1. Critica del presente e diritto al futuro, due
voci del passato
- Igor Mineo, 27.09.2015
Storia. In "Il tramonto della rivoluzione" di Paolo Prodi, una analisi dei sintomi che rivelano il
comprimersi del tempo storico, e il senso di essere consegnati a un eterno, immodificabile presente
Non si può dire che la parola «rivoluzione» sia uscita dal nostro lessico quotidiano; al contrario, ogni
sommovimento sociale, ogni forma di resistenza, ogni cambio di regime vengono disinvoltamente eti-
chettati come «rivoluzionari» presso un’opinione pubblica dopata da una stampa incline, in genere,
più a suscitare emozioni forti (quanto effimere) che a favorire la riflessione. Ecco quindi, specie dopo
la fine del socialismo reale, il moltiplicarsi delle rivoluzioni colorate, qualche rivoluzione floreale,
o anche una jeans revolution (Bielorussia 2006). Senza contare l’impiego di rivoluzione nella routine
politico-amministrativa di questo o di quel paese ogniqualvolta venga formulata una riforma senza la
quale – assicura il governante di turno – il paese in questione sarebbe spacciato. Ma questo uso
inflattivo di rivoluzione è reso possibile, in realtà, dallo svuotamento del significato suo proprio,
o meglio di quello maturato tra XVIII e XIX secolo, quando si identificarono con «rivoluzione» non
tutti gli sconvolgimenti dell’ordine politico ma solo quelli carichi (e spesso sovraccarichi) di proge-
ttualità alternativa e di aspettative progressive sul futuro.
Questa elementare diagnosi la ritroviamo nel libro che Paolo Prodi dedica appunto al Tramonto della
rivoluzione (Il Mulino, pp. 119, euro 11,00) prezioso non tanto nel riepilogo di una delle questioni
chiave del vocabolario storico-politico, quanto nell’originale messa in prospettiva di un nodo tra i più
attuali (e tra i più discussi). L’esaurimento della rivoluzione vi appare come momento, e sintomo, di
un fenomeno più largo e più denso: il comprimersi del tempo storico, l’appannarsi dell’orizzonte
delle attese di cui tanto si dice (in modi, peraltro, sempre più ripetitivi), il senso dell’immodificabilità
di un eterno presente governato da leggi sulle quali il prodotto maggiore della modernità politica –
lo stato sovrano, e poi la democrazia rappresentativa – nulla più possono.
Più che essere raccontata una qualche storia meritevole di attenzione, viene dunque rivelata la
densa stratigrafia di un aspetto decisivo della nostra attualità. «I fenomeni strutturali hanno una loro
forza che va al di là di ogni cincischiamento politologico» – ammonisce a un certo punto, perfi-
damente, Prodi, con riferimento al declinante trend demografico dell’Europa. Ora, questa struttu-
ralità è, per intellettuali come lui, innanzitutto e eminentemente storica. È grazie alla storia che
è possibile decifrare la specificità occidentale della rivoluzione, intesa dunque come una delle forme
fondamentali della dialettica fra poteri diversi e spesso in conflitto, religioso da una parte,
politico-temporale dall’altra; privi entrambi, tali poteri, della possibilità del monopolio. Si tratta di
una configurazione che si viene formando all’inizio del secondo millennio e che nasce dalla rottura di
quella precedente tardoantica e altomedievale, ma anche, ad altre latitudini, bizantina e islamica,
segnata all’opposto dalla sovrapposizione di regno e sacerdozio.
Nel quadro di lungo periodo segnato da questo dualismo emerge gradualmente uno stato di «rivol-
uzione permanente» che è uno dei tratti distintivi nell’Europa moderna. L’istanza che le è propria
riprende e trasforma una funzione svolta per secoli dalla profezia religiosa: la denuncia del male
politico come tradimento del messaggio di Dio. Satura di questa eredità, la rivoluzione si carica di
una promessa di futuro radicalmente utopica, ma capace di incarnarsi in luoghi quali la patria,
l’umanità, la classe.
La fine del mito della rivoluzione trascina dunque con sé la fine della capacità di mettere sotto pro-
cesso il presente, e il termine del senso stesso di un «diritto» al futuro. Più in profondità, però, essa