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I
Indice
Introduzione IV
1. Il principio dell'equilibrio di potenza: una ricostruzione storica e
concettuale della questione dalla metà del Quattrocento fino alla fine
del Seicento 1
1.1 Brevi accenni al concetto dall'antichità fino al Quattrocento 1
1.2 Dalla metà del Quattrocento alla pace di Cateau-Cambrésis 3
1.3 Dalla pace di Cateau-Cambrésis alla pace di Westfalia 15
1.4 La seconda metà del Seicento e il mito della Monarchia Universale 28
2. La prassi dell’equilibrio europeo nel Settecento: politiche estere
nazionali e coalizioni internazionali 36
2.1 L’aurea età dell’equilibrio di potenza: dalla guerra di successione
spagnola alla pace di Aquisgrana 36
2.2 Il fallimento del sistema di equilibrio: il rovesciamento delle alleanze
e le turbolenze interne degli Stati europei di fine secolo 56
3. La teoria dell’equilibrio di potenza nel Settecento: le riflessioni
positive degli autori 84
3.1 L’erronea interpretazione del concetto: l’equilibrio come fondamento
giuridico internazionale 84
3.2 I fattori rilevanti a favore della teoria e i contributi degli autori 86
II
4. La teoria dell’equilibrio di potenza nel Settecento: critiche e
(possibili) correzioni della dottrina 107
4.1 Analisi realiste e teorie pacifiste: una difficoltosa ricerca di
ragionevoli alternative 107
4.2 Jean-Jacques Rousseau e l’equilibrio 122
Conclusioni 127
Indicazioni bibliografiche 131
Ringraziamenti 134
III
IV
Introduzione
Generalmente, quando si fa riferimento al concetto di «equilibrio di potenza
internazionale», si allude ad una situazione in cui, in un determinata area geografica e
in un determinato periodo storico, vi è una distribuzione della potenza tra Stati (o tra
le rispettive organizzazioni politiche esistenti) tale da non permettere a nessuno di essi
di imporre il suo predominio sugli altri. Ma al di là di questa semplice ed immediata
definizione, c’è un intero universo di significati e di riflessioni da esaminare
approfonditamente.
In questo elaborato analizzerò il tema focale dell’equilibrio di potenza, così
come si è evoluto nel corso dell’era moderna, tra il XV e il XVIII secolo,
concentrandomi sullo studio della prassi e della teorizzazione relative al contesto
europeo e, andando più nel particolare, sull’analisi della pratica e della teorizzazione
settecentesca della suddetta questione. L’argomento, nel corso dei secoli, e a partire
dalle sue prime applicazioni pratiche rinvenibili in alcuni sporadici episodi della storia
antica e medievale, ha assunto una rilevanza sempre più crescente e, nell’età moderna,
tale materia è divenuta una delle più dibattute tra gli intellettuali e i politici del tempo.
Una tale importanza della questione, evidenziatasi proprio dalla sua costante e, a
volte, prolissa trattazione, non può stupire, per le molteplici accezioni ed
interpretazioni che il termine «equilibrio» ha ricevuto nel corso dei secoli, e che sono
andate trasformandosi progressivamente nel tempo, man a mano che gli eventi storici
e le dinamiche interstatali davano vita ad un sistema internazionale europeo sempre
più integrato e mutato nei suoi rapporti interni: principio politico da perseguire sul
piano pratico per tutelare la sopravvivenza del regno nell’anarchico sistema di Stati
europeo; criterio d’ordine internazionale; elemento costitutivo delle politiche nazionali
esplicabile sia verso l’interno che verso l’esterno; codice diplomatico comune
condiviso e compreso universalmente da statisti, ambasciatori e uomini politici;
fattore unificante del continente europeo e determinante della stessa idea di Europa;
strumento giustificante delle pragmatiche politiche estere europee; fondamento
giuridico internazionale necessario al mantenimento della stabilità e della pace
europea, che dev’essere rispettato alla stessa stregua di una norma di diritto
internazionale; e molte altre di questo tipo. Tale molteplicità di interpretazioni lo
resero (e lo è ancora) un concetto assai ambiguo, contraddittorio e spinoso da
V
affrontare, aperto ai più disparati significati. La fortuna e, allo stesso tempo, il
fallimento riscossi dalla dottrina dell’equilibrio di potenza nel corso dei lustri derivano
soprattutto dalla sua intrinseca contraddittorietà e dalla strumentalizzazione a cui è
stato lungamente sottoposto per poter essere plasmato alle più differenti situazioni
storico-politiche peculiari di ogni Stato. Ed è soprattutto a causa della sua enigmaticità
che questa tematica, in età contemporanea, rimane al centro di discussioni teoriche di
ogni sorta; ancora oggi non si sono trovate risposte univoche, chiare e universalmente
accettate alle seguenti domande: cosa si intende per «equilibrio internazionale»? Qual
è la vera natura, la vera essenza, dell’equilibrio di potenza? E qual è la sua reale
funzione? Sono tutti quesiti, circoscritti all’ambito della storia moderna e, ancor più in
particolare, al Settecento europeo, ai quali ho cercato di dare risposte concrete tramite
questa ricerca.
Nel primo capitolo, dopo aver effettuato un breve excursus sulle modalità con
cui gli antichi Greci e Romani si posero nei confronti della pratica dell’equilibrio e
dopo aver narrato, in maniera sintetica, dello scontro fra i due poli dell’equilibrio
medievale, Papato e Sacro Romano Impero, la ricerca si concentrerà, a partire dalla
metà del XV secolo, sull’analisi di come le emergenti compagini statali europee si
mossero nel panorama internazionale per impedire la formazione di uno Stato troppo
potente, capace di egemonizzare ogni aspetto della vita politica, economica e socio-
culturale del Vecchio Continente attraverso il suo dominio, relegando le rimanenti
organizzazioni statali in posizione subalterna; accanto a questo tipo di trattazione
affiancherò lo studio delle riflessioni degli autori del periodo dinanzi a tale
problematico concetto, seguendo un ordine cronologico pertinente al racconto storico-
politico degli eventi accennato prima. Emergerà che almeno fino alla pace di
Westfalia (1648), al termine della «Guerra dei Trent'anni» (1618-1648), l’equilibrio
venne interpretato alla stessa stregua di un fondamento empirico da ricercare, da
attuare concretamente, e connesso alla soddisfazione dell’esigenza e dell’interesse
primario di ogni potenza europea: l’autoconservazione. Nonostante i continui
mutamenti delle gerarchie internazionali (nel Cinquecento sarà la monarchia spagnola
di Carlo V e di suo figlio Filippo II ad assurgere al primato internazionale, primato che
verrà perso nel secolo successivo a favore della monarchia francese) prodottisi a
partire dall’utilizzo sfrenato dello strumento privilegiato della politica internazionale
moderna, la guerra, la funzione dell’equilibrio continuò ad essere principalmente
VI
quella suddetta. Nella seconda metà del XVII secolo, il mito dell’equilibrio dovette
scontrarsi con l’altro imperante mito dell’epoca moderna: la realizzazione della
Monarchia universalis, quasi a fondamento della politica internazionale perseguita dal
sovrano francese Luigi XIV.
Nel secondo capitolo svilupperò la mia analisi rispetto alla pratica
dell’equilibrio attuata dalle Nazioni europee nel Settecento (fino e non oltre la
Rivoluzione francese), il cosiddetto «Secolo dei Lumi», durante il quale i fattori
dinastici ed economici assunsero il ruolo di moventi delle contese europee,
soppiantando i pretesti religiosi, non più generatori di conflitti internazionali dopo
Westfalia. Le guerre di successione furono dunque le principali artefici dei mutamenti
territoriali e politici prodottisi nella prima metà del XVIII secolo, giustamente definita
«l’età aurea dell’equilibrio di potenza», in quanto si affinarono gli strumenti tecnico-
diplomatici utili ad arginare il potenziamento spropositato degli Stati europei (la
creazione di «Stati cuscinetto», ad esempio, o le interminabili discussioni
diplomatiche condotte fino a guerra inoltrata). In questo secolo l’Inghilterra (divenuta
Gran Bretagna nel 1707, con l’unione delle corone di Inghilterra e Scozia sanzionata
dall’ approvazione dell’Act of Union), padrona di un impero coloniale di estensione
mondiale, riuscì a destituire la Francia dallo scranno della potenza principe
internazionale, consacrando ancor di più il ruolo di «bilanciere» che aveva ricoperto
fin dai primi scontri tra Carlo V di Spagna e Francesco I di Francia, nel XVI secolo. Il
conflitto mondiale tra le potenze europee (la «Guerra dei Sette anni», 1756-1763) e la
nascita della Confederazione americana nel Nuovo Mondo sanzioneranno la
vocazione planetaria dell’equilibrio europeo, che tuttavia di lì a poco verrà
completamente sconvolto dallo scoppio della Rivoluzione francese e dalle conseguenti
guerre napoleoniche (sulle quali, come ho già specificato, non mi soffermerò).
Nel terzo e quarto capitolo, realizzati suddividendo l’argomentazione per
tematiche e non in senso cronologico (come invece ho ritenuto opportuno fare per i
primi due capitoli), la ricerca si soffermerà sull’analisi dell’amplissima riflessione
concettuale settecentesca nata intorno all’equilibrio, prendendo in considerazione i
due punti di vista: positivo (nel terzo capitolo) e critico-negativo (nel quarto ed ultimo
capitolo dell’elaborato). Il XVIII secolo dunque si confermò essere il «secolo
dell’equilibrio» anche per lo straordinario sforzo intellettuale profuso da decine di
autori (fra i tanti, i più illustri sono Montesquieu, Voltaire, Federico II di Prussia, Kant
VII
e Jean-Jacques Rousseau, il quale in questo elaborato riceve un’analisi più
approfondita e particolareggiata rispetto a tutti gli altri) che si interessarono
all’argomento, sino a sviscerarlo nelle sue più intrinseche componenti. La teoria
dell’equilibrio di potenza raggiunse il suo massimo splendore: quel concetto veniva
invocato nei dibattiti politici, nei Cafè letterari, nei salotti aristocratici illuministi,
nelle disquisizioni pubbliche; l’equilibrio ascese a principio giuridico fondamentale
per le relazioni internazionali, in contrapposizione con il modello precedente, che lo
vedeva soltanto come un principio empirico da perseguire per la salvaguardia delle
frontiere nazionali e della Nazione stessa; ora anche la funzione e l’obiettivo tendono
a mutare e si guarderà con speranza alla auspicata pacificazione d’Europa, alla Pax
europea, e alla creazione di un’organizzazione sovranazionale in grado di mettere a
tacere le ostilità fra le potenze, della quale l’equilibrio sarebbe dovuto rimanere il
caposaldo imprescindibile. E tuttavia, seppur in maniera disorganica, si iniziarono a
sentire le prime voci di dissidio, furono elaborate le prime taglienti critiche al concetto
e ad esso si cercò di trovare delle valide alternative. Fra le critiche più diffuse, si
ritenne che quel concetto venisse invocato impropriamente, soltanto per giustificare le
mire espansionistiche degli Stati, e non sarebbe mai potuto divenire l’elemento
determinante della pace europea, tutt’altro; la stessa natura dell’equilibrio,
ingannevole e multiforme piuttosto che cristallina e regolare, venne posta in
discussione e così anche la sua funzione, abietta e disonesta. Un intero complesso di
idee sembrò dunque cadere dinanzi agli evidenti punti deboli della dottrina
dell’equilibrio: molti autori si applicarono per cercare di correggerne l’impianto
strutturale e teorico, fallendo il più delle volte; e ciò permise all’equilibrio di rimanere
il criterio imprescindibile di interpretazione della politica internazionale, in mancanze
di alternative plausibili.
L’insieme dei temi trattati è stato elaborato attingendo da una vasta letteratura
sul tema, per la maggior parte cartacea, ottenuta attraverso la consultazione dei
documenti nelle biblioteche di settore; in alcuni casi ho ritenuto necessario
documentarmi anche da fonti presenti su internet. In questo modo, spero di aver dato
una panoramica generale completa sulla tematica trattata. L’intero lavoro è di
proprietà intellettuale dell’autore.
VIII
1
1. Il principio dell'equilibrio di potenza: una ricostruzione storica-
concettuale della questione dalla metà del Quattrocento fino alla fine
del Seicento
1.1 Brevi accenni al concetto dall'antichità fino al Quattrocento
Sebbene il suo concetto teorico si sia iniziato a sviluppare sistematicamente
solo dalla seconda metà del Quattrocento, il problema dell'equilibrio di potenza fra le
diverse organizzazioni politiche presenti in una determinata area geografica e in un
determinato periodo storico è molto antico1
. È indubbio che «da sempre i popoli
abitanti una medesima parte del globo hanno considerato con occhio geloso lo
sproporzionato accrescimento di uno solo fra loro»2
; da sempre leghe e confederazioni
sono nate per ridimensionare la potenza dominante esistente in quel periodo: le prime
manifestazioni pratiche risalgono alla Grecia delle poleis, quando Atene, divenuta
troppo potente nella penisola ellenica rispetto alle altre città-stato, alla fine del V
secolo a.C., dovette subire la formazione di una lega, guidata da Sparta, tesa a limitare
la sua progressiva espansione, territoriale e politica, in quella che poi venne chiamata
la «Guerra del Peloponneso» (431 a.C. - 404 a.C.); in seguito al declino di Atene,
quest'ultima assunse il ruolo di «ago della bilancia» nelle guerre fra Tebe e Sparta,
esplicando la propria azione con la tendenza a «gettarsi sempre sul piatto più leggero,
cercando di mantenere l'equilibrio della bilancia»3
. C'è da dire che comunque le azioni
belliche messe in pratica dalle antiche organizzazioni politiche greche sembravano
motivate più da considerazioni di prestigio e orgoglio che da vere prese di posizione in
favore del mantenimento di un equilibrio generale4
.
Nel contesto della storia romana, è evidente la volontà di Gerone (308 a.C. ca.-
215 a.C. ca.), re di Siracusa, saggiamente consapevole della propria debolezza dinanzi
alle due grandi potenze dell'epoca, di conservarsi nel mezzo delle dispute fra Romani
1
M. Cesa, Equilibrio, in Società internazionale. Vocabolario, a cura di F. Armao, V. E. Parsi, Milano,
Jaca Book, 1997, p. 228.
2
G.F. de Martens, Précis du droit des gens modern, cap. I, parr. 120-124, cit. in L’equilibrio di potenza
nell’età moderna. Dal Cinquecento al Congresso di Vienna, a cura di M. Bazzoli, Milano, Unicopli,
1998, p. 154.
3
Senofonte, Hist. Graec., Libri VI e VII; cit. in D.Hume, Sull'equilibrio di potenza, in Discorsi politici,
Torino, Boringhieri, 1959; cit. in L’equilibrio di potenza nell’età moderna. Dal Cinquecento al
Congresso di Vienna, a cura di M. Bazzoli, Milano, Unicopli, 1998, p. 83.
4
M. Cesa, L’equilibrio di potenza. Analisi storica e teorica del concetto, Milano, FrancoAngeli, 1987,
p. 14.
2
e Cartaginesi, a volte favorendo i primi, altre volte i secondi; come rileva Polibio (206
a.C. ca. - 125 a.C. ca.) nei suoi scritti, Gerone aveva fatto sua l'idea che «non
dovrebbe mai essere posta in una sola mano una forza tale da rendere impossibile agli
Stati vicini di difendere i loro diritti contro di essa»5
.
Da questa e da altre esperienze osserviamo che sicuramente l'idea di equilibrio
non risultava oscura ai politici e ai governanti dell'età classica, soprattutto per il fatto
che questo concetto assume dapprima un'accezione di senso comune, comprensibile a
tutti, di salvaguardia dell'ordine generale, ma non possiamo riscontrare la presenza di
una teoria elaborata di tale principio perseguita strutturalmente e organicamente nelle
politiche estere delle compagini proto-statali, in quanto vi erano fattori interni a
siffatte strutture politiche tali da pregiudicare la realizzazione di articolate azioni
estere e internazionali; due fra tutti, i continui ricambi degli organi direttivi e i conflitti
interni alle oligarchie di potere6
. La stabilità interna dei membri di un sistema
internazionale è condizione necessaria della tenuta del sistema stesso, del suo
equilibrio e della possibilità di mantenerlo nel tempo. Di ciò ne è una prova manifesta
l'incredibile espansione territoriale raggiunta dall'Impero Romano sotto il governo di
Traiano (53 d. C. – 117 d. C.) all'inizio del II secolo d. C., la quale non ha trovato
alcuna manifesta opposizione di confederazioni o leghe di Stati volte a ridurre la sua
enorme potenza militare e anzi ha potuto beneficiare di alcune alleanze strategiche per
la sua causa; medesimo risultato ottenne qualche secolo dopo Carlo Magno7
.
Durante il basso e il tardo medioevo lo scontro principale che pervase l'Europa
ci fu tra l'Impero e il Papato, tra potere temporale e potere spirituale, per il controllo e
l'egemonia sulle innumerevoli realtà feudali viventi, anche attraverso le due
contrapposte fazioni rispettivamente dei ghibellini e dei guelfi. In questa situazione di
frammentazione dei rapporti interstatali, che non permetteva alle compagini feudali di
organizzarsi in grandi alleanze e leghe politiche, sebbene non mancassero temporanee
interconnessioni fra le politiche estere8
, si contrapponevano i due poli del cosiddetto
5
Polibio, Storie, Lib. I, cap. 83; cit. in D. Hume, Sull'equilibrio di potenza, in Discorsi politici, Torino,
Boringhieri, 1959, pp. 104-112; cit. in L’equilibrio di potenza nell’età moderna. Dal Cinquecento al
Congresso di Vienna, a cura di M. Bazzoli, Milano, Unicopli, 1998, p. 85.
6
Cfr. M. Cesa, op. cit., pp. 15; 19.
7
Ibidem.
8
Federico Chabod, Idea d’Europa e politica dell’equilibrio, a cura di L. Azzolini, Bologna, Il Mulino,
1995, pp. 93-94; cfr. anche L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, Le relazioni internazionali. Cinque
secoli di storia. 1521-1989, Milano, B. Mondatori, 1997, p. 25.
3
«Universalismo medievale», che conseguivano l'obiettivo di instaurare una potenza
politica, economica e religiosa tale da abbracciare tutte le genti cristiane del mondo
conosciuto: è l'estrinsecazione della «Monarchia Universale», un ideale che non verrà
affatto abbandonato nei secoli avvenire e anzi otterrà maggior gloria e un maggior
numero di sostenitori e che si contrapporrà proprio con l'equilibrio di potenza e i suoi
fautori. Lo scontro mortale tra i due colossi dell'età medievale si concluderà poi con la
disgregazione della monolitica respublica christiana, avvenuta a cavallo tra XIV e il
XV secolo, che ridimensionerà il ruolo politico-economico dell'Impero germanico
nell'Europa continentale e che ridurrà la religione «da elemento supremo di coesione
del mondo medievale» a «pretesto per intervenire in un paese straniero [...] o per
difendersi dai tentativi di instaurare un predominio da parte di altri Stati»; diverrà
dunque strumento della politica d'equilibrio nel moderno sistema di Stati europeo9
. In
conclusione, sebbene l'idea e il concetto di equilibrio nella sua accezione più
immediata e istintiva sia stato compreso sin dagli antichi, si può limpidamente
affermare che a tale comprensione pratica e concreta non si sia accompagnata
un'uguale interpretazione teorica e più ampia del concetto di equilibrio, il quale,
secondo David Hume (1711-1776), diviene «criterio razionale di comprensione della
realtà e della dinamica» della politica internazionale moderna10
.
1.2 Dalla metà del Quattrocento alla pace di Cateau-Cambrésis
L’equilibrio di potenza trova la sua prima, compiuta affermazione a partire
dalla metà del Quattrocento, nel sistema di Stati italiano prodottosi a partire dalla
stipulazione della pace di Lodi, nell'aprile del 1454, considerato il «primo sistema
politico internazionale moderno»11
e «modello all’Europa del Settecento»12
, e dalla
costituzione della Lega Italica l'anno dopo. Fino al 1454 la penisola era stata coinvolta
in continui conflitti tra i principati, culminati poi nello scontro tra la Repubblica di
Venezia e il ducato di Milano di Francesco Sforza (1401-1466) per l'egemonia nel
nord Italia, alla fine degli anni Quaranta del secolo; tuttavia, venendo a conoscenza
della conquista di Costantinopoli (29 maggio 1453) da parte dell'Impero Ottomano di
9
F. Chabod, Idea d’Europa e politica dell’equilibrio, a cura di L. Azzolini, Bologna, Il Mulino, 1995,
pp. 6-7.
10
Cfr. D. Hume, op. cit.,. in M. Bazzoli, op. cit. p. 31.
11
Cfr. M. Cesa, op. cit., p. 15.
12
G. B. de Mably, Principes des négociations pour servir d’introducion au droit public de l’Europe
fondè sur les traitès, in Oeuvres complètes, ed. Parigi, 1797, pp. 4-8 ; cit. in F. Chabod, op.cit. p. 4.
4
Maometto II (1432-1481), i Veneziani decisero di porre fine alle ostilità italiane, in
modo da non trovarsi in guerra su due fronti, e conclusero con Milano e insieme agli
altri principati italiani (tra cui la Repubblica fiorentina, la Repubblica di Genova e il
regno aragonese di Napoli) la pace e la formazione della Lega Italica. Le contese della
prima metà del Quattrocento non favorirono la centralizzazione del potere nelle mani
delle oligarchie regionali e il consolidamento delle istituzioni, cosa che invece stava
avvenendo nella maggior parte degli Stati europei, e soltanto l'affermazione di uno
stabile sistema dell'equilibrio italiano avrebbe agevolato la realizzazione di tali
obiettivi e una possibile politica d'espansione13
.
Con la formazione di un primo sistema integrato di relazioni, in cui ogni entità
statale, consapevole della propria sovranità, risponde solo ai propri interessi e reagisce
a quelli delle altre potenze, senza più riconoscere la presenza di un organismo
superiore, quale era l’Impero, che controlli e monitori tali interessi; in cui si sviluppa
definitivamente la prassi delle incessanti relazioni diplomatiche, che permettono di
informarsi sulle mosse altrui e di contrastarle adeguatamente, e in cui la figura del
diplomatico e/o ambasciatore assume una sua prima connotazione professionale e
permanente, il principio e il concetto di equilibrio iniziano ad assumere una propria
fisionomia e una propria struttura concettuale14
. Inoltre la presenza sul suolo italico
dello Stato pontificio aveva da sempre favorito la diffusione di una comune cultura
cattolica che rifuggiva le ambizioni smodate e prediligeva la prudenza e le
moderazione (sebbene poi nella realtà concreta dei fatti non sempre la Chiesa aveva
dato prova di siffatte qualità), caratteristiche, queste, sulle quali poggia l'idea di
equilibrio. È pure altrettanto importante il fatto che, per la prima volta, gli uomini
politici italici riconoscano coscientemente «l'esistenza di un sistema di Stati e dei
vincoli che ne condizionano reciprocamente l'attività. È questo l'elemento
discriminante che ci permette di collocare la nascita dell'equilibrio di potenza
nell'Italia rinascimentale» e che differenzia questa nuova situazione storica dalle
precedenti, in cui v'erano stati soltanto solitari tentativi di frenare l'accrescimento di
un singolo Stato15
. Il Rinascimento contribuì a destare interesse intorno alla parola
«equilibrio» attraverso le sue derivazioni culturali, per cui nel campo artistico grande
13
A. Aubert, P. Simoncelli, Storia moderna. Dalla formazione degli Stati nazionali alle egemonie
internazionali, Bari, Cacucci Editore, 2001, pp. 55-56.
14
Cfr. F. Chabod, op. cit., pp. 7; 12; cfr. anche M. Bazzoli, op. cit., p. XVIII in Introduzione.
15
Cfr. M. Cesa, op. cit., p. 15.
5
importanza ottennero i concetti di «simmetria» e «contrappeso», mentre nella
dinamica commerciale il «bilancio» dei conti economici iniziò a risultare essenziale16.
Per circa quarant'anni l'equilibrio generale venne sostanzialmente mantenuto,
in quanto soltanto alcuni conflitti minori, per lo più interni ai principati italiani,
interessarono i territori della penisola: la guerra di successione napoletana (1458-1462)
scoppiata alla morte del Re Alfonso V d'Aragona (1394-1458), il quale avrebbe
preceduto Ferdinando I (1424-1494); la «congiura dei Pazzi», del 1478, in seno alla
Repubblica fiorentina retta fino al 1469 da Piero de' Medici (1416-1469) e affidata
alle cure dei figli Giuliano e Lorenzo, che portò alla morte di Giuliano e scatenò
l'inizio di una guerra decisa dal Papa, Sisto IV (1471-1484), il quale volle approfittare
del disordine generale a Firenze per aumentare i propri domini territoriali chiamando a
sé gli alleati napoletani e senesi e che vide trovarsi dall'altra parte Firenze alleata con
il ducato di Milano e con Venezia; la cosiddetta «Guerra del sale», che vide i
Veneziani combattere con il ducato di Ferrara tra il 1482 e il 1484; infine la «Congiura
dei baroni», che scosse i territori dello Stato della Chiesa e del Regno di Napoli sul
finire degli anni Ottanta del Quattrocento e che rappresenta una sorta di “canto del
cigno” dell'equilibrio italiano17
.
Se questo equilibrio di potere si mantenne abbastanza efficacemente fino agli
anni Novanta del secolo, gran parte del merito è dovuto alla figura di Lorenzo de'
Medici, detto «Magnifico» (1449-1492), che governò Firenze fino al 1478 insieme al
fratello Giuliano e poi da solo fino al 1492: egli fu uno strenuo difensore della pax
italica e dell'ordine costituitosi, deciso ad allontanare ogni possibile pericolo di
ingrandimento di uno o più Stati italiani, attraverso l'”art de nègocier”. Riuscì a
dissolvere l'alleanza fra il Regno di Napoli e lo Stato della Chiesa del 1478, diretta a
ridurre i domini territoriali fiorentini, grazie alla sua abilità diplomatica presso la corte
di Ferdinando d'Aragona, convintosi che un suo aiuto in favore del Papa avrebbe
prodotto più perdite che benefici per il suo regno; assicurò la fine delle ostilità tra
Venezia e il ducato estense di Ferrara mettendo in campo una coalizione che vedeva
alleate Firenze, Milano e Napoli e che avrebbe portato alla conclusione della pace di
Bagnolo, nel 1484; infine intervenne ponendo fine alla «congiura dei baroni»
schierandosi, insieme a Milano, contro lo Stato pontificio che stava combattendo
16
Ibidem, p. 17.
17
Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., p. 56.
6
contro i feudatari ribellatisi nei suoi territori in seguito allo scontro con il Regno di
Napoli18
.
Le imprese diplomatiche di Lorenzo il «Magnifico» vennero celebrate da
diversi autori e pensatori moderni: nella sua maggiore opera, Il Principe, Niccolò
Machiavelli (1469-1527) loda la realizzazione dell'ordine italiano Quattrocentesco
riferendosi all' «Italia “bilanciata” di Lorenzo de' Medici»19
; Francesco Guicciardini
(1483-1540) si riferisce al periodo dell'equilibrio laurenziano come a un'età felice e
prospera che viene poi sconvolta dalla discesa di Carlo VIII di Francia nel 1494:
«Ma le calamità d'Italia […] cominciorono con tanto maggiore dispiacere e
spavento negli animi degli uomini quanto le cose universali erano allora più liete e più
felici. Perchè manifesto è che […] non aveva giammai sentito Italia tanta prosperità,
né provato stato tanto desiderabile quanto era quello nel quale sicuramente si riposava
l'anno della salute cristiana mille quattrocento novanta, e gli anni che a quello e prima
e poi furono congiunti».
E segue poi l'esaltazione dell'«industria e virtù di Lorenzo de' Medici»:
«cittadino tanto eminente sopra 'l grado privato nella città di Firenze che per
consilio suo si reggevano le cose di quella republica, […] era per tutta Italia grande il
suo nome. […] E conoscendo che alla republica fiorentina e a sé proprio sarebbe
molto pericoloso se alcuno de' maggiori potentati ampliasse più la sua potenza,
procurava con ogni studio che le cose d'italia in modo bilanciate si mantenessino che
più in una che in un'altra parte non pendessino».
Anche altri statisti ricevono la “benedizione” del Guicciardini, come ad
esempio Ferdinando I d'Aragona e Ludovico Sforza, detto «il Moro» (1452-1508) i
quali contribuirono insieme a Lorenzo a bloccare la Repubblica di Venezia, la potenza
più incline del Quattrocento a tentare qualsiasi spinta egemonica nel nord e centro
Italia, e che, più in generale, concorsero al raggiungimento dell'ideale di pace e
stabilità che permetteva il consolidamento del potere centrale statale e la
soddisfazione degli interessi nazionali in una situazione di relativa tranquillità20
.
Anche il giurista italiano Alberico Gentili (1552-1608) fornisce un ritratto benevolo
del signore di Firenze, nella sua opera De jure belli libri tres (1598), nella quale
18
Ibidem.
19
N. Machiavelli, Il Principe, cap. XX; cit in. M. Bazzoli, op. cit., p. XVI, in Introduzione.
20
F. Guicciardini, Storia d'Italia, Libro primo, 1561, cit. in M. Bazzoli, op. cit. pp. 4-5; cfr. anche M.
Cesa, op. cit., p.16.
7
sostiene la tesi principale che sia legittimo dal punto di vista politico e giuridico
iniziare una «guerra preventiva» contro quei principi potenti e ambiziosi che
potrebbero attentare all'equilibrio instauratosi precedentemente, prevenendo così «i
pericoli premeditati e preparati, e anche quelli non meditati ma verosimili e possibili»:
«[...] il perseverare della concordia fra gli elementi dipende da una partizione
equa, fino a che l'uno non è sopravanzato in nulla dall'altro. E questo è ciò di cui il
sapientissimo Lorenzo de' Medici […] ebbe sempre cura, affinché gli Stati dei principi
italiani fossero tra loro bilanciati e perciò anche l'Italia fosse in pace; pace che pure si
ebbe finché egli visse e fu custode di questo bilanciamento, e che venne meno con
l'estinguersi della sua vita e di quel bilanciamento»21
.
Il 1494 segnerà la fine di ogni speranza di ritorno alla normalità per gli Stati
italiani, che fino al 1559 saranno quasi ininterrottamente coinvolti in decenni di guerre
attuate dalle grandi potenze europee, Francia e Spagna in primis, per la supremazia
nella penisola; quelle grandi potenze che, al contrario dei principati italiani, erano
riuscite a consolidare o, comunque, stavano portando avanti un processo ben definito
di accentramento del potere e di rafforzamento delle istituzioni e dell’amministrazione
che le avrebbe avvantaggiate, in tutti i campi (economico, politico, culturale, ecc.), nei
secoli avvenire22
. L’Italia, d’ora in poi e fino alla prima metà del Settecento, diverrà
parte costitutiva di un equilibrio «generale» che sarà quello europeo e agirà dunque da
equilibrio «minore»; stessa cosa varrà anche per l’equilibrio tedesco, che inizierà a
rivelarsi fondamentale nel momento in cui si avvierà la Riforma Protestante, ossia dal
1517 (non bisogna comunque prendere questa data come fondativa dello scisma della
Cristianità, in quanto già nel passato erano sorti movimenti religiosi del tutto
eterodossi rispetto alla dottrina cattolica); da notare che sia l’Italia che la Germania
versavano nella stessa situazione di grande frammentazione politica ed economica (ed
anche religiosa in Germania) ed è soprattutto questo che permise alle volontà degli
altri Stati nazionali europei di appagarsi e di ottenere la supremazia in tali regioni;
inoltre il «Bel Paese» godeva di un intenso sviluppo economico e culturale, sotto la
spinta dei suoi centri industriali e finanziari, del suo sviluppo agricolo; era sede della
civiltà cristiana e culla del Rinascimento e dell’Umanesimo. Soltanto poi verso la fine
del Seicento si costituiranno altri due nuovi equilibri minori, quello nordico e quello
21
A. Gentili, De jure belli libri tres, ed. Hanoviae, 1612, cap. XIV; cit. in M. Bazzoli, op. cit., pp. 11-12.
22
Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., p. 26; cfr. anche M. Cesa, op. cit., p. 20 e A. Aubert,
P. Simoncelli, op.cit., p. 58; cfr. infine anche nota 13 supra.
8
orientale, e inizieranno a perdere importanza i primi due23
(soprattutto quello tedesco).
Il quadro politico europeo che si manifestava alla fine del Quattrocento «non
lasciava intravedere l’emergere di alcuna potenza capace di incarnare un progetto
egemonico: […] Venezia sembra aver maturato una reale sensibilità per le vicende
della politica internazionale, mentre Francia e Inghilterra sono uscite dalla loro guerra
dei cent’anni (1337-1453)» e hanno intrapreso la via dell’accentramento nazionale;
infine «Impero e Papato, più che intraprendere politiche autonome, appaiono essere
reattivi alle vicende esterne». Il dato sostanziale è che non esisteva ancora alcun
centro politico dominante24
.
L’equilibrio italiano iniziò a rompersi nel momento in cui Ludovico «il Moro»
divenne duca di Milano nel 1479, segregando a Pavia il legittimo erede della casata
milanese degli Sforza, Gian Galeazzo II (1469-1494), il quale era ancora troppo
giovane per governare. Purtuttavia egli era già promesso sposo a Isabella d’Aragona
(1470-1524), nipote di Ferdinando I, re di Napoli; il gesto messo in atto da Ludovico
dunque mise in crisi le relazioni fra i due Stati. Per prepararsi al futuro scontro,
Milano elaborò una fitta azione diplomatica, volta ad assicurarsi l’amicizia sia con la
Francia di Carlo VIII (1470-1498) sia con l’Imperatore Massimiliano I Asburgo
(1459-1519); d’altra parte, il re francese si era già deciso a calare in Italia con le sue
truppe per far valere il diritto dinastico degli Angiò-Valois di ascendere al trono
napoletano, in quanto la casata degli Angiò si era estinta a Napoli nel 1481; infine lo
Stato pontificio, retto dal Papa Alessandro VI Borgia (1492-1503), decise di unirsi con
Napoli e ciò lasciò isolata la politica diplomatica di Ludovico, che finì dunque per
ritorcersi contro, in quanto anche Venezia rimase neutrale25
. L’avanzata francese durò
quasi due anni e si concluse nell’estate del 1495, con la battaglia di Fornovo sul Taro
(6 luglio) quando una grande coalizione internazionale antifrancese composta da
Venezia, Stato della Chiesa, Milano, Spagna, Impero, Inghilterra e ovviamente Regno
di Napoli pose fine alle speranze di supremazia transalpine nella penisola26
.
L'equilibrio di potenza viene dunque temporaneamente restaurato e a ciò
convogliano tutte le potenze europee: un equilibrio non più solo italiano ma che
quindi diviene europeo a partire dal XVI secolo, poiché gli statisti iniziano ad
23
Ibidem, p. 29; cfr. anche F. Chabod. op. cit., pp. 8; 38-39.
24
Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., pp. 31-32.
25
Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., p. 58-59.
26
Ibidem.
9
analizzare e a discutere dei rapporti di forza e di potenza tra gli Stati, che «appaiono
dotati di uguali diritti, di identico valore morale e politico», rispondenti ora alla sola
dottrina della «Ragion di Stato» di machiavelliana memoria come «principio supremo
imposto ai reggitori dei popoli», e «fra i quali [Stati] pertanto possono bene essere
istituite […] relazioni di mutuo equilibrio»27
. Nei primi anni del Cinquecento è
nuovamente la Francia a prendere l'iniziativa bellica, con il re Luigi XII Orléans
(1462-1515) il quale già nel 1501 riprende le ostilità nel Meridione italiano, da cui
viene scacciato per mano degli Spagnoli due anni dopo; in seguito le operazioni
belliche si spostano a Nord, dove, tra fasi alterne, Milano rientra nell'orbita francese
dopo circa dodici anni di guerra, tra il 1504 e il 1516, anno del Trattato di Noyon tra
Francia e Spagna che vede affermarsi l'occupazione milanese da parte dei transalpini e
l'occupazione napoletana da parte dei castigliani28
.
Nel 1515, morto Luigi XII, sale al trono Francesco I (1494-1547); in Spagna,
Carlo I d'Asburgo, divenuto nel 1516 re di Castiglia e Aragona dopo la morte di
Filippo I «il Bello» (1478-1506) e di Ferdinando III d'Aragona (1452-1516), nel 1519
assume anche la carica di Imperatore con il nome di Carlo V (1500-1558), in seguito
alla morte dell'Imperatore Massimiliano I Asburgo, e riunisce i suoi possedimenti
occidentali, orientali e d'oltremare, creando un enorme impero capace di chiudere in
una morsa il diretto nemico francese (già dal 1522 comunque Carlo avrebbe designato
suo fratello Ferdinando come erede dei possedimenti austro-tedesco-boemi)29
. Inizia
lo scontro per l'instaurazione della «Monarchia Universale» in Europa, che durerà fino
al 1559. Proprio il conflitto tra le due maggiori monarchie del Cinquecento risulterà
uno degli assi portanti di tutto il secolo, insieme allo scontro religioso e allo scontro
tra l'Impero Asburgico e l'Impero Ottomano30
:
«Spagna e Francia si fronteggiano [per] l'instaurazione di una supremazia
europea. Siamo di fronte a una “bilancia” i cui piatti hanno più o meno lo stesso peso,
una situazione, questa, in cui gli Stati non direttamente coinvolti sono chiamati a porre
rimedio […] con la loro adesione a una parte o all'altra, a seconda delle circostanze,
agli eventuali squilibri o, in assenza di questi, a mantenere una stretta neutralità. Loro
principale obiettivo è, infatti, evitare che uno dei due contendenti possa prevalere e
27
Cfr. F. Chabod, op. cit., pp. 6-8.
28
Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., pp. 29-30.
29
Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp. 81-83.
30
Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., pp. 32-33.
10
quindi soggiogare non solo il diretto rivale ma anche tutti gli altri membri del
sistema»31
.
Durante questi anni il Papato manifesta la propria volontà di appoggiare gli
spagnoli del cattolicissimo Carlo V, il quale voleva liberare Milano dal giogo francese
e restaurare il potere degli Sforza; inoltre Stato della Chiesa e Francesi confliggevano
nelle loro mire espansionistiche, nell’area ferrarese e lombarda; tuttavia questa
politica viene criticata dallo storico e politico diplomatico veneziano Paolo Paruta
(1540-1598) che nei suoi Discorsi politici (pubblicato postumo nel 1599) evidenzia
come invece Papa Leone X (1513-1521, esponente della famiglia fiorentina dei
Medici) avrebbe dovuto adottare una politica più conforme a quella veneziana, ossia
di «bilanciere» tra i due contendenti, in quanto:
«mentre vi stavano questi due prencipi [Francesco I e Carlo V] di forze pari e
d’animo infestissimo, dandosi l’uno contrappeso all’altro, venivano a restar più sicuri
gli altrui stati, non essendo mai per tollerare una parte, che l’altra crescesse e
s’innalzasse con la rovina d’alcun potentato d’Italia; anzi quello che fusse stato
assalito dall’uno, era sicuro d’aver dall’altro certo ed utile soccorso. In modo che, a
niuna cosa dovea più pensare Leone […] che a tenere giusta questa bilancia con la sua
neutralità»32
.
Mentre per quanto riguarda la sua patria, egli scrive:
«[…] il Senato Venetiano […] mentre le cose di questi due Prencipi […]
furono nelli maggiori ardori della guerra in Italia, volle accomodarsi alle fortune di
ciascuno di loro, e servendo alla conditione delle cose de’ tempi mutare spesso anco
amicitie, tenendo ferma questa mira del tenere le forze loro quanto più si potesse
bilanciate e indebolite con quel contrasto che si faceano da se stessi […]»33
.
Tra gli anni 20 e e la fine degli anni 50 del XVI secolo «i due prencipi di forze
pari e d’animo infestissimo» non cessarono mai di combattere, sia sul lato politico,
che su quello religioso, in quanto Francesco I più e più volte utilizzò l’arma religiosa
per minare e ridimensionare la potenza di Carlo V, molto più superiore alla sua dal
punto di vista economico, militare e territoriale, aizzando i luterani (chiamati
«protestanti» a partire dalla Dieta di Spira del 1529) a provocare disordini (la guerra
31
Cfr. M. Cesa, op. cit., p. 21
32
P. Paruta, Discorsi politici, a cura di G. Candeloro, Bologna, Giappichelli, 1943, Discorso IX, pp.
353-355, 358-359, 360-364,; cit. in M. Bazzoli, op. cit., pp. 16-17.
33
Ibidem; cit. in M. Cesa, op. cit., p. 22.
11
dei contadini di Thomas Muntzer, 1524-1525, per esempio) e ad organizzarsi anche
militarmente, con la Lega di Smalcalda del 1531, alla quale rispose Carlo formando la
Lega Cattolica, nel 1538. Ecco che la religione diviene strumento della politica estera
degli Stati, e quindi strumento della politica dell'equilibrio in Europa34
. Il conflitto
religioso, al quale parteciperà in parte anche l'Inghilterra di Enrico VIII Tudor (1491-
1547) rimanendo affianco dei cattolici almeno fino al 1534, anno dell'emanazione
dell'Atto di Supremazia, con cui si sancisce la divisione politica (e non dottrinale) tra
Chiesa Cattolica e Chiesa Anglicana35
, vedrà nella battaglia di Műhlberg (1547) un
importante crocevia, con la netta vittoria dei cattolici di Carlo V e si concluderà poi
nel 1555 con la pace di Augusta, stipulata tra Carlo e la Lega di Smalcalda: verrà
affermato l'importante principio religioso «cuius regio, eius religio», che avrebbe
permesso ai prìncipi tedeschi e agli abitanti delle zone dell'Impero di scegliere
liberamente la propria religione; si lasciava libero chiunque avesse voluto emigrare
dal rispettivo paese per motivi religiosi; si affermava una volta per tutte la fine di tutti
i progetti universalistici della Chiesa Romana di abbracciare tutte le genti del mondo
cristiano e, d'altra parte, si fece definitivamente strada il «principio della divisione e
del particolarismo tipico dell'età moderna», valido anche per l'Impero germanico:
«Eliminando per sempre la prospettiva di creare uno Stato assolutistico e
centralizzato, infatti la normativa augustana diede ai prìncipi [tedeschi] larga
autonomia politica, riconoscendoli come autentici rappresentanti della sovranità
statale, con pieni poteri in materia amministrativa, giudiziaria, militare, fiscale e anche
di politica estera. L'Impero però […] continuò ad esistere e a funzionare in quanto
unitaria realtà sovrastatale preposta alla salvaguardia della difesa verso l'esterno e
della pace interna, garantendo in tal modo l'unità politica della nazione tedesca […].
Ciò che crollava ad Augusta non fu dunque l'Impero in quanto tale […] ma l'idea di
una monarchia universale estesa sull'intera cristianità europea coltivata da Carlo V
[…]»36
.
Per quanto riguarda il conflitto politico-militare, si susseguirono alterne
vicende: i primi scontri militari tra Francesi e Spagnoli iniziarono nel 1521 in
Lussemburgo e Navarra, con un'iniziale supremazia transalpina, ma dopo 5 anni Carlo
34
Cfr. nota 9 supra.
35
Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., p. 39; cfr. anche A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp.
168-173.
36
Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp. 204-207.
12
V riporta una prima vittoria decisiva (l'anno prima aveva catturato Francesco I dopo
l’assedio di Pavia) con la stipulazione del Trattato di Madrid, in cui sia attesta la
perdita di influenza francese su tutta l'Italia e e la conferma dei possedimenti asburgici
in Borgogna, nelle Fiandre e nell'Artois. La «bilancia» dell'equilibrio sembra quindi
pendere verso la corona asburgica, le diplomazie europee si organizzano e danno vita
alla Lega di Cognac (1526), che include Francia, Papato, Repubblica di Venezia e
l'anno dopo anche l'Inghilterra; Francesco I intrattiene relazioni diplomatiche con i
turchi ottomani di Solimano I «il Magnifico» (1494-1566), i quali avrebbero potuto
mettere in seria difficoltà gli imperiali ad oriente. Gli scontri dunque ricominciano già
nel 1526 e si concludono nel '29 con la Pace di Cambrai, detta anche “Pace delle due
dame” (firmata tra Luisa di Savoia, 1476-1531, madre di Francesco I e Margherita
d'Austria, 1480-1530, zia di Carlo V), per cui Carlo V rinuncia ai possedimenti
borgognoni mentre Francesco I rinuncia definitivamente alle mire espansionistiche
verso Milano. Dopo 6 anni in cui Carlo V dovette maggiormente prestare attenzione ai
problemi religiosi e al conflitto a est con i turchi, che nel 1529 erano giunti fino alle
porte di Vienna, le operazioni militari riprendono con Francesco I che, approfittando
della morte di Francesco II Sforza (1495-1535) a Milano, cerca nuovamente di
penetrare nel Settentrione italiano occupando Torino e i territori piemontesi dei Savoia,
mentre gli Spagnoli rispondono occupando la Provenza: si arriva alla tregua di Nizza
del 1538, con cui vengono riconosciute le conquiste militare di entrambi i contendenti
(Spagna in Lombardia, Francia in Piemonte); oltre a ciò, nello stesso anno si forma
una lega antimusulmana, e dunque antifrancese, composta dallo Stato della Chiesa,
dagli Asburgici (Spagnoli e Imperiali) e dalla Repubblica di Venezia, per bloccare
l'avanzata franco-turca nel Mare Nostrum, che stava mettendo in discussione tutto
l'equilibrio mediterraneo. Tuttavia questa contesa vede favoriti i Turchi, che riescono a
conquistare e successivamente egemonizzare gran parte delle coste e delle isole
mediterranee. Le ultime cartucce di Francesco I vengono sparate nei primi anni
Quaranta del Cinquecento: il sovrano francese vuole approfittare della brutale
sconfitta navale di Algeri subita da Carlo V contro i pirati turchi del Barbarossa (1466
ca.- 1546) e formalizza la formazione di una lega antiasburgica comprendente, oltre
alla Francia, la Danimarca, la Svezia e la Scozia, i quali avrebbero dovuto impegnare
gli Inglesi a nord dell'isola; quest'ultimi infatti, perseguendo la politica di balancer fra
i due poli di potere, dal 1540 avevano intrapreso una politica favorevole agli Asburgo,
13
soprattutto dopo la morte del primo ministro inglese Thomas Cromwell (1485-1540),
fautore di una politica antiasburgica. Nel 1544 si arriva alla pace di Crepy, che
sancisce la definitiva cessione della Borgogna alla Francia, che a sua volta ribadisce
nuovamente la rinuncia a ogni ambizione italiana e, soprattutto, decide di staccarsi
definitivamente dall'alleanza con i Turchi, riappacificandosi così anche con il Papa
Paolo III (1534-1549), che l'anno dopo dà avvio al concilio di Trento, idoneo a porre
la Chiesa Romana su basi più forti e solide. Dopo più di 20 anni di guerra, Francesco I
(che morirà nel '47) «è condotto a riconoscere il primato, se non necessariamente
territoriale, politico di Carlo, come supremo reggente e custode dell'ordine
internazionale»:
« […] lo scontro per il potere internazionale si sostanzia di tutto ciò
[operazioni militari e rituali incontri diplomatici], ma lo supera avendo di mira la
realizzazione di un assetto gerarchico, nel quale il vertice, non che controllare
direttamente o possedere come in un solo e unitario impero tutti gli Stati, funge da
supremo regolatore dei rapporti internazionali, da responsabile dunque di tutto ciò che
nei diversi territori potrà accadere»37
.
Morto Francesco I, al trono francese sale Enrico II (1519-1559). Viste le
difficoltà che trova Carlo V a porre fine alle resistenze protestanti e all'insofferenza
antiasburgica nelle Fiandre, in particolare nei Paesi Bassi, il nuovo sovrano francese
riprende le ostilità nel 1552 annettendo Metz, Toul e Verdun per poi proseguire
conquistando anche il Piemonte dei Savoia. Si era costituita una nuova alleanza
matrimoniale tra la Spagna e l'Inghilterra, la quale, dopo la morte di Enrico VIII (1547)
aveva assistito al governo del giovane Edoardo VI (1537-1553) e, dopo la sua morte, a
quello di Maria I Tudor (1516-1558), fervente sostenitrice del cattolicesimo; essa
viene data in sposa al figlio di Carlo V, il futuro Filippo II (1527-1598), sancendo il
ritorno dell'Inghilterra al Cattolicesimo. La nuova alleanza porta in dote una potenza
militare capace di mettere fine alle ultime chances di vittoria francese, sebbene poi
Maria muoia nel 1558 (stesso anno in cui muore Carlo V) e, priva di eredi, lascia il
trono alla sorella Elisabetta I (1533-1603), protestante. Si raggiunge una pace, stavolta
definitiva: il 2-3 aprile del 1559 viene stipulata a Cateau-Cambrésis tra i rappresentati
di Francia, Spagna e Inghilterra e sebbene l'Italia sia uno dei territori nevralgici che
fanno parte degli argomenti della pace, nessun rappresentante italiano viene convocato
37
Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., pp. 33-49.
14
a discutere: la Francia rinuncia a tutte le sue conquiste italiane (tra cui il Piemonte,
passato ai Savoia e parte della Corsica, concessa a Genova) e alle sue aspirazioni nella
penisola; la Spagna consolida il suo dominio sull'Italia, spostando enormemente
l'equilibrio a suo favore in questa regione, ma è ormai separata, giuridicamente e
politicamente, dall'Impero, in quanto Carlo V, abdicando, consegna il governo austro-
tedesco al fratello Ferdinando I (1503-1564); i possedimenti italiani, spagnoli,
d'oltremare e nelle Fiandre invece passano al figlio Filippo II; l'Inghilterra perdeva
solamente la città di Calais, passata in mano francese38.
Sostanzialmente non ci sono né vincitori né vinti: la Spagna è riuscita a
difendersi egregiamente dai continui attacchi francesi, che l'hanno fiaccata ma non
sconfitta; in un ipotetico assetto gerarchico delle relazioni internazionali potremmo
dire che la Spagna si troverebbe ancora al primo posto, sebbene non ancora per molto;
l'Inghilterra sicuramente esce rafforzata dal nuovo quadro politico internazionale, in
quanto è riuscita nel suo intento di bilanciare lo scontro fra i due poli monarchici del
Cinquecento; infatti, «in questo apparente caos ricompare […] il principio per il quale
occorre impedire ogni tentativo di riproporre una monarchia universale. Lo “spettro
dell'egemonia” che ha minacciato il sistema fin dalla nascita, diviene elemento
decisivo nel successivo sviluppo delle relazioni internazionali, e la necessità per gli
Stati di “contropesarsi” è ben presto posta in evidenza tanto dalla teoria che dalla
pratica politica»39
.
Nel XVI secolo dunque si afferma definitivamente la necessità dell'intervento,
militare e non, nelle vicende di un terzo paese per promuovere o impedire alterazioni
dell'equilibrio generale: i rapporti interstatali divengono così importanti e così stretti,
la necessita di contrappesi e contromisure così impellente, che è naturale considerare
il Cinquecento come il secolo della formazione di un sistema di Stati europeo
integrato (quasi) alla massima potenza40
. La tutela della sicurezza nazionale, che è una
logica propagazione anche della dottrina della «Ragion di Stato», riveste un aspetto
fondamentale della politica dell'equilibrio: così come «la natura, nella cui disposizione
ogni cosa bilanciata con contrapposti e sostenuta con opposizioni si vede, dimostra
manifestatamente […] e la necessità, e l'arte di contrapesarsi scambievolmente l'un
l'altro […] or questa somiglianza, il contrapesare in materia di Stato, non è altro che
38
Ibidem, pp. 50-51.
39
Cfr. M. Cesa, op. cit., p. 24.
40
Cfr. F. Chabod, op. cit., pp. 96-97.
15
uno impedire, et un riparare, che altri non sgomini la quiete e non metta in pericolo la
sicurezza degli Stati». Quindi equilibrio naturale a cui corrisponde un uguale
equilibrio politico; equilibrio di potenza ci può essere solo se vi è «pluralità di
prencipi», ossia multipolarismo di potere, dove vi è più di una potenza capace di
confrontarsi con un'altra o più di una; e può essere indirizzato a due scopi:
« […] alle volte ha per fine la pace d'una republica composta di più Stati
differenti, quale è l'Italia, e l'Alemagna, e la Cristianità tutta insieme; alle volte la
sicurezza e ben essere di uno Stato particolare. Nel primo caso il contrapeso consiste
in una certa eguaglianza, per la quale il corpo della repubblica non abbia membri che
non siano tra sé proporzionati e con una certa egualità bilanciati; […] Ambì questa
lode Arrigo VIII re d'Inghilterra, che aderendo ora a Carlo V ora a Francesco I re di
Francia, pretendeva dar contrapeso alle cose d'Europa. […] Ma il contrapeso che per
oggetto la sicurezza particolare di uno Stato, tocca a chiunque ha dominio e se ne
vuole, senza dipendere dagli altri, assicurare»41
.
Questa interpretazione «naturalistica» dell'equilibrio può essere associata a
quella di ispirazione cosmica formulata da Philippe de Commynes (1445 ca.-1511),
segretario politico francese del Re Luigi XI (1423-1483), nelle sue Memorie:
«In conclusione, mi sembra che Dio non abbia creato in questo mondo né
uomo né bestia cui non abbia dato qualche cosa di contrario per tenerlo in timore e
rispetto, […] giacchè al reame di Francia diede per contrario gli Inglesi, agli Inglesi
diede gli Scozzesi, al regno di Spagna il Portogallo, […] ai principi d'Italia […] i
comuni […] che sono sempre nemici dei signori; e i signori son sempre nemici loro
[…]»42
.
1.3 Dalla pace di Cateau-Cambrésis alla pace di Westfalia
Il nuovo assetto internazionale venuto fuori dalla guerra ci riconsegna
un’Europa in cui sembrano essere tre le uniche potenze a fare da padroni nel «gioco
politico internazionale»: Spagna, Francia e Inghilterra. Dal 1560 in poi tuttavia nuove
organizzazioni statali faranno la loro comparsa accanto a quelle tradizionali, fra le
quali l'Olanda, la Svezia e la Russia degli Zar, che accentueranno il carattere
41
G. Botero Benese, Del contrapeso delle forze de' principi, Venezia, G. Varisco, 1605 pp. 8-10; cit. in
op. cit. M. Bazzoli, pp. 21-23.
42
Philippe de Commynes, Memorie (1488-1501), lib. V, cap. XVIII, pp. 295-296; cit. in M. Cesa, op.
cit., p. 13.
16
multipolare europeo che è uno dei presupposti per l'attuazione dell'equilibrio generale;
nel XVII secolo l'Impero assumerà un ruolo internazionale importante, rispetto a
quello più di contorno che aveva assunto nel Cinquecento nei confronti del conflitto
franco-spagnolo. Gli interventi a sfondo religioso diverranno sempre più un pretesto
per tutelare l'ordine internazionale costituitosi, e aumenteranno in conseguenza
dell'ampliamento delle regioni interessate da tali conflitti, quali la Francia, l'Olanda e
infine ancora la Germania, nella prima metà del Seicento. Le nuove guerre tra le
potenze europee rimarranno inespresse fino alla fine del Cinquecento, in quanto
furono soprattutto i conflitti civili interni a connotare la seconda metà del XVI secolo;
quindi, a un periodo di discontinuità contrassegnato da un ricorrente spostamento della
«bilancia» internazionale tra Francia e Spagna, ne discende un altro contraddistinto da
sostanziale continuità, derivante dall'assenza di conflitti generalizzati nel Vecchio
Continente e quindi dal mantenimento (sebbene sempre precario) dell'ordine europeo.
Le prerogative delle grandi potenze non muteranno di molto: l'Inghilterra continuerà
ad operare per «dividere l'Europa in Stati press'a poco uguali acciocché, per
l'equilibrio delle loro forze essi si astengano dai troppo ambiziosi progetti» 43
,
ribadendo nuovamente quale sia il cardine di tutta la sua politica estera; la Spagna
lancerà una nuova sfida all'equilibrio, provocata dai rivolgimenti religiosi vicini ai
suoi confini, ma esaurirà tutto il suo vigore e dal Settecento diverrà una potenza di
secondo piano; la Francia, dopo più di un trentennio di guerre di religione, nel
Seicento raggiungerà il primato internazionale nel novero degli Stati europei,
scalzando la Spagna da siffatta sede44
.
Il concetto di equilibrio di potenza, almeno fino alla pace di Westfalia del 1648,
rimarrà interpretato solo come un fatto politico, pratico, concreto a cui non verrà data
nessuna definizione o interpretazione giuridica precisa, e ciò agevolerà la
strumentalizzazione della sua idea e della sua effettiva messa in pratica, che risulterà
assai ambigua ed equivoca. Conseguenza di questa sua ambiguità è che gli statisti, gli
uomini politici, i diplomatici, gli intellettuali, ecc. utilizzeranno tale termine per
analizzare le fondamenta della politica internazionale degli Stati in modo da farla
risultare quasi “umanitaria”, cioè a favore dell'ordine internazionale, mentre in realtà
gli obiettivi politici perseguiti dagli statisti produrranno sempre un'alterazione
43
Cfr. F. Chabod, op. cit., p. 10.
44
Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., pp. 53-55.
17
dell'equilibrio45
.
La Spagna di re Filippo II sarà lo Stato che inizialmente dovrà affrontare il
maggior numero di problemi e che vedrà per primo mettere in discussione i propri
domini: tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del Cinquecento Filippo II sarà
impegnato nel conflitto contro gli Ottomani, i quali avevano accresciuto le scorrerie
barbaresche in tutto il Mediterraneo, arrivando a conquistare Malta (1565) e Cipro
(1570), zone d'azione commerciale di Venezia; quest'ultima, proprio insieme alla
Spagna e allo Stato della Chiesa di Pio V (1566-1572) formano la «Lega Santa» che
nell'ottobre del 1571 infligge una grave sconfitta alla flotta turca e sancisce l'inizio
della lenta ritirata turca dal continente europeo46
, che si concluderà poi alla fine della
Prima Guerra Mondiale.
Dal 1566 inoltre scoppierà, con tutta la sua carica religiosa, la questione
dell'indipendenza delle Province Unite, ossia i territori nordici dei Paesi Bassi
spagnoli, che acquisteranno l'indipendenza de facto nel 1609 e de iure nel 1648, alla
fine della «Guerra dei Trent'anni». La lotta, intesa come la prima vera guerra di
indipendenza della storia moderna, viene avviata in coincidenza dell'intensificarsi
delle guerre di religioni francesi, che vedeva il contrasto furioso tra gli «ugonotti», i
protestanti francesi, e i cattolici; in coincidenza dell'intensificarsi della guerra fra
Spagna e Impero Ottomano, che finisce per porre in secondo piano le vicende delle
Fiandre; e in seguito all'accentramento assolutistico operato da Filippo II rispetto alle
spinte autonomiste provenienti dalle parti del suo Impero. Rispetto a quest'ultima
causa della rivolta c'è da dire che il popolo olandese rivendicava il disonoramento del
cosiddetto Privilegio del Brabante, una sorta di carta costituzionale redatta nel 1356
dal duca di Lussemburgo, Venceslao I (1337-1383), «che fissava i reciproci diritti e
doveri dei sudditi e del principe»; La difesa di quelle libertà e di quei privilegi dai
soprusi spagnoli venne traslata e trasformata dai ribelli olandesi in difesa del vincolo
che univa essi con il principe originario, legato egli stesso direttamente a Dio, proprio
grazie all'obbligo contratto con il Creatore e che concedeva quelle franchigie e quei
privilegi alla popolazione. Questo sacro patto doveva essere difeso in ogni modo e ciò
giustificava la resistenza aperta contro Filippo II47
.
A dar manforte ai correligionari protestanti dei Paesi Bassi si impegna
45
Cfr. F. Chabod, op. cit., pp. 35-37.
46
Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., pp. 59-60.
47
Ibidem, pp. 54-58; Cfr. anche A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp. 284-290
18
l'Inghilterra di Elisabetta I, ormai estranea al periodo in cui la «Terra d'Albione» si era
trovata alleata degli Spagnoli nelle ultime fasi di guerra fra Carlo V ed Enrico II di
Francia (con il matrimonio tra Anna la Sanguinaria e Filippo II); gli inglesi vedevano
nel ridimensionamento della Francia provocato dai conflitti religiosi come un
elemento destabilizzante della «bilancia» dell'equilibrio europeo, in quanto la Spagna
avrebbe potuto espandere la propria influenza in tutta l'Europa continentale, dove
l'Impero di Massimiliano II d'Asburgo (1527-1576), seguito da quello di Rodolfo II
(1552-1612) costituiva un naturale alleato su cui contare (la lotta contro gli Ottomani
era comune a entrambi gli Stati). Così facendo si esplica un altro elemento
fondamentale della politica dell'equilibrio, ossia quello della costituzione delle grandi
alleanze che si oppongono al «nuovo tentativo egemonico spagnolo»:
«L'aiuto di Elisabetta ai calvinisti francesi e olandesi fece sì che l'isola si
trovasse per la prima volta a guidare una coalizione volta a proteggere l'Europa da
ambizioni egemoniche, gettando così le basi di una politica che, da un punto di vista
britannico, lungi dal risolversi nella mera difesa dell'assetto europeo, si poneva come
prerequisito per raggiungere la supremazia sui mari»48
.
La preoccupazione inglese è accresciuta anche dal fatto che Filippo II nel 1581
riesce ad unificare le corone di Spagna e Portogallo sotto un unico stendardo, dal
momento che la dinastia Aviz, regnante sin dal 1385, si era estinta con il governo del
cardinale Enrico I (1512-1580), il quale prima di morire fece in tempo a dichiarare
Filippo nuovo re del Portogallo: le pretese spagnole erano suggellate dal matrimonio
fra Isabella del Portogallo (1503-1539), figlia del re lusitano Emanuele I (1469-1521),
e Carlo V, che l'aveva presa in moglie e con cui aveva generato proprio Filippo II (ora
Filippo I di Portogallo)49
. Dunque la supremazia inglese nei mari iniziava ad essere
messa in discussione e Filippo si ritrova a sognare la possibilità di sbarcare in
Inghilterra, aiutato anche dalle incursioni scozzesi e dai tentativi di Maria Stuart
(1542-1587), cattolica regina scozzese dal 1542 al 1567, di estromettere dal trono
inglese la cugina Elisabetta, la quale tuttavia riusce a imprigionarla e a giustiziarla nel
1587. Per vendicare l'affronto subito e il reiterato sostegno inglese agli ugonotti
francesi, Filippo organizza una enorme flotta composta da 130 navi, l'Invencible
Armada, che avrebbe dovuto mettere sotto scacco le forze marittime inglesi e infine
48
Cfr. M. Cesa, op. cit., p. 25-26.
49
Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp. 300-302; cfr. anche L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op.
cit., p. 62.
19
distruggerle; ma nelle acque della Manica, i galeoni spagnoli, già ridottisi di numero a
causa di alcune tempeste, non riescono ad avere la meglio dei vascelli inglesi di sir
Francis Drake (1540-1596) e subiscono una clamorosa sconfitta; i tentativi egemonici
spagnoli si rivelavano, ancora una volta, estremamente utopici rispetto alla realtà
concreta delle cose; l'Inghilterra assumeva risolutamente «il ruolo di grande potenza
protestante europea, l'unica in grado di contrapporsi alla Spagna cattolica»50
.
In effetti, l’unica altra potenza che avrebbe potuto turbare la potenza
castigliana era impegnata a risolvere i duri contrasti religiosi in patria: dal 1562 fino
alla fine degli anni Novanta del Cinquecento la Francia si trova coinvolta nel peggior
conflitto civile della sua storia moderna, secondo solo alla Rivoluzione del 1789. Nel
1563 si era conclude definitivamente il Concilio di Trento, promosso da Papa Paolo III
nel 1545 per rispondere alla sfida aperta da Martin Lutero (1483-1546) nel 1517: da
esso ne nasce «una nuova chiesa militante, che in una poderosa sfida dottrinale e
dogmatica rifonda la sua organizzazione e ritrova il prestigio per ribadire la
supremazia del papato sui sovrani e del potere spirituale su quello temporale»51
. I
risultati conseguiti dai partecipanti al concilio tridentino ridonano dunque fervore
all'attività cattolica e ai suoi seguaci; in Francia l'autorità cattolica si era rafforzata sin
dal Concordato stipulato con la Chiesa di Roma nel 1516 ed esso aveva contribuito a
creare un forte episcopato nazionale, capace di radicarsi anche all'interno della
burocrazia statale. Tuttavia neanche i territori francesi vengono risparmiati da
movimenti scissionisti o riformisti, come quello avviato, all'inizio del secolo,
dall'ecclesiastico Guillaume Briçonnet (1445-1514) e dal filosofo umanista Jacques
Lafèvre d'Etaples (1450 ca.-1536 ca.), i quali arrivano a predicare fino al cuore della
corte francese di Francesco I, dove trovano un'importante alleata nella sorella del re,
Margherita di Valois (1492-1549); cosicché la loro azione riformatrice, anteriore
anche a quella di Lutero, può protrarsi senza troppe difficoltà, giovandosi della
protezione offerta da Margherita. Il re, soprattutto nei momenti in cui non era
impegnato a guerreggiare con Carlo V, tenta svariate volte, anche attraverso metodi
repressivi, di porre fine alla diffusione delle idee riformiste, ma fallisce nel tentativo;
stesso identico risultato ottiene il successore, Enrico II, che arriva addirittura a
istituzionalizzare l'Inquisizione francese (1557). Subito dopo la morte del re, i
50
Ibidem, pp. 303-304; cfr. anche M. Cesa, op. cit., p. 26.
51
Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., p. 61.
20
protestanti francesi (gli ugonotti: sposano per lo più le tesi di Giovanni Calvino, 1509-
1564, il quale aveva predicato soprattutto a Ginevra e nei territori svizzeri) sanciscono
la loro presenza sul territorio convocando il primo Sinodo nazionale, mettendo in
discussione tutte le fondamenta della Chiesa cattolica francese. Essi approfittano
anche del momento di transizione che stava attraversando la corte francese, in quanto
a Enrico II era succeduto un Consiglio di reggenza, che governava in vece del giovane
e cagionevole re Francesco II (1544-1560), il quale muore poi nel dicembre dell'anno
successivo. Proprio in quel mese la madre reggente, l’energica Caterina de' Medici
(1519-1589), profondamente cattolica, convoca gli Stati Generali dove si decide di
proibire le persecuzioni ugonotte e di liberare tutti i protestanti francesi fatti
prigionieri, senza però permettere alcuna diffusione del culto riformato; l'anno dopo,
con l'editto di luglio, si ribadisce l'impossibilità per i protestanti di predicare e di
riunirsi in assemblea; tali decisioni vengono in parte sovvertite nel gennaio del 1562,
quando, con l'editto di Saint-German, nonostante si proibisse agli ugonotti di arruolare
truppe e di diffondere il proprio culto, si permette loro di riunirsi in assemblea e di
convocare sinodi (sotto assenso del Re, Carlo IX, 1550-1574). Proprio la violazione
del principio d'assemblea, il 1 marzo del 1562, quando un gruppo di cattolici assale e
massacra i protestanti riuniti in preghiera nella cittadina di Vassy, segna la fine di ogni
possibile compromesso tra le due fedi, la militarizzazione delle truppe ugonotte e
l'inizio delle guerre di religione 52
. Esse si protraggono fino al 1598 e videro
avvicendarsi tre diversi re: Carlo IX, Enrico III (ultimo della dinastia Valois, 1551-
1589) ed Enrico IV Borbone (primo della sua dinastia, 1553-1610). Le guerre civili
produssero, in poco più di 30 anni, la demolizione della società e dello Stato francese:
fra intrighi, combattimenti, tradimenti (famosa la notte di San Bartolomeo, quella fra
il 23 e il 24 agosto del 1572, durante la quale si compì un eccidio di migliaia di
ugonotti, accorsi in massa a celebrare le nozze – chiamate “vermiglie” per gli eventi
che seguirono – tra la figlia di Enrico II e di Caterina de' Medici, Margherita di Valois,
1553-1615, ed Enrico III di Navarra, che nel 1589 diventerà Re di Francia col nome di
Enrico IV), soltanto nel 1598 la Francia può tornare ad abbracciare la pace, dalla parte
protestante. Dal 1589 inoltre lo Stato transalpino è nuovamente in guerra contro la
Spagna di Filippo II il quale, per trovare sbocchi ad una politica estera che era stata
fortemente indebolita con la sconfitta dell'Invencible Armada, decide di affiancarsi
52
Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp. 310-323.
21
alle truppe cattoliche di Enrico di Guisa (1550-1589), uno dei condottieri più
importanti di queste guerre civili, a difesa della capitale parigina, la quale era sotto
assedio per opera di Enrico IV di Francia. Aiutato anche dall'apporto delle truppe
olandesi, ormai vittoriose nei confronti degli oppressori spagnoli, e inglesi, il culto
riformato riesce a ottenere la vittoria con l'ingresso trionfale a Parigi di Enrico IV nel
marzo del 1594 e con l'abbattimento delle ultime resistenze cattoliche; nell'aprile del
1598 la pacificazione religiosa viene sancita con l'editto di Nantes, che consentiva fra
l'altro ai protestanti di poter accedere alle cariche pubbliche, di predicare liberamente
il proprio culto (tranne nei territori in cui risiedeva il re e la corte) e di mantenere otto
piazzeforti strategiche per circa ottant'anni (tra cui anche l'importante roccaforte della
Rochelle). Il mese dopo viene conclusa la pace di Vervins con la Spagna, che
sostanzialmente ribadiva le stesse clausole e condizioni della pace di Cateau-
Cambrésis del 155953
.
Il Seicento dunque si apriva come un secolo di grande incertezza e instabilità:
la guerra tra la Spagna di Filippo III d'Asburgo (1578-1621, Filippo II era morto pochi
mesi dopo la stipulazione del trattato di Vervins) e le Province Unite continuava, le
quali potevano contare sull'appoggio inglese, mentre la Francia doveva assolutamente
risalire la china per poter aspirare ai vertici della politica internazionale, che
raggiungerà nella seconda parte del secolo; l'Inghilterra conoscerà uno dei più
convulsi periodi della sua storia, che le farà attraversare due diverse rivoluzioni civili
e che però la porteranno nel Settecento a divenire la potenza principe del sistema
internazionale; nuove formazioni statali si affacciano prepotentemente sulla scena
internazionale, Svezia, Polonia e Russia in primis, ampliando le fondamenta del
sistema internazionale europeo, che ora non deve più contare solo sul mantenimento
degli equilibri «minori» italiani e tedeschi, ma anche sull'equilibrio nordico e orientale
per poter garantire l'equilibrio «generale» europeo. Proprio a questo allude il duca di
Sully, Massimiliano de Béthune (1559-1641), ministro di Enrico IV, quando
«attribuisce al re un grand dessin volto a “rendere tutti i quindici grandi potentati
dell'Europa cristiana pressapoco uguali in potenza, sovranità, ricchezza, estensione e
autorità, e […] dar loro confini e limiti così ben stabiliti e equivalenti che a coloro che
sarebbero più grandi e ambiziosi non possa venire né desiderio né avidità di
53
Ibidem, pp. 324-345.
22
accrescersi […]”» 54
. Insomma, il multipolarismo di potere diventa connotato
fondamentale del sistema internazionale europeo e del suo mantenimento.
Il Seicento è anche il secolo della prima rivoluzione scientifica della storia
umana, il secolo di Galileo Galilei (1564-1642), di Isaac Newton (1642-1727) e di
Renè Descartes (1596-1650) e molte delle concezioni naturalistiche o di ispirazione
divina legate al principio dell'equilibrio vengono abbandonate a favore di
un'interpretazione più scientifica e meccanicistica del concetto:
«si parla di “contrappesi”, della necessità di “pesare” la potenza, degli squilibri
dovuti a un carico eccessivo di uno dei “piatti”, e si fa grande uso della metafora della
“bilancia” […]. Questa concezione fisicalista dell'equilibrio persisterà, con le dovute
eccezioni, fino a tutto il Settecento […]»55
.
Per di più, si afferma definitivamente la distinzione tra mantenimento
dell'equilibrio «generale» europeo e politica dell'equilibrio effettivamente messa in
atto dagli Stati europei: infatti con la prima accezione, piuttosto utopica, si intende la
costruzione di un ideale sistema internazionale europeo basato sulla durevolezza della
pace fra le nazioni e su confini ben precisi fra gli Stati, che non vengano messi
continuamente in discussione; con la seconda accezione ci si riferisce invece alla
volontà di ciascuno Stato di volersi procurare, ad ogni costo, la sicurezza interna nei
confronti degli antagonisti esterni, il che non significa altro che perseguire un preciso
interesse nazionale all'autoconservazione, nell'ottica di un antesignano principio di
“selezione naturale” esistente fra i diversi membri del sistema europeo56
.
Sebbene il conflitto tra la Francia e la Spagna si era concluso da appena 2 anni,
nel 1600 i due grandi rivali della storia moderna tornano a combattersi sul suolo
italiano, in quanto Enrico IV di Francia decide di invadere il territorio piemontese del
ducato di Savoia per impossessarsi dell’importante roccaforte di Saluzzo; i Savoia,
alleati degli spagnoli sin dagli anni Ottanta del Cinquecento, invocano il loro aiuto,
che arriva puntualmente e che pone fine alle ostilità già l’anno successivo, con la
tregua di Lione: la Francia ottiene alcuni fortilizi montani ai suoi confini, i Savoia di
Carlo Emanuele (1562-1630) mantengono Saluzzo57
. La Spagna chiude i fronti di
guerra anche con l’Inghilterra (1604) e con le Province Unite (Tregua dei dodici anni,
54
M. de' Béthune, Memoires des sages et royales oeconomies d'Estat de Henri le Grand, 1638; cit. in M.
Cesa, op. cit., pp. 30-31.
55
Cfr. M. Cesa, op. cit., p. 31-32.
56
Ibidem, p. 32.
57
Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., p. 64.
23
1609), ma nel 1614 torna sui propri passi e scatena la guerra per il Monferrato, che
diviene mira di conquista da parte dei Savoia alla morte dell’ultimo discendente della
famiglia Gonzaga, Francesco IV (1586-1612), famiglia molto vicina agli interessi
spagnoli; i castigliani non avrebbero tollerato un ulteriore accrescimento
dell’influenza dei Savoia nell’Italia settentrionale: la guerra viene vinta e il
Monferrato rimane in mano ai Gonzaga, con Ferdinando I (1587-1626)58
.
L’Impero asburgico di Rodolfo II (1552-1612) nel 1606 pone
temporaneamente fine alla guerra contro l’Impero Ottomano per risolvere l’inquieta
situazione politico-religiosa interna:
«[…] ormai la linea della netta divisione dei fronti religiosi appariva
inevitabile, anche perché in tutto l’Impero il consolidamento interno dei singoli Stati si
andava realizzando in larga parte proprio in virtù di quel principio del cuius regio, eius
religio fissato ad Augusta che aveva sancito la territorializzazione e la
confessionalizzazione delle fedi religiose, favorendo l’irrigidimento istituzionale e
dogmatico delle chiese protestanti, sempre più legate al potere dei principi e sempre
meno disposte ad affrontare dibattiti religiosi che ne mettessero in discussione i
fondamenti organizzativi e dottrinali»59
.
La grande frammentazione religiosa dell'area tedesca (i cattolici erano in
maggioranza nella Baviera e negli arcivescovati di Colonia, Treviri e Magonza, i
protestanti in Sassonia, nel Palatinato e nel Brandeburgo – la futura Prussia) costituirà,
per l'ennesima volta, motivo scontro tra le fazioni cattoliche e protestanti e motivo di
conflitto della «Guerra dei Trent'anni»; l'Impero si rivela «incapace di preservare la
propria funzione mediatrice e sovranazionale», dinanzi all'amplificarsi degli «effetti
del rapido lacerarsi del tessuto istituzionale dell'Impero di fronte all'irremovibile
profondità delle divisioni politico-religiose degli Stati». Così le divisioni si
formalizzano fra il 1608 e il 1609, quando si costituiscono l'Unione evangelica
protestante (che trovo dei naturali alleati nell'Inghilterra e nelle Province Unite) e la
Lega cattolica (che avrebbe potuto contare sull'aiuto della Spagna e dello Stato
pontificio); c'era in ballo il controllo della Boemia, unica regione fra quelle elettrici
dell'Imperatore non ancora schieratasi apertamente con nessuna confessione. Con la
Lettera di Maest del 1609 Rodolfo II cercava di ridimensionare i conflitti religiosi,
58
Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., p. 403; 433.
59
Ibidem, pp. 421-422; cfr. anche nota 36 supra.
24
concedendo libertà di culto agli abitanti della regione e istituendo due diverse Diete
parlamentari, una per i cattolici e una per i protestanti. Tuttavia l'azione non risolve
alcun problema e a quella data Enrico IV di Francia si accingeva a creare una grande
coalizione antiasburgica e anticattolica composta da tutti gli Stati protestanti del
continente, ma nel 1610 egli viene assassinato da un fanatico cattolico. Nel 1612, alla
morte di Rodolfo II, sale al trono imperiale Mattia II (1557-1619), il quale morirà solo
dopo 7 anni di governo. Il successore fu Ferdinando II (1578-1637), nipote di Rodolfo
II, cattolico intransigente che due anni prima era divenuto Re di Boemia e che aveva
sconfessato la Lettera di Maest. Ciò il che non fece altro che gettare nuova benzina sul
fuoco: il 23 maggio del 1618 due rappresentanti inviati dalla Dieta protestante per
discutere con l'Imperatore della scelta di proibire le riunioni dei Difensori della Fede
addetti alla risoluzione delle controversie religiose vengono letteralmente presi e
lanciati dalla finestra dai luogotenenti cattolici, in quella che venne poi chiamata la
Defenestrazione di Praga e che viene universalmente riconosciuta come la “goccia
che fece traboccare il vaso” del continente europeo e che, idealmente, diede avvio alla
«Guerra dei Trent'anni»60
.
Tuttavia sarebbe riduttivo ricondurre tutte le cause della guerra alla
motivazione religiosa, in quanto essa:
«ebbe come suo asse portante la riapertura del tradizionale scontro franco-
asburgico iniziato ai primi del '500, ma che nello stesso tempo condusse sul proscenio
tutte le potenze politiche ormai operanti in Europa, e divenne per questo il contenitore
di una serie di guerre distinte l'una dall'altra. Più che un'unica guerra si trattò quindi di
un insieme di conflitti, spesso militarmente separati, ma comunque unificati dalla
circostanza di essere inseriti in un quadro europeo ormai economicamente e
politicamente unitario, nel quale tutti gli Stati cercarono di ristabile o definire ex novo,
la propria posizione»61
.
Per cui le alleanze religiose si traducono in alleanze politiche internazionali, le
quali avrebbero portato dalla parte cattolica, egemonizzata dalla Spagna e dall'Impero,
il Papato (ovviamente), i Paesi Bassi spagnoli, ma anche paesi come la Polonia, che
sul finire del Cinquecento aveva sostenuto l'evangelizzazione cattolica voluta da Papa
Gregorio XIII (1572-1585) nello Stato; inoltre gli Asburgici avrebbero voluto unire
60
Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp. 420-430.
61
Ibidem, p. 431; cfr anche. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., p. 94.
25
tutti i propri possedimenti attraverso il controllo della Valtellina, una regione che
avrebbe servito da collegamento tra i territori orientali e i territori occidentali
asburgici, e che viene appunto conquistata nel 1621. Dall'altro lato, le potenze
protestanti comprendevano l'Inghilterra, la Francia (nella quale, dopo l'assassinio di
Enrico IV da parte di un fanatico cattolico, era salito al trono nel 1614 Luigi XIII,
1601-1643; egli si poté avvalere della grande abilità politica del cardinal Richelieu,
1585-1642, dal 1624 nominato Capo del Consiglio di Stato francese), le Province
Unite (che nel 1621, allo scoccare della fine della Tregua dei Dodici anni,
ricominciano a combattere contro gli Spagnoli), il Granducato di Toscana (legato ai
transalpini dal matrimonio tra la nipote del Granduca Ferdinando I de' Medici, 1549-
1609, Maria, e il re di Francia Enrico IV), il ducato di Savoia e la Svezia di Gustavo
Adolfo II Vasa (1594-1632), il quale, servendosi di un esercito modernissimo e ben
addestrato, riesce a conseguire grandi vittorie per la causa protestante, sia contro la
Confederazione polacco-lituana, sia contro gli asburgici, prima di morire eroicamente
nella battaglia di Lutzen contro gli Imperiali (1632). La Svezia era uno Stato riuscito
ad affermarsi sul piano internazionale e ad ottenere grandi successi grazie anche al
processo di accentramento nazionale e assolutistico conseguito tra la fine del XVI e
l'inizio del XVII secolo, diversamente da ciò che accadde in Danimarca (unita
politicamente alla Norvegia), la quale si schierò solo posteriormente con i protestanti,
nel 1625, soprattutto per motivi territoriali e politici, in quanto il re Cristiano IV
(1577-1648) considerava altamente probabile che gli Imperiali avessero, prima o poi,
invaso i territori danesi; tuttavia il contributo danese alla guerra fu abbastanza limitato,
e già nel 1629 si firmava la Pace di Lubecca con gli Imperiali, che avevano ottenuto
grandi vittorie grazie all'abilità militare del condottiero Albrecht von Wallenstein
(1583-1634)62
.
La fine della «Guerra dei Trent'anni», sanzionata dai numerosi trattati firmati a
Westfalia tra il 1647 e l'ottobre del 1648, costituisce uno spartiacque nella storia
politico-diplomatica moderna: tramontano definitivamente le motivazioni religiose
idonee a scatenare guerre e a produrre alterazioni dell'equilibrio, in quanto viene
riconosciuta ufficialmente la religione calvinista e la pluriconfessionalità di un sistema
internazionale europeo che è ormai multipolare e multireligioso; accanto a ciò si
ridimensiona ogni pretesa del sovrano «legittimarsi rivendicando origini divine al
62
Ibidem, pp. 432-435.
26
proprio potere. L'idea di contratto, che cioè l'autorità derivi la propria legittimazione
dalla cessione a essa di una quota della propria sovranità da parte di ciascuno
individuo, attraversa tutta la filosofia politica dell'epoca, da Grozio a Althusius, da
Hobbes a Locke». Si afferma definitivamente una concezione prettamente laica della
politica: è solamente la «Ragion di Stato», e non più la religione, a governare le
volontà politiche del sovrano, il quale «nei confronti del mondo esterno […] si
presenta come l'uomo nello stato di natura, soggetto alla sola legge dell'autodifesa:
sopraffare per non essere sopraffatti»63
. Di tale argomento ne parla il diplomatico
francese Philippe de Béthune (1561-1649) in una sua opera del 1632, in piena «Guerra
dei Trent'anni»: l'equilibrio non è altro che un elemento caratteristico della «Ragion di
Stato», la quale agisce come «Ragion d'interesse nelle relazioni internazionali»; lo
Stato deve agire dunque secondo i propri interessi, e uno di questi dovrebbe essere
quello di rimanere sempre neutrale a meno che non si presenti un'occasione assai
favorevole e vantaggiosa o se si debba impedire di accrescere la grandezza di uno
Stato troppo potente; resta il fatto che per Béthune la neutralità è sempre positiva, dal
momento che «chi è neutrale è onorato e rispettato da entrambe le parti, per il timore
di ciascuna ch'egli le si dichiari contro; resta arbitro degli altri e padrone di se stesso,
sfrutta la situazione presente e […] si cautela per l'avvenire»64
.
E ancora, all'argomento si dedica anche il duca di Rohan, Enrico II (1579-1638)
che riconosce nell'interesse del sovrano, e quindi dello Stato, un carattere di
incorruttibilità e di inequivocità assoluto:
«I prìncipi comandano ai popoli e l'interesse comanda ai prìncipi. La
conoscenza di questo interesse tanto sovrasta quella delle azioni dei prìncipi, quanto
essi stessi sovrastano i popoli. Il principe si può ingannare, il suo consiglio può essere
corrotto; soltanto l'interesse non può mai fallire. […] Bisogna stabilire per fondamento
che vi sono due potenze nella Cristianità: […] quella di Spagna, trovandosi
accresciuta all'improvviso, non ha potuto nascondere il suo disegno di farsi
dominatrice […]; quella di Francia, [che] si è immediatamente disposta a fare il
contrappeso. Gli altri prìncipi si sono volti all'una o all'altra, secondo il loro
63
Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., p. 82; cfr. anche F. Chabod, op. cit., p. 11.
64
P. de Béthune, Le Conseiller d'Estat; ou Recueil des plus générales considérations servant au
maniment des affaires publiques, divisè en deux parties, Paris, E. Richer, 1633, pp. 319-324; cit. M.
Bazzoli, op. cit., pp. 36-39.
27
interesse»65
.
Il diritto internazionale dei trattati e il suo rispetto da parte delle monarchie
costituisce un nuovo elemento fondamentale utile alla salvaguardia dell'ordine
costituitosi, un ordine che vede l'Impero Asburgico disgregarsi in tanti piccoli
staterelli – il più importante dei quali è il Brandeburgo, destinato a un'ascesa
irrefrenabile che si concluderà solo all’inizio dell’Ottocento, con l’annientamento
dello Stato prussiano da parte di Napoleone Bonaparte – i quali, secondo la
Constitutio Westphalica redatta nel 1648, ora godevano effettivamente di un insieme
di prerogative che fino ad allora erano di pertinenza dell'Imperatore: politica estera
autonoma, amministrazione della giustizia, capacità giuridica di stipulare alleanze con
altri Stati europei, politica economica indipendente, ecc. L'Impero ora godeva di
sovranità territoriale e politica solo nei territori dell'Austria e della Boemia. Per quanto
riguarda la Spagna, i suoi territori si riducono notevolmente in quanto sia il Portogallo
(1640) che le Province Unite (1648) ottengono definitivamente l'indipendenza formale;
il grande disegno asburgico di instaurare la «Monarchia Universale» era fallito per
l'ennesima volta, per il fatto che ancora una volta gli altri Stati europei, Inghilterra in
primis, non restarono a guardare e reagirono alle prepotenze ispanico-imperiali
unendosi in una grande coalizione, capace di restaurare l'equilibrio e di porre tale
principio come fondamento principale della politica europea, affidata agli strumenti
politico-diplomatici delle cancellerie europee. La seconda parte del Seicento
consacrerà la Francia di Luigi XIV Borbone (1638-1715), il Re Sole, e del suo primo
ministro, l'autorevole cardinale Giulio Mazzarino (1602-1661), come la potenza
primaria del continente, capace di mettere continuamente in discussione l'equilibrio
“westfaliano” non più su basi religiose, bensì su fondamenti dinastici, che anche per
tutto il XVIII secolo si rivelarono motivi promotori di conflitti e di disordini66
.
65
E. de Rohan, De l'interest des Princes et Estats de la Chrestientè, Parigi, 1639, pp. 104-106; cit. in M.
Bazzoli, op. cit., pp. 40-43.
66
Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., pp. 94-95; cfr. anche A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit.,
pp. 440-443.
28
1.4 La seconda parte del Seicento e il mito della Monarchia Universale
Con la pace di Westfalia, come abbiamo già accennato, si chiude un'importante
capitolo della storia moderna europea, il capitolo delle guerre di religione. Esse
verranno accantonate a favore del rispetto dell'equilibrio istituitosi nel 1648; esso
tuttavia si rivela sin da subito precario, soprattutto nella parte occidentale e
settentrionale del continente, poiché la guerra tra Francia e Spagna, con i transalpini
coadiuvati dagli Inglesi, continua fino al 1659, anno della pace dei Pirenei, con la
quale gli Asburgici perdono nuovamente dei territori, questa volta coloniali, altro
sintomo del loro decadimento e della fine delle loro aspirazioni di egemonia
internazionale, a favore delle altre due potenze del conflitto; con la separazione dei
destini delle due parti della dinastia asburgica, sancita dall'accordo segreto stipulato
nel 1617 tra Filippo III di Spagna e Ferdinando II del Sacro Romano Impero, fallisce
una volta per tutte anche la tradizionale alleanza fra Spagna e Austria che sin dai primi
anni del Cinquecento aveva costituito uno dei due poli di potere nel Vecchio
Continente67
.
Nel nord Europa invece, alla metà degli anni Cinquanta, si rompe l'equilibrio
nel Baltico, quando il re svedese Carlo X Gustavo (1622-1660) riprende la politica di
espansione volta a conquistare le terre costiere polacche, in particolare quella che si
affacciano sul golfo di Danzica. In quegli anni la Polonia (Confederazione polacco-
lituana) stava attraversando un periodo di profonda crisi economica e politica, fiaccata
anche dalla rivolta dei cosacchi Zaporaghi e dalle divisioni religiose, e Carlo X volle
sfruttare il momento; egli viene assistito anche dal principe elettore del Brandeburgo,
Federico Guglielmo I (1620-1688), desideroso di annettere al suo piccolo principato i
territori della Prussia orientale, e dallo Zar di Russia Alessio I Romanov (1629-1676),
che bramava di ampliare i suoi territori a occidente, annettendo parti della Polonia e
dell'Ucraina. Dopo diverse vittorie svedesi, i quali riescono anche a conquistare la
capitale polacca Varsavia, entra nel conflitto la Danimarca di Federico III (1609-1670)
il quale riesce a costruire una grande alleanza antisvedese comprensiva dei Polacchi,
degli Olandesi, dell'Impero di Leopoldo I (1640-1705) e dei voltagabbana
Brandeburgo e Russia: dopo diversi scontri militari, si arriva alla pace di Oliva del
1660 che ridisegna e stabilizza l'assetto nordico, sancendo l'inizio del declino svedese
67
Ibidem, p. 94.
29
e l'ascesa della potenza russa e del Brandeburgo68
.
Dopo Westfalia tramonta definitivamente l'importanza dell'equilibrio tedesco,
ormai non più traballante per la questione religiosa, mentre per quanto riguarda quello
italiano esso rimarrà importante ai fini dell'equilibrio generale europeo fino al 1750
circa; nel Settecento farà la comparsa anche un quarto equilibrio «minore» accanto a
quello del Baltico, ossia l'equilibrio di potenza nelle colonie americane: «Cercare di
infrangere uno dei minori sistemi, voleva dire infrangere il sistema generale»69
. In
quegli anni inizia la trattazione sistematica del concetto di equilibrio da parte di un
numero sempre maggiori di autori; essi ne iniziano a criticare la sua «complessità
contraddittoria», le sue profonde antinomie:
«Da una parte, cioè, il principio dell'equilibrio poteva venir fondato sulla
intangibilità di un testo giuridico, cioè di un trattato, sulla assoluta osservanza dello
status quo, e sarebbe stato questo, naturalmente, il punto di vista delle potenze che
avevano visto consacrate dai trattati le loro pretese. Ma d'altro verso lo stesso
principio poteva venir invocato proprio per modificare trattati di pace i quali
risultassero troppo gravosi per certi Stati e apparissero quasi catene poste a imbrigliare
lo sviluppo naturale e progressivo dei popoli. Alla necessità dell'equilibrio avrebbero
potuto dunque appellarsi […] tanto i conservatori quanto i rivoluzionari [del sistema
di Stati europeo]».
L'analisi della questione viene posta sempre più in evidenza dal fatto che la
pratica diplomatica diviene sempre più intensa e interrelata fra i vari membri del
sistema europeo, ravvicinati dalla «comunanza di interessi e di tradizioni, che pur
dopo l'affermarsi degli Stati nazionali, dava all'Europa una fisionomia a sé stante,
permetteva di parlare di una civiltà europea, e di contrapporre l'Europa alle rimanenti
parti del mondo»70
. Infatti, secondo molti studiosi:
«è proprio tra il XVII e il XVIII secolo che l’Europa afferma in maniera
inequivocabile e definitiva […] il proprio ruolo guida sull’intero pianeta. […] In
quest’epoca un insieme di condizioni materiali particolarmente favorevoli fa sì che
proprio nel continente europeo un processo già avviato di graduale, ma inarrestabile
progresso nei più diversi campi dell’attività umana subisca un’accelerazione tale da
68
Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp. 487-488; 494-498; cfr. anche L. Bonanate, F. Armao, F.
Tuccari, op. cit., p. 71.
69
Cfr. F. Chabod, op. cit., pp. 12-13.
70
Ibidem, p. 15.
30
creare un distacco sempre più incolmabile con i paesi extra-europei […]»71
.
Un concetto che troverà poi una più compiuta affermazione con Voltaire e
Montesquieu, dei quali parleremo nei successivi capitoli.
Con l’avvento di Luigi XIV, il Re Sole, sul trono francese, si porterà a
compimento il processo di accentramento nazionale dello Stato transalpino che si era
già rinforzato durante il ministero di Richelieu, nonostante la guerra avesse potuto
scalfire e rallentare tale sviluppo; l’endemica condizione di guerra caratterizzante tutto
il Seicento si conferma in maniera più intensa nella seconda parte del secolo, in
coincidenza con l’attacco all’equilibrio formatosi portato avanti proprio dal re
francese, che voleva imporre la propria autorità politica all’esterno così come aveva
già fatto efficacemente all’interno, anche grazie all’abilità politica del suo primo
ministro Mazzarino (tra il 1648 e il 1653, per esempio, il cardinale riuscì a porre fine
alla rivolta parlamentare nota come «Fronda», seguita subito dopo dalla «Fronda dei
prìncipi»72
). In poche parole, la guerra dimostra di essere più che mai «lo strumento
privilegiato della politica internazionale» e consacra l’Europa Centrale ad area con il
più alto tasso di bellicosità 73
. L’ascendente così marcato che il Re Sole diede
all’Europa nel corso della seconda parte del secolo fa parlare del Seicento come del
«Siècle de Louis XIV», dal nome di un’opera di Voltaire74
.
Le guerre che affrontò Luigi XIV, dal 1661 rimasto solo alla guida dello Stato
francese dopo la morte del Mazzarino, puntarono soprattutto all’ingrandimento
territoriale francese verso i Paesi Bassi spagnoli e l’Olanda e, alla fine del secolo, nei
confronti della Spagna, e furono soprattutto pretesti dinastici ed economici a
giustificare i conflitti75
. Il primo conflitto intrapreso dal Re Sole è la cosiddetta
«Guerra di Devoluzione», deflagrata nel 1667 quando, morto due anni prima il Re
Filippo IV d’Asburgo (1605-1665), il reame di Spagna viene lasciato in mano a un
bambino di 4 anni, Carlo II (1661-1700), il quale era nato dall’unione di Filippo IV
con la sua seconda moglie, Marianna d’Austria (1634-1696); proprio il fatto che
Filippo lasciasse l’eredità dei territori spagnoli a un bambino nato da seconde nozze, e
il fatto che gli Spagnoli non avevano ancora pagato parte della dote per il matrimonio
tra Luigi XIV di Francia e Maria Teresa d’Asburgo (1638-1683), figlia di primo letto
71
Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., p. 75.
72
Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp. 460-462.
73
Cfr. anche L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., pp. 69-70, 96.
74
Cfr. M. Bazzoli, op. cit., p. 46.
75
Cfr. anche L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., pp. 76-77.
31
di Filippo IV, dà adito alla volontà del Re Sole di rivendicare i territori dei Paesi Bassi
spagnoli, nei quali vigeva una speciale figura del diritto privato, per l’appunto la
«Devoluzione», che prescriveva soltanto ai figli di primo letto (e Maria Teresa
d’Asburgo formalmente ancora lo era, in quanto gli spagnoli non avevano pagato tutta
la dote del matrimonio e Maria poteva dunque ancora esercitare i suoi diritti di erede)
di ereditare le terre suddette. Le vittorie militari francesi degli inizi vengono poi
ridimensionate nel 1668, con la pace di Aquisgrana, dopo che la guerra commerciale
anglo-olandese (1664-1667) era stata interrotta per poter reagire all’espansionismo
transalpino e si era formata una lega antifrancese a cui aveva aderito anche la Svezia,
oltre che ovviamente la Spagna: la Francia ottiene soltanto poche concessioni
territoriali nei Paesi Bassi76
. Pochi anni dopo, nel 1672, le truppe del Re Sole
ricominciano i combattimenti, questa volta contro le Province Unite, unendo agli
sforzi francesi anche le truppe svedesi, ma una nuova grande coalizione, composta da
Austria (l’Impero), Spagna, Danimarca, Brandeburgo e anche l’Inghilterra (ormai
decisa a sconfiggere l’egemonismo transalpino piuttosto che a dar battaglia agli
olandesi in mare, in quanto un eventuale successo francese sull'Olanda avrebbe avuto
conseguenze assai gravi dal punto di vista del commercio marittimo e dell’equilibrio
generale), blocca l’avanzata francese: si arriva alla pace di Nimega del 1678 che fa
guadagnare al Re Sole la Franca Contea e alcune fortezze ai confini con l’Olanda e
con i Paesi Bassi. Tuttavia gli immensi sforzi finanziari francesi non vengono
soddisfatti da siffatte conquiste raggiunte77
.
Successivamente, durante gli anni Ottanta del secolo, Luigi XIV dovette in
parte abbandonare i suoi progetti imperialistici ed egemonici – alcuni autori ritengono
peraltro «inesatto voler attribuire al Re Sole un disegno imperiale sulla falsariga dei
tentativi asburgici» compiuti nel Cinquecento; «la sua politica […] si riconosce
piuttosto nel divide et impera, cioè in un piano volto a indebolire sostanzialmente ogni
altra nazione del sistema per poi esercitare su di esso un'autorità indiscussa»78
, il che,
secondo la mia opinione, non significa altro che replicare un tentativo egemonico per
76
Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp. 517-518; cfr. anche L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op.
cit., pp. 97-101.
77
Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp. 519-520; cfr. anche L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op.
cit., p. 102.
78
Cfr. P. Maurseth, Balance of Power: thinking from the Renaissance to te French Revolution, in
Journal of Peace Research, I, 2, 1964, pp. 120-136; cit. in M. Cesa, op. cit., p. 35.
32
gradi e attraverso un preciso disegno politico e internazionale piuttosto che cercare di
procurarsi l'autorità negli altri Stati europei in modo disorganico e sconclusionato,
destinato dunque a sicura sconfitta – per affrontare la questione religiosa interna: la
pretesa della «Monarchia Universale» non poteva essere in alcun modo soddisfatta
senza l'uniformità religiosa dello Stato. Da una parte Luigi XIV non poteva far altro
che sostenere il Cattolicesimo gallicano, il quale costituiva il sostrato culturale di cui
erano intrisi i Parliaments francesi e altri corpi sociali, spesso in conflitto con
l'assolutismo monarchico luigino; dall'altra parte non bisognava ridurre ulteriormente
il potere politico e religioso dei protestanti, per non inimicarseli; dunque Luigi XIV
doveva necessariamente barcamenarsi fra i due «piatti della bilancia», seguendo in
parte anche la politica del divide et impera di cui sopra. Oltre a ciò, la corrente
dottrinale giansenista, sviluppatasi in Francia sin dai primi anni del Seicento con la
predicazione del vescovo di Ypres, Cornelius Otto Jansen (1585-1638), coadiuvato dal
teologo francese Jean Duvergier de Hauranne (1581-1643), minava la fondamenta
dell'autorità statale, in quanto si riteneva che, così come l'animo, anche la ragione
degli uomini fosse stata corrotta dal peccato mortale di Adamo ed Eva; per cui, se la
ragione umana era corrotta, le stesse leggi statali concepite dall'uomo erano corrotte.
Le continue interferenze dei Papi, ansiosi di risolvere la questione senza scalfire
troppo il potere della Chiesa di Roma, costrinsero Luigi XIV, nel 1682, durante il
pontificato di Innocenzo XI (1676-1689), a pubblicare il documento noto come La
dichiarazione dei quattro articoli, in cui sostanzialmente si affermava la supremazia
del concilio ecumenico sull’autorità papale, l’impossibilità per i pontefici di
scomunicare o di intralciare la politica interna dei sovrani francesi e il rispetto
generale da parte dei Papi delle leggi dello Stato francese. In quegli anni i rapporti con
lo Stato della Chiesa arrivarono ai minimi storici, anche perché la Francia sembrava
l’unica potenza europea ad appoggiare l’ultima grande offensiva ottomana nell’Europa
orientale: dopo la sconfitta subita nella battaglia di Kahlemberg (1683) contro gli
Imperiali di Leopoldo I, i Turchi subirono anche la costituzione e la controffensiva
della Lega Santa (1684) capeggiata proprio dall’Imperatore e della quale facevano
parte, oltre ovviamente allo Stato pontificio, la Polonia, la Repubblica di Venezia e
l’Impero russo di Pietro I il Grande (1672-1725); Luigi XIV si rifiutò di farne parte, e
ciò incrinò ancora di più i già logori rapporti con la Chiesa e con i paesi cattolici. Così,
per chiudere definitivamente il dissidio con i cattolici, il Re Sole decise di sopprimere
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L'equilibrio di potenza

  • 1. I Indice Introduzione IV 1. Il principio dell'equilibrio di potenza: una ricostruzione storica e concettuale della questione dalla metà del Quattrocento fino alla fine del Seicento 1 1.1 Brevi accenni al concetto dall'antichità fino al Quattrocento 1 1.2 Dalla metà del Quattrocento alla pace di Cateau-Cambrésis 3 1.3 Dalla pace di Cateau-Cambrésis alla pace di Westfalia 15 1.4 La seconda metà del Seicento e il mito della Monarchia Universale 28 2. La prassi dell’equilibrio europeo nel Settecento: politiche estere nazionali e coalizioni internazionali 36 2.1 L’aurea età dell’equilibrio di potenza: dalla guerra di successione spagnola alla pace di Aquisgrana 36 2.2 Il fallimento del sistema di equilibrio: il rovesciamento delle alleanze e le turbolenze interne degli Stati europei di fine secolo 56 3. La teoria dell’equilibrio di potenza nel Settecento: le riflessioni positive degli autori 84 3.1 L’erronea interpretazione del concetto: l’equilibrio come fondamento giuridico internazionale 84 3.2 I fattori rilevanti a favore della teoria e i contributi degli autori 86
  • 2. II 4. La teoria dell’equilibrio di potenza nel Settecento: critiche e (possibili) correzioni della dottrina 107 4.1 Analisi realiste e teorie pacifiste: una difficoltosa ricerca di ragionevoli alternative 107 4.2 Jean-Jacques Rousseau e l’equilibrio 122 Conclusioni 127 Indicazioni bibliografiche 131 Ringraziamenti 134
  • 3. III
  • 4. IV Introduzione Generalmente, quando si fa riferimento al concetto di «equilibrio di potenza internazionale», si allude ad una situazione in cui, in un determinata area geografica e in un determinato periodo storico, vi è una distribuzione della potenza tra Stati (o tra le rispettive organizzazioni politiche esistenti) tale da non permettere a nessuno di essi di imporre il suo predominio sugli altri. Ma al di là di questa semplice ed immediata definizione, c’è un intero universo di significati e di riflessioni da esaminare approfonditamente. In questo elaborato analizzerò il tema focale dell’equilibrio di potenza, così come si è evoluto nel corso dell’era moderna, tra il XV e il XVIII secolo, concentrandomi sullo studio della prassi e della teorizzazione relative al contesto europeo e, andando più nel particolare, sull’analisi della pratica e della teorizzazione settecentesca della suddetta questione. L’argomento, nel corso dei secoli, e a partire dalle sue prime applicazioni pratiche rinvenibili in alcuni sporadici episodi della storia antica e medievale, ha assunto una rilevanza sempre più crescente e, nell’età moderna, tale materia è divenuta una delle più dibattute tra gli intellettuali e i politici del tempo. Una tale importanza della questione, evidenziatasi proprio dalla sua costante e, a volte, prolissa trattazione, non può stupire, per le molteplici accezioni ed interpretazioni che il termine «equilibrio» ha ricevuto nel corso dei secoli, e che sono andate trasformandosi progressivamente nel tempo, man a mano che gli eventi storici e le dinamiche interstatali davano vita ad un sistema internazionale europeo sempre più integrato e mutato nei suoi rapporti interni: principio politico da perseguire sul piano pratico per tutelare la sopravvivenza del regno nell’anarchico sistema di Stati europeo; criterio d’ordine internazionale; elemento costitutivo delle politiche nazionali esplicabile sia verso l’interno che verso l’esterno; codice diplomatico comune condiviso e compreso universalmente da statisti, ambasciatori e uomini politici; fattore unificante del continente europeo e determinante della stessa idea di Europa; strumento giustificante delle pragmatiche politiche estere europee; fondamento giuridico internazionale necessario al mantenimento della stabilità e della pace europea, che dev’essere rispettato alla stessa stregua di una norma di diritto internazionale; e molte altre di questo tipo. Tale molteplicità di interpretazioni lo resero (e lo è ancora) un concetto assai ambiguo, contraddittorio e spinoso da
  • 5. V affrontare, aperto ai più disparati significati. La fortuna e, allo stesso tempo, il fallimento riscossi dalla dottrina dell’equilibrio di potenza nel corso dei lustri derivano soprattutto dalla sua intrinseca contraddittorietà e dalla strumentalizzazione a cui è stato lungamente sottoposto per poter essere plasmato alle più differenti situazioni storico-politiche peculiari di ogni Stato. Ed è soprattutto a causa della sua enigmaticità che questa tematica, in età contemporanea, rimane al centro di discussioni teoriche di ogni sorta; ancora oggi non si sono trovate risposte univoche, chiare e universalmente accettate alle seguenti domande: cosa si intende per «equilibrio internazionale»? Qual è la vera natura, la vera essenza, dell’equilibrio di potenza? E qual è la sua reale funzione? Sono tutti quesiti, circoscritti all’ambito della storia moderna e, ancor più in particolare, al Settecento europeo, ai quali ho cercato di dare risposte concrete tramite questa ricerca. Nel primo capitolo, dopo aver effettuato un breve excursus sulle modalità con cui gli antichi Greci e Romani si posero nei confronti della pratica dell’equilibrio e dopo aver narrato, in maniera sintetica, dello scontro fra i due poli dell’equilibrio medievale, Papato e Sacro Romano Impero, la ricerca si concentrerà, a partire dalla metà del XV secolo, sull’analisi di come le emergenti compagini statali europee si mossero nel panorama internazionale per impedire la formazione di uno Stato troppo potente, capace di egemonizzare ogni aspetto della vita politica, economica e socio- culturale del Vecchio Continente attraverso il suo dominio, relegando le rimanenti organizzazioni statali in posizione subalterna; accanto a questo tipo di trattazione affiancherò lo studio delle riflessioni degli autori del periodo dinanzi a tale problematico concetto, seguendo un ordine cronologico pertinente al racconto storico- politico degli eventi accennato prima. Emergerà che almeno fino alla pace di Westfalia (1648), al termine della «Guerra dei Trent'anni» (1618-1648), l’equilibrio venne interpretato alla stessa stregua di un fondamento empirico da ricercare, da attuare concretamente, e connesso alla soddisfazione dell’esigenza e dell’interesse primario di ogni potenza europea: l’autoconservazione. Nonostante i continui mutamenti delle gerarchie internazionali (nel Cinquecento sarà la monarchia spagnola di Carlo V e di suo figlio Filippo II ad assurgere al primato internazionale, primato che verrà perso nel secolo successivo a favore della monarchia francese) prodottisi a partire dall’utilizzo sfrenato dello strumento privilegiato della politica internazionale moderna, la guerra, la funzione dell’equilibrio continuò ad essere principalmente
  • 6. VI quella suddetta. Nella seconda metà del XVII secolo, il mito dell’equilibrio dovette scontrarsi con l’altro imperante mito dell’epoca moderna: la realizzazione della Monarchia universalis, quasi a fondamento della politica internazionale perseguita dal sovrano francese Luigi XIV. Nel secondo capitolo svilupperò la mia analisi rispetto alla pratica dell’equilibrio attuata dalle Nazioni europee nel Settecento (fino e non oltre la Rivoluzione francese), il cosiddetto «Secolo dei Lumi», durante il quale i fattori dinastici ed economici assunsero il ruolo di moventi delle contese europee, soppiantando i pretesti religiosi, non più generatori di conflitti internazionali dopo Westfalia. Le guerre di successione furono dunque le principali artefici dei mutamenti territoriali e politici prodottisi nella prima metà del XVIII secolo, giustamente definita «l’età aurea dell’equilibrio di potenza», in quanto si affinarono gli strumenti tecnico- diplomatici utili ad arginare il potenziamento spropositato degli Stati europei (la creazione di «Stati cuscinetto», ad esempio, o le interminabili discussioni diplomatiche condotte fino a guerra inoltrata). In questo secolo l’Inghilterra (divenuta Gran Bretagna nel 1707, con l’unione delle corone di Inghilterra e Scozia sanzionata dall’ approvazione dell’Act of Union), padrona di un impero coloniale di estensione mondiale, riuscì a destituire la Francia dallo scranno della potenza principe internazionale, consacrando ancor di più il ruolo di «bilanciere» che aveva ricoperto fin dai primi scontri tra Carlo V di Spagna e Francesco I di Francia, nel XVI secolo. Il conflitto mondiale tra le potenze europee (la «Guerra dei Sette anni», 1756-1763) e la nascita della Confederazione americana nel Nuovo Mondo sanzioneranno la vocazione planetaria dell’equilibrio europeo, che tuttavia di lì a poco verrà completamente sconvolto dallo scoppio della Rivoluzione francese e dalle conseguenti guerre napoleoniche (sulle quali, come ho già specificato, non mi soffermerò). Nel terzo e quarto capitolo, realizzati suddividendo l’argomentazione per tematiche e non in senso cronologico (come invece ho ritenuto opportuno fare per i primi due capitoli), la ricerca si soffermerà sull’analisi dell’amplissima riflessione concettuale settecentesca nata intorno all’equilibrio, prendendo in considerazione i due punti di vista: positivo (nel terzo capitolo) e critico-negativo (nel quarto ed ultimo capitolo dell’elaborato). Il XVIII secolo dunque si confermò essere il «secolo dell’equilibrio» anche per lo straordinario sforzo intellettuale profuso da decine di autori (fra i tanti, i più illustri sono Montesquieu, Voltaire, Federico II di Prussia, Kant
  • 7. VII e Jean-Jacques Rousseau, il quale in questo elaborato riceve un’analisi più approfondita e particolareggiata rispetto a tutti gli altri) che si interessarono all’argomento, sino a sviscerarlo nelle sue più intrinseche componenti. La teoria dell’equilibrio di potenza raggiunse il suo massimo splendore: quel concetto veniva invocato nei dibattiti politici, nei Cafè letterari, nei salotti aristocratici illuministi, nelle disquisizioni pubbliche; l’equilibrio ascese a principio giuridico fondamentale per le relazioni internazionali, in contrapposizione con il modello precedente, che lo vedeva soltanto come un principio empirico da perseguire per la salvaguardia delle frontiere nazionali e della Nazione stessa; ora anche la funzione e l’obiettivo tendono a mutare e si guarderà con speranza alla auspicata pacificazione d’Europa, alla Pax europea, e alla creazione di un’organizzazione sovranazionale in grado di mettere a tacere le ostilità fra le potenze, della quale l’equilibrio sarebbe dovuto rimanere il caposaldo imprescindibile. E tuttavia, seppur in maniera disorganica, si iniziarono a sentire le prime voci di dissidio, furono elaborate le prime taglienti critiche al concetto e ad esso si cercò di trovare delle valide alternative. Fra le critiche più diffuse, si ritenne che quel concetto venisse invocato impropriamente, soltanto per giustificare le mire espansionistiche degli Stati, e non sarebbe mai potuto divenire l’elemento determinante della pace europea, tutt’altro; la stessa natura dell’equilibrio, ingannevole e multiforme piuttosto che cristallina e regolare, venne posta in discussione e così anche la sua funzione, abietta e disonesta. Un intero complesso di idee sembrò dunque cadere dinanzi agli evidenti punti deboli della dottrina dell’equilibrio: molti autori si applicarono per cercare di correggerne l’impianto strutturale e teorico, fallendo il più delle volte; e ciò permise all’equilibrio di rimanere il criterio imprescindibile di interpretazione della politica internazionale, in mancanze di alternative plausibili. L’insieme dei temi trattati è stato elaborato attingendo da una vasta letteratura sul tema, per la maggior parte cartacea, ottenuta attraverso la consultazione dei documenti nelle biblioteche di settore; in alcuni casi ho ritenuto necessario documentarmi anche da fonti presenti su internet. In questo modo, spero di aver dato una panoramica generale completa sulla tematica trattata. L’intero lavoro è di proprietà intellettuale dell’autore.
  • 9. 1 1. Il principio dell'equilibrio di potenza: una ricostruzione storica- concettuale della questione dalla metà del Quattrocento fino alla fine del Seicento 1.1 Brevi accenni al concetto dall'antichità fino al Quattrocento Sebbene il suo concetto teorico si sia iniziato a sviluppare sistematicamente solo dalla seconda metà del Quattrocento, il problema dell'equilibrio di potenza fra le diverse organizzazioni politiche presenti in una determinata area geografica e in un determinato periodo storico è molto antico1 . È indubbio che «da sempre i popoli abitanti una medesima parte del globo hanno considerato con occhio geloso lo sproporzionato accrescimento di uno solo fra loro»2 ; da sempre leghe e confederazioni sono nate per ridimensionare la potenza dominante esistente in quel periodo: le prime manifestazioni pratiche risalgono alla Grecia delle poleis, quando Atene, divenuta troppo potente nella penisola ellenica rispetto alle altre città-stato, alla fine del V secolo a.C., dovette subire la formazione di una lega, guidata da Sparta, tesa a limitare la sua progressiva espansione, territoriale e politica, in quella che poi venne chiamata la «Guerra del Peloponneso» (431 a.C. - 404 a.C.); in seguito al declino di Atene, quest'ultima assunse il ruolo di «ago della bilancia» nelle guerre fra Tebe e Sparta, esplicando la propria azione con la tendenza a «gettarsi sempre sul piatto più leggero, cercando di mantenere l'equilibrio della bilancia»3 . C'è da dire che comunque le azioni belliche messe in pratica dalle antiche organizzazioni politiche greche sembravano motivate più da considerazioni di prestigio e orgoglio che da vere prese di posizione in favore del mantenimento di un equilibrio generale4 . Nel contesto della storia romana, è evidente la volontà di Gerone (308 a.C. ca.- 215 a.C. ca.), re di Siracusa, saggiamente consapevole della propria debolezza dinanzi alle due grandi potenze dell'epoca, di conservarsi nel mezzo delle dispute fra Romani 1 M. Cesa, Equilibrio, in Società internazionale. Vocabolario, a cura di F. Armao, V. E. Parsi, Milano, Jaca Book, 1997, p. 228. 2 G.F. de Martens, Précis du droit des gens modern, cap. I, parr. 120-124, cit. in L’equilibrio di potenza nell’età moderna. Dal Cinquecento al Congresso di Vienna, a cura di M. Bazzoli, Milano, Unicopli, 1998, p. 154. 3 Senofonte, Hist. Graec., Libri VI e VII; cit. in D.Hume, Sull'equilibrio di potenza, in Discorsi politici, Torino, Boringhieri, 1959; cit. in L’equilibrio di potenza nell’età moderna. Dal Cinquecento al Congresso di Vienna, a cura di M. Bazzoli, Milano, Unicopli, 1998, p. 83. 4 M. Cesa, L’equilibrio di potenza. Analisi storica e teorica del concetto, Milano, FrancoAngeli, 1987, p. 14.
  • 10. 2 e Cartaginesi, a volte favorendo i primi, altre volte i secondi; come rileva Polibio (206 a.C. ca. - 125 a.C. ca.) nei suoi scritti, Gerone aveva fatto sua l'idea che «non dovrebbe mai essere posta in una sola mano una forza tale da rendere impossibile agli Stati vicini di difendere i loro diritti contro di essa»5 . Da questa e da altre esperienze osserviamo che sicuramente l'idea di equilibrio non risultava oscura ai politici e ai governanti dell'età classica, soprattutto per il fatto che questo concetto assume dapprima un'accezione di senso comune, comprensibile a tutti, di salvaguardia dell'ordine generale, ma non possiamo riscontrare la presenza di una teoria elaborata di tale principio perseguita strutturalmente e organicamente nelle politiche estere delle compagini proto-statali, in quanto vi erano fattori interni a siffatte strutture politiche tali da pregiudicare la realizzazione di articolate azioni estere e internazionali; due fra tutti, i continui ricambi degli organi direttivi e i conflitti interni alle oligarchie di potere6 . La stabilità interna dei membri di un sistema internazionale è condizione necessaria della tenuta del sistema stesso, del suo equilibrio e della possibilità di mantenerlo nel tempo. Di ciò ne è una prova manifesta l'incredibile espansione territoriale raggiunta dall'Impero Romano sotto il governo di Traiano (53 d. C. – 117 d. C.) all'inizio del II secolo d. C., la quale non ha trovato alcuna manifesta opposizione di confederazioni o leghe di Stati volte a ridurre la sua enorme potenza militare e anzi ha potuto beneficiare di alcune alleanze strategiche per la sua causa; medesimo risultato ottenne qualche secolo dopo Carlo Magno7 . Durante il basso e il tardo medioevo lo scontro principale che pervase l'Europa ci fu tra l'Impero e il Papato, tra potere temporale e potere spirituale, per il controllo e l'egemonia sulle innumerevoli realtà feudali viventi, anche attraverso le due contrapposte fazioni rispettivamente dei ghibellini e dei guelfi. In questa situazione di frammentazione dei rapporti interstatali, che non permetteva alle compagini feudali di organizzarsi in grandi alleanze e leghe politiche, sebbene non mancassero temporanee interconnessioni fra le politiche estere8 , si contrapponevano i due poli del cosiddetto 5 Polibio, Storie, Lib. I, cap. 83; cit. in D. Hume, Sull'equilibrio di potenza, in Discorsi politici, Torino, Boringhieri, 1959, pp. 104-112; cit. in L’equilibrio di potenza nell’età moderna. Dal Cinquecento al Congresso di Vienna, a cura di M. Bazzoli, Milano, Unicopli, 1998, p. 85. 6 Cfr. M. Cesa, op. cit., pp. 15; 19. 7 Ibidem. 8 Federico Chabod, Idea d’Europa e politica dell’equilibrio, a cura di L. Azzolini, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 93-94; cfr. anche L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, Le relazioni internazionali. Cinque secoli di storia. 1521-1989, Milano, B. Mondatori, 1997, p. 25.
  • 11. 3 «Universalismo medievale», che conseguivano l'obiettivo di instaurare una potenza politica, economica e religiosa tale da abbracciare tutte le genti cristiane del mondo conosciuto: è l'estrinsecazione della «Monarchia Universale», un ideale che non verrà affatto abbandonato nei secoli avvenire e anzi otterrà maggior gloria e un maggior numero di sostenitori e che si contrapporrà proprio con l'equilibrio di potenza e i suoi fautori. Lo scontro mortale tra i due colossi dell'età medievale si concluderà poi con la disgregazione della monolitica respublica christiana, avvenuta a cavallo tra XIV e il XV secolo, che ridimensionerà il ruolo politico-economico dell'Impero germanico nell'Europa continentale e che ridurrà la religione «da elemento supremo di coesione del mondo medievale» a «pretesto per intervenire in un paese straniero [...] o per difendersi dai tentativi di instaurare un predominio da parte di altri Stati»; diverrà dunque strumento della politica d'equilibrio nel moderno sistema di Stati europeo9 . In conclusione, sebbene l'idea e il concetto di equilibrio nella sua accezione più immediata e istintiva sia stato compreso sin dagli antichi, si può limpidamente affermare che a tale comprensione pratica e concreta non si sia accompagnata un'uguale interpretazione teorica e più ampia del concetto di equilibrio, il quale, secondo David Hume (1711-1776), diviene «criterio razionale di comprensione della realtà e della dinamica» della politica internazionale moderna10 . 1.2 Dalla metà del Quattrocento alla pace di Cateau-Cambrésis L’equilibrio di potenza trova la sua prima, compiuta affermazione a partire dalla metà del Quattrocento, nel sistema di Stati italiano prodottosi a partire dalla stipulazione della pace di Lodi, nell'aprile del 1454, considerato il «primo sistema politico internazionale moderno»11 e «modello all’Europa del Settecento»12 , e dalla costituzione della Lega Italica l'anno dopo. Fino al 1454 la penisola era stata coinvolta in continui conflitti tra i principati, culminati poi nello scontro tra la Repubblica di Venezia e il ducato di Milano di Francesco Sforza (1401-1466) per l'egemonia nel nord Italia, alla fine degli anni Quaranta del secolo; tuttavia, venendo a conoscenza della conquista di Costantinopoli (29 maggio 1453) da parte dell'Impero Ottomano di 9 F. Chabod, Idea d’Europa e politica dell’equilibrio, a cura di L. Azzolini, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 6-7. 10 Cfr. D. Hume, op. cit.,. in M. Bazzoli, op. cit. p. 31. 11 Cfr. M. Cesa, op. cit., p. 15. 12 G. B. de Mably, Principes des négociations pour servir d’introducion au droit public de l’Europe fondè sur les traitès, in Oeuvres complètes, ed. Parigi, 1797, pp. 4-8 ; cit. in F. Chabod, op.cit. p. 4.
  • 12. 4 Maometto II (1432-1481), i Veneziani decisero di porre fine alle ostilità italiane, in modo da non trovarsi in guerra su due fronti, e conclusero con Milano e insieme agli altri principati italiani (tra cui la Repubblica fiorentina, la Repubblica di Genova e il regno aragonese di Napoli) la pace e la formazione della Lega Italica. Le contese della prima metà del Quattrocento non favorirono la centralizzazione del potere nelle mani delle oligarchie regionali e il consolidamento delle istituzioni, cosa che invece stava avvenendo nella maggior parte degli Stati europei, e soltanto l'affermazione di uno stabile sistema dell'equilibrio italiano avrebbe agevolato la realizzazione di tali obiettivi e una possibile politica d'espansione13 . Con la formazione di un primo sistema integrato di relazioni, in cui ogni entità statale, consapevole della propria sovranità, risponde solo ai propri interessi e reagisce a quelli delle altre potenze, senza più riconoscere la presenza di un organismo superiore, quale era l’Impero, che controlli e monitori tali interessi; in cui si sviluppa definitivamente la prassi delle incessanti relazioni diplomatiche, che permettono di informarsi sulle mosse altrui e di contrastarle adeguatamente, e in cui la figura del diplomatico e/o ambasciatore assume una sua prima connotazione professionale e permanente, il principio e il concetto di equilibrio iniziano ad assumere una propria fisionomia e una propria struttura concettuale14 . Inoltre la presenza sul suolo italico dello Stato pontificio aveva da sempre favorito la diffusione di una comune cultura cattolica che rifuggiva le ambizioni smodate e prediligeva la prudenza e le moderazione (sebbene poi nella realtà concreta dei fatti non sempre la Chiesa aveva dato prova di siffatte qualità), caratteristiche, queste, sulle quali poggia l'idea di equilibrio. È pure altrettanto importante il fatto che, per la prima volta, gli uomini politici italici riconoscano coscientemente «l'esistenza di un sistema di Stati e dei vincoli che ne condizionano reciprocamente l'attività. È questo l'elemento discriminante che ci permette di collocare la nascita dell'equilibrio di potenza nell'Italia rinascimentale» e che differenzia questa nuova situazione storica dalle precedenti, in cui v'erano stati soltanto solitari tentativi di frenare l'accrescimento di un singolo Stato15 . Il Rinascimento contribuì a destare interesse intorno alla parola «equilibrio» attraverso le sue derivazioni culturali, per cui nel campo artistico grande 13 A. Aubert, P. Simoncelli, Storia moderna. Dalla formazione degli Stati nazionali alle egemonie internazionali, Bari, Cacucci Editore, 2001, pp. 55-56. 14 Cfr. F. Chabod, op. cit., pp. 7; 12; cfr. anche M. Bazzoli, op. cit., p. XVIII in Introduzione. 15 Cfr. M. Cesa, op. cit., p. 15.
  • 13. 5 importanza ottennero i concetti di «simmetria» e «contrappeso», mentre nella dinamica commerciale il «bilancio» dei conti economici iniziò a risultare essenziale16. Per circa quarant'anni l'equilibrio generale venne sostanzialmente mantenuto, in quanto soltanto alcuni conflitti minori, per lo più interni ai principati italiani, interessarono i territori della penisola: la guerra di successione napoletana (1458-1462) scoppiata alla morte del Re Alfonso V d'Aragona (1394-1458), il quale avrebbe preceduto Ferdinando I (1424-1494); la «congiura dei Pazzi», del 1478, in seno alla Repubblica fiorentina retta fino al 1469 da Piero de' Medici (1416-1469) e affidata alle cure dei figli Giuliano e Lorenzo, che portò alla morte di Giuliano e scatenò l'inizio di una guerra decisa dal Papa, Sisto IV (1471-1484), il quale volle approfittare del disordine generale a Firenze per aumentare i propri domini territoriali chiamando a sé gli alleati napoletani e senesi e che vide trovarsi dall'altra parte Firenze alleata con il ducato di Milano e con Venezia; la cosiddetta «Guerra del sale», che vide i Veneziani combattere con il ducato di Ferrara tra il 1482 e il 1484; infine la «Congiura dei baroni», che scosse i territori dello Stato della Chiesa e del Regno di Napoli sul finire degli anni Ottanta del Quattrocento e che rappresenta una sorta di “canto del cigno” dell'equilibrio italiano17 . Se questo equilibrio di potere si mantenne abbastanza efficacemente fino agli anni Novanta del secolo, gran parte del merito è dovuto alla figura di Lorenzo de' Medici, detto «Magnifico» (1449-1492), che governò Firenze fino al 1478 insieme al fratello Giuliano e poi da solo fino al 1492: egli fu uno strenuo difensore della pax italica e dell'ordine costituitosi, deciso ad allontanare ogni possibile pericolo di ingrandimento di uno o più Stati italiani, attraverso l'”art de nègocier”. Riuscì a dissolvere l'alleanza fra il Regno di Napoli e lo Stato della Chiesa del 1478, diretta a ridurre i domini territoriali fiorentini, grazie alla sua abilità diplomatica presso la corte di Ferdinando d'Aragona, convintosi che un suo aiuto in favore del Papa avrebbe prodotto più perdite che benefici per il suo regno; assicurò la fine delle ostilità tra Venezia e il ducato estense di Ferrara mettendo in campo una coalizione che vedeva alleate Firenze, Milano e Napoli e che avrebbe portato alla conclusione della pace di Bagnolo, nel 1484; infine intervenne ponendo fine alla «congiura dei baroni» schierandosi, insieme a Milano, contro lo Stato pontificio che stava combattendo 16 Ibidem, p. 17. 17 Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., p. 56.
  • 14. 6 contro i feudatari ribellatisi nei suoi territori in seguito allo scontro con il Regno di Napoli18 . Le imprese diplomatiche di Lorenzo il «Magnifico» vennero celebrate da diversi autori e pensatori moderni: nella sua maggiore opera, Il Principe, Niccolò Machiavelli (1469-1527) loda la realizzazione dell'ordine italiano Quattrocentesco riferendosi all' «Italia “bilanciata” di Lorenzo de' Medici»19 ; Francesco Guicciardini (1483-1540) si riferisce al periodo dell'equilibrio laurenziano come a un'età felice e prospera che viene poi sconvolta dalla discesa di Carlo VIII di Francia nel 1494: «Ma le calamità d'Italia […] cominciorono con tanto maggiore dispiacere e spavento negli animi degli uomini quanto le cose universali erano allora più liete e più felici. Perchè manifesto è che […] non aveva giammai sentito Italia tanta prosperità, né provato stato tanto desiderabile quanto era quello nel quale sicuramente si riposava l'anno della salute cristiana mille quattrocento novanta, e gli anni che a quello e prima e poi furono congiunti». E segue poi l'esaltazione dell'«industria e virtù di Lorenzo de' Medici»: «cittadino tanto eminente sopra 'l grado privato nella città di Firenze che per consilio suo si reggevano le cose di quella republica, […] era per tutta Italia grande il suo nome. […] E conoscendo che alla republica fiorentina e a sé proprio sarebbe molto pericoloso se alcuno de' maggiori potentati ampliasse più la sua potenza, procurava con ogni studio che le cose d'italia in modo bilanciate si mantenessino che più in una che in un'altra parte non pendessino». Anche altri statisti ricevono la “benedizione” del Guicciardini, come ad esempio Ferdinando I d'Aragona e Ludovico Sforza, detto «il Moro» (1452-1508) i quali contribuirono insieme a Lorenzo a bloccare la Repubblica di Venezia, la potenza più incline del Quattrocento a tentare qualsiasi spinta egemonica nel nord e centro Italia, e che, più in generale, concorsero al raggiungimento dell'ideale di pace e stabilità che permetteva il consolidamento del potere centrale statale e la soddisfazione degli interessi nazionali in una situazione di relativa tranquillità20 . Anche il giurista italiano Alberico Gentili (1552-1608) fornisce un ritratto benevolo del signore di Firenze, nella sua opera De jure belli libri tres (1598), nella quale 18 Ibidem. 19 N. Machiavelli, Il Principe, cap. XX; cit in. M. Bazzoli, op. cit., p. XVI, in Introduzione. 20 F. Guicciardini, Storia d'Italia, Libro primo, 1561, cit. in M. Bazzoli, op. cit. pp. 4-5; cfr. anche M. Cesa, op. cit., p.16.
  • 15. 7 sostiene la tesi principale che sia legittimo dal punto di vista politico e giuridico iniziare una «guerra preventiva» contro quei principi potenti e ambiziosi che potrebbero attentare all'equilibrio instauratosi precedentemente, prevenendo così «i pericoli premeditati e preparati, e anche quelli non meditati ma verosimili e possibili»: «[...] il perseverare della concordia fra gli elementi dipende da una partizione equa, fino a che l'uno non è sopravanzato in nulla dall'altro. E questo è ciò di cui il sapientissimo Lorenzo de' Medici […] ebbe sempre cura, affinché gli Stati dei principi italiani fossero tra loro bilanciati e perciò anche l'Italia fosse in pace; pace che pure si ebbe finché egli visse e fu custode di questo bilanciamento, e che venne meno con l'estinguersi della sua vita e di quel bilanciamento»21 . Il 1494 segnerà la fine di ogni speranza di ritorno alla normalità per gli Stati italiani, che fino al 1559 saranno quasi ininterrottamente coinvolti in decenni di guerre attuate dalle grandi potenze europee, Francia e Spagna in primis, per la supremazia nella penisola; quelle grandi potenze che, al contrario dei principati italiani, erano riuscite a consolidare o, comunque, stavano portando avanti un processo ben definito di accentramento del potere e di rafforzamento delle istituzioni e dell’amministrazione che le avrebbe avvantaggiate, in tutti i campi (economico, politico, culturale, ecc.), nei secoli avvenire22 . L’Italia, d’ora in poi e fino alla prima metà del Settecento, diverrà parte costitutiva di un equilibrio «generale» che sarà quello europeo e agirà dunque da equilibrio «minore»; stessa cosa varrà anche per l’equilibrio tedesco, che inizierà a rivelarsi fondamentale nel momento in cui si avvierà la Riforma Protestante, ossia dal 1517 (non bisogna comunque prendere questa data come fondativa dello scisma della Cristianità, in quanto già nel passato erano sorti movimenti religiosi del tutto eterodossi rispetto alla dottrina cattolica); da notare che sia l’Italia che la Germania versavano nella stessa situazione di grande frammentazione politica ed economica (ed anche religiosa in Germania) ed è soprattutto questo che permise alle volontà degli altri Stati nazionali europei di appagarsi e di ottenere la supremazia in tali regioni; inoltre il «Bel Paese» godeva di un intenso sviluppo economico e culturale, sotto la spinta dei suoi centri industriali e finanziari, del suo sviluppo agricolo; era sede della civiltà cristiana e culla del Rinascimento e dell’Umanesimo. Soltanto poi verso la fine del Seicento si costituiranno altri due nuovi equilibri minori, quello nordico e quello 21 A. Gentili, De jure belli libri tres, ed. Hanoviae, 1612, cap. XIV; cit. in M. Bazzoli, op. cit., pp. 11-12. 22 Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., p. 26; cfr. anche M. Cesa, op. cit., p. 20 e A. Aubert, P. Simoncelli, op.cit., p. 58; cfr. infine anche nota 13 supra.
  • 16. 8 orientale, e inizieranno a perdere importanza i primi due23 (soprattutto quello tedesco). Il quadro politico europeo che si manifestava alla fine del Quattrocento «non lasciava intravedere l’emergere di alcuna potenza capace di incarnare un progetto egemonico: […] Venezia sembra aver maturato una reale sensibilità per le vicende della politica internazionale, mentre Francia e Inghilterra sono uscite dalla loro guerra dei cent’anni (1337-1453)» e hanno intrapreso la via dell’accentramento nazionale; infine «Impero e Papato, più che intraprendere politiche autonome, appaiono essere reattivi alle vicende esterne». Il dato sostanziale è che non esisteva ancora alcun centro politico dominante24 . L’equilibrio italiano iniziò a rompersi nel momento in cui Ludovico «il Moro» divenne duca di Milano nel 1479, segregando a Pavia il legittimo erede della casata milanese degli Sforza, Gian Galeazzo II (1469-1494), il quale era ancora troppo giovane per governare. Purtuttavia egli era già promesso sposo a Isabella d’Aragona (1470-1524), nipote di Ferdinando I, re di Napoli; il gesto messo in atto da Ludovico dunque mise in crisi le relazioni fra i due Stati. Per prepararsi al futuro scontro, Milano elaborò una fitta azione diplomatica, volta ad assicurarsi l’amicizia sia con la Francia di Carlo VIII (1470-1498) sia con l’Imperatore Massimiliano I Asburgo (1459-1519); d’altra parte, il re francese si era già deciso a calare in Italia con le sue truppe per far valere il diritto dinastico degli Angiò-Valois di ascendere al trono napoletano, in quanto la casata degli Angiò si era estinta a Napoli nel 1481; infine lo Stato pontificio, retto dal Papa Alessandro VI Borgia (1492-1503), decise di unirsi con Napoli e ciò lasciò isolata la politica diplomatica di Ludovico, che finì dunque per ritorcersi contro, in quanto anche Venezia rimase neutrale25 . L’avanzata francese durò quasi due anni e si concluse nell’estate del 1495, con la battaglia di Fornovo sul Taro (6 luglio) quando una grande coalizione internazionale antifrancese composta da Venezia, Stato della Chiesa, Milano, Spagna, Impero, Inghilterra e ovviamente Regno di Napoli pose fine alle speranze di supremazia transalpine nella penisola26 . L'equilibrio di potenza viene dunque temporaneamente restaurato e a ciò convogliano tutte le potenze europee: un equilibrio non più solo italiano ma che quindi diviene europeo a partire dal XVI secolo, poiché gli statisti iniziano ad 23 Ibidem, p. 29; cfr. anche F. Chabod. op. cit., pp. 8; 38-39. 24 Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., pp. 31-32. 25 Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., p. 58-59. 26 Ibidem.
  • 17. 9 analizzare e a discutere dei rapporti di forza e di potenza tra gli Stati, che «appaiono dotati di uguali diritti, di identico valore morale e politico», rispondenti ora alla sola dottrina della «Ragion di Stato» di machiavelliana memoria come «principio supremo imposto ai reggitori dei popoli», e «fra i quali [Stati] pertanto possono bene essere istituite […] relazioni di mutuo equilibrio»27 . Nei primi anni del Cinquecento è nuovamente la Francia a prendere l'iniziativa bellica, con il re Luigi XII Orléans (1462-1515) il quale già nel 1501 riprende le ostilità nel Meridione italiano, da cui viene scacciato per mano degli Spagnoli due anni dopo; in seguito le operazioni belliche si spostano a Nord, dove, tra fasi alterne, Milano rientra nell'orbita francese dopo circa dodici anni di guerra, tra il 1504 e il 1516, anno del Trattato di Noyon tra Francia e Spagna che vede affermarsi l'occupazione milanese da parte dei transalpini e l'occupazione napoletana da parte dei castigliani28 . Nel 1515, morto Luigi XII, sale al trono Francesco I (1494-1547); in Spagna, Carlo I d'Asburgo, divenuto nel 1516 re di Castiglia e Aragona dopo la morte di Filippo I «il Bello» (1478-1506) e di Ferdinando III d'Aragona (1452-1516), nel 1519 assume anche la carica di Imperatore con il nome di Carlo V (1500-1558), in seguito alla morte dell'Imperatore Massimiliano I Asburgo, e riunisce i suoi possedimenti occidentali, orientali e d'oltremare, creando un enorme impero capace di chiudere in una morsa il diretto nemico francese (già dal 1522 comunque Carlo avrebbe designato suo fratello Ferdinando come erede dei possedimenti austro-tedesco-boemi)29 . Inizia lo scontro per l'instaurazione della «Monarchia Universale» in Europa, che durerà fino al 1559. Proprio il conflitto tra le due maggiori monarchie del Cinquecento risulterà uno degli assi portanti di tutto il secolo, insieme allo scontro religioso e allo scontro tra l'Impero Asburgico e l'Impero Ottomano30 : «Spagna e Francia si fronteggiano [per] l'instaurazione di una supremazia europea. Siamo di fronte a una “bilancia” i cui piatti hanno più o meno lo stesso peso, una situazione, questa, in cui gli Stati non direttamente coinvolti sono chiamati a porre rimedio […] con la loro adesione a una parte o all'altra, a seconda delle circostanze, agli eventuali squilibri o, in assenza di questi, a mantenere una stretta neutralità. Loro principale obiettivo è, infatti, evitare che uno dei due contendenti possa prevalere e 27 Cfr. F. Chabod, op. cit., pp. 6-8. 28 Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., pp. 29-30. 29 Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp. 81-83. 30 Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., pp. 32-33.
  • 18. 10 quindi soggiogare non solo il diretto rivale ma anche tutti gli altri membri del sistema»31 . Durante questi anni il Papato manifesta la propria volontà di appoggiare gli spagnoli del cattolicissimo Carlo V, il quale voleva liberare Milano dal giogo francese e restaurare il potere degli Sforza; inoltre Stato della Chiesa e Francesi confliggevano nelle loro mire espansionistiche, nell’area ferrarese e lombarda; tuttavia questa politica viene criticata dallo storico e politico diplomatico veneziano Paolo Paruta (1540-1598) che nei suoi Discorsi politici (pubblicato postumo nel 1599) evidenzia come invece Papa Leone X (1513-1521, esponente della famiglia fiorentina dei Medici) avrebbe dovuto adottare una politica più conforme a quella veneziana, ossia di «bilanciere» tra i due contendenti, in quanto: «mentre vi stavano questi due prencipi [Francesco I e Carlo V] di forze pari e d’animo infestissimo, dandosi l’uno contrappeso all’altro, venivano a restar più sicuri gli altrui stati, non essendo mai per tollerare una parte, che l’altra crescesse e s’innalzasse con la rovina d’alcun potentato d’Italia; anzi quello che fusse stato assalito dall’uno, era sicuro d’aver dall’altro certo ed utile soccorso. In modo che, a niuna cosa dovea più pensare Leone […] che a tenere giusta questa bilancia con la sua neutralità»32 . Mentre per quanto riguarda la sua patria, egli scrive: «[…] il Senato Venetiano […] mentre le cose di questi due Prencipi […] furono nelli maggiori ardori della guerra in Italia, volle accomodarsi alle fortune di ciascuno di loro, e servendo alla conditione delle cose de’ tempi mutare spesso anco amicitie, tenendo ferma questa mira del tenere le forze loro quanto più si potesse bilanciate e indebolite con quel contrasto che si faceano da se stessi […]»33 . Tra gli anni 20 e e la fine degli anni 50 del XVI secolo «i due prencipi di forze pari e d’animo infestissimo» non cessarono mai di combattere, sia sul lato politico, che su quello religioso, in quanto Francesco I più e più volte utilizzò l’arma religiosa per minare e ridimensionare la potenza di Carlo V, molto più superiore alla sua dal punto di vista economico, militare e territoriale, aizzando i luterani (chiamati «protestanti» a partire dalla Dieta di Spira del 1529) a provocare disordini (la guerra 31 Cfr. M. Cesa, op. cit., p. 21 32 P. Paruta, Discorsi politici, a cura di G. Candeloro, Bologna, Giappichelli, 1943, Discorso IX, pp. 353-355, 358-359, 360-364,; cit. in M. Bazzoli, op. cit., pp. 16-17. 33 Ibidem; cit. in M. Cesa, op. cit., p. 22.
  • 19. 11 dei contadini di Thomas Muntzer, 1524-1525, per esempio) e ad organizzarsi anche militarmente, con la Lega di Smalcalda del 1531, alla quale rispose Carlo formando la Lega Cattolica, nel 1538. Ecco che la religione diviene strumento della politica estera degli Stati, e quindi strumento della politica dell'equilibrio in Europa34 . Il conflitto religioso, al quale parteciperà in parte anche l'Inghilterra di Enrico VIII Tudor (1491- 1547) rimanendo affianco dei cattolici almeno fino al 1534, anno dell'emanazione dell'Atto di Supremazia, con cui si sancisce la divisione politica (e non dottrinale) tra Chiesa Cattolica e Chiesa Anglicana35 , vedrà nella battaglia di Műhlberg (1547) un importante crocevia, con la netta vittoria dei cattolici di Carlo V e si concluderà poi nel 1555 con la pace di Augusta, stipulata tra Carlo e la Lega di Smalcalda: verrà affermato l'importante principio religioso «cuius regio, eius religio», che avrebbe permesso ai prìncipi tedeschi e agli abitanti delle zone dell'Impero di scegliere liberamente la propria religione; si lasciava libero chiunque avesse voluto emigrare dal rispettivo paese per motivi religiosi; si affermava una volta per tutte la fine di tutti i progetti universalistici della Chiesa Romana di abbracciare tutte le genti del mondo cristiano e, d'altra parte, si fece definitivamente strada il «principio della divisione e del particolarismo tipico dell'età moderna», valido anche per l'Impero germanico: «Eliminando per sempre la prospettiva di creare uno Stato assolutistico e centralizzato, infatti la normativa augustana diede ai prìncipi [tedeschi] larga autonomia politica, riconoscendoli come autentici rappresentanti della sovranità statale, con pieni poteri in materia amministrativa, giudiziaria, militare, fiscale e anche di politica estera. L'Impero però […] continuò ad esistere e a funzionare in quanto unitaria realtà sovrastatale preposta alla salvaguardia della difesa verso l'esterno e della pace interna, garantendo in tal modo l'unità politica della nazione tedesca […]. Ciò che crollava ad Augusta non fu dunque l'Impero in quanto tale […] ma l'idea di una monarchia universale estesa sull'intera cristianità europea coltivata da Carlo V […]»36 . Per quanto riguarda il conflitto politico-militare, si susseguirono alterne vicende: i primi scontri militari tra Francesi e Spagnoli iniziarono nel 1521 in Lussemburgo e Navarra, con un'iniziale supremazia transalpina, ma dopo 5 anni Carlo 34 Cfr. nota 9 supra. 35 Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., p. 39; cfr. anche A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp. 168-173. 36 Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp. 204-207.
  • 20. 12 V riporta una prima vittoria decisiva (l'anno prima aveva catturato Francesco I dopo l’assedio di Pavia) con la stipulazione del Trattato di Madrid, in cui sia attesta la perdita di influenza francese su tutta l'Italia e e la conferma dei possedimenti asburgici in Borgogna, nelle Fiandre e nell'Artois. La «bilancia» dell'equilibrio sembra quindi pendere verso la corona asburgica, le diplomazie europee si organizzano e danno vita alla Lega di Cognac (1526), che include Francia, Papato, Repubblica di Venezia e l'anno dopo anche l'Inghilterra; Francesco I intrattiene relazioni diplomatiche con i turchi ottomani di Solimano I «il Magnifico» (1494-1566), i quali avrebbero potuto mettere in seria difficoltà gli imperiali ad oriente. Gli scontri dunque ricominciano già nel 1526 e si concludono nel '29 con la Pace di Cambrai, detta anche “Pace delle due dame” (firmata tra Luisa di Savoia, 1476-1531, madre di Francesco I e Margherita d'Austria, 1480-1530, zia di Carlo V), per cui Carlo V rinuncia ai possedimenti borgognoni mentre Francesco I rinuncia definitivamente alle mire espansionistiche verso Milano. Dopo 6 anni in cui Carlo V dovette maggiormente prestare attenzione ai problemi religiosi e al conflitto a est con i turchi, che nel 1529 erano giunti fino alle porte di Vienna, le operazioni militari riprendono con Francesco I che, approfittando della morte di Francesco II Sforza (1495-1535) a Milano, cerca nuovamente di penetrare nel Settentrione italiano occupando Torino e i territori piemontesi dei Savoia, mentre gli Spagnoli rispondono occupando la Provenza: si arriva alla tregua di Nizza del 1538, con cui vengono riconosciute le conquiste militare di entrambi i contendenti (Spagna in Lombardia, Francia in Piemonte); oltre a ciò, nello stesso anno si forma una lega antimusulmana, e dunque antifrancese, composta dallo Stato della Chiesa, dagli Asburgici (Spagnoli e Imperiali) e dalla Repubblica di Venezia, per bloccare l'avanzata franco-turca nel Mare Nostrum, che stava mettendo in discussione tutto l'equilibrio mediterraneo. Tuttavia questa contesa vede favoriti i Turchi, che riescono a conquistare e successivamente egemonizzare gran parte delle coste e delle isole mediterranee. Le ultime cartucce di Francesco I vengono sparate nei primi anni Quaranta del Cinquecento: il sovrano francese vuole approfittare della brutale sconfitta navale di Algeri subita da Carlo V contro i pirati turchi del Barbarossa (1466 ca.- 1546) e formalizza la formazione di una lega antiasburgica comprendente, oltre alla Francia, la Danimarca, la Svezia e la Scozia, i quali avrebbero dovuto impegnare gli Inglesi a nord dell'isola; quest'ultimi infatti, perseguendo la politica di balancer fra i due poli di potere, dal 1540 avevano intrapreso una politica favorevole agli Asburgo,
  • 21. 13 soprattutto dopo la morte del primo ministro inglese Thomas Cromwell (1485-1540), fautore di una politica antiasburgica. Nel 1544 si arriva alla pace di Crepy, che sancisce la definitiva cessione della Borgogna alla Francia, che a sua volta ribadisce nuovamente la rinuncia a ogni ambizione italiana e, soprattutto, decide di staccarsi definitivamente dall'alleanza con i Turchi, riappacificandosi così anche con il Papa Paolo III (1534-1549), che l'anno dopo dà avvio al concilio di Trento, idoneo a porre la Chiesa Romana su basi più forti e solide. Dopo più di 20 anni di guerra, Francesco I (che morirà nel '47) «è condotto a riconoscere il primato, se non necessariamente territoriale, politico di Carlo, come supremo reggente e custode dell'ordine internazionale»: « […] lo scontro per il potere internazionale si sostanzia di tutto ciò [operazioni militari e rituali incontri diplomatici], ma lo supera avendo di mira la realizzazione di un assetto gerarchico, nel quale il vertice, non che controllare direttamente o possedere come in un solo e unitario impero tutti gli Stati, funge da supremo regolatore dei rapporti internazionali, da responsabile dunque di tutto ciò che nei diversi territori potrà accadere»37 . Morto Francesco I, al trono francese sale Enrico II (1519-1559). Viste le difficoltà che trova Carlo V a porre fine alle resistenze protestanti e all'insofferenza antiasburgica nelle Fiandre, in particolare nei Paesi Bassi, il nuovo sovrano francese riprende le ostilità nel 1552 annettendo Metz, Toul e Verdun per poi proseguire conquistando anche il Piemonte dei Savoia. Si era costituita una nuova alleanza matrimoniale tra la Spagna e l'Inghilterra, la quale, dopo la morte di Enrico VIII (1547) aveva assistito al governo del giovane Edoardo VI (1537-1553) e, dopo la sua morte, a quello di Maria I Tudor (1516-1558), fervente sostenitrice del cattolicesimo; essa viene data in sposa al figlio di Carlo V, il futuro Filippo II (1527-1598), sancendo il ritorno dell'Inghilterra al Cattolicesimo. La nuova alleanza porta in dote una potenza militare capace di mettere fine alle ultime chances di vittoria francese, sebbene poi Maria muoia nel 1558 (stesso anno in cui muore Carlo V) e, priva di eredi, lascia il trono alla sorella Elisabetta I (1533-1603), protestante. Si raggiunge una pace, stavolta definitiva: il 2-3 aprile del 1559 viene stipulata a Cateau-Cambrésis tra i rappresentati di Francia, Spagna e Inghilterra e sebbene l'Italia sia uno dei territori nevralgici che fanno parte degli argomenti della pace, nessun rappresentante italiano viene convocato 37 Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., pp. 33-49.
  • 22. 14 a discutere: la Francia rinuncia a tutte le sue conquiste italiane (tra cui il Piemonte, passato ai Savoia e parte della Corsica, concessa a Genova) e alle sue aspirazioni nella penisola; la Spagna consolida il suo dominio sull'Italia, spostando enormemente l'equilibrio a suo favore in questa regione, ma è ormai separata, giuridicamente e politicamente, dall'Impero, in quanto Carlo V, abdicando, consegna il governo austro- tedesco al fratello Ferdinando I (1503-1564); i possedimenti italiani, spagnoli, d'oltremare e nelle Fiandre invece passano al figlio Filippo II; l'Inghilterra perdeva solamente la città di Calais, passata in mano francese38. Sostanzialmente non ci sono né vincitori né vinti: la Spagna è riuscita a difendersi egregiamente dai continui attacchi francesi, che l'hanno fiaccata ma non sconfitta; in un ipotetico assetto gerarchico delle relazioni internazionali potremmo dire che la Spagna si troverebbe ancora al primo posto, sebbene non ancora per molto; l'Inghilterra sicuramente esce rafforzata dal nuovo quadro politico internazionale, in quanto è riuscita nel suo intento di bilanciare lo scontro fra i due poli monarchici del Cinquecento; infatti, «in questo apparente caos ricompare […] il principio per il quale occorre impedire ogni tentativo di riproporre una monarchia universale. Lo “spettro dell'egemonia” che ha minacciato il sistema fin dalla nascita, diviene elemento decisivo nel successivo sviluppo delle relazioni internazionali, e la necessità per gli Stati di “contropesarsi” è ben presto posta in evidenza tanto dalla teoria che dalla pratica politica»39 . Nel XVI secolo dunque si afferma definitivamente la necessità dell'intervento, militare e non, nelle vicende di un terzo paese per promuovere o impedire alterazioni dell'equilibrio generale: i rapporti interstatali divengono così importanti e così stretti, la necessita di contrappesi e contromisure così impellente, che è naturale considerare il Cinquecento come il secolo della formazione di un sistema di Stati europeo integrato (quasi) alla massima potenza40 . La tutela della sicurezza nazionale, che è una logica propagazione anche della dottrina della «Ragion di Stato», riveste un aspetto fondamentale della politica dell'equilibrio: così come «la natura, nella cui disposizione ogni cosa bilanciata con contrapposti e sostenuta con opposizioni si vede, dimostra manifestatamente […] e la necessità, e l'arte di contrapesarsi scambievolmente l'un l'altro […] or questa somiglianza, il contrapesare in materia di Stato, non è altro che 38 Ibidem, pp. 50-51. 39 Cfr. M. Cesa, op. cit., p. 24. 40 Cfr. F. Chabod, op. cit., pp. 96-97.
  • 23. 15 uno impedire, et un riparare, che altri non sgomini la quiete e non metta in pericolo la sicurezza degli Stati». Quindi equilibrio naturale a cui corrisponde un uguale equilibrio politico; equilibrio di potenza ci può essere solo se vi è «pluralità di prencipi», ossia multipolarismo di potere, dove vi è più di una potenza capace di confrontarsi con un'altra o più di una; e può essere indirizzato a due scopi: « […] alle volte ha per fine la pace d'una republica composta di più Stati differenti, quale è l'Italia, e l'Alemagna, e la Cristianità tutta insieme; alle volte la sicurezza e ben essere di uno Stato particolare. Nel primo caso il contrapeso consiste in una certa eguaglianza, per la quale il corpo della repubblica non abbia membri che non siano tra sé proporzionati e con una certa egualità bilanciati; […] Ambì questa lode Arrigo VIII re d'Inghilterra, che aderendo ora a Carlo V ora a Francesco I re di Francia, pretendeva dar contrapeso alle cose d'Europa. […] Ma il contrapeso che per oggetto la sicurezza particolare di uno Stato, tocca a chiunque ha dominio e se ne vuole, senza dipendere dagli altri, assicurare»41 . Questa interpretazione «naturalistica» dell'equilibrio può essere associata a quella di ispirazione cosmica formulata da Philippe de Commynes (1445 ca.-1511), segretario politico francese del Re Luigi XI (1423-1483), nelle sue Memorie: «In conclusione, mi sembra che Dio non abbia creato in questo mondo né uomo né bestia cui non abbia dato qualche cosa di contrario per tenerlo in timore e rispetto, […] giacchè al reame di Francia diede per contrario gli Inglesi, agli Inglesi diede gli Scozzesi, al regno di Spagna il Portogallo, […] ai principi d'Italia […] i comuni […] che sono sempre nemici dei signori; e i signori son sempre nemici loro […]»42 . 1.3 Dalla pace di Cateau-Cambrésis alla pace di Westfalia Il nuovo assetto internazionale venuto fuori dalla guerra ci riconsegna un’Europa in cui sembrano essere tre le uniche potenze a fare da padroni nel «gioco politico internazionale»: Spagna, Francia e Inghilterra. Dal 1560 in poi tuttavia nuove organizzazioni statali faranno la loro comparsa accanto a quelle tradizionali, fra le quali l'Olanda, la Svezia e la Russia degli Zar, che accentueranno il carattere 41 G. Botero Benese, Del contrapeso delle forze de' principi, Venezia, G. Varisco, 1605 pp. 8-10; cit. in op. cit. M. Bazzoli, pp. 21-23. 42 Philippe de Commynes, Memorie (1488-1501), lib. V, cap. XVIII, pp. 295-296; cit. in M. Cesa, op. cit., p. 13.
  • 24. 16 multipolare europeo che è uno dei presupposti per l'attuazione dell'equilibrio generale; nel XVII secolo l'Impero assumerà un ruolo internazionale importante, rispetto a quello più di contorno che aveva assunto nel Cinquecento nei confronti del conflitto franco-spagnolo. Gli interventi a sfondo religioso diverranno sempre più un pretesto per tutelare l'ordine internazionale costituitosi, e aumenteranno in conseguenza dell'ampliamento delle regioni interessate da tali conflitti, quali la Francia, l'Olanda e infine ancora la Germania, nella prima metà del Seicento. Le nuove guerre tra le potenze europee rimarranno inespresse fino alla fine del Cinquecento, in quanto furono soprattutto i conflitti civili interni a connotare la seconda metà del XVI secolo; quindi, a un periodo di discontinuità contrassegnato da un ricorrente spostamento della «bilancia» internazionale tra Francia e Spagna, ne discende un altro contraddistinto da sostanziale continuità, derivante dall'assenza di conflitti generalizzati nel Vecchio Continente e quindi dal mantenimento (sebbene sempre precario) dell'ordine europeo. Le prerogative delle grandi potenze non muteranno di molto: l'Inghilterra continuerà ad operare per «dividere l'Europa in Stati press'a poco uguali acciocché, per l'equilibrio delle loro forze essi si astengano dai troppo ambiziosi progetti» 43 , ribadendo nuovamente quale sia il cardine di tutta la sua politica estera; la Spagna lancerà una nuova sfida all'equilibrio, provocata dai rivolgimenti religiosi vicini ai suoi confini, ma esaurirà tutto il suo vigore e dal Settecento diverrà una potenza di secondo piano; la Francia, dopo più di un trentennio di guerre di religione, nel Seicento raggiungerà il primato internazionale nel novero degli Stati europei, scalzando la Spagna da siffatta sede44 . Il concetto di equilibrio di potenza, almeno fino alla pace di Westfalia del 1648, rimarrà interpretato solo come un fatto politico, pratico, concreto a cui non verrà data nessuna definizione o interpretazione giuridica precisa, e ciò agevolerà la strumentalizzazione della sua idea e della sua effettiva messa in pratica, che risulterà assai ambigua ed equivoca. Conseguenza di questa sua ambiguità è che gli statisti, gli uomini politici, i diplomatici, gli intellettuali, ecc. utilizzeranno tale termine per analizzare le fondamenta della politica internazionale degli Stati in modo da farla risultare quasi “umanitaria”, cioè a favore dell'ordine internazionale, mentre in realtà gli obiettivi politici perseguiti dagli statisti produrranno sempre un'alterazione 43 Cfr. F. Chabod, op. cit., p. 10. 44 Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., pp. 53-55.
  • 25. 17 dell'equilibrio45 . La Spagna di re Filippo II sarà lo Stato che inizialmente dovrà affrontare il maggior numero di problemi e che vedrà per primo mettere in discussione i propri domini: tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del Cinquecento Filippo II sarà impegnato nel conflitto contro gli Ottomani, i quali avevano accresciuto le scorrerie barbaresche in tutto il Mediterraneo, arrivando a conquistare Malta (1565) e Cipro (1570), zone d'azione commerciale di Venezia; quest'ultima, proprio insieme alla Spagna e allo Stato della Chiesa di Pio V (1566-1572) formano la «Lega Santa» che nell'ottobre del 1571 infligge una grave sconfitta alla flotta turca e sancisce l'inizio della lenta ritirata turca dal continente europeo46 , che si concluderà poi alla fine della Prima Guerra Mondiale. Dal 1566 inoltre scoppierà, con tutta la sua carica religiosa, la questione dell'indipendenza delle Province Unite, ossia i territori nordici dei Paesi Bassi spagnoli, che acquisteranno l'indipendenza de facto nel 1609 e de iure nel 1648, alla fine della «Guerra dei Trent'anni». La lotta, intesa come la prima vera guerra di indipendenza della storia moderna, viene avviata in coincidenza dell'intensificarsi delle guerre di religioni francesi, che vedeva il contrasto furioso tra gli «ugonotti», i protestanti francesi, e i cattolici; in coincidenza dell'intensificarsi della guerra fra Spagna e Impero Ottomano, che finisce per porre in secondo piano le vicende delle Fiandre; e in seguito all'accentramento assolutistico operato da Filippo II rispetto alle spinte autonomiste provenienti dalle parti del suo Impero. Rispetto a quest'ultima causa della rivolta c'è da dire che il popolo olandese rivendicava il disonoramento del cosiddetto Privilegio del Brabante, una sorta di carta costituzionale redatta nel 1356 dal duca di Lussemburgo, Venceslao I (1337-1383), «che fissava i reciproci diritti e doveri dei sudditi e del principe»; La difesa di quelle libertà e di quei privilegi dai soprusi spagnoli venne traslata e trasformata dai ribelli olandesi in difesa del vincolo che univa essi con il principe originario, legato egli stesso direttamente a Dio, proprio grazie all'obbligo contratto con il Creatore e che concedeva quelle franchigie e quei privilegi alla popolazione. Questo sacro patto doveva essere difeso in ogni modo e ciò giustificava la resistenza aperta contro Filippo II47 . A dar manforte ai correligionari protestanti dei Paesi Bassi si impegna 45 Cfr. F. Chabod, op. cit., pp. 35-37. 46 Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., pp. 59-60. 47 Ibidem, pp. 54-58; Cfr. anche A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp. 284-290
  • 26. 18 l'Inghilterra di Elisabetta I, ormai estranea al periodo in cui la «Terra d'Albione» si era trovata alleata degli Spagnoli nelle ultime fasi di guerra fra Carlo V ed Enrico II di Francia (con il matrimonio tra Anna la Sanguinaria e Filippo II); gli inglesi vedevano nel ridimensionamento della Francia provocato dai conflitti religiosi come un elemento destabilizzante della «bilancia» dell'equilibrio europeo, in quanto la Spagna avrebbe potuto espandere la propria influenza in tutta l'Europa continentale, dove l'Impero di Massimiliano II d'Asburgo (1527-1576), seguito da quello di Rodolfo II (1552-1612) costituiva un naturale alleato su cui contare (la lotta contro gli Ottomani era comune a entrambi gli Stati). Così facendo si esplica un altro elemento fondamentale della politica dell'equilibrio, ossia quello della costituzione delle grandi alleanze che si oppongono al «nuovo tentativo egemonico spagnolo»: «L'aiuto di Elisabetta ai calvinisti francesi e olandesi fece sì che l'isola si trovasse per la prima volta a guidare una coalizione volta a proteggere l'Europa da ambizioni egemoniche, gettando così le basi di una politica che, da un punto di vista britannico, lungi dal risolversi nella mera difesa dell'assetto europeo, si poneva come prerequisito per raggiungere la supremazia sui mari»48 . La preoccupazione inglese è accresciuta anche dal fatto che Filippo II nel 1581 riesce ad unificare le corone di Spagna e Portogallo sotto un unico stendardo, dal momento che la dinastia Aviz, regnante sin dal 1385, si era estinta con il governo del cardinale Enrico I (1512-1580), il quale prima di morire fece in tempo a dichiarare Filippo nuovo re del Portogallo: le pretese spagnole erano suggellate dal matrimonio fra Isabella del Portogallo (1503-1539), figlia del re lusitano Emanuele I (1469-1521), e Carlo V, che l'aveva presa in moglie e con cui aveva generato proprio Filippo II (ora Filippo I di Portogallo)49 . Dunque la supremazia inglese nei mari iniziava ad essere messa in discussione e Filippo si ritrova a sognare la possibilità di sbarcare in Inghilterra, aiutato anche dalle incursioni scozzesi e dai tentativi di Maria Stuart (1542-1587), cattolica regina scozzese dal 1542 al 1567, di estromettere dal trono inglese la cugina Elisabetta, la quale tuttavia riusce a imprigionarla e a giustiziarla nel 1587. Per vendicare l'affronto subito e il reiterato sostegno inglese agli ugonotti francesi, Filippo organizza una enorme flotta composta da 130 navi, l'Invencible Armada, che avrebbe dovuto mettere sotto scacco le forze marittime inglesi e infine 48 Cfr. M. Cesa, op. cit., p. 25-26. 49 Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp. 300-302; cfr. anche L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., p. 62.
  • 27. 19 distruggerle; ma nelle acque della Manica, i galeoni spagnoli, già ridottisi di numero a causa di alcune tempeste, non riescono ad avere la meglio dei vascelli inglesi di sir Francis Drake (1540-1596) e subiscono una clamorosa sconfitta; i tentativi egemonici spagnoli si rivelavano, ancora una volta, estremamente utopici rispetto alla realtà concreta delle cose; l'Inghilterra assumeva risolutamente «il ruolo di grande potenza protestante europea, l'unica in grado di contrapporsi alla Spagna cattolica»50 . In effetti, l’unica altra potenza che avrebbe potuto turbare la potenza castigliana era impegnata a risolvere i duri contrasti religiosi in patria: dal 1562 fino alla fine degli anni Novanta del Cinquecento la Francia si trova coinvolta nel peggior conflitto civile della sua storia moderna, secondo solo alla Rivoluzione del 1789. Nel 1563 si era conclude definitivamente il Concilio di Trento, promosso da Papa Paolo III nel 1545 per rispondere alla sfida aperta da Martin Lutero (1483-1546) nel 1517: da esso ne nasce «una nuova chiesa militante, che in una poderosa sfida dottrinale e dogmatica rifonda la sua organizzazione e ritrova il prestigio per ribadire la supremazia del papato sui sovrani e del potere spirituale su quello temporale»51 . I risultati conseguiti dai partecipanti al concilio tridentino ridonano dunque fervore all'attività cattolica e ai suoi seguaci; in Francia l'autorità cattolica si era rafforzata sin dal Concordato stipulato con la Chiesa di Roma nel 1516 ed esso aveva contribuito a creare un forte episcopato nazionale, capace di radicarsi anche all'interno della burocrazia statale. Tuttavia neanche i territori francesi vengono risparmiati da movimenti scissionisti o riformisti, come quello avviato, all'inizio del secolo, dall'ecclesiastico Guillaume Briçonnet (1445-1514) e dal filosofo umanista Jacques Lafèvre d'Etaples (1450 ca.-1536 ca.), i quali arrivano a predicare fino al cuore della corte francese di Francesco I, dove trovano un'importante alleata nella sorella del re, Margherita di Valois (1492-1549); cosicché la loro azione riformatrice, anteriore anche a quella di Lutero, può protrarsi senza troppe difficoltà, giovandosi della protezione offerta da Margherita. Il re, soprattutto nei momenti in cui non era impegnato a guerreggiare con Carlo V, tenta svariate volte, anche attraverso metodi repressivi, di porre fine alla diffusione delle idee riformiste, ma fallisce nel tentativo; stesso identico risultato ottiene il successore, Enrico II, che arriva addirittura a istituzionalizzare l'Inquisizione francese (1557). Subito dopo la morte del re, i 50 Ibidem, pp. 303-304; cfr. anche M. Cesa, op. cit., p. 26. 51 Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., p. 61.
  • 28. 20 protestanti francesi (gli ugonotti: sposano per lo più le tesi di Giovanni Calvino, 1509- 1564, il quale aveva predicato soprattutto a Ginevra e nei territori svizzeri) sanciscono la loro presenza sul territorio convocando il primo Sinodo nazionale, mettendo in discussione tutte le fondamenta della Chiesa cattolica francese. Essi approfittano anche del momento di transizione che stava attraversando la corte francese, in quanto a Enrico II era succeduto un Consiglio di reggenza, che governava in vece del giovane e cagionevole re Francesco II (1544-1560), il quale muore poi nel dicembre dell'anno successivo. Proprio in quel mese la madre reggente, l’energica Caterina de' Medici (1519-1589), profondamente cattolica, convoca gli Stati Generali dove si decide di proibire le persecuzioni ugonotte e di liberare tutti i protestanti francesi fatti prigionieri, senza però permettere alcuna diffusione del culto riformato; l'anno dopo, con l'editto di luglio, si ribadisce l'impossibilità per i protestanti di predicare e di riunirsi in assemblea; tali decisioni vengono in parte sovvertite nel gennaio del 1562, quando, con l'editto di Saint-German, nonostante si proibisse agli ugonotti di arruolare truppe e di diffondere il proprio culto, si permette loro di riunirsi in assemblea e di convocare sinodi (sotto assenso del Re, Carlo IX, 1550-1574). Proprio la violazione del principio d'assemblea, il 1 marzo del 1562, quando un gruppo di cattolici assale e massacra i protestanti riuniti in preghiera nella cittadina di Vassy, segna la fine di ogni possibile compromesso tra le due fedi, la militarizzazione delle truppe ugonotte e l'inizio delle guerre di religione 52 . Esse si protraggono fino al 1598 e videro avvicendarsi tre diversi re: Carlo IX, Enrico III (ultimo della dinastia Valois, 1551- 1589) ed Enrico IV Borbone (primo della sua dinastia, 1553-1610). Le guerre civili produssero, in poco più di 30 anni, la demolizione della società e dello Stato francese: fra intrighi, combattimenti, tradimenti (famosa la notte di San Bartolomeo, quella fra il 23 e il 24 agosto del 1572, durante la quale si compì un eccidio di migliaia di ugonotti, accorsi in massa a celebrare le nozze – chiamate “vermiglie” per gli eventi che seguirono – tra la figlia di Enrico II e di Caterina de' Medici, Margherita di Valois, 1553-1615, ed Enrico III di Navarra, che nel 1589 diventerà Re di Francia col nome di Enrico IV), soltanto nel 1598 la Francia può tornare ad abbracciare la pace, dalla parte protestante. Dal 1589 inoltre lo Stato transalpino è nuovamente in guerra contro la Spagna di Filippo II il quale, per trovare sbocchi ad una politica estera che era stata fortemente indebolita con la sconfitta dell'Invencible Armada, decide di affiancarsi 52 Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp. 310-323.
  • 29. 21 alle truppe cattoliche di Enrico di Guisa (1550-1589), uno dei condottieri più importanti di queste guerre civili, a difesa della capitale parigina, la quale era sotto assedio per opera di Enrico IV di Francia. Aiutato anche dall'apporto delle truppe olandesi, ormai vittoriose nei confronti degli oppressori spagnoli, e inglesi, il culto riformato riesce a ottenere la vittoria con l'ingresso trionfale a Parigi di Enrico IV nel marzo del 1594 e con l'abbattimento delle ultime resistenze cattoliche; nell'aprile del 1598 la pacificazione religiosa viene sancita con l'editto di Nantes, che consentiva fra l'altro ai protestanti di poter accedere alle cariche pubbliche, di predicare liberamente il proprio culto (tranne nei territori in cui risiedeva il re e la corte) e di mantenere otto piazzeforti strategiche per circa ottant'anni (tra cui anche l'importante roccaforte della Rochelle). Il mese dopo viene conclusa la pace di Vervins con la Spagna, che sostanzialmente ribadiva le stesse clausole e condizioni della pace di Cateau- Cambrésis del 155953 . Il Seicento dunque si apriva come un secolo di grande incertezza e instabilità: la guerra tra la Spagna di Filippo III d'Asburgo (1578-1621, Filippo II era morto pochi mesi dopo la stipulazione del trattato di Vervins) e le Province Unite continuava, le quali potevano contare sull'appoggio inglese, mentre la Francia doveva assolutamente risalire la china per poter aspirare ai vertici della politica internazionale, che raggiungerà nella seconda parte del secolo; l'Inghilterra conoscerà uno dei più convulsi periodi della sua storia, che le farà attraversare due diverse rivoluzioni civili e che però la porteranno nel Settecento a divenire la potenza principe del sistema internazionale; nuove formazioni statali si affacciano prepotentemente sulla scena internazionale, Svezia, Polonia e Russia in primis, ampliando le fondamenta del sistema internazionale europeo, che ora non deve più contare solo sul mantenimento degli equilibri «minori» italiani e tedeschi, ma anche sull'equilibrio nordico e orientale per poter garantire l'equilibrio «generale» europeo. Proprio a questo allude il duca di Sully, Massimiliano de Béthune (1559-1641), ministro di Enrico IV, quando «attribuisce al re un grand dessin volto a “rendere tutti i quindici grandi potentati dell'Europa cristiana pressapoco uguali in potenza, sovranità, ricchezza, estensione e autorità, e […] dar loro confini e limiti così ben stabiliti e equivalenti che a coloro che sarebbero più grandi e ambiziosi non possa venire né desiderio né avidità di 53 Ibidem, pp. 324-345.
  • 30. 22 accrescersi […]”» 54 . Insomma, il multipolarismo di potere diventa connotato fondamentale del sistema internazionale europeo e del suo mantenimento. Il Seicento è anche il secolo della prima rivoluzione scientifica della storia umana, il secolo di Galileo Galilei (1564-1642), di Isaac Newton (1642-1727) e di Renè Descartes (1596-1650) e molte delle concezioni naturalistiche o di ispirazione divina legate al principio dell'equilibrio vengono abbandonate a favore di un'interpretazione più scientifica e meccanicistica del concetto: «si parla di “contrappesi”, della necessità di “pesare” la potenza, degli squilibri dovuti a un carico eccessivo di uno dei “piatti”, e si fa grande uso della metafora della “bilancia” […]. Questa concezione fisicalista dell'equilibrio persisterà, con le dovute eccezioni, fino a tutto il Settecento […]»55 . Per di più, si afferma definitivamente la distinzione tra mantenimento dell'equilibrio «generale» europeo e politica dell'equilibrio effettivamente messa in atto dagli Stati europei: infatti con la prima accezione, piuttosto utopica, si intende la costruzione di un ideale sistema internazionale europeo basato sulla durevolezza della pace fra le nazioni e su confini ben precisi fra gli Stati, che non vengano messi continuamente in discussione; con la seconda accezione ci si riferisce invece alla volontà di ciascuno Stato di volersi procurare, ad ogni costo, la sicurezza interna nei confronti degli antagonisti esterni, il che non significa altro che perseguire un preciso interesse nazionale all'autoconservazione, nell'ottica di un antesignano principio di “selezione naturale” esistente fra i diversi membri del sistema europeo56 . Sebbene il conflitto tra la Francia e la Spagna si era concluso da appena 2 anni, nel 1600 i due grandi rivali della storia moderna tornano a combattersi sul suolo italiano, in quanto Enrico IV di Francia decide di invadere il territorio piemontese del ducato di Savoia per impossessarsi dell’importante roccaforte di Saluzzo; i Savoia, alleati degli spagnoli sin dagli anni Ottanta del Cinquecento, invocano il loro aiuto, che arriva puntualmente e che pone fine alle ostilità già l’anno successivo, con la tregua di Lione: la Francia ottiene alcuni fortilizi montani ai suoi confini, i Savoia di Carlo Emanuele (1562-1630) mantengono Saluzzo57 . La Spagna chiude i fronti di guerra anche con l’Inghilterra (1604) e con le Province Unite (Tregua dei dodici anni, 54 M. de' Béthune, Memoires des sages et royales oeconomies d'Estat de Henri le Grand, 1638; cit. in M. Cesa, op. cit., pp. 30-31. 55 Cfr. M. Cesa, op. cit., p. 31-32. 56 Ibidem, p. 32. 57 Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., p. 64.
  • 31. 23 1609), ma nel 1614 torna sui propri passi e scatena la guerra per il Monferrato, che diviene mira di conquista da parte dei Savoia alla morte dell’ultimo discendente della famiglia Gonzaga, Francesco IV (1586-1612), famiglia molto vicina agli interessi spagnoli; i castigliani non avrebbero tollerato un ulteriore accrescimento dell’influenza dei Savoia nell’Italia settentrionale: la guerra viene vinta e il Monferrato rimane in mano ai Gonzaga, con Ferdinando I (1587-1626)58 . L’Impero asburgico di Rodolfo II (1552-1612) nel 1606 pone temporaneamente fine alla guerra contro l’Impero Ottomano per risolvere l’inquieta situazione politico-religiosa interna: «[…] ormai la linea della netta divisione dei fronti religiosi appariva inevitabile, anche perché in tutto l’Impero il consolidamento interno dei singoli Stati si andava realizzando in larga parte proprio in virtù di quel principio del cuius regio, eius religio fissato ad Augusta che aveva sancito la territorializzazione e la confessionalizzazione delle fedi religiose, favorendo l’irrigidimento istituzionale e dogmatico delle chiese protestanti, sempre più legate al potere dei principi e sempre meno disposte ad affrontare dibattiti religiosi che ne mettessero in discussione i fondamenti organizzativi e dottrinali»59 . La grande frammentazione religiosa dell'area tedesca (i cattolici erano in maggioranza nella Baviera e negli arcivescovati di Colonia, Treviri e Magonza, i protestanti in Sassonia, nel Palatinato e nel Brandeburgo – la futura Prussia) costituirà, per l'ennesima volta, motivo scontro tra le fazioni cattoliche e protestanti e motivo di conflitto della «Guerra dei Trent'anni»; l'Impero si rivela «incapace di preservare la propria funzione mediatrice e sovranazionale», dinanzi all'amplificarsi degli «effetti del rapido lacerarsi del tessuto istituzionale dell'Impero di fronte all'irremovibile profondità delle divisioni politico-religiose degli Stati». Così le divisioni si formalizzano fra il 1608 e il 1609, quando si costituiscono l'Unione evangelica protestante (che trovo dei naturali alleati nell'Inghilterra e nelle Province Unite) e la Lega cattolica (che avrebbe potuto contare sull'aiuto della Spagna e dello Stato pontificio); c'era in ballo il controllo della Boemia, unica regione fra quelle elettrici dell'Imperatore non ancora schieratasi apertamente con nessuna confessione. Con la Lettera di Maest del 1609 Rodolfo II cercava di ridimensionare i conflitti religiosi, 58 Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., p. 403; 433. 59 Ibidem, pp. 421-422; cfr. anche nota 36 supra.
  • 32. 24 concedendo libertà di culto agli abitanti della regione e istituendo due diverse Diete parlamentari, una per i cattolici e una per i protestanti. Tuttavia l'azione non risolve alcun problema e a quella data Enrico IV di Francia si accingeva a creare una grande coalizione antiasburgica e anticattolica composta da tutti gli Stati protestanti del continente, ma nel 1610 egli viene assassinato da un fanatico cattolico. Nel 1612, alla morte di Rodolfo II, sale al trono imperiale Mattia II (1557-1619), il quale morirà solo dopo 7 anni di governo. Il successore fu Ferdinando II (1578-1637), nipote di Rodolfo II, cattolico intransigente che due anni prima era divenuto Re di Boemia e che aveva sconfessato la Lettera di Maest. Ciò il che non fece altro che gettare nuova benzina sul fuoco: il 23 maggio del 1618 due rappresentanti inviati dalla Dieta protestante per discutere con l'Imperatore della scelta di proibire le riunioni dei Difensori della Fede addetti alla risoluzione delle controversie religiose vengono letteralmente presi e lanciati dalla finestra dai luogotenenti cattolici, in quella che venne poi chiamata la Defenestrazione di Praga e che viene universalmente riconosciuta come la “goccia che fece traboccare il vaso” del continente europeo e che, idealmente, diede avvio alla «Guerra dei Trent'anni»60 . Tuttavia sarebbe riduttivo ricondurre tutte le cause della guerra alla motivazione religiosa, in quanto essa: «ebbe come suo asse portante la riapertura del tradizionale scontro franco- asburgico iniziato ai primi del '500, ma che nello stesso tempo condusse sul proscenio tutte le potenze politiche ormai operanti in Europa, e divenne per questo il contenitore di una serie di guerre distinte l'una dall'altra. Più che un'unica guerra si trattò quindi di un insieme di conflitti, spesso militarmente separati, ma comunque unificati dalla circostanza di essere inseriti in un quadro europeo ormai economicamente e politicamente unitario, nel quale tutti gli Stati cercarono di ristabile o definire ex novo, la propria posizione»61 . Per cui le alleanze religiose si traducono in alleanze politiche internazionali, le quali avrebbero portato dalla parte cattolica, egemonizzata dalla Spagna e dall'Impero, il Papato (ovviamente), i Paesi Bassi spagnoli, ma anche paesi come la Polonia, che sul finire del Cinquecento aveva sostenuto l'evangelizzazione cattolica voluta da Papa Gregorio XIII (1572-1585) nello Stato; inoltre gli Asburgici avrebbero voluto unire 60 Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp. 420-430. 61 Ibidem, p. 431; cfr anche. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., p. 94.
  • 33. 25 tutti i propri possedimenti attraverso il controllo della Valtellina, una regione che avrebbe servito da collegamento tra i territori orientali e i territori occidentali asburgici, e che viene appunto conquistata nel 1621. Dall'altro lato, le potenze protestanti comprendevano l'Inghilterra, la Francia (nella quale, dopo l'assassinio di Enrico IV da parte di un fanatico cattolico, era salito al trono nel 1614 Luigi XIII, 1601-1643; egli si poté avvalere della grande abilità politica del cardinal Richelieu, 1585-1642, dal 1624 nominato Capo del Consiglio di Stato francese), le Province Unite (che nel 1621, allo scoccare della fine della Tregua dei Dodici anni, ricominciano a combattere contro gli Spagnoli), il Granducato di Toscana (legato ai transalpini dal matrimonio tra la nipote del Granduca Ferdinando I de' Medici, 1549- 1609, Maria, e il re di Francia Enrico IV), il ducato di Savoia e la Svezia di Gustavo Adolfo II Vasa (1594-1632), il quale, servendosi di un esercito modernissimo e ben addestrato, riesce a conseguire grandi vittorie per la causa protestante, sia contro la Confederazione polacco-lituana, sia contro gli asburgici, prima di morire eroicamente nella battaglia di Lutzen contro gli Imperiali (1632). La Svezia era uno Stato riuscito ad affermarsi sul piano internazionale e ad ottenere grandi successi grazie anche al processo di accentramento nazionale e assolutistico conseguito tra la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo, diversamente da ciò che accadde in Danimarca (unita politicamente alla Norvegia), la quale si schierò solo posteriormente con i protestanti, nel 1625, soprattutto per motivi territoriali e politici, in quanto il re Cristiano IV (1577-1648) considerava altamente probabile che gli Imperiali avessero, prima o poi, invaso i territori danesi; tuttavia il contributo danese alla guerra fu abbastanza limitato, e già nel 1629 si firmava la Pace di Lubecca con gli Imperiali, che avevano ottenuto grandi vittorie grazie all'abilità militare del condottiero Albrecht von Wallenstein (1583-1634)62 . La fine della «Guerra dei Trent'anni», sanzionata dai numerosi trattati firmati a Westfalia tra il 1647 e l'ottobre del 1648, costituisce uno spartiacque nella storia politico-diplomatica moderna: tramontano definitivamente le motivazioni religiose idonee a scatenare guerre e a produrre alterazioni dell'equilibrio, in quanto viene riconosciuta ufficialmente la religione calvinista e la pluriconfessionalità di un sistema internazionale europeo che è ormai multipolare e multireligioso; accanto a ciò si ridimensiona ogni pretesa del sovrano «legittimarsi rivendicando origini divine al 62 Ibidem, pp. 432-435.
  • 34. 26 proprio potere. L'idea di contratto, che cioè l'autorità derivi la propria legittimazione dalla cessione a essa di una quota della propria sovranità da parte di ciascuno individuo, attraversa tutta la filosofia politica dell'epoca, da Grozio a Althusius, da Hobbes a Locke». Si afferma definitivamente una concezione prettamente laica della politica: è solamente la «Ragion di Stato», e non più la religione, a governare le volontà politiche del sovrano, il quale «nei confronti del mondo esterno […] si presenta come l'uomo nello stato di natura, soggetto alla sola legge dell'autodifesa: sopraffare per non essere sopraffatti»63 . Di tale argomento ne parla il diplomatico francese Philippe de Béthune (1561-1649) in una sua opera del 1632, in piena «Guerra dei Trent'anni»: l'equilibrio non è altro che un elemento caratteristico della «Ragion di Stato», la quale agisce come «Ragion d'interesse nelle relazioni internazionali»; lo Stato deve agire dunque secondo i propri interessi, e uno di questi dovrebbe essere quello di rimanere sempre neutrale a meno che non si presenti un'occasione assai favorevole e vantaggiosa o se si debba impedire di accrescere la grandezza di uno Stato troppo potente; resta il fatto che per Béthune la neutralità è sempre positiva, dal momento che «chi è neutrale è onorato e rispettato da entrambe le parti, per il timore di ciascuna ch'egli le si dichiari contro; resta arbitro degli altri e padrone di se stesso, sfrutta la situazione presente e […] si cautela per l'avvenire»64 . E ancora, all'argomento si dedica anche il duca di Rohan, Enrico II (1579-1638) che riconosce nell'interesse del sovrano, e quindi dello Stato, un carattere di incorruttibilità e di inequivocità assoluto: «I prìncipi comandano ai popoli e l'interesse comanda ai prìncipi. La conoscenza di questo interesse tanto sovrasta quella delle azioni dei prìncipi, quanto essi stessi sovrastano i popoli. Il principe si può ingannare, il suo consiglio può essere corrotto; soltanto l'interesse non può mai fallire. […] Bisogna stabilire per fondamento che vi sono due potenze nella Cristianità: […] quella di Spagna, trovandosi accresciuta all'improvviso, non ha potuto nascondere il suo disegno di farsi dominatrice […]; quella di Francia, [che] si è immediatamente disposta a fare il contrappeso. Gli altri prìncipi si sono volti all'una o all'altra, secondo il loro 63 Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., p. 82; cfr. anche F. Chabod, op. cit., p. 11. 64 P. de Béthune, Le Conseiller d'Estat; ou Recueil des plus générales considérations servant au maniment des affaires publiques, divisè en deux parties, Paris, E. Richer, 1633, pp. 319-324; cit. M. Bazzoli, op. cit., pp. 36-39.
  • 35. 27 interesse»65 . Il diritto internazionale dei trattati e il suo rispetto da parte delle monarchie costituisce un nuovo elemento fondamentale utile alla salvaguardia dell'ordine costituitosi, un ordine che vede l'Impero Asburgico disgregarsi in tanti piccoli staterelli – il più importante dei quali è il Brandeburgo, destinato a un'ascesa irrefrenabile che si concluderà solo all’inizio dell’Ottocento, con l’annientamento dello Stato prussiano da parte di Napoleone Bonaparte – i quali, secondo la Constitutio Westphalica redatta nel 1648, ora godevano effettivamente di un insieme di prerogative che fino ad allora erano di pertinenza dell'Imperatore: politica estera autonoma, amministrazione della giustizia, capacità giuridica di stipulare alleanze con altri Stati europei, politica economica indipendente, ecc. L'Impero ora godeva di sovranità territoriale e politica solo nei territori dell'Austria e della Boemia. Per quanto riguarda la Spagna, i suoi territori si riducono notevolmente in quanto sia il Portogallo (1640) che le Province Unite (1648) ottengono definitivamente l'indipendenza formale; il grande disegno asburgico di instaurare la «Monarchia Universale» era fallito per l'ennesima volta, per il fatto che ancora una volta gli altri Stati europei, Inghilterra in primis, non restarono a guardare e reagirono alle prepotenze ispanico-imperiali unendosi in una grande coalizione, capace di restaurare l'equilibrio e di porre tale principio come fondamento principale della politica europea, affidata agli strumenti politico-diplomatici delle cancellerie europee. La seconda parte del Seicento consacrerà la Francia di Luigi XIV Borbone (1638-1715), il Re Sole, e del suo primo ministro, l'autorevole cardinale Giulio Mazzarino (1602-1661), come la potenza primaria del continente, capace di mettere continuamente in discussione l'equilibrio “westfaliano” non più su basi religiose, bensì su fondamenti dinastici, che anche per tutto il XVIII secolo si rivelarono motivi promotori di conflitti e di disordini66 . 65 E. de Rohan, De l'interest des Princes et Estats de la Chrestientè, Parigi, 1639, pp. 104-106; cit. in M. Bazzoli, op. cit., pp. 40-43. 66 Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., pp. 94-95; cfr. anche A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp. 440-443.
  • 36. 28 1.4 La seconda parte del Seicento e il mito della Monarchia Universale Con la pace di Westfalia, come abbiamo già accennato, si chiude un'importante capitolo della storia moderna europea, il capitolo delle guerre di religione. Esse verranno accantonate a favore del rispetto dell'equilibrio istituitosi nel 1648; esso tuttavia si rivela sin da subito precario, soprattutto nella parte occidentale e settentrionale del continente, poiché la guerra tra Francia e Spagna, con i transalpini coadiuvati dagli Inglesi, continua fino al 1659, anno della pace dei Pirenei, con la quale gli Asburgici perdono nuovamente dei territori, questa volta coloniali, altro sintomo del loro decadimento e della fine delle loro aspirazioni di egemonia internazionale, a favore delle altre due potenze del conflitto; con la separazione dei destini delle due parti della dinastia asburgica, sancita dall'accordo segreto stipulato nel 1617 tra Filippo III di Spagna e Ferdinando II del Sacro Romano Impero, fallisce una volta per tutte anche la tradizionale alleanza fra Spagna e Austria che sin dai primi anni del Cinquecento aveva costituito uno dei due poli di potere nel Vecchio Continente67 . Nel nord Europa invece, alla metà degli anni Cinquanta, si rompe l'equilibrio nel Baltico, quando il re svedese Carlo X Gustavo (1622-1660) riprende la politica di espansione volta a conquistare le terre costiere polacche, in particolare quella che si affacciano sul golfo di Danzica. In quegli anni la Polonia (Confederazione polacco- lituana) stava attraversando un periodo di profonda crisi economica e politica, fiaccata anche dalla rivolta dei cosacchi Zaporaghi e dalle divisioni religiose, e Carlo X volle sfruttare il momento; egli viene assistito anche dal principe elettore del Brandeburgo, Federico Guglielmo I (1620-1688), desideroso di annettere al suo piccolo principato i territori della Prussia orientale, e dallo Zar di Russia Alessio I Romanov (1629-1676), che bramava di ampliare i suoi territori a occidente, annettendo parti della Polonia e dell'Ucraina. Dopo diverse vittorie svedesi, i quali riescono anche a conquistare la capitale polacca Varsavia, entra nel conflitto la Danimarca di Federico III (1609-1670) il quale riesce a costruire una grande alleanza antisvedese comprensiva dei Polacchi, degli Olandesi, dell'Impero di Leopoldo I (1640-1705) e dei voltagabbana Brandeburgo e Russia: dopo diversi scontri militari, si arriva alla pace di Oliva del 1660 che ridisegna e stabilizza l'assetto nordico, sancendo l'inizio del declino svedese 67 Ibidem, p. 94.
  • 37. 29 e l'ascesa della potenza russa e del Brandeburgo68 . Dopo Westfalia tramonta definitivamente l'importanza dell'equilibrio tedesco, ormai non più traballante per la questione religiosa, mentre per quanto riguarda quello italiano esso rimarrà importante ai fini dell'equilibrio generale europeo fino al 1750 circa; nel Settecento farà la comparsa anche un quarto equilibrio «minore» accanto a quello del Baltico, ossia l'equilibrio di potenza nelle colonie americane: «Cercare di infrangere uno dei minori sistemi, voleva dire infrangere il sistema generale»69 . In quegli anni inizia la trattazione sistematica del concetto di equilibrio da parte di un numero sempre maggiori di autori; essi ne iniziano a criticare la sua «complessità contraddittoria», le sue profonde antinomie: «Da una parte, cioè, il principio dell'equilibrio poteva venir fondato sulla intangibilità di un testo giuridico, cioè di un trattato, sulla assoluta osservanza dello status quo, e sarebbe stato questo, naturalmente, il punto di vista delle potenze che avevano visto consacrate dai trattati le loro pretese. Ma d'altro verso lo stesso principio poteva venir invocato proprio per modificare trattati di pace i quali risultassero troppo gravosi per certi Stati e apparissero quasi catene poste a imbrigliare lo sviluppo naturale e progressivo dei popoli. Alla necessità dell'equilibrio avrebbero potuto dunque appellarsi […] tanto i conservatori quanto i rivoluzionari [del sistema di Stati europeo]». L'analisi della questione viene posta sempre più in evidenza dal fatto che la pratica diplomatica diviene sempre più intensa e interrelata fra i vari membri del sistema europeo, ravvicinati dalla «comunanza di interessi e di tradizioni, che pur dopo l'affermarsi degli Stati nazionali, dava all'Europa una fisionomia a sé stante, permetteva di parlare di una civiltà europea, e di contrapporre l'Europa alle rimanenti parti del mondo»70 . Infatti, secondo molti studiosi: «è proprio tra il XVII e il XVIII secolo che l’Europa afferma in maniera inequivocabile e definitiva […] il proprio ruolo guida sull’intero pianeta. […] In quest’epoca un insieme di condizioni materiali particolarmente favorevoli fa sì che proprio nel continente europeo un processo già avviato di graduale, ma inarrestabile progresso nei più diversi campi dell’attività umana subisca un’accelerazione tale da 68 Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp. 487-488; 494-498; cfr. anche L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., p. 71. 69 Cfr. F. Chabod, op. cit., pp. 12-13. 70 Ibidem, p. 15.
  • 38. 30 creare un distacco sempre più incolmabile con i paesi extra-europei […]»71 . Un concetto che troverà poi una più compiuta affermazione con Voltaire e Montesquieu, dei quali parleremo nei successivi capitoli. Con l’avvento di Luigi XIV, il Re Sole, sul trono francese, si porterà a compimento il processo di accentramento nazionale dello Stato transalpino che si era già rinforzato durante il ministero di Richelieu, nonostante la guerra avesse potuto scalfire e rallentare tale sviluppo; l’endemica condizione di guerra caratterizzante tutto il Seicento si conferma in maniera più intensa nella seconda parte del secolo, in coincidenza con l’attacco all’equilibrio formatosi portato avanti proprio dal re francese, che voleva imporre la propria autorità politica all’esterno così come aveva già fatto efficacemente all’interno, anche grazie all’abilità politica del suo primo ministro Mazzarino (tra il 1648 e il 1653, per esempio, il cardinale riuscì a porre fine alla rivolta parlamentare nota come «Fronda», seguita subito dopo dalla «Fronda dei prìncipi»72 ). In poche parole, la guerra dimostra di essere più che mai «lo strumento privilegiato della politica internazionale» e consacra l’Europa Centrale ad area con il più alto tasso di bellicosità 73 . L’ascendente così marcato che il Re Sole diede all’Europa nel corso della seconda parte del secolo fa parlare del Seicento come del «Siècle de Louis XIV», dal nome di un’opera di Voltaire74 . Le guerre che affrontò Luigi XIV, dal 1661 rimasto solo alla guida dello Stato francese dopo la morte del Mazzarino, puntarono soprattutto all’ingrandimento territoriale francese verso i Paesi Bassi spagnoli e l’Olanda e, alla fine del secolo, nei confronti della Spagna, e furono soprattutto pretesti dinastici ed economici a giustificare i conflitti75 . Il primo conflitto intrapreso dal Re Sole è la cosiddetta «Guerra di Devoluzione», deflagrata nel 1667 quando, morto due anni prima il Re Filippo IV d’Asburgo (1605-1665), il reame di Spagna viene lasciato in mano a un bambino di 4 anni, Carlo II (1661-1700), il quale era nato dall’unione di Filippo IV con la sua seconda moglie, Marianna d’Austria (1634-1696); proprio il fatto che Filippo lasciasse l’eredità dei territori spagnoli a un bambino nato da seconde nozze, e il fatto che gli Spagnoli non avevano ancora pagato parte della dote per il matrimonio tra Luigi XIV di Francia e Maria Teresa d’Asburgo (1638-1683), figlia di primo letto 71 Cfr. L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., p. 75. 72 Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp. 460-462. 73 Cfr. anche L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., pp. 69-70, 96. 74 Cfr. M. Bazzoli, op. cit., p. 46. 75 Cfr. anche L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., pp. 76-77.
  • 39. 31 di Filippo IV, dà adito alla volontà del Re Sole di rivendicare i territori dei Paesi Bassi spagnoli, nei quali vigeva una speciale figura del diritto privato, per l’appunto la «Devoluzione», che prescriveva soltanto ai figli di primo letto (e Maria Teresa d’Asburgo formalmente ancora lo era, in quanto gli spagnoli non avevano pagato tutta la dote del matrimonio e Maria poteva dunque ancora esercitare i suoi diritti di erede) di ereditare le terre suddette. Le vittorie militari francesi degli inizi vengono poi ridimensionate nel 1668, con la pace di Aquisgrana, dopo che la guerra commerciale anglo-olandese (1664-1667) era stata interrotta per poter reagire all’espansionismo transalpino e si era formata una lega antifrancese a cui aveva aderito anche la Svezia, oltre che ovviamente la Spagna: la Francia ottiene soltanto poche concessioni territoriali nei Paesi Bassi76 . Pochi anni dopo, nel 1672, le truppe del Re Sole ricominciano i combattimenti, questa volta contro le Province Unite, unendo agli sforzi francesi anche le truppe svedesi, ma una nuova grande coalizione, composta da Austria (l’Impero), Spagna, Danimarca, Brandeburgo e anche l’Inghilterra (ormai decisa a sconfiggere l’egemonismo transalpino piuttosto che a dar battaglia agli olandesi in mare, in quanto un eventuale successo francese sull'Olanda avrebbe avuto conseguenze assai gravi dal punto di vista del commercio marittimo e dell’equilibrio generale), blocca l’avanzata francese: si arriva alla pace di Nimega del 1678 che fa guadagnare al Re Sole la Franca Contea e alcune fortezze ai confini con l’Olanda e con i Paesi Bassi. Tuttavia gli immensi sforzi finanziari francesi non vengono soddisfatti da siffatte conquiste raggiunte77 . Successivamente, durante gli anni Ottanta del secolo, Luigi XIV dovette in parte abbandonare i suoi progetti imperialistici ed egemonici – alcuni autori ritengono peraltro «inesatto voler attribuire al Re Sole un disegno imperiale sulla falsariga dei tentativi asburgici» compiuti nel Cinquecento; «la sua politica […] si riconosce piuttosto nel divide et impera, cioè in un piano volto a indebolire sostanzialmente ogni altra nazione del sistema per poi esercitare su di esso un'autorità indiscussa»78 , il che, secondo la mia opinione, non significa altro che replicare un tentativo egemonico per 76 Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp. 517-518; cfr. anche L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., pp. 97-101. 77 Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, op. cit., pp. 519-520; cfr. anche L. Bonanate, F. Armao, F. Tuccari, op. cit., p. 102. 78 Cfr. P. Maurseth, Balance of Power: thinking from the Renaissance to te French Revolution, in Journal of Peace Research, I, 2, 1964, pp. 120-136; cit. in M. Cesa, op. cit., p. 35.
  • 40. 32 gradi e attraverso un preciso disegno politico e internazionale piuttosto che cercare di procurarsi l'autorità negli altri Stati europei in modo disorganico e sconclusionato, destinato dunque a sicura sconfitta – per affrontare la questione religiosa interna: la pretesa della «Monarchia Universale» non poteva essere in alcun modo soddisfatta senza l'uniformità religiosa dello Stato. Da una parte Luigi XIV non poteva far altro che sostenere il Cattolicesimo gallicano, il quale costituiva il sostrato culturale di cui erano intrisi i Parliaments francesi e altri corpi sociali, spesso in conflitto con l'assolutismo monarchico luigino; dall'altra parte non bisognava ridurre ulteriormente il potere politico e religioso dei protestanti, per non inimicarseli; dunque Luigi XIV doveva necessariamente barcamenarsi fra i due «piatti della bilancia», seguendo in parte anche la politica del divide et impera di cui sopra. Oltre a ciò, la corrente dottrinale giansenista, sviluppatasi in Francia sin dai primi anni del Seicento con la predicazione del vescovo di Ypres, Cornelius Otto Jansen (1585-1638), coadiuvato dal teologo francese Jean Duvergier de Hauranne (1581-1643), minava la fondamenta dell'autorità statale, in quanto si riteneva che, così come l'animo, anche la ragione degli uomini fosse stata corrotta dal peccato mortale di Adamo ed Eva; per cui, se la ragione umana era corrotta, le stesse leggi statali concepite dall'uomo erano corrotte. Le continue interferenze dei Papi, ansiosi di risolvere la questione senza scalfire troppo il potere della Chiesa di Roma, costrinsero Luigi XIV, nel 1682, durante il pontificato di Innocenzo XI (1676-1689), a pubblicare il documento noto come La dichiarazione dei quattro articoli, in cui sostanzialmente si affermava la supremazia del concilio ecumenico sull’autorità papale, l’impossibilità per i pontefici di scomunicare o di intralciare la politica interna dei sovrani francesi e il rispetto generale da parte dei Papi delle leggi dello Stato francese. In quegli anni i rapporti con lo Stato della Chiesa arrivarono ai minimi storici, anche perché la Francia sembrava l’unica potenza europea ad appoggiare l’ultima grande offensiva ottomana nell’Europa orientale: dopo la sconfitta subita nella battaglia di Kahlemberg (1683) contro gli Imperiali di Leopoldo I, i Turchi subirono anche la costituzione e la controffensiva della Lega Santa (1684) capeggiata proprio dall’Imperatore e della quale facevano parte, oltre ovviamente allo Stato pontificio, la Polonia, la Repubblica di Venezia e l’Impero russo di Pietro I il Grande (1672-1725); Luigi XIV si rifiutò di farne parte, e ciò incrinò ancora di più i già logori rapporti con la Chiesa e con i paesi cattolici. Così, per chiudere definitivamente il dissidio con i cattolici, il Re Sole decise di sopprimere