalata anche in senso diegeti-
co dalla macchina da presa.
E se con questo elogio dell’immagine viscontiana anco-
ra non vi avessi convinto a guardare o riguardare questo
straordinario film, vi racconto un altro aneddoto al quale
la vostra curiosità non può avere scampo. La grande Sil-
vana Mangano metteva una clausola ad ogni suo contrat-
to cinematografico come attrice. “Se è Luchino Visconti a
chiamarmi perché ha bisogno di me per un suo film, io
lascio tutto e corro da lui”.
Questo breve assaggio di arte Viscontiana ci fa toccare con
mano quella che è la
possibilità dell’im-
magine. Il potere che
ogni spettatore può
avere nell’approc-
ciarsi al testo filmico
senza nessuna forma
di pregiudizio e gode-
re, appunto, dell’arte
che non è altro che
smembramento di
sensi, tuffo nel pos-
sibile.
Buona visione.
12. 12
Antonio Capuani, revisionata e traslata in vernacolo
teramano da Angelo Del Sordo, che ne cura la regia.
Il cast è composto da attori amatoriali (alcuni già af-
fermati nel settore e altri alla prima esperienza, dando
vita ad un mix di simpatia ed allegria). Con Elisa Cia-
panna (anche nel ruolo di vice presidente dell’asso-
ciazione), Lucia Ognibene, Angela Serafini, Massimo
Lupino, la giovanissima Agnese Del Sordo, figlia della
scomparsa Antonella, da cui prende il nome la compa-
gnia. Nel gruppo anche Francesco Pascucci, i musicisti
e compositori di musica popolare folk di fisarmonica
diatonica (dubotte) Franco Flamminj e Mauro Del Sor-
do, Maurizio D’Ignazio (in arte meglio conosciuto come
il Mago Popetti), volontario di clown terapia presso il
reparto di pediatria dell’ospedale Mazzini di Teramo.
L’intero cast ha esordito per la prima volta nel mese
di maggio ultimo scorso, al teatro Marrucino di Chieti
partecipando all’omonima rassegna di teatro dialet-
tale, in occasione dei festeggiamenti del Bicentenario
dalla fondazione del prestigioso teatro storico d’Abruz-
zo, ricevendo consensi e apprezzamenti da parte del
numeroso pubblico in sala. Dal fortunato debutto, la
compagnia è stata invitata a partecipare a numerose
rassegne in altrettante strutture teatrali d’Abruzzo per
il 2019, e replicherà il 27 gennaio alla rassegna dialet-
tale 2° trofeo FITA di Pescara, il 17 febbraio a Giuliano-
va in favore dell’ANPS sezione di Teramo (Associazione
Nazionale Polizia di Stato), il 3 marzo al teatro Di Iorio
di Atessa in occasione della stagione di teatro dialetta-
le, e per la prima volta I SESTINI debutteranno davanti
al pubblico amico il 24 marzo presso il teatro comu-
nale di Teramo in chiusura della rassegna di teatro
dialettale 1° trofeo FITA Teramo.
Associazione alla memoria di Antonella Sesti
A TEATRO
CON “I SESTINI”
di Lucia Ognibene
L
a compagnia teatrale “I Se-
stini” nasce nel giugno 2017
all’interno dell’Associazione
‘’Cultura e Vangelo’’ di Villa Mo-
sca, costituitasi nell’anno 2007.
Il teatro dialettale rappresenta la
principale attività e prende il nome
in ricordo di Antonella Sesti, pre-
maturamente scomparsa nell’ago-
sto del 2003 dopo una grave malat-
tia. Fondatori della compagnia sono
Angelo Del Sordo e Lucia Ogni-
bene, della quale sono presidente
e consigliera, orientando l’attività
teatrale verso il genere comico-dia-
lettale. La compagnia è composta da
persone che otre alla passione per il teatro, condivi-
dono valori di amicizia, cordialità e generosità, inne-
scando una vera e propria complicità al fine di donare
un momento di serenità al proprio pubblico. Cavallo di
battaglia della compagnia è la commedia comico bril-
lante “N’upirazione a la banche e une a l’uspidale“di
Angelo Del Sordo
14. 14
TERAMO
TRE SECOLI DI TEATRO
di Elso Simone Serpentini
I
l Teatro Comunale di
Teramo, costruito su
progetto dell’archi-
tetto teramano Nicola
Mezucelli e inaugu-
rato nell’aprile del
1868 con Un ballo in
maschera di Giuseppe
Verdi, aveva conosciu-
to splendide stagioni
liriche e di prosa, di
operette e di varietà,
con la partecipazio-
ne dei più grandi in-
terpreti e artisti, ma
anche periodi assai
meno felici, nei quali era rimasto chiuso a lungo, fino
a quando non era stato adibito in prevalenza a cine-
matografo. La manutenzione era diminuita sempre di
più e la struttura ne aveva fortemente risentito, depe-
rendo quotidianamente a vista d’occhio.
Portava assai male la sua età e non si presentava
certamente negli anni ‘50 in ottime condizioni. La
struttura era visibilmente sofferente nei pavimenti,
nei corridoi, nei palchi, nei tendaggi, nelle poltrone e
in altri arredi. La scarsa manutenzione e la frequen-
tazione di spettatori piuttosto irriverenti delle serali
proiezioni cinematografiche avevano prodotto guasti
rilevanti, ai quali si prometteva sempre di riparare,
senza però farlo mai.
Affidato in gestione a privati, il Comune se ne disinte-
ressava da tempo. Anche l’opinione pubblica era in-
differente alla sua sorte e al suo crescente degrado.
Non ci fu perciò quasi nessuna reazione alla propo-
sta, prima timida e poi sempre più caldeggiata, di un
totale abbattimento, per far posto ad un nuovo mo-
derno cinema-teatro, ma soprattutto, al piano terreno
del nuovo edificio, ai grandi magazzini a prezzo fisso.
Teramo voleva dimostrare a tutti i costi di non esse-
re una “città morta” ed era presa da una crescente
“ansia del nuovo”, da un desiderio di modernità di cui
l’avvento della Standa, in nome del quale il vecchio
Teatro dell’Ottocento venne sacrificato, fu per tutti il
simbolo più evidente.
Una “sapiente” campagna di stampa, una pervicace
ostinazione degli amministratori, una totale disatten-
zione ai valori storici e culturali della vecchia struttu-
ra da parte dei cittadini, dei politici e degli intellettuali
del tempo, portarono alla decisione di un abbattimen-
to sul quale oggi ci si interroga e ci si rammarica.
Martedì 1° dicembre 1959 Il Messaggero dava la noti-
zia che il sindaco Carino Gambacorta, con accanto il
ministro Giuseppe Spataro, aveva dato il primo colpo
di piccone per la demolizione del Teatro. Si verificava
quindi quanto lo stesso giornale aveva scritto il 16 di-
cembre 1958: “solo il piccone” poteva risolvere il pro-
blema del Teatro Comunale, un locale che, per le sue
sedie sgangherate e i suoi pavimenti sconnessi, era
antigienico ed inadatto a poter ospitare il pubblico di
una città e andava senz’altro chiuso.
Il Cinematografo arri-
vò a Teramo la sera di
sabato 1° maggio 1897.
A portarcelo fu il sig.
Meoli, che lo presentò
nel Teatro Comunale
come “Cinematografo
Edison”. Furono pro-
iettati, come riportava
il Corriere Abruzzese
mercoledì 5 maggio,
il Treno che arriva
in stazione, Una ma-
damigella al bagno e
L’Arrivo dello Zar a
Parigi.
La Provincia di Teramo di domenica 2 maggio 1897
scrisse che per diverse sere era accorsa una gran
folla per assistere ad uno spettacolo nuovo che incu-
riosiva, ma che non era mancata la delusione, nono-
stante che, chi avesse assistito alle proiezioni in altre
città, ne dicesse “mirabilia”. Sia che la macchina non
fosse buona, sia che lo schermo fosse troppo piccolo,
o la luce insufficiente, il pubblico era rimasto insod-
disfatto e aveva accolto lo spettacolo con urli e fischi
clamorosi.
Il Corriere Abruzzese di mercoledì 12 maggio scrisse
invece di “esperimenti riuscitissimi”, nonostante un
certo tremolio, che però non era stato maggiore che
altrove. Alle proiezioni aveva assistito anche una nu-
merosa schiera di studenti liceali, accompagnati dal
loro docente di fisica, prof. Francescantonio Pieri-
boni, il quale aveva loro spiegato i principi fisici della
cinematografia.
In questo libro vengono ricostruite con dovizia di par-
ticolari e con estrema cura dei dettagli le successi-
ve fasi della crescente affermazione a Teramo dello
spettacolo cinematografico, scandite dalle prime pro-
iezioni al Teatro Comunale della Compagnia Italiana
di Specialità ed Elettricità Illusioni Ondiali del prof.
Vittorio Merci-Pinetti, a quelle del Grande Cinema-
tografo Europeo di Giuseppe Dacomo, che piazzava il
suo cinema ambulante in piazza della Cittadella, a
quelle di un altro cinema ambulante, del sig. Mura-
tori, che allestiva il suo tendone nella stessa piazza,
e poi, finalmente, dalla inaugurazione di due locali
stabili.
Il Cinematografo Eden fu inaugurato da Giustino Bo-
nolis e “Cucuccio” Rolli nell’ottobre 1909. Il Cinema
Teatro Apollo fu inaugurato da Domenico Vanarelli
e Paolo Cugnini la sera di sabato 14 dicembre 1912.
La concorrenza fra i due locali portò ad un continuo
15. 15
miglioramento dell’offerta cinematografica, che si ar-
ricchì del frequente arrivo di primarie compagnie di
rivista, dei fasti dell’avanspettacolo e dell’avvento del
cinema sonoro, che arrivò a Teramo la sera di giovedì
11 dicembre 1930.
Anche durante gli anni delle due guerre mondiali e
delle ricostruzioni post belliche i teramani non tradi-
rono mai il loro grande amore per il cinema.
Dorotea Monti, bolo-
gnese, celebre e affa-
scinante, fu la prima
donna di teatro per
la quale impazzirono
i teramani. Essi la vi-
dero per la prima volta
e se ne innamorarono
tutti nel Carnevale del
1792, quando fu solen-
nemente inaugurato il
Teatro Corradi. A lei
furono dedicati inni e
versi, sciolti e in rima
baciata. Sotto le sue
finestre si alternavano
legioni di corteggiato-
ri, le si inviavano fiori e messaggi.
Da quella lontana stagione di fine Settecento, si alter-
narono sul palcoscenico del Corradi grandi rappre-
sentazioni di opere liriche e notissimi interpreti, fino
a quando, deperita nel tempo la struttura di un tea-
tro privato che i proprietari non erano più in grado di
rinnovare, Teramo riuscì ad avere, dopo vari tentativi
andati a vuoto e grandi sacrifici, un teatro pubblico,
il Comunale, inaugurato in pompa magna la sera di
sabato 20 aprile 1868 con Un ballo in maschera di Do-
nizetti e Maria di Rohan di Donizetti oltre a due Balli
fantastici di Ettore Barracani.
In questo libro Serpentini, dopo aver dedicato un pri-
mo volume alla storia delle proiezioni cinematografi-
che a Teramo, racconta quelle delle rappresentazioni
di opere liriche, verso i quali i teramani hanno mo-
strato sempre grande interesse e sicura passione.
Si susseguono anni grandiosi e stagioni più magre,
con ricorrenti difficoltà economiche e organizzative,
grandi allestimenti con i più celebrati artisti del canto
lirico del proprio tempo, e spettacoli più modesti con
ampie parentesi grigie in cui il Comunale rimaneva
chiuso, e il “bel canto” sembrava irrimediabilmente
scomparso.
Con puntualità certosina, il volume ricostruisce anno
per anno e mese per mese i vari allestimenti, con un
ricco corredo di note che illustrano l’importanza e i
dettagli della carriera artistica dei tanti interpreti che
hanno calcato i palcoscenici teramani: quello del set-
tecentesco Teatro Corradi, quello dell’ottocentesco
Teatro Comunale (fino al suo abbattimento, avvenuto
nel 1969) e del nuovo Cine Teatro Comunale che prese
il suo posto, quello del Cinema Teatro Apollo.
Il volume si spinge nella sua ricostruzione storica fino
al primo decennio del Duemila, quando il teatro lirico
a Teramo è caratterizzato da esigenze e da caratteri-
stiche del tutto nuove e diverse in una realtà sociale,
economica e culturale completamente differente.
La prima rappresen-
tazione in prosa di
cui si ha notizia come
certamente avvenuta
in un teatro terama-
no, che però non si
sa bene quale fosse
né dove fosse collo-
cato, risale alla sera
di domenica 12 giugno
1768. Andò in scena
la festosa commedia
intitolata l’Amar da
cavaliere ossia la Do-
ralice, di Francesco
Cerlone, per la deco-
razione della scena e
“per l’illuminazione a spese del Preside, riuscita
assai dilettevole”. Da quella sera si ebbero a Teramo
magnifici allestimenti e altri meno attraenti, che si al-
ternarono agli spettacoli lirici e a quelli di varietà, pri-
ma nel Teatro Corradi, sorto nel 1792, e poi nel Teatro
Comunale, inaugurato la sera di sabato 20 aprile 1868.
Successivamente, si ebbero ottimi spettacoli di prosa
prima all’Arena Carboni, aperta nel maggio 1880, poi
al Cinema Eden, quando, a partire dall’aprile 1910, non
si limitò più a proporre proiezioni cinematografiche e
diventò anche teatro, e infine al Cinema Teatro Apollo.
Hanno calcato i palcoscenici dei teatri teramani quasi
tutti i più grandi artisti del teatro di prosa (meno la
celebre Adelaide Ristori, ma non escluse le sue più
grandi rivali), i più noti interpreti e le primarie com-
pagnie, oltre ad un esercito di filodrammatici locali,
posto che l’amore per il teatro, sia pure con grandi
fiammate che a volte si spegnevano rapidamente per
altrettanto rapidamente riaccendersi, è stato nel cor-
so dei decenni sempre grande. L’interesse del pubbli-
co, e perciò anche l’affluenza in teatro, hanno risenti-
to a volte di periodi di “magra”, a volte coincidenti con
momentanee difficoltà organizzative e scarse dispo-
nibilità economico-finanziarie degli impresari, locali
e forestieri. Ma in genere si può dire che la quantità e
la qualità degli spettacoli sono state sempre di gran-
de livello. Sono state rappresentate le più note opere
del repertorio nazionale e internazionale, sono stati
acclamati i più grandi artisti.,
In questo volume, che segue ai suoi precedenti lavori
sull’abbattimento del Teatro Comunale (Solo il picco-
ne), sul cinematografo e sul varietà (Teramo e il ci-
nematografo) e sul teatro lirico e di operette (Teramo
e il teatro lirico), Serpentini ci propone un’avvincente
cavalcata che, partendo dal ‘700 e arrivando fino ai
giorni nostri, costituisce una particolareggiata e det-
tagliata ricostruzione di quasi tre secoli di teatro di
prosa a Teramo.
16. 16
CESIRA
ARTISTA DEL PANE
di Patrizia Manente
C
esira Pinciotti,
ovvero la “regi-
netta del pane
e dei dolci naturali”.
Teramana-doc con
genitori montorie-
si, fin da piccola ha
sempre avuto una
grande passione per
la musica e il canto,
tramandata dal pa-
dre, suo compagno
nei duetti in famiglia.
A sette anni già can-
tava come solista nel
coro della parrocchia
e fra le voci bianche
del paese. Quindi-
cenne appena, entra
come mezzo soprano nella storica Corale Beretra diretta
dal maestro Manlio Patriarca. A diciassette anni supera
l’esame di ammissione presso il conservatorio Casel-
la dell’Aquila ed inizia i suoi studi di canto lirico, ma poi
prosegue gli studi con insegnanti privati. Per molti anni
continua lo studio del canto con esibizioni in diversi posti
in Abruzzo e fuori. Poi, viene improvvisamente presa da
un’altra grande passione: la cucina. Sua madre, grande
donna e cuoca eccellente, non le lascia spazio, ma Cesi-
ra, per apprendere, scruta di nascosto tutti i suoi segreti
di cuoca provetta. All’età di ventotto anni, Cesira si spo-
sa dopo un lungo fidanzamento e finalmente conquista
una cucina tutta per sè. Dove mette in pratica quanto ha
appreso da sua madre. Tra una ricetta e l’altra inizia ad
appassionarsi alla panificazione naturale. Una passio-
ne che la prende totalmente, tant’è che inizia uno studio
per affinare quella tecnica, frequentando corsi con gran-
di maestri nazionali ed internazionali. Passano gli anni e
l’amore per l’arte del pane cresce sempre di più, fino a
decidere di aprire il blog “Cucinar cantando con Cesira”.
Dove raccoglie le sue ricette, condivide le conoscenze e
insegna ciò che sa, riscuotendo un notevole successo. In
tanti scoprono il suo talento e, contattata da diverse scuo-
le di cucina, dove tiene corsi di panificazione, pizza e dolci
della tradizione. E basta citarne uno per tutti: i famosissi-
mi “Bocconotti montoriesi”.
18. 18
GABRIELE RUGGIERI
E I SUOI RACCONTI
IN VERNACOLO
G
abriele Ruggieri, nato a Teramo, il 26 febbraio 1958,
risiede a Villa Vomano. Ha conseguito la maturità
Tecnico Industriale nel 1976, indirizzo che gli ha
permesso di avere un’attività nel settore Termotecnico
da quasi quarant’anni. Per lavoro ha girato gran parte
del territorio della provincia di Teramo, entrando in mol-
te case e a contatto con diverse realtà, anche artigiane
e artistiche locali. Attraverso i racconti degli anziani, la
memoria storica dell’Abruzzo, ha conosciuto usanze e
tradizioni dei nostri paesi, ha ascoltato tanti dialetti e
ha sviluppato la passione che si porta dentro. L’interes-
se per il dialetto nasce con il desiderio di raccontare il
passato, attraverso le storie e i suoni del suo tempo. La
passione per le tradizioni, il fascino dell’antico non sono
sentimenti nuovi per Gabriele, ma già presenti dentro di
lui da diversi anni ed in parte espressi in altri ambiti. La
scelta di raccontare attraverso il dialetto le nostre sto-
rie, le nostre tradizioni è motivata da un presupposto di
sua convinzione, ossia quello di accorciare le distanze
e i tempi emotivi, mettendo il lettore al centro del rac-
conto, consentendogli di entrare in intimità con la storia
che sta leggendo, ritrovando un linguaggio familiare,
fatto di suoni che inducono ricordi, suscitando emozioni
immediate. La stesura dei racconti sperimenta la scrit-
tura della lingua abruzzese, avvalendosi della lettura di
autori in vernacolo, seguendo le indicazioni del padre
della scrittura del dialetto teramano, lo studioso e lin-
guista Giuseppe Savini, e del suo saggio di grammati-
ca. Ha constatato che se non si ha dimestichezza con le
letture dialettali, il primo approccio non dà un risultato
soddisfacente, perché si tende a pronunciare le parole
come nella lingua italiana e questo genera la sensazio-
ne che il testo sia incomprensibile o che sia stato scritto
male. In realtà il nostro dialetto ha suoni diversi dalla
lingua Italiana, le vocali possono essere aperte, chiu-
se, tendenti verso il suono di un’altra vocale, indistin-
te ecc. Riprodurre graficamente ogni singolo fonema
renderebbe pesante il testo, pertanto si lascia al let-
tore il compito di prendere dimestichezza e dare alla
parola il suono a lui più familiare. Dopo poco tempo si
acquisisce una padronanza della lettura del vernaco-
lo e in automatico si abbina alla parola la pronuncia
dovuta. Un sistema valido è quello di rileggere più vol-
te dove necessario, per dare la giusta interpretazione
ai dialoghi e comprendere il significato delle parole e
quindi pronunciare con la propria inflessione dialettale.
Esercitazione utile anche come ricerca, per valutare il
sistema di scrittura, dare suggerimenti ed esprimere
un giudizio.
Lu Meràcule de lu ponde
Com’arcundàve màmme, hàsse ere ‘na giuvenettâlle,
tenave ‘na quindicina d’anne, abbetave de llà da lu pon-
de “Val Vomano”, lo a la massarìje de lu prèdde, vicine
a lu muline. Ere ‘nu sàbbete a matine e accumbagnave
Renata la cugnata so’ che tenave d’arpartì pe’ Rome.
La fermate de lu puštale štave anninze a la candine de
Medee, vicine a lu ponde. Ere appâne arrevite lò a la
fermate, avave appujte la rrobbe che purtave, quande
passò n’òmmene a cavalle; a lu trotte, nen currave assì.
A ‘lli jurne pe’ ‘lla štrade passave ‘na machene ogne
tande, ‘nu cavalle ogne tande e ce se faciave case quan-
de vedìje cacchedùne. A metà ponde lu cavalle argerò,
arvenne arrete e poche dope arpassò n’andra vodde, lu
deštine vulave alluscì. Da la parte oppošte venave ‘nu
puštale piane de ggende, a mmezze ponde lu cavalle
se ‘mbezzarrò, sbattò condre lu puštale e vulò sotte
a lu fiume ‘nghe l’òmmene su sopre. Lu pustale sfun-
nò lu parapette e armanò ‘mbìliche ‘ncime a lu ponde,
mezze dandre e mezze fore. Lu cavalle che cascò de
sotte murò subbete, l’òmmene ere vive, fu purtate a lu
spedale, ma dope mbu’ de mise de sufferenze, murò
pure hàsse; s’ere rotte la šchjne.
Li passeggire ere de Chijte e jave ‘mpellegrinagge a
San Gabbrijele, ‘llu mumende de l’imbàtte tutte quinde
‘nvucò lu sande, tutte quinde prehò San Gabbrijele che
ie facesse la grazzie che nni facesse cascà ju sotte a lu
fiume. Lu Puštale se fermò jušte ‘ntembe, come se ‘na
mane avesse frenate la corse, ci fu ‘nu pàneche gge-
nerale, pe’ calà ruppò pure li vìtreje, la paure ere tan-
de, lu ponde se ‘mbijò de gende che se desperave, ere
tutte vive, sole mbu’ de ferite e tanda paure; quande li
19. 19
passeggire s’arpijo da lu štupore, se rendò conde tutte
quinde che San Gabbrijele j’avave fatte la grazzie.
Ere lu diciotte Settembre de lu 1937, l’autiste ere Vittorio
Orsini, ‘nu ggiovene de vendesett’anne, venave da Chie-
ti, da lu quartire Sand’Anne, ‘nghe lu puštale piâne de
ggende derette a lu Sanduarije, avave appane ‘mbucca-
te lu ponde de Sora Pasqua quande succedò l’inciden-
de, l’imbatte ‘nghe lu cavalle je fece perde lu cuntrolle
de lu mezze. San Gabbrijele l’aiutò.
Da ‘lla vodde tutte l’hìnne, prime ‘lla cumetive e mò
li generazione successive li fije o li nepute, lu diciotte
Settembre, ‘nghe lu puštale va ‘mpellegrinagge a lu
Sanduarie de San Gabbrijele, repercurrenne la štessa
štrade che fice lu jurne de lu meràcule.
A lu 1966, ‘nghe l’inderessamende de Don Arduino
Pompei parroco di Villa Vomano, a l’inizie de lu ponde fu
innalzate ‘na štàtue de San Gabbrijele de l’Addullurate
a ‘memorie de lu Meràcule.
L’Autište Vittorio Orsini, fine a l’anne prime che mures-
se, ossie fine a lu 1999 e lu nepote dope, ha cundenuite
‘lla tradizione. A lu repasse da lu Sanduarije, se farme
tutte la cumetive a Villa Vomano sotte a la štatue de
San Gabbrijele, a l’imbocche de lu ponde pe’ unurarle
‘nghe ‘na prehìre e depone ‘nu mazze de fiure.
Li jurne de la merle
‘Na vodde, tande tembe fa, jennare ere lu mâse cchjù
furte dell’anne, ere ‘llu cchjù vìcchie, tenave la bbarva
longhe e li capille tutte bijnghe; cummannave simbre
hàsse e tutte quinde lu chiamave “lu generale”, ere tan-
de putende e permalose che se ‘ngazzave pe’ lu sci e
pe’ lu no.
Ogne vodde che cacche cose je jave šturte, se l’appejave
‘nghe lu monne ‘ndire, jacciave li laghe, gelave li fusse,
‘ccedave li lemane, frâdde, nâve; li maletìmbe te li fa-
ciave capà.
Ma lu tembe passave pure pe’ hàsse e cumenciave a
perde li forze, li luddeme hìnne s’ere abbijte a calmà;
lu frâdde ere suppurtabbele, tand’è che li cìlle fredduse,
che durande l’immerne jave jù a li pahìse cchjù chille,
cumengiò abbetuarse e ‘nze ne jave cchjù.
La merle ere nu cèlle bianghe ‘nghe lu bbecche gial-
le, ere abbetuate a li mattetà de jennare, ma lu tema-
ve, peccà patave lu frâdde, tenave ddo hammâtte sìcc-
he-sìcche e quande faciave lu frâdde assì, je se jacciave
li pite. Ogne vodde che fenave lu mase de jennare, la
merle mettave a fešte, svulazzenne e ciuffulenne pe’
li fratte e li cambagne. Ultemamende s’ere accorte ca
jennare perdave li forze e abbìjo a ‘ndicipà li festeggia-
minde, quasce a sbeffeggiarle.
A jennare ‘ngne tande calave che la merle facesse la
svâlde, ere simbre hàsse lu “generale de l’inverne”, ‘llu
cchjù furte; pretendave rispette e je tenava da’ ‘na lezio-
ne pe’ armattela ‘n righe, ma ormaje li jurne je štave a
finì … a ‘lli timbe, jennare tenave vendotte jurne.
Prime che je scadesse lu tembe, jo da febbraje che ere lu
cumbare a su’ e se scagnave li piacire, je disse: «Combà,
me serve ddo-tre jurne, ‘ca tinghe da fa’ ‘nu despette a
‘nu cèlle». Combà! jaspunnò febbraje , pìjete chille che
te serve, tra de noi vi vedenne! E se pijò tre jurne.
‘Nghe ‘lli tre jurne jennare, pe’ da’ ‘na lezione a la merle,
fece tre jurne de maletembe; frâdde, ggele, nâve, fu’ li
jurne cchjù brutte de tutte l’anne, ma la merle furbe, pe’
sfuggi a la morta certe, se ‘mbiccò dandre a lu cumìg-
nule de ‘nu cammine e lasciò sole lu bbecche da fore,
jušte p’arfiatà… lu fume je rennave calle.
Passate li tre jurne e finite lu mâse de jennare, la merle
arsciò fore, ere vive, ma care j’ere cuštìte, ere devendate
nire de fuliggine, sole lu becche s’ere salvate, pruvò a
‘rlavarse, ma lu nire ‘nze ne jo’.
Da ‘lla vodde, lu mâse de jennare devendò de trenduna
jurne e febbraje armanò ‘nghe vendotte; la merle che
prime ere bianghe devendò nire e li luddeme tre jur-
ne de jennare è simbre li jurne cchjù frìdde dell’anne.
Écche peccà si chiame “li jurne de la merle”.
21. 21
GUERINO TENTARELLI
Il pittore “metafisico”
di Patrizia Manente
G
uerino Tentarelli, pittore per vocazione. Fin da
ragazzo a Roseto, dove è nato, ha coltivato la
passione per l’arte e il disegno tecnico, iniziando
dai murales. Trasferitosi a Roma per lavoro, ha potu-
to ammirare le opere dei grandi maestri del passato.
Caravaggio uno dei suoi preferiti e fra i pittori moderni
Salvator Dalì. Tornato in Abruzzo, ha ripreso a dipinge-
re utilizzando la tecnica ad olio. Dopo vari incitamenti e
critiche positive, ha deciso di continuare, cercando un
proprio stile e percorso creativo. Convinto che prima di
iniziare bisognava apprendere almeno le basi del dise-
gno e le tecniche pittoriche classiche, ha studiato e pre-
so lezioni da artisti già quotati, uno fra tanti il prof. Mas-
sacesi. Provando e riprovando nel disegnare e dipingere
figure e ritratti, attratto dal surreale e dal metafisico,
raccontando sto-
rie attraverso la
pittura con per-
sonaggi senza
tempo, liberi di
muoversi nel-
lo spazio, senza
vincoli e senza
regole. Per non
dimenticare i con-
cetti della pittura
classica, a volte
dipinge anche na-
ture morte o qua-
dri su commis-
sione, copertine
di libri comprese.
Nel frattempo ha
esposto diverse
volte in ambito lo-
cale e regionale.
22. 22
ALESSANDRA
CAMPANARO
CAMPIONESSA
DI KARATE
di Paola Manente
A
lessandra Campanaro,
nata a Giulianova 17
anni fa, ha iniziato con
il karate all’età di 10 anni dopo
aver praticato pallavolo ed at-
letica. Ricorda perfettamente
il giorno in cui ha fatto la pri-
ma lezione, provata per caso,
ed è scattata immediatamen-
te la scintilla che le ha fatto
amare questo sport. Fin da
subito si è iscritta alla Scuo-
la Karate Italia di Mosciano
Sant’Angelo, che ha diverse
sedi anche a Giulianova, Alba
Adriatica, Teramo e Notaresco. Ha frequentato i primi
anni a Giulianova e poi ha continuato a perfezionarsi nella
sede principale di Mosciano. La Scuola Karate Italia è di-
retta dal maestro Gianni Visciano e dai suoi collaboratori
Stefania e Pierpaolo Visciano, Francesco Andrenacci ed
è associata alla FIK (Federazione Italiana Karate) e vanta
tra i suoi allievi diversi campioni italiani, europei e mon-
diali. Il karate è uno sport che le ha permesso di crescere
e superare molte delle sue paure, dandole più sicurezza.
Gli allenamenti sono molto impegnativi, più volte la set-
timana, da combinare anche con gli impegni scolastici.
Ma quando indossa il suo karategi tutta la stanchezza
e lo stress quotidiano scompaiono, trovando una carica
incredibile. Il 2018 per Alessandra è stato un anno mol-
to importante a livello agonistico e, dopo diverse gare in
tutta Italia, ha conquistato il titolo di campionessa ita-
liana nella categoria Cadetti B femminile (16-17 anni)
a Montecatini Terme. Ciò che le ha dato la possibilità di
essere convocata nella Nazionale Italiana di Karate FIK
per andare a disputare i Campionati Europei organizzati
dalla IKU (International Karate Union) in Russia nella cit-
tà di Oryol dal 17 al 21 ottobre scorso. Oltre al titolo italia-
no, ha vinto anche il titolo di campionessa italiana nella
specialità kata a squadre femminile Cadetti, con le sue
compagne Michela Baldini e Chiara Di Nicola, perciò con-
vocata in nazionale. L’esperienza agli europei è stata in-
dimenticabile. Vedere migliaia di atleti delle varie nazioni
europee all’inizio l’ha spaventata un po’ ma poi ritrovata
la giusta concentrazione e determinazione è riuscita nel-
la doppia impresa di vincere anche l’oro nella speciali-
tà kata singolo femminile Cadetti B. che nella speciali-
tà kata a squadre femminile Cadetti insieme a Michela
Baldini e Chiara Di Nicola. Una grande soddisfazione che
ha condiviso insieme alla sua squadra, ad altri ragazzi
della Scuola Karate Italia e della nazionale italiana che
è la nazione che ha vinto più medaglie. Hanno vinto an-
che il titolo europeo i suoi compagni della Scuola Karate
Italia Paola Campeti nella categoria Seniores femminile,
Noemi Fiorà nella categoria Cadetti A femminile, Manuel
Di Pancrazio nella categoria Esordienti maschile e vi-
ce-campione europeo Alessandro Danesi nella categoria
Cadetti B maschile. Dopo la trasferta in Russia ha ripre-
so quasi subito gli allenamenti perché riiniziano le gare
per il Campionato
Italiano e per la
eventuale convo-
cazione in Nazio-
nale per il Cam-
pionato mondiale
di karate IKU che
il prossimo anno
si terrà in Brasile
ad ottobre.
23. 23
NATALE A CASA
DI ERMINIA
CHEF PER PASSIONE
di Patrizia Manente
S
e si vuole bene a
qualcuno, preparare
un bel pranzo, una
buona cena è un modo
splendido per dirglielo.
Come ogni volta fa Ermi-
nia Iannetti, che ha gusti
semplicissimi e prepara
pietanze con una cura
tutta particolare. A co-
minciare dall’estetica del
piatto; poi, la location, la
scelta della forchetta e
della pietanza. Senza tra-
scurare il colore dei cibi,
del piatto e del bicchiere, come la qualità del vino. Quan-
do ha ospiti in casa, l’obiettivo è solo uno: sorprendere e
stupire. Da sempre un pò ambiziosa, non si è mai accon-
tentata negli acquisti degli abiti che le propo-
nevano e voleva essere “al top”. Per essere
diversa, distinguersi e farsi ammirare. Il suo
amore per la cucina e il cibo, le è stato tra-
smesso fin da piccola, quando ammirava la
sua cara mamma mentre stendeva la sfoglia
con il matterello. Oppure la nonna quando preparava la
“pizza dolce” tradizionale per il suo compleanno. Ermi-
nia fin da piccola, assaggiando il buon cibo, diceva: ‘’Un
giorno sarò anch’io in
grado di realizzarlo?”.
Obiettivo raggiunto: ci
è voluto un po’, ma ora
sa realizzare i piatti più
prelibati, uno per ogni
occasione. L’amore
e la passione per la
cucina sono sempre
fortissimi. Tant’è che il
suo desiderio è diven-
tare sempre più brava,
anche nel capire i gusti
di amici e commensali.
Per sentirsi gratificata.
Tortino di baccalà
Insalata
di baccalà
Zuppa ceci
e castagne
Pan di spagna con crema pasticcera e fragole
24. 24
probabilmente prima
del XIII secolo.
Proprio di fronte alla
Torre si trovava quello
che da molti ricercato-
ri viene indicato come
l’antico porto della città
di Hadria probabilmente
di epoca romana; nono-
stante distasse diver-
se miglia dal mare la
cittadina aveva un suo
approdo che dovette es-
sere uno dei più influenti
di tutto l’Adriatico.
Un antico documento che
attesta l’esistenza del
porto di Atri proviene dal
geografo augusteo Strabone: che scrive “il torrente Matri-
nus, che scorre dalla città di Atri, con l’omonimo porto”
(Geografia V, 4, 2) .
Anche lo storico Paolo Diacono nell’ VIII secolo, nel descri-
vere i centri della costa abruzzese e marchigiana, docu-
menta in modo impietoso la decadenza di Atri ricca e po-
tente in epoca romana al punto da muovere secondo alcuni
la sua flotta da guerra contro Taranto “In qua sunt, scrive,
civitates Firmus, Asculus et Pinnis et iamvetustate consu-
mpta Adria, quae Adriatico pelago nomendedit”.
Lo storico tuttavia non fa menzione della presenza del porto
segno che era stato cancellato dal tempo o dal mare.
Nel 1251 il Cardinale di Ascoli donò alla guelfa Atri il privile-
gio di ricostruirlo.
Altro documento importante per la datazione della torre
risalente al 1294, è quello in cui Carlo D’Angiò mostra la
sua decisione di ricostruire la Torre di Cerrano e delle due
“Torri di Montepagano ed Atri” in quanto ritenute funzio-
nali all’attività logistica.
La scelta cadde sulla foce del torrente Cerrano dove i lavori
iniziarono di gran lena tanto che alla fine del secolo erano
in piena efficienza e con tutta probabilità vi furono sbarcati i
blocchi di pietra d’Istria giunti per la costruzione della Cat-
tedrale di Atri.
Anche in un documento del XVI sec. dal procuratore dell’U-
niversità, Bartolomeo di Cola Sorricchio, viene menzionato
il porto di Atri e ipotizzato che il culmine dell’attività del por-
to fosse intorno al VII secolo a.C.
LA TORRE DEL CERRANO
Una sentinella a guardia del mare
di Elisabetta Mancinelli
L
a torre di Cerrano, situata a poca distanza dall’abitato
di Pineto a ridosso del confine con Silvi, rappresenta il
più imponente dei fortilizi costieri rimasti in Abruzzo.
Si erige su una piccola collina bagnata dalle acque marine
e circondata da una pineta dagli alberi secolari, guarda di-
rettamente sul mare e si mostra in tutta la sua imponenza.
Il fortilizio, a forma quadrata con muraglie piramidali co-
struite in laterizio, fa pensare allo scopo difensivo della sua
costruzione mentre la merlatura e la torretta terminale
di più recente costruzione, costituiscono un abbellimento
architettonico dei costruttori. Deve il suo nome al torrente
che scende dalle colline di Atri sino alla marina.
Nel nome un toponimo “Torre del Cerrano” che è divenuto
il simbolo della storia e dell’identità di questo territorio.
LA STORIA
Si pensa erroneamente che la costruzione sia stata rea-
lizzata intorno al 1560 quando il viceré Parafan De Ribera
Duca di Alcalà emanò l’ordine di costruire lungo tutto il li-
torale otto torri di avvistamento con lo scopo di segnalare
tempestivamente ogni tentativo di incursione in mare.
Importanti documenti mostrano invece come la Torre fosse
preesistente e che era presente durante l’impero romano
Foto Torre ante 1915
(da V. SCORDELLA, La Foglia racconta.
Storie e misteri. – tipografia Hatria,
Atri, 2014, p. 139)
25. 25
Purtroppo i fondali sabbiosi rendono molto difficili le im-
mersioni, ma si spera che continuando la campagna di sca-
vi, l’antico porto si potrà svelare in tutto il suo splendore.
L’AREA MARINA PROTETTA
“TORRE DEL CERRANO”
Nell’aprile del 2010 è stata istituita con Decreto ministeria-
le l’Area Marina Protetta Torre del Cerrano: uno specchio
d’acqua protetto dove coltivare le preziose risorse del
mare che si estende nel tratto teramano, fra due Comuni
Pineto e Silvi fino a tre miglia nautiche e delimita sette
chilometri di costa.
Per la protezione e la valorizzazione dell’ambiente una rete
di oasi sottomarine provvede alla salvaguardia, al ripopola-
mento e allo studio dell’ecosistema marino.
La struttura lavora con uno staff di specialisti in diversi set-
tori dalla biologia alla chimica effettuando una vasta gam-
ma di ricerche che vanno dal costante controllo delle acque
marine e fluviali alla ricerca dei batteri patogeni nei pesci e
molluschi fino allo studio delle alghe.
Da antico baluardo contro i Turchi, la Torre è divenuta una
preziosa sentinella preposta alla tutela dell’ambiente ma-
rino della nostra regione.
Per soddisfare la curiosità e l’interesse storico, il Consorzio
di Gestione dell’Area Marina Protetta organizza visite gui-
date alla Torre che permettono di scoprire i suoi ambienti
e ammirare dal punto più alto della Torre un suggestivo
panorama.
Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli
email: mancinellielisabetta@gmail.com
Nel 1447 Venezia devastò i porti del Regno di Alfonso I d’A-
ragona compreso quello di Atri a Cerrano che subì gravissi-
mi danni soprattutto nella torre di difesa.
Nel 1516 il comune, dato che l’approdo era totalmente ro-
vinato e quindi inservibile, decise di ricostruirlo a breve di-
stanza più piccolo.
Ma i lavori non cominciarono in quanto in quel periodo
iniziarono sulla costa atriana le incursioni dei Turchi che
giungevano all’improvviso con le loro feluche veloci sac-
cheggiando e devastando i piccoli centri costieri.
Per difendere il territorio Girolamo di Acquaviva, duca di
Atri e il viceré Don Pedro De Ribeira decisero di dotare la
costa di un sistema di torri difensive di avvistamento tra cui
una massiccia torre di guardia fortificata alla foce del tor-
rente Cerrano.
Cessate le incursioni dei Turchi la torre perse la sua im-
portanza.
Negli anni ’20 fu ceduta da un nobile ufficiale di marina al
marchese De Sterlich, poi fu di proprietà della famiglia
Marcucci da lui discendenti che, non senza rammarico,
negli anni ’40 la cedette alla Provincia di Teramo.
Ristrutturata è divenuta sede di un laboratorio di biologia
marina.
GLI STUDI
Dopo secoli di dimenticanza nel 1982 un’esplorazione con-
dotta da un equipe di archeologi subacquei, è stata effet-
tuata nel tratto antistante la torre .
E’ venuto alla luce un oppidum sommerso di cui sono stati
individuati colonne in pietra, travi, tratti delle strade lastri-
cate i resti di un molo a forma di “L” oltre ad opere murarie
e vari manufatti.
Il fratino - Foto di Marco Cirillo
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da un controsoffitto stuccato e dipinto da Concezio D’A-
scenzo nel 1898, per volontà del committente Giuseppe
Savini. Nella parete posteriore erge un piccolo campanile
a vela, con finitura superficiale in intonaco colorato, si ele-
va al di sopra di un corpo retrostante rispetto alla Chiesa
e presenta una monofora con campana. Nella cantoria in
contro facciata è conservato un organo a canne di gran-
de pregio storico e artistico, risalente al XVIII secolo. Lo
strumento misura (cm. 400 x 258 x 130) ma, la totale as-
senza di cartiglio ne impedisce una precisa datazione e
attribuzione. La struttura è romanica mentre l’interno è
del XVI secolo. La Chiesa del Carmine è stata restaurata
nel 1.988, con progettazione e direzione dei lavori affidate
all’architetto Luigi Formicone di Notaresco.
LA CHIESA DI S.MARIA
DEL CARMINE
A NOTARESCO
Un gioiello d’arte
di Adriano Cruciani
D
etta anche più semplicemente Chiesa del Carmine,
è un piccolo edificio religioso che presenta una strut-
tura in laterizio con copertura a capanna, si trova nel
centro storico di Notaresco, a poca distanza dalla Chiesa
dei S.S. Pietro e Andrea. Sopra il portale d’ingresso, sor-
montato da una semplice lunetta rimasta vuota, c’è una
cornice a croce greca dai bracci semicircolari nel quale è
incastonata l’effige della Madonna con Bambino. L’inter-
no, a navata unica, è suddiviso in tre campate sormontate
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RISTORANTE PER
CENTENARI
A COLLEPARCO
di Marcello Martelli
R
inomata come “capitale della buona tavola”, la
città di Teramo ha ottime prospettive per diven-
tare “metropoli della dieta” e Colleparco collina
degli ultracentenari. Miracoli della scienza e dell’Uni-
versità, visto che è già tutto pronto per lanciare il pro-
getto della longevità con in campo autorità mondiali
del comparto alimentare. Una iniziativa scientifica-
mente seria e importante, che raccoglie la partecipa-
zione di dodici selezionati ricercatori provenienti da
tutto il mondo. Si impegneranno a lungo nello studio
del cibo e dei regimi alimentari, che non porteranno
all’immortalità, ma a invidiabili traguardi di lunga vita
e buona salute certamente sì. E’ ormai confermato:
l’invecchiamento dipende da noi e dallo stile di vita.
Né si esclude che presto possa vedere la luce, ma-
gari nelle vicinanze dell’Università di Colleparco o
al suo interno, un ristorante specializzato con menù
scientificamente controllati da esperti studiosi della
materia. Per pasti e menù che assicurano una salute
minimo centenaria.
Quando negli anni ’60 esplose la mania delle diete,
qualcosa di simile fecero a Parigi in un ristorante con
medici travestiti da camerieri. Dove, prima di sedersi
a tavola, bisognava sottoporsi a visita medica. Al “re-
ferto” dei dietologi seguiva il menù. Poi, il cameriere
(autentico, questa volta) portava in tavola il pranzo, ri-
gorosamente in linea con il numero delle calorie che
ciascun cliente poteva ingerire. Peccato che all’an-
golo della strada, a Parigi, c’era una “rosticceria
tentatrice” con vetrina ricca di golose specialità, che
spesso attiravano i clienti appena usciti dal ristorante
dietetico con un leggero appetito. Avvisati: importan-
te, adesso, non ripetere lo stesso errore a Colleparco
con l’ipotetico ristorante per centenari. Dove si entra
con l’avallo degli esperti. Niente più sofisticazioni e
falsi a tavola. Tutto sarà controllato e garantito, ac-
compagnandoci verso un traguardo centenario. E,
per ora, può anche bastarci.
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LA FIBRILLAZIONE
ATRIALE
La parola al medico
specialista del cuore
L
a fibrillazione atriale è l’aritmia di più frequente riscontro
nella pratica clinica. La possibilità di insorgenza di tale
disturbo aumenta con l’età, infatti il 10% della popolazio-
ne degli ottantenni ne è affetto. La persona colpita da fibrilla-
zione atriale può percepire la sensazione di battito irregolare
ed accelerato (cardiopalmo) ma può anche non accorgersi di
nulla in quanto l’aritmia può decorrere con un battito cardiaco
non particolarmente accelerato ed in quanto tale non essere
percepita. Alcune perso-
ne hanno un andamento
intermittente dell’aritmia,
ovvero possono avere fasi
di aritmia della durata di
minuti, ore ed anche giorni
alternate a fasi di ritmo nor-
male (forme parossistiche)
o possono avere l’aritmia
costantemente (forme per-
sistenti e croniche). E’ molto
importante riconoscere l’a-
ritmia in quanto è possibile
in tal modo evitare la sua
maggiore complicazione,
ovvero la formazione di un
coagulo di sangue (trombo) all’interno del cuore e la sua pos-
sibile migrazione in altri organi con effetti molto dannosi, come
ad esempio l’insorgenza di ictus cerebrale. Infatti una persona
su quattro ricoverata per ictus cerebrale è affetta da fibrillazio-
ne atriale di cui non è a conoscenza. E’ quindi di fondamentale
importanza effettuare una diagnosi, la quale sarà agevole se si
presentano sintomi prolungati e vi è la possibilità di effettuare
un elettrocardiogramma, più difficile in caso di sintomi sfumati
ed intermittenza dell’aritmia. Per quest’ultimo caso, esistono
attualmente dei piccoli registratori cardiaci delle dimensioni di
un fiammifero che è possibile inserire sotto la cute del paziente
mediante una siringa, con una minima quantità di anestetico
locale, per rendere la procedura indolore. Tali registratori han-
no una durata della batteria di 3 anni e possono registrare au-
tomaticamente le aritmie ed immagazzinarle nella loro memo-
ria elettronica, per essere successivamente lette dal medico.
Effettuata la diagnosi, la cosa più importante è evitare la for-
mazione dei trombi, e questo è possibile con la terapia anticoa-
gulante orale, attualmente effettuata con i nuovi anticoagulanti
orali, che rispetto ai precedenti non necessitano di prelievi ema-
tici periodici e che quindi non impattano sulla qualità della vita.
Oltre a questo, soprattutto nelle forme intermittenti, si può ef-
fettuare una terapia allo scopo di abbreviare o far scomparire
gli episodi di aritmia. Si possono utilizzare i farmaci antiarit-
mici oppure ricorrere ad una tecnica denominata “ablazione”.
Questa consiste nel posizionare all’interno del cuore degli elet-
tro-cateteri (fili elettrici) attraverso le vene e con poca invasivi-
tà, in quanto l’accesso venoso è ottenuto tramite delle punture
a livello delle vene dell’inguine. Si procede quindi ad erogare
energia per riscaldare il tessuto cardiaco coinvolto nell’aritmia
e conseguentemente a neutralizzarlo, oppure a raffreddarlo a
temperature molto basse con azoto liquido creando una sorta
di congelamento dei tessuti coinvolti. In quest’ultimo caso si
parla di “crioablazione”.
La crioablazione presenta il vantaggio di tempi di esecuzione
più brevi, a parità di efficacia. Il Centro di Aritmologia e Car-
diostimolazione di Teramo, di cui sono responsabile, esegue
le procedure di crioablazione, con grande soddisfazione dei
pazienti e del personale anche perché è l’unico centro della
Regione ad eseguirlo.
In conclusione si può affermare che le persone affette da fi-
brillazione atriale hanno delle ottime possibilità terapeutiche e
che è possibile migliorare la qualità della loro vita nella grande
maggioranza dei casi.
Dott. Paolo Serra
Responsabile dell’U.O.S. Aritmologia e Cardiostimolazione
Ospedale Mazzini Teramo