La prospettiva della morte, colpo di spugna a tutto quanto vissuto, induce i vari protagonisti del libro ad una angosciosa ricerca del senso della propria esistenza; al di là della risposta che ciascuno si darà, tutti alla fine desidereranno vivere - e amare - pienamente. Il canottaggio (con le sue grandi fatiche) e l’alpinismo (con i suoi innumerevoli pericoli) costituiscono la cornice entro la quale si svolge buona parte della narrazione, dove il semplice coraggio di vivere trasforma individui comuni in Uomini.
5. La vita è un po’ come il canottaggio.
Il canottiere solca veloce l’acqua,
ma con lo sguardo rivolto indietro:
ha sempre dinanzi agli occhi (e calcola)
la scia della sua imbarcazione;
similmente, ognuno di noi nel corso della propria esistenza
spesse volte si gira
e tira le somme di quanto fino ad allora ha fatto.
Poiché ciascuno è il risultato del proprio passato.
6.
7. Dedicato a chi il destino,
con me davvero benevolo,
mi ha fatto incontrare:
mia moglie Nicoletta e nostra figlia Erika.
8.
9. PREFAZIONE
Ai tempi del liceo fantasticavo di diventare un
corrispondente di guerra; poi, invece, ho finito con
il rimediare un meno spericolato impiego in banca:
occupazione certamente poco avventurosa, ma che
perlomeno mi ha garantito un minimo di tran-
quillità economica grazie alla quale ho anche potuto
girovagare un po’ e realizzare come “freelance”, per
svariati anni, reportages ed articoli per quotidiani e
riviste, soddisfacendo così almeno in parte la mia
aspirazione giovanile.
Occasionalmente mi sono pure azzardato a buttar
giù qualche “storiella”; a detta di qualcuno, tuttavia,
le mie qualità di narratore non sono all’altezza di
quelle - probabilmente già non eccelse - di cronista.
Pazienza, nessuno è perfetto.
Ho voluto ugualmente raccoglierle in questo vo-
lume vuoi per non smarrirle, vuoi perché ci sono
comunque affezionato: alcune di esse, infatti, risal-
gono al periodo della scuola superiore.
L’ultimo racconto (“Passaggio in India” ) in verità
appartiene al genere giornalistico: l’ho inserito (un
po’ impropriamente) in quanto è legato ad un mo-
mento fondamentale della mia vita.
L’Autore
10.
11. INDICE
Il Nido della Tigre Pagina 1
La lettera 6
Anurag, il fuggiasco 11
Sul Ghiacciaio del Gigante 39
Il sogno di Aleksej 44
La folle gara 56
Storia di una Storia 65
La tempesta segreta del nuotatore 201
Il messaggio del vento 209
Passaggio in India 218
Prospetto attività pubblicistica 236
12.
13. 1
Il Nido della Tigre
Nel 1986, poco dopo il congedo dalla Marina, mi ritrovai in
Himalaya. Allora il Paese del Dragone Tonante (così viene
chiamato il Bhutan dai suoi abitanti) era un regno
praticamente “proibito” ed io vi fui ammesso grazie
all’ostinazione di un ortopedico giramondo capitato infine
laggiù e desideroso, dopo alcuni anni, di rivedere qualche
familiare: preso letteralmente per stanchezza, il burocrate
competente aveva alla fine concesso - oltre ai permessi a
favore di due parenti (la mia ragazza e suo padre) - un
terzo, incredibile visto d’ingresso per me.
Quell’anno il monsone s’era attardato, minacciando così
pioggia anche la mattina della nostra salita al Nido della
Tigre. “Eccolo lassù!” - esclamò ad un tratto Giancarlo, il
medico, mentre ci preparavamo alla marcia: uno strappo
nella nebbia per un attimo lasciò intravedere, in
lontananza, il bianco monastero dalle cupole - si diceva -
rivestite d’oro zecchino, appuntato a un impressionante
strapiombo a 3.120 metri di altezza; là un giovane che
aspirava a diventare lama stava affrontando la prevista
prova preliminare di tre anni di solitudine.
14. 2
Imboccammo un ponticello sul fiume Paro e quindi un
melmoso sentiero che s’inerpicava su per la montagna,
dentro una foresta di pini adorni di licheni. Lo zaino,
rigonfio com’era di riso, zucchero e biscotti da offrire al
seminarista, mi faceva affondare gli scarponi nel fango. Da
giovane canottiere esuberante (ma ancora inesperto di
montagna) qual ero, decisi allora di fare di quell’ostica
ascesa un superbo allenamento; così, regolando bene la
respirazione, forzai il passo e presi ad andare su ve-
locemente. Troppo. Dopo circa mezz’ora, infatti, il cuore
d’improvviso cominciò a martellarmi nel petto con il ritmo
di una mitragliatrice, letteralmente impazzito! Mi tolsi
subito dalle spalle la pesantissima sacca e mi sdraiai supino
su un ripiano roccioso contornato da bandiere con incise le
preghiere dei pellegrini, ma ci volle un po’ perché anche la
mia richiesta venisse accolta dagli dèi lassù e il battito si
regolarizzasse. Attesi quindi l’arrivo degli altri (Nicoletta
non mi risparmiò i suoi rimbrotti) e ripresi il cammino con
più umiltà.
Per tutto il tempo fummo accompagnati dal gracchiare
rauco dei corvi che, a nugoli, girovagavano oziosi nel cielo;
una lunga processione di batuffoli di vapore procedeva,
anch’essa pigramente, tra le montagne selvose che cir-
condavano la sottostante Valle di Paro. La nostra meta,
invece, sembrò averne abbastanza delle nubi, iniziando a
offrirsi ai nostri occhi in tutto il suo incanto.
Il mio futuro suocero, intanto, s’interrogava circa
l’origine del nome del monastero: era legato a una leggenda
locale (secondo la quale Padmasambhava, il secondo
15. 3
Buddha, era andato a meditare in una grotta lassù in groppa
alla moglie trasformatasi in una tigre volante) oppure alle
meno metafisiche tigri di montagna che, seppure in via di
estinzione, ancora popolavano la zona, come sosteneva
qualcuno?
Io ero invece curioso di conoscere l’interpretazione che
l’aspirante monaco avrebbe potuto dare del sogno che
avevo fatto la notte precedente: dopo un feroce com-
battimento, con la spada avevo trapassato la corazza di un
malvagio Cavaliere Nero, di cui mi era ignoto il volto;
strappatogli l’elmo, con sgomento dentro quell’armatura
avevo però visto me stesso, fissarmi con occhi vitrei…
Lasciato il bosco, discendemmo un viottolo scavato
lungo la parete che si drizzava verticale di fronte al costone
sul quale poggiava, in bilico, il convento; a metà della pista,
per rispondere a un richiamo, mi voltai di botto cozzando
con lo zaino contro la roccia: sospinto in avanti dal
contraccolpo, per alcuni interminabili secondi pencolai,
con il sangue gelato nelle vene, sull’orlo del baratro.
Giungemmo infine ad una cascatella d’acqua che
salterellava giù chiassosa lungo la linea di congiunzione
della parete con la montagna santa di Padmasambhava; lì la
traccia riprendeva a salire ripida lungo quest’ultima:
l’ultimo strappo, in realtà, e dopo tre ore di affanno eccoci
finalmente davanti al Taktshang!
L’apprendista monaco non era esattamente un isolato:
insieme a lui trovammo infatti un ragazzino suo parente e
un altro escursionista, uno spagnolo che - in barba alla
spiritualità del luogo e ad ogni ideale della montagna - si
16. 4
premurò subito e gratuitamente di renderci nota la sua
scarsa considerazione degli italiani (dal canto nostro
troncammo sul nascere il rapporto). Il padrone di casa
accolse invece i nuovi arrivati con molta cortesia: per
rinfrancare le forze ci offrì del tè con dentro sciolto burro
di yak, dopodiché ci condusse in visita al santuario che si
rivelò in avanzato stato di deterioramento strutturale, ma
ricco di suggestivi arredi sacri; la Sala dei Mille Buddha
(così chiamata per via delle mille rappresentazioni
dell’Illuminato che ricoprivano le sue pareti) induceva
seriamente al misticismo. Poi, in un locale ricavato da una
grotta, eccola, lei, la tigre: una grande statua della belva,
raffigurata con le fauci spalancate e gli artigli affondati
nelle carni di due malcapitati.
L’ospite in seguito, più che al confronto filosofico, si
mostrò molto interessato alle mie moderne calzature da
trekking e provò a venderci delle lattine di… Coca-Cola (!).
Al momento del commiato l’occhio mi cadde poi su un
cestello di riso frammisto a polpa di yak in salsa piccante,
pronto al consumo: per i buddisti non era però riprovevole
ammazzare e mangiare gli animali?
“Loro dicono che sarebbe peccato lasciare a putrefare le
bestie già macellate dalle etnie di religione diversa” - mi
spiegò Giancarlo. “Oppure quelle precipitate dai dirupi…
sui quali però” - aggiunse - “all’occorrenza vengono furbe-
scamente sospinte a pascolare dai loro proprietari!”.
“Ho capito: la coscienza è a posto e lo stomaco pieno”
- commentai io. L’ipocrisia non conosce confini.
17. 5
Alcuni giorni dopo un piccolo bimotore, volando a
sobbalzi e scricchiolando paurosamente dentro le strette
gole del Basso Himalaya rivoltate dal monsone, ci
riconsegnò a un’alluvionata Calcutta; da qui raggiungemmo
Dacca, Dubai, Roma e infine Genova. Inaspettatamente,
l’attraversamento in taxi della mia città mi turbò: il brutale
contrasto tra quel ritrovato ambiente di cemento, asfalto e
lamiera e le incontaminate, splendide catene montagnose
che conservavo ancora negli occhi (e nelle quali la presenza
umana era soltanto un accessorio) rendeva lampante che il
mondo moderno si muoveva sulla strada sbagliata. Allo
stesso tempo, il Shangri-La non esisteva: la natura umana è
infatti la stessa ad ogni latitudine; riprova di ciò sarebbero
state, qualche anno più tardi, l’insensata politica razziale
avviata dal governo bhutanese e le dolorose vicende che ne
conseguirono.
Quanto al mio strano sogno, lo risolsi a modo mio: in
ciascuno di noi albergano insieme il bene e il male; e se
dare libero corso a quest’ultimo è facilissimo, realizzare il
primo richiede impegno e consapevolezza… Perdiana,
l’esperienza nel Bhutan mi aveva forse avvicinato al buddi-
smo? Beh, di certo so solo che essa contribuì al germo-
gliare della mia futura, grande passione per le montagne.
18. 6
La lettera
Non appena fui fuori di casa i brividi mi scombussolarono:
quell’alba faceva più freddo del solito. Esitai per qualche
attimo (dietro l’uscio il letto era ancora caldo), poi innestai
risoluto il passo: la strada dall’abitato di La Villa al Col di
Lana era piuttosto lunga.
Mi piaceva del resto girovagare per valli quando tutti
ancora dormivano e dunque nessun suono umano distur-
bava lo stato di grazia in cui scivolavo attraversando radure
e boschi, dove cancellavo i pensieri e diventavo ingordo di
sensazioni; così quella mattina, di nuovo, lo scroscio del
torrente Giaric mi trasmise un senso di purezza, i prati
vellutati dell’Armentarola mi saziarono di quiete e le fanta-
stiche guglie delle Conturines mi accesero di meraviglia.
Mi domandai con quali occhi avevano però osservato
quei medesimi luoghi i giovani sepolti nel piccolo cimitero
militare tedesco che toccai poco prima di raggiungere il
Passo Valparola: un secolo prima, infatti, le montagne sopra
avevano avuto il volto della morte.
19. 7
Sul valico si attardavano bave di nebbia che intiriz-
zivano; mi concessi una tazza del tè bollente del Rifugio,
alle spalle del quale poi imboccai il sentiero che conduceva
sotto le pareti verticali delle Pale di Gerda e del Gruppo del
Setsas, di cui costeggiai i lunghi basamenti forzando ulte-
riormente il passo nonostante che marciassi più che spedito
già da alcune ore. L’immenso silenzio nel quale avanzavo di
tanto in tanto veniva rotto dai fischi acuti delle marmotte,
come a rammentarmi che il mondo non appartiene soltanto
all’uomo.
Superai il Passo Siéf e risalìi la scoscesa e interminabile
trincea che gli austro-ungarici avevano scavato lungo tutto
il crinale del monte omonimo; quando trovai la via inter-
rotta da un grande cratere restai interdetto: per sloggiare il
nemico entrambi gli opposti eserciti avevano fatto esplo-
dere più volte il Siéf (e altre montagne vicine), scavando
nella sua pancia gallerie che terminavano con enormi stan-
ze poi stipate di dinamite. Che “innovative” e del tutto inu-
tili stragi: il fronte dolomitico non si era comunque smosso
di una virgola!
Al di là del fosso si stagliava la mia meta, il Col di Lana,
ribattezzato dai fanti “Col di Sangue” (infatti la contesa
della sua vetta costò la vita di ottomila di loro). Mi calai
nella spaccatura, saltellai tra i detriti dell’esplosione e poi,
seguendo una malferma fune metallica dispiegata lungo la
cresta, mi inerpicai su su fino alle croci poste sulla cima del
Lana, resa tozza anch’essa nel 1916 da oltre cinque ton-
nellate di esplosivo. Per un po’, tutto solo, gironzolai su
quel cocuzzolo, fotografando la cappelletta, un bivacco
20. 8
allestito dagli Alpini, l’obelisco eretto affinché si serbasse
memoria dell’insensatezza della guerra e tutti i magnifici
panorami che potei godere da lassù.
Avevo appena intrapreso la via del ritorno quando giù,
lungo il fianco ripido della montagna, un riverbero del sole
incerto di quel mattino richiamò la mia attenzione. Dal
terreno affiorava infatti un oggetto, verosimilmente di
metallo: un residuato bellico, riportato alla luce dal tardivo
disgelo dell’inverno più nevoso degli ultimi trent’anni,
oppure una moderna lattina gettata da un escursionista
incivile? Incuriosito, mollai il cavo e discesi con cautela il
pendio; tra le mani mi ritrovai così un astuccio ossidato,
che faticai a schiudere: al suo interno una vecchissima stilo-
grafica, alcuni pennini e un foglio accuratamente ripiegato
ma molto ingiallito, che apersi con estrema delicatezza
temendo che potesse andare in mille pezzi. Guardai la
prima riga (Sabato, 12 maggio 1917 ) ed ebbi un sussulto.
Poi - a fatica, poiché sbiadito dal tempo - lessi il resto.
Mia adorata,
più non ti angustierò con pensieri foschi come feci
- senza sul momento avvedermene - nell’ultima mia, che fu
dettata dai patimenti per il gelo e specialmente dal
turbamento per la morte del caro capitano Silvestri.
Oggi - finalmente! - il sole illumina le trincee: si sono
scaldati anche i cuori, perché le armi tacciono. Posso
dunque abbandonarmi alla contemplazione della Marmo-
lada, del Sella e - volgendo gli occhi dall’altra parte - del
Civetta: nonostante la guerra, mi è davvero impossibile
21. 9
avere in odio tanta superba bellezza! All’opposto, un
tale Paradiso - nel quale gli scoppi appaiono ancor più
sacrilegio - insegna ad amare il mondo come mai: così è con
una nuova, immensa tenerezza nel cuore che si guarda un
fiore fare capolino tra i sassi o si accarezza “Lampo” (così lo
abbiamo battezzato!), il cane vagabondo e spaurito che
trovò rifugio da noi un paio di mesi or sono (e che
qualcuno, per lenire per una giornata i morsi della fame,
invece aspira a mangiare!).
Pure in tempo di pace, tenere di più a mente che un
giorno non ci saremo più gioverebbe a sgombrare la nostra
esistenza dalle futilità, le inutili rabbie e le meschine in-
vidie di cui essa è zeppa e a vivere invece con pienezza le
cose davvero importanti, che sono poi poche ed ovvie.
Conquisteremmo la serenità, che è somma ricchezza! Non
credi anche tu, cara?
Dopo la guerra, allorquando la memoria di essa mi sarà
forse divenuta un po’ meno dolorosa, chissà, potrei
immaginare di affittare camera, in estate, nel piccolo paese
di Corvara e condurre te e la nostra piccola Elisa a vedere
questi luoghi pur tuttavia deliziosissimi: te ne innamo-
reresti subito, ne sono certo (e io diventerei un po’ geloso di
loro).
Nel frattempo, insegna fin d’ora alla bambina ad
inseguire con tutte le proprie forze i suoi sogni: se li
realizzerà sarà assolutamente felice; nel caso invece non
riuscisse, dopo i suoi giorni non sarebbero comunque
avvelenati dal rimpianto di non averne avuto l’audacia.
22. 10
Ora ti devo ahimè lasciare, perché ho da svolgere un giro
d’ispezione. Attendo con ansia Vostre notizie. Un bacio.
Sempre tuo,
Alberto
Quella lettera non era mai partita, dunque il soldato che
l’aveva scritta probabilmente era rimasto ucciso: in quale
punto del monte - mi chiesi guardando intorno - e come? E
cosa ne era stato della sua famiglia? La figlia aveva poi
avuto una vita felice? Scavai lì stesso una buca con il
pugnale che trasportavo nello zaino e vi seppellii dentro il
ritrovamento: era giusto che quella manifestazione d’amore
restasse per sempre dove si era manifestata.
Una girandola di pensieri mi accompagnò lungo tutto il
tragitto di ritorno, fatto sotto una pioggia battente. Non
appena fui a casa, cercai mia moglie e l’abbracciai forte.
23. 11
Anurag, il fuggiasco
Delle mille straordinarie vicende nelle quali mi sono
imbattuto nel corso del mio lungo vagabondare per il
mondo, quella che più soventemente riaffiora alla mia
mente - e che ora vi narrerò - ebbe inizio nel lontanissimo
“Shan-Yul”.
Correva l’Anno del Cervo. A quell’epoca ero giovane, nel
pieno del vigore, e tuttavia dopo tre mesi ininterrotti di
viaggio attraverso le mastodontiche Montagne delle Grandi
Scimmie non potevo non accusare la stanchezza. Così un
mattino, abbandonatomi sulla soffice erba d’un prato,
lasciavo che i raggi del sole mi ritemprassero; la caval-
catura, un po’ più in là, si dissetava ad un ruscello il cui
scrosciare arrivava alle mie orecchie dolce come una
melodia.
Il nitrito d’allarme dell’animale d’un tratto mi scosse dal
torpore in cui mi ero lasciato scivolare (abbassando così la
guardia), ma ormai era troppo tardi: qualsiasi mia reazione
avrebbe cozzato contro le lance che mi venivano puntate
sul petto. Mentre attendevo che da un’istante all’altro le
24. 12
lame dei miei implacabili inseguitori affondassero nelle mie
carni, una voce interrogò: “Cosa ci fai tu qui? Non sai che
agli stranieri è proibito avventurarsi nel Shan-Yul?”.
La Terra del Leopardo Bianco! Non immaginavo di
essermi spinto tanto oltre nella mia fuga… Dunque non si
trattava di coloro che avevo temuto; ciononostante quegli
sconosciuti, che il sole mi impediva di vedere in viso, non
sembravano meno ostili. “Avanti, rispondi!” - intimò la
medesima ombra mentre le punte delle lance davano
sostegno alla richiesta premendo forte sulle mie costole.
“Perdonatemi, ma tale divieto non mi era noto” - dissi -
“Comunque, quale Cavaliere della Sacra Confederazione,
sono affrancato dal rispetto di qualsiasi frontiera; vi prego
dunque di ritrarre le vostre armi e di lasciarmi libero di
andare: ho ancora molta strada da fare”.
Me le aste non si scostarono.
“A giudicare dalle vostre vesti, forestiero”- riprese dopo
un attento esame la voce di quello che doveva essere il capo
della pattuglia - “si direbbe che quanto affermate d’essere
corrisponda a verità; ma di questi tempi abbiamo motivo di
dubitare di chiunque. Vi scorteremo pertanto alla fortezza.
Là avremo modo di sincerarci della vostra buona fede, nel
qual caso potrete riprendere immediatamente il vostro
viaggio; diversamente, esso avrà termine per sempre: per i
comuni trasgressori la pena infatti è la morte. Intanto vi
prego di consegnarmi la vostra spada”.
Mi fu permesso di recuperare le mie poche altre cose e,
attorniato dai soldati, dovetti cavalcare per quattro ore e
più alla volta dell’Hatha Dzong - la “Fortezza del Sole e
25. 13
della Luna” - attraverso risaie inaridite e villaggi
abbandonati, senza incontrare anima viva. I volti inquieti
dei miei guardiani tradivano una gran fretta di giungere a
destinazione; a ciò non prestai comunque molta attenzione,
preso com’ero dal pensiero che quel contrattempo poteva
tornare a vantaggio dei miei ex confratelli i quali sapevo
sguinzagliati come lupi famelici sulle mie tracce. Solo il
trambusto all’interno dello Dzong, allorché ne varcammo i
sorvegliatissimi portali, mi distolse dalle mie preoc-
cupazioni: era un andirivieni di uomini in armi, un traffico
ingovernato di buoi che spostavano carri rigurgitanti
cadaveri e un affannarsi di donne intorno ai moribondi che
gemevano ammassati agli angoli del vasto cortile; questo
era annebbiato e reso ancor più tetro dai vapori che
turbinavano dai pentoloni approntati qua e là per sfamare i
vivi, i quali - scheletrici com’erano - somigliavano però più
a fantasmi. Il lezzo di una tale moltitudine si aggiungeva al
puzzo delle immondizie e degli escrementi disseminati
ovunque, in una mistura terribile che rendeva inutile
l’incenso bruciato in gran quantità dai Lama e che pro-
vocava conati di vomito in coloro che, come me freschi del
luogo, non avevano ancora il naso e la vista abituati a tanto
disgusto. Eppure quel gigantesco letamaio doveva apparire
un luogo di salvezza per la fiumana di disgraziati che, dietro
noi, seguitava a riversarsi dentro lo Dzong...
“Non sapevo che il Shan-Yul fosse in guerra. Chi è il
vostro nemico?” - domandai al capitano della scorta.
“Il Demonio!” - fu la sua risposta.
26. 14
***
“Ora che abbiamo visto l’emblema dell’Ordine dei
Cavalieri della Sacra Confederazione” - deglutì l’obeso
monaco mal celando lo schifo per la figura del falco
impressa a fuoco sulla mia spalla destra - “e siamo pertanto
certi del vostro rango, vogliate accettare le nostre più
profonde scuse e il nostro sincero benvenuto, nobile
signore!”.
“Sì, cavaliere” - sorrise affabilmente l’altro (e più gracile)
lama, mentre con un cenno del capo congedava il capitano
e i suoi uomini - “Ci dispiace di avervi arrecato fastidio con
la nostra ispezione, ma certamente capirete: siamo in
guerra, e contro il più temibile degli avversari, in quanto
invisibile…”. Entrambi i miei interlocutori erano avvolti da
una grande stoffa color amaranto, avevano i capelli rasi e i
piedi scalzi.
“Un nemico contro il quale ci servono uomini di grande
esperienza” - riprese a parlare quello grasso - “Come lo sono
i Cavalieri della Confederazione. Siamo dunque stati
incaricati dal santo Je-Khempo, voce dell’Illuminato, di
pregarvi di volere aiutare i nostri migliori guerrieri in una
spedizione di capitale importanza per le sorti del
Shan-Yul”.
Una richiesta, nel mio caso, da respingere
immediatamente. “Sono commosso dalla vostra
considerazione” - risposi, mentre seminudo al centro della
gelida sala riprendevo possesso degli indumenti sfilatimi
27. 15
per la verifica della mia identità - “Purtroppo non potrò
godere dell’onore offertomi: la mia via conduce altrove e mi
attende impaziente. Sono sicuro che il Supremo Lama
troverà un’altro e più valido appoggio all’importante
missione”.
I due dovevano evidentemente essere convinti di
ricevere una risposta ben diversa, poiché il mio no li
sorprese. “Ma non potete rifiutarvi!” - proruppe infatti
risentito quello mingherlino - “Quando riceveste il marchio
del falco giuraste che avreste servito il Bene al di sopra
d’ogni cosa!”.
“Il Bene? Beh, ho fatto ampia esperienza che esso è una
cosa piuttosto soggettiva e mutevole: per lo più combacia
con il tornaconto!”.
“Voi non sapete quel che dite!” - alzò la voce il monaco
corpulento.
“Voi bestemmiate!” - gli fece eco l’altro, indignato.
“In ogni caso il cosiddetto Bene mi chiama altrove!”
- tagliai corto io, finendo di rivestirmi.
“Cavaliere, qui il Male ha gettato in campo tutte le sue
forze. All’interno dei nostri confini è in atto lo scontro
finale tra la Luce e le Tenebre, tra la Vita e la Morte: se la
Terra del Leopardo Bianco - dove l’Illuminato si è
manifestato - soccomberà, il mondo intero avrà poi presto
fine. La vostra presenza è necessaria qua più che altrove!”.
“Vi ripeto che la vostra stima di me è fuori misura”.
“…Eppure un tempo non esistevano parole per
descrivere la generosità di un guerriero della Confede-
razione” - commentò alle mie spalle, ferma e profonda, una
28. 16
nuova voce. I due monaci si piegarono immediatamente in
un profondo inchino a mani giunte; mi voltai e vidi una
figura allampanata dentro una lunga tonaca gialla: gli
sgradevoli lineamenti di quel volto, sul quale si disegnava
un sorriso falsamente benevolo, tradivano un’anima astuta
e doppia. Abbassai comunque lievemente il capo in segno
di omaggio.
“Sapevo che per convincervi a prendere parte alla nostra
causa sarebbe stato alla fine necessario il mio intervento”
- proseguì, facendo segno agli incapaci sottoposti di lasciare
immediatamente la stanza (i due, profondendosi in lunghe
riverenze, si ritirarono umiliati). Compresi che si trattava
del Je-Khempo, il sommo sacerdote.
“Siete davvero così certo” - gli domandai quando fummo
soli - “di riuscire dove i vostri monaci hanno fallito?”.
“Oh, sì” - rispose il calvo prelato - “Non potete restare
insensibile all’appello che vi viene dallo stesso rappresen-
tante dell’Illuminato!”.
“Visto che origliavate alla porta, allora saprete che mi
attende cosa molto urgente”, replicai brusco (ulteriori
lungaggini avrebbero infatti potuto rivelarsi per me
pericolose). “Perdonatemi dunque se mi congedo dalla
Vostra Superba Persona”. E dopo aver recuperato la spada e
ossequiato con un salamelecco, mi diressi verso una delle
uscite della sala.
“Credo che vi convenga rimandare l’impegno che dite
attendervi fuori di qui, dato che si tratta… della forca!”.
Mi bloccai sull’uscio, col sangue raggelato.
“Vi starete certo domandando, nobile Anurag, come
29. 17
abbia fatto a smascherarvi” - ricominciò quello con una
nota di perverso divertimento nella voce - “Dovete allora
sapere che gli uomini lanciati al vostro inseguimento per
farvi pagare il tradimento da voi perpetrato - come vedete,
sono ben informato - hanno perso le vostre tracce; così, per
acciuffarvi, settimane addietro essi hanno inviato in volo
colombi a tutti i Paesi aderenti alla Santa Congregazione,
con legato alla zampa il comando di trattenere i pellegrini
corrispondenti alla descrizione fornita fintanto che quelli
non fossero arrivati per identificarli. Io ho ignorato la ri-
chiesta, avendo ben altra sciagura di cui occuparmi; quando
dalla torre vi ho però visto fare ingresso nello Dzong
scortato dagli armigeri non ho avuto dubbi: il ritratto del
traditore vi calzava a pennello. Tuttavia alla riconoscenza
del re di Kodagar e del Gran Maestro dei Cavalieri della
Confederazione ho subito preferito l’opportunità di sfrut-
tare il vostro famoso talento: in breve, se voi ci aiuterete io
eviterò di segnalare la vostra presenza qui a coloro che
tanto vi desiderano morto; anzi, se riuscirete nel compito
proporrò che il vostro caso venga rivisto. Allora, qual’è la
vostra ultima parola?”-concluse iniziando a girarmi intorno
con le braccia intrecciate dietro la schiena.
“Potrei uccidervi e fuggire ancora”.
“La sala è circondata da numerosi soldati con ordini ben
precisi”.
“Dunque non mi lasciate scelta…”.
“Eccellente!” - sorrise il Je-Khempo, già certo dell’esito di
quella discussione - “La spedizione a cui vi unirete muoverà
tra due giorni. Ora vi accompagneranno alla vostra stanza,
30. 18
affinché vi possiate rinfrescare e riposare; tutto è già stato
predisposto per il vostro piacere: questa notte riceverete la
visita di una bella… signora. Ah, dimenticavo: i vostri
movimenti saranno naturalmente oggetto delle nostre
“attenzioni”.
“Non ne dubitavo. Una cosa tengo però a dirvi: io non
sono il traditore che si racconta”.
“Lo so bene, mio caro Anurag, ma mi è utile unirmi al
coro di chi invece lo crede”. Quindi si allontanò e nella sala
comparve l’inserviente al quale ero stato affidato.
***
La gelosia può rendere un uomo abietto: era così
accaduto che, essendo i bellissimi occhi verdi della prin-
cipessa Alisha e gli apprezzamenti di suo padre (il sovrano
di Kodagar, al cui servizio ero stato inviato dal Gran
Maestro) rivolti a me anziché al generale Sukumar,
quest’ultimo aveva macchinato un inganno per sgombrare
il campo alle proprie ambizioni: in qualche modo aveva
sottratto delle gemme rare dall’alloggio della principessa,
facendole poi rinvenire dalle guardie dentro il mio
guanciale durante la perquisizione di ogni angolo del
castello ordinata immediatamente dopo la scoperta del
furto. Avevo compreso il suo disegno dalla risata beffarda
alla quale si era lasciato andare mentre comandava il mio
arresto agli sgherri che lo accompagnavano; ero ancora un
giovane irruento e così il mio sbaglio fu di estrarre il
31. 19
pugnale dalla cintura e di avventarmi furibondo su di lui,
colpendolo a morte: se quello pagò la sua malevolenza, io
però - uccidendolo - agli occhi di tutti avevo come firmato
una confessione. Ladro, assassino e traditore degli ideali
della Confederazione sui quali avevo giurato: da allora non
mi era rimasta che la fuga.
Nel giudizio del Je-Khempo il mio arrivo, da ultimo, nel
Shan-Yul era stato voluto dalla Provvidenza: la mia com-
provata abilità nel nascondermi sarebbe infatti potuta
tornare utile per scovare, viceversa, l’eremita che si diceva
avrebbe potuto salvare il Paese.
Namgyal, il comandante della spedizione (dieci soldati
più io), dopo la nostra partenza mi spiegò che il flagello che
aveva colpito la Terra del Leopardo Bianco aveva avuto
inizio alla grande fiera che una volta all’anno si teneva fuori
le poderose mura dello Dzong, richiamando da ogni angolo
del Paese molti mercanti e una gran folla di compratori. A
smerciare succulenta polpa di yak aromatizzata con spezie
piccanti era giunto da non si sa quale remota contrada
anche un nuovo venditore, assai abile nel richiamare
clienti; costui era in realtà un emissario di Ratnakar, il
Signore delle Tenebre al servizio di Kàla (il Dio del Tempo
e della Morte, acerrimo nemico dell’Illuminato): quelle
carni erano state sapientemente infettate, facendo esplo-
dere di lì a pochi giorni un male oscuro e contagioso in
ciascuno dei villaggi in cui esse erano state infine con-
sumate.
L’epidemia era dilagata; i lama, depositari della sapienza
medica, si erano rivelati incapaci di contrastarla. Il mi-
32. 20
sterioso morbo disfaceva il cervello: taluni sfuggivano allo
strazio uccidendosi; gli altri, meno lesti, prima di morire
sprofondavano invece nella follia, spesso sguazzando nelle
più torbide depravazioni. Ratnakar intanto attendeva
pazientemente che la devastazione così scatenata giungesse
a pieno compimento, per potere poi fare invadere con fa-
cilità dai suoi scherani quell’immenso dominio ormai privo
finanche di esercito.
Alcuni monaci avevano però informato il Je-Khempo
che anni prima un loro confratello di nome Songtesen,
mentre attraversava una terra di miscredenti, era caduto
vittima di un male analogo, ritrovando però poi il senno
grazie - si vociferava - ad un intruglio di erbe; dopodiché il
miracolato aveva dismesso la tonaca e, rifiutato il mondo, si
era ritirato in un luogo sconosciuto. Trovare costui e farsi
rivelare il rimedio: questo, appunto, il compito affidato alla
spedizione.
Le speranze riposte in me dal Je-Khempo non rimasero
deluse: combinando gli indizi raccolti nei villaggi o di
pastore in pastore, e discernendo in base all’esperienza
acquisita da fuggiasco le notizie verosimili dalle pure
fantasie, non mi fu in effetti troppo difficile individuare il
nascondiglio del quale eravamo alla ricerca: un convento
abbandonato sulla Montagna della Sorte.
Alta e cupa, quest’ultima era annegata nella nebbia
quando - tormentati dalla pioggia - giungemmo ai suoi
piedi.
“Eccolo, lassù!”, grido d’un tratto uno dei soldati: uno
strappo nella foschia lasciò intravedere un palazzo in rovina
33. 21
appuntato, come per magia, ad una spaventosa parete ver-
ticale; un attimo dopo un’ondata di vapore lo nascose di
nuovo alla vista.
“Finalmente!” - sospirò Namgyal - “L’eremita ci salverà
tutti!”.
Smontati dai cavalli, ci addentrammo a piedi nella fitta
foresta e imboccammo il sentiero che portava su in alto;
risalirlo costò ore di tremenda fatica: il peso delle armi ci
affondava le gambe nel fango, e i cuori battevano dentro i
petti come impazziti; da sopra frotte di corvi ci sorve-
gliavano torturando le nostre orecchie con il loro gracchio
rauco e cadenzato. Poi con passo cauto superammo indenni
il sottilissimo, interminabile camminamento scavato da
mani misteriose lungo la liscia parete senza fondo e infine,
dopo una breve arrampicata tra grossi sbalzi di roccia, fum-
mo all’ingresso della fatiscente costruzione.
Dentro dovemmo improvvisare delle torce. Fu un susse-
guirsi di sale polverose e drappeggiate di ragnatele, e
oramai prossime al crollo; il tanfo mozzava il respiro. Poi,
nell’ultima stanza (l’unica rischiarata da dei bracieri),
seduto per terra trovammo un vecchio intento a scrivere
qualcosa; egli non si curò minimamente dell’intrusione
degli uomini armati - che eppure per lui avrebbe dovuto
rappresentare un evento straordinario - e seguitò
imperterrito a consumare inchiostro su inchiostro; i nostri
ripetuti ossequi caddero nel vuoto e, soprattutto, le nostre
ansiose domande dovettero attendere parecchio prima di
ottenere la considerazione dell’anziano.
34. 22
“Nobili cavalieri” - parlò con malcelato fastidio
l’eremita - “la malattia della quale mi riferite e che, sì, io
ho conosciuto, è davvero terribile, perché il suo principio
muta continuamente: così l’infuso che ha purgato il mio
sangue - e che voi ora pretendete di conoscere - può
all’opposto avvelenare ancora di più quello d’altri…”.
“Voi comunque rivelateci la cura” - insistette Namgyal.
“In realtà io ignoro la formula della medicina che mi fu
somministrata dai maghi di Rangarpur”.
Rangarpur! La città che antiche leggende narravano
sperduta, e cionondimeno sfarzosissima, tra le sabbie infuo-
cate del Tejasthal, lo sconfinato deserto a nord delle ultime
contrade calpestate dai pastori nomadi! Nessuno dei
temerari che si erano avventurati là aveva mai fatto ritorno:
si credeva che esso fosse popolato da demoni e per questo
era proibito; e ogni uomo assennato dubitava fortemente
dell’esistenza, laggiù, di una prospera acropoli. Ma ora
quell’eremita giurava di averla visitata innumerevoli volte,
per filosofeggiare con i suoi sacerdoti.
“Stento a crederti, vecchio “ - replicò Namgyal - “Ad
ogni modo, indicaci la via per raggiungerla”.
“Oltrepassate i Monti Narayani, quindi inoltratevi nel
deserto - con lo sguardo fisso a nord - per due giorni; dalla
terza alba in poi cavalcate invece sempre sulla scia del sole:
come per mano, esso vi condurrà a destinazione”.
“Ma dopo aver girato le briglie ad ovest, precisamente
quanto tempo ancora occorrerà per vedere i bastioni di
Rangarpur?”.
35. 23
“Tre, quattro giorni… forse un anno… forse può non
bastare una vita intera”.
“Ti prendi gioco di me, vecchio? Piuttosto dimmi: la città
è protetta soltanto da mura, o anche da fossati?”.
“Chi può dirlo? Essa si mostra a ciascuno in una forma
diversa; molti, poi, neppure riescono a vederla”.
“Che storia è mai questa? Tu sei pazzo!” - gridò il
capitano.
“Ho esaudito ogni tua domanda, guerriero; ora non mi
resta che pregare l’Illuminato affinché vi sorregga nel
vostro compito” - troncò il colloquio l’eremita,
accomiatandosi dagli indesiderati visitatori con un inchino
meramente formale; quindi, voltateci le spalle, riprese a
ricamare d’inchiostro le sue pergamene.
Namgyal si sentì oltraggiato da tale comportamento ed
intimò a gran voce all’eremita di offrire le proprie scuse;
non ricevendo però da questi alcuna considerazione, in uno
scoppio incontrollato di collera sfoderò la spada e con essa
lo trafisse da parte a parte; con grande sbigottimento di
tutti, quel vecchio irriverente non patì però alcun danno: si
girò e scoppiò in un riso fragoroso che, propagandosi di sala
in sala, riecheggiò a lungo nel monastero.
“Questa è stregoneria!” - balbettò Namgyal. Mentre
indietreggiava spaventato la sua lama urtò uno degli alti
bracieri, il quale si abbatté su una pila di manoscritti che
prese immediatamente fuoco; da lì scintille incandescenti
schizzarono leste sulle cataste affianco, e in men che non si
dica il locale si tramutò in un rogo e lo sghignazzio
dell’eremita in un urlo di cupa disperazione: infatti, mano a
36. 24
mano che le carte che aveva compilato durante il lungo
distacco dal mondo si incenerivano, il suo corpo si
disfaceva, evaporando, finché di lui non restò nell’aria che
un ultimo, breve lamento strozzato.
Confusi da quei sortilegi e ormai toccati dalle fiamme,
fuggimmo precipitosamente dal convento; quando, rag-
giunti finalmente i cavalli, volgemmo lo sguardo verso
l’alto, di esso non rimaneva che un cumulo di sassi fumanti.
Quella sera nessuno di noi parlò.
***
Dopo avere risalito per tre giorni il boscoso versante
meridionale della catena dei Narayani giungemmo sul
Kesendirian-La, il “Passo della Solitudine”. Dabbasso si
estendeva ora un rosso, arido oceano di sassi e sabbia di cui
non si riusciva a scorgere la fine: a quella vista inquietante
anche i più allegri fra noi ammutolirono. Prima di iniziare
la lunga discesa verso quell’orrenda landa arroventata
Namgyal ordinò di legare ai rami di un albero le sete zeppe
di preghiere scritte affidategli dai lama dello Dzong: i venti
delle montagne avrebbero rapidamente stinto quelle sup-
pliche, portandole su fino agli dei affinché questi le acco-
gliessero e proteggessero così la spedizione; dopodiché i
soldati si sedettero intorno alla pianta e trascorsero qualche
tempo a recitare sommessi mantra. Io me ne stetti da parte,
pensando ad altro…
37. 25
***
Era da una settimana ormai che ci addentravamo nel
Tejasthal, il quale s’era fatto via via sempre più sabbioso ed
estenuante; quel settimo dì il sole aveva raggiunto il suo
punto più alto e intorpidiva le nostre facoltà mentre proce-
devamo lentamente in colonna, quando all’improvviso
Namgyal si mise a gridare. “Rangarpur, Rangarpur!” -
ripeteva, contagiando d’eccitazione la propria cavalcatura
che rizzata sulle zampe posteriori nitriva smodata, e
indicando con insistenza ai compagni un punto lontano
all’orizzonte, un po’ più a nord rispetto alla nostra direttrice
di marcia. Per quanto, riparandoli con la mano dalla luce
accecante, stringessimo gli occhi per allungare la vista, sia
io che gli altri tuttavia non scorgemmo nient’altro che dune
tremule dentro l’etere rovente.
“Com’è possibile che non riusciate a vedere una fortezza
tanto possente, e torri così alte?” - si meravigliò Namgyal -
“Non sentite lo squillo delle trombe? Probabilmente le
vedette hanno avvistato la polvere sollevata dai nostri
cavalli!”,
“Temo che tu sia vittima di un miraggio” - cercai di
persuaderlo.
“Io invece credo che i bagliori del deserto abbiano
guastato la vista di tutti voi!” - insistette quello -
“Comunque potremo facilmente scoprire se io sono oppure
no un visionario portandoci più a ridosso di quella che tu,
presuntuoso straniero, sostieni essere una fantasticheria”
- aggiunse con tono provocatorio. “Dunque avanti!”,
38. 26
comandò poi, lanciando il cavallo in una ardua e folle corsa
tra i dossi sabbiosi. Obbedendo al proprio capitano, gli altri
spronarono anch’essi le bestie; ed io mossi appresso a loro,
non potendo certo concedermi il lusso di rimanere laggiù
da solo.
Masticando polvere cavalcavamo un centinaio di metri
più indietro dell’ufficiale - che intanto sbraitava di vedere
già le cancellate della città - allorché d’un tratto lo
vedemmo sprofondare insieme al suo destriero nella sabbia:
un enorme gorgo si era improvvisamente animato sotto di
loro e in pochi attimi essi vennero inghiottiti dal deserto. I
nostri cavalli si inchiodarono, presi come noi dal terrore:
nitrivano e scalciavano furiosamente, alla fine ci disarcio-
narono e fuggirono in ogni direzione, verso il Nulla, abban-
donandoci alla nostra sorte.
Dopo la disperazione iniziale, pian piano riacquistammo
il controllo di noi stessi; fu fatto il punto della situazione e
tutti convenimmo che senza più acqua né cibo - finiti
chissà dove, legati alle selle - sarebbe stato insensato tentare
a piedi la via del ritorno: la distanza che ci separava dai
Monti Narayani era ormai troppo grande, sole e sabbia ci
avrebbero uccisi ben prima di poterli intravedere.
Non ci restava che la fragile speranza di un’oasi, più
avanti. Ci liberammo d’ogni bardatura conservando unica-
mente la spada, aggirammo il punto - tornato quieto - in cui
il povero Namgyal era stato risucchiato e riprendemmo il
cammino verso occidente, con l’assillo (o forse l’augurio) di
incappare anche noi nelle sabbie mobili.
39. 27
Con sofferenze che mi è impossibile descrivere ci
spingemmo tra le dune per alcuni dì ancora, lottando stre-
nuamente per sopravvivere all’arsura del giorno e al gelo
della notte; poi poco a poco il suolo si fece più compatto e
infine ci trovammo ad avanzare - per un tempo che non so
calcolare per via dello stato di semi incoscienza in cui ero
scivolato - in una pianura pietrosa e senza visibile termine.
Anche questa nuova desolazione non conosceva una sola
pozzanghera, radice o preda animale: i più prostrati
(quattro) caddero, per non rialzarsi più; i superstiti non
poterono che lasciarli al loro destino, trascinandosi poi in
avanti per una, forse due albe ancora. Finché qualcuno non
strillò di nuovo: “Rangarpur, Rangarpur!”.
Scrutai l’orizzonte, ma non vidi nulla. Eppure gli altri
cinque mi giuravano - tutti - di vederla davvero, questa
volta: una poderosa cittadella, laggiù, sulla sommità di un
isolato picco roccioso! Sforzai ancora gli occhi bruciati e
doloranti, ma invano. Intanto i miei compagni con le
ultime forze loro rimaste già arrancavano verso il castello
strepitando con voci roche e agitando le braccia per aria nel
tentativo di richiamare l’attenzione ed il soccorso di quanti
dovevano essere lì di guardia; ed io, ancora immobile e
dubbioso, dovetti assistere - inorridito - al ripetersi del
maleficio: il cielo fu percosso da un boato spaventoso e
subito dopo la terra iniziò a tremare furiosamente
spalancando una gigantesca voragine dentro la quale, uno
dietro l’altro, tutti quegli sventurati precipitarono senza
emettere un solo lamento, come muti. Venni scaraventato a
terra e, picchiando il capo contro un sasso, persi i sensi;
40. 28
della fortezza, se mai era veramente esistita, di certo non
restava più nulla.
***
Durante quella specie di sonno un frammento di me
rimasto comunque ancora vigile ebbe come la sensazione di
volare giù lungo un pozzo senza fondo. Quando finalmente
mi riebbi ci volle un po’ prima che mi rendessi conto di
trovarmi in un luogo diverso, ma non meno desolato: me ne
stavo seduto in una immensa distesa di melma grigia che
ribolliva qua e là e dalla quale esalavano odori nauseabondi
che si condensavano poi in una sottile coltre di nebbia;
tutt’intorno si intravedevano, affogate nel fango, spoglie
d’alberi inceneriti dalle saette e carcasse putrefatte di bestie
sconosciute: non fu facile abituare i polmoni a tanto fetore.
Tiratomi su, iniziai a vagare affannosamente per quella
palude, talvolta sprofondando fino alla cintola, alla vana
ricerca di una sponda, mentre dentro cercavo di frenare
l’angoscia che andava assalendomi.
D’improvviso, alle mie spalle, risuonò una lunga e sorda
risata. Mi voltai e vidi, offuscata a tratti dai vapori, la figura
di un imponente cavaliere dall’armatura nera, il cui volto si
celava dietro la visiera di un elmo anch’esso del colore della
notte e sormontato dall’effige del dio Kàla. Mi avvicinai con
circospezione al misterioso guerriero, ora silenzioso e
immobile nel fango; tra le mani egli teneva, puntata contro
di me, una spada che riluceva sinistramente.
41. 29
“Chi siete, cavaliere?” - gli domandai, sguainando
comunque anch’io la mia arma.
“Mi chiamano Ratnakar”.
Era dunque lui, il Signore delle Tenebre! “Cosa volete da
me?” - chiesi trasecolato.
“La tua vita!”.
“Ditemi il perché! Vi ho forse arrecato in qualche modo
offesa?”.
“Tu hai osato intralciare il supremo disegno di Kàla”.
“Non posso essergli stato d’ostacolo: non ho trovato
Rangarpur”.
“Oh, Rangarpur…” - prese a ridacchiare quello.
“Non esiste, vero? Come pure il siero miracoloso… Già...
In verità l’avevo sospettato…”.
“Per questo ora ti trovi qui. L’eremita e i tuoi ultimi
compagni, al pari di quasi tutti gli umani, sono invece finiti
vittime delle menzogne in cui hanno creduto, o voluto
credere: per vivere l’uomo ha bisogno di illusioni. Noi due,
però, non abbiamo miti: siamo simili, io e te”.
“Io non sono come voi!”.
“Dunque non comprendi? Sei in questo luogo proprio
perché anche tu stai per raggiungere la Consapevolezza: è
essa la formula che vai ricercando! Ma non l’avrai: il mondo
degli umani è oramai vicino alla sua fine, se tu giungessi
alla Verità e tornassi indietro a divulgarla potresti ancora
salvarlo, e io avrei fallito! Perciò devi morire. Ora!”. E così
dicendo si scagliò contro di me.
42. 30
***
Fu uno scontro tra pari abilità, che si protrasse a lungo; il
fango si rimestava sotto le nostre mosse spandendo miasmi
ancora più velenosi che bruciavano gli occhi e la gola,
mentre una folla di avvoltoi assisteva al duello accomodata
sui rami rinsecchiti sparsi dattorno, schiamazzando ad ogni
incrociarsi delle lame. Nell’aria risonavano boati lontani,
mentre misteriosi scintillii, crepitando, illuminavano a
tratti la plumbea palude.
Allorché venni ferito sia pure superficialmente ad un
braccio capii che non combattevamo però ad armi pari: il
ferro dell’avversario doveva infatti essere stato intinto in
qualche droga, perché nel volgere di pochi istanti le forze
mi abbandonarono; mi afflosciai sulle ginocchia, mentre
nelle vene sentivo dilagare un senso di delusione.
Ritto innanzi a me, il cavaliere nero mi derideva mentre
- ormai inerte - attendevo il colpo mortale. Si era adesso
impadronito di me uno stato d’animo dapprima di noia e
poi di disgusto per la vita che stavo per lasciare: pregai
Ratnakar di finirmi immediatamente. Lui smise di ghignare
e nello stordimento lo vidi sollevare la lama alta nell’aria,
pronta ad abbattersi brutalmente sulla mia nuca.
Non so come accadde: un anelito di vita evidentemente
trascurato dal veleno mi guizzò fuori dal cuore e corse fino
alle mani che ancora impugnavano la spada, la quale
d’improvviso scattò verso l’alto trapassando così la corazza
nemica. Non un gemito fuoriuscì da essa: solo sangue, che
43. 31
scivolando copioso e veloce lungo l’arma conficcata mi
inondò i polsi. Le braccia del cavaliere nero, ancora drizzate
in alto, si irrigidirono, lasciando cadere poi giù la spada; io
mollai la presa sulla mia, infilzata dentro quel corpo
divenuto di pietra che alla fine si abbatté all’indietro
affondando con un tonfo sordo nel fango.
Volli allora vedere il volto di colui che aveva bramato di
essere il mio carnefice. Ma quale fu il mio sgomento
allorché, strappatogli via l’elmo, dentro quell’armatura io
vidi me stesso, fissarmi con occhi vitrei! Sconvolto, scappai
via iniziando a vagabondare senza scopo per la laguna
maledetta, finché questa volta non toccai una riva sulla
quale, stremato, mi accasciai.
Venni trovato, più morto che vivo, da dei pastori sbucati
là chissà come, i quali mi legarono prono sul dorso di uno
yak e mi portarono al loro accampamento, dove mi guari-
rono miracolosamente dal letale veleno.
Quando, dopo alcune settimane, fui finalmente in grado
di rimettermi in piedi e uscii dalla tenda che mi ospitava,
restai letteralmente senza fiato: davanti a me, bianco e
immenso contro il cielo azzurro, si ergeva il Chomoananda,
la più alta delle montagne conosciute! Il suo spirito chiamò
il mio cuore: così, non appena fui di nuovo pienamente in
possesso delle mie forze, partii per raggiungerne la cima. E
lassù trovai ciò che Ratnakar voleva proibirmi.
Avevo da pochi giorni fatto ritorno al campo quando nel
mio ricovero irruppero sei uomini che indossavano le
uniformi, impolverate e lacerate da un lunghissimo viaggio,
44. 32
dell’armata di Kodagar. “Finalmente vi abbiamo trovato”
- dissero - “Abbiamo l’ordine di condurvi da re Virendra”.
“Per divertire, immagino, la plebaglia annoiata con una
bella impiccagione!” - commentai io sarcastico - “E così sia:
sono stanco di fuggire…”.
“Non vi sarà alcuna esecuzione, prode Anurag” - chiarì
uno di quelli, chinando rispettosamente il capo - “Il vostro
caso è stato rivisto”.
***
La sala reale mi apparve cambiata dall’ultima volta che
l’avevo veduta, alcuni anni prima; in effetti sembrava
riadattata per ospitare un’importante cerimonia. Quando
fui al cospetto di Sua Maestà feci per inginocchiarmi
riverentemente, ma egli con un cenno della mano me lo
proibì; poi, con una smorfia di fatica che tradiva il tempo
accumulatosi sulle sue spalle, si alzò dal trono e mi venne
incontro dispiegando un sorriso paterno, per stringermi
infine forte a sé.
“Anurag, hai salvato il mondo dall’Oscurità! Gli uomini
te ne saranno eternamente grati!”.
Dentro la tenda, in preda alla febbre alta, avevo delirato
per giorni, farfugliando tra mille cose pure parole sul mio
conto e su ciò che era accaduto nella palude; i pastori ave-
vano fatto arrivare quelle importanti notizie a Kodagar
(perciò i soldati questa volta erano riuscito a localizzarmi e
a raggiungermi!) e da lì esse erano poi rimbalzate
dappertutto. L’esercito delle Tenebre, perduto il suo
45. 33
Signore, si era disciolto come neve al sole e nel Shan-Yul
l’epidemia, non più rinfocolata da nuovi untori, pian piano
si era esaurita; ed io, da ladro e assassino, di punto in bianco
mi ero trasformato per tutti in uno straordinario eroe.
“Ti domando perdono per avere dubitato della tua
rettitudine e per aver spinto il Gran Maestro a decretare la
tua caccia, ma a prima vista tutto davvero era contro di te”,
si giustificò il sovrano con tono di sincero rimorso. “E’ stata
mia figlia - oh, lei si è sempre rifiutata di pensarti
colpevole! - a esibirmi trionfante la prova dell’inganno
ordito da Sukumar”.
Appresi così che circa un anno dopo la mia fuga da
Kodagar il fratello di colui che avevo ucciso aveva chiesto
udienza alla principessa per mostrarle una lettera con la
quale lo scellerato generale, in uno sfogo, gli aveva
confidato l’insana gelosia che lo stava consumando nonché
il suo meschino piano di rivalsa; non volendo disonorare la
memoria del congiunto costui aveva taciuto a lungo, poi
però la sua coscienza non aveva più permesso che si
perseguitasse un innocente. Dopo di ciò i miei inseguitori
avevano inteso semplicemente riportarmi con ogni onore
tra i miei pari, ma io non potevo saperlo e così avevo
seguitato a ingegnarmi per restare uccel di bosco (la storia
dei colombi viaggiatori, dunque, era stato un inganno del
Je-Khempo per potermi usare!).
“Lei vorrebbe salutarti, prima di abbandonare il palazzo”
- disse poi Virendra.
Lo guardai con aria interrogativa.
46. 34
“Come, non sai nulla? Fra quattro giorni andrà in sposa
- proprio qui, in questa sala - al re di Sawangal! Su, brinda
anche tu a questa unione che frutterà pace e prosperità a
due popoli a lungo nemici” - continuò il re con voce
festosa, comandando poi ai servitori di portare due calici di
vino. Il mio fu amarissimo: a quella notizia, che mi aveva
gelato il cuore, avrei preferito mille volte la morte con gli
altri nel deserto.
Alisha… Per tutti quegli anni solitari aveva riempito i
miei sogni la notte e occupato i miei pensieri di giorno!
Quando ero arrivato a Kodagar in entrambi era subito
scoppiata la passione, celata tuttavia l’un l’altro e al mondo
(poiché ambedue la sapevamo inaccettabile per i disegni di
corte) ma ugualmente resa manifesta a tutti dai nostri occhi
che si cercavano continuamente per poi fingere di guardare
oltre quando si incrociavano, dal tremore delle nostre
parole nelle conversazioni che si dissimulava nate per caso,
e alla fine confessata da quel “Ti amo!” sussurratoci recipro-
camente all’orecchio al termine del nostro ultimo ballo, la
sera prima della mia inimmaginabile fuga: era stato il
ricordo improvviso di quel magico momento, in realtà, ad
avermi acceso lo sprazzo di vigore che mi aveva salvato dal
Signore delle Tenebre.
Avevo l’animo in subbuglio mentre, accompagnato da
una damigella chiacchierona che tuttavia non ascoltavo,
salivo le scale che conducevano al suo appartamento e che
parevano non volere terminare mai. La trovai seduta presso
il finestrone, col viso illuminato dai raggi del sole che
filtravano attraverso i grandi vetri smerigliati e i lunghi
47. 35
capelli vellutati raccolti in trecce da un’altra ancella devota;
l’aria, nella stanza, profumava di lei.
Nel rivedermi ebbe un sobbalzo di gioia, ma subito si
ricompose; congedata la giovinetta - che uscì dalla stanza
omaggiandomi con un inchino - ella prima d’ogni altra cosa
volle sincerarsi del mio buon stato di salute, quindi mi
invitò a sedere su uno scranno di fronte al suo. La guardavo
completamente disarmato: era diventata, se mai ciò fosse
stato possibile, ancora più bella!
Conservando in principio un certo distacco che mi
disorientò (il suo sentimento si era dunque spento?) mi
chiese dei luoghi lontani e delle genti diverse che, mio
malgrado, avevo conosciuto; volle poi sapere di più sulla
mia salita in cima al Chomoananda: sciogliendosi final-
mente un po’, ascoltò con partecipazione il racconto di
quella ascesa di giorni e giorni dentro la neve, la quale
passo dopo passo mi aveva prosciugato il respiro e le forze,
mentre la mente per il gelo e la sete era andata via via
popolandosi di fantasmi.
“Da lassù ho però poi visto il mondo intero: abban-
donatomi allo stupore, ho riempito la mia anima di bellezza
e provato una pace immensa; e il timore della Morte e del
Nulla è svanito, per sempre. Sono tornato indietro spogliato
d’ogni smania di averi e privilegi, ma gonfio di desiderio di
guardare con uno sguardo nuovo la vita”. Lei vacillò: non
osando con le mani, prese a carezzarmi il volto con gli
occhi, pieni di trasporto e, insieme, di smarrimento. Poi
però si scosse e tornò ad imporsi compostezza.
Mi domandò quindi altre cose ancora, ma nulla su ciò
48. 36
che veramente mi premeva: nulla, cioè, su noi due. Così,
esaurito alla fine ogni spunto di conversazione, nella stanza
scese un imbarazzante silenzio; io d’altronde continuavo a
lanciare occhiate astiose alla veste da sposa in preparazione
in un angolo dell’appartamento.
“ Dunque sarete presto regina…” - ruppi infine gli
indugi.
Lei si alzò in piedi accostandosi alla finestra, guardando
oltre, lontano.
“Siete innamorata di lui?”.
“E’ un uomo gentile. Con il tempo imparerò ad amarlo
pienamente”.
“Non credete affatto a ciò che dite!”.
“Siete uno sfrontato!” - rispose lei stizzita, senza
nemmeno voltarsi.
“No, sono soltanto uno sventurato che vive per voi”.
La sua figura delicata si irrigidì: strinse forte i pugni e
serrò gli occhi, da cui iniziarono a scivolare giù calde
lacrime. “Mio padre desidera, e il mio futuro consorte è
d’accordo, che Voi veniate a Sawangal per assumere il
comando della guarnigione di quel palazzo e servirmi come
guardia personale. Ora io vi prego… vi imploro…”
- continuò tra i primi singhiozzi - “di non accettare questo
privilegio; anzi, vi comando di non oltrepassare mai le fron-
tiere del mio nuovo regno e, infine, di… dimenticarmi!”.
“Al ballo diceste di amarmi!”.
“E dunque?”- ribatté lei con voce sconfortata e risentita
insieme - “Dopo la vostra fuga ho sofferto enormemente;
49. 37
senza più notizie, vi ho infine creduto morto. Le cose han-
no così seguito il loro corso, senza tenere conto dei miei
desideri. E ora voi rispuntate dal nulla e… pretendete forse
che io rifiuti le nozze? Per il nobiluomo a cui sono pro-
messa sarebbe un affronto tale da portare probabilmente ad
una nuova guerra! Per me ormai non è più possibile tornare
indietro, lo capite? Il destino, evidentemente, ci vuole
divisi…”. E per soffocare l’angoscia che era ormai sul punto
di travolgerla, sempre volgendomi le spalle pose brusca-
mente fine all’incontro: “E’ giunto il momento di salutarci,
cavaliere!”.
Io non capivo più nulla, se non che desideravo paz-
zamente di prenderla tra le braccia, e baciarla. Ma ciò
avrebbe reso ancora più insostenibile il male che ci stavamo
infliggendo a vicenda, e così alla fine non mi mossi.
“Sapermi l’artefice della nostra infelicità rimarrà per me il
peggiore dei castighi…” - fui solo capace di bisbigliare.
Lei si girò. “Forse ci incontreremo di nuovo in un’altra
vita” - sorrise triste - “Ora però vai… vai, ti supplico… mio
unico, immenso amore!”.
***
Non tornai dal Gran Maestro e dai cavalieri della Sacra
Confederazione. La mia stella mi condusse altrove, lontano:
attraversai molti altri deserti e nuovi ghiacciai, valicai
scoscese montagne ancora ignote all’uomo, finché non
giunsi qui, a Dalimkot, dove finalmente mi fermai e volli
dimenticare il mio rango e il mio stesso nome per diventare
50. 38
- per tutti coloro che da allora in poi ebbero a conoscermi -
semplicemente il mite Nihar, allevatore di api.
Lo struggimento per Alisha pian piano si è trasformato in
nostalgia e infine, nel crepuscolo della vita, in un dolcis-
simo ricordo: adesso che sono vecchio mi da pace sapere
che, a dispetto del tempo e della lontananza, lei in realtà è
appartenuta, e sempre apparterà, soltanto a me, ed io a lei.
Nell’illusoria ma nondimeno consolante attesa di incon-
trarla davvero di nuovo in un’altra vita.
Ho spesso ripensato anche alla furia di Ratnakar contro
la stirpe degli uomini. Egli era caduto in errore: non avrei
mai potuto salvare gli umani, perché ben pochi fra essi pos-
sono accogliere le verità che appresi sulla cima della grande
montagna; ironia della sorte, fu proprio lui a preservare il
mondo, allorché intese fermarmi trovando invece la morte:
così le fantasie degli uomini poterono rigermogliare, do-
nando loro nuovamente la speranza.
Riflettendo su me stesso, accetto tutto quanto nel bene e
nel male ho voluto o dovuto vivere, poiché mi hanno reso
quel che sono: un uomo, che ora attende con serenità il suo
ultimo giorno. E a voi dico: vivete con intensità e con
amore ogni vostro istante, seppur sapete che d’essi non
resterà nulla. Sarete allora creature degne.
51. 39
Sul Ghiacciaio del Gigante
Fuori, nel buio, il vento ululava rabbioso e gelido. Rinserrai
immediatamente la finestrella della camerata, provando un
avvilente senso di piccolezza, e mi costruìi addosso
un’armatura di indumenti termici; scesi coi compagni in
sala a tracannare due tazzoni di tè bollente e poi - moderno
Don Chisciotte - spalancai l’uscio del rifugio e mi lanciai
per primo nella tormenta, che però nel frattempo era - di
colpo - clamorosamente cessata.
Quella domenica di giugno l’intera penisola sarebbe stata
difatti preda di una eccezionale canicola: sul Ghiacciaio del
Gigante, alle 5,30 del mattino, i miei ramponi calpestavano
neve già mezza frolla e durante la marcia di aggiramento
delle “Aiguilles Marbrées” (che intendevamo salire dal
versante est) dovetti via via aprire ogni possibile cerniera
per evitare di ritrovarmi infine a sguazzare dentro uno
scafandro di sudore (per inciso, ero già alquanto irritato dal
non essere riuscito a chiudere occhio per tutta la notte,
probabilmente per via dello sbalzo di quota).
52. 40
Lo scenario circostante, in compenso, mozzava il respiro
e lungo la salita approfittai di una breve sosta della mia
cordata per voltarmi e divorarlo con gli occhi: sulla destra,
contro il chiarore pallido del sole sorgente, si stagliava
scura la forma di un incredibile pilastro obliquo (il famoso
“Dente del Gigante”); di fronte si estendeva un immenso
anfiteatro bianco tra i cui palchi di picchi aguzzi sedevano
con regalità il Tacul e l'Aiguille du Midi, mentre il
sottostante, ondulato oceano di neve si colorava d’arancio
laddove arrivavano - filtrando attraverso i varchi delle
montagne - i primi raggi del mattino; a sinistra, suscitan-
domi brividi, si ergeva poi - grandioso e fiero - lui, il Monte
Bianco! Ero come ipnotizzato, e schiacciai forte le palme
delle mani contro le orecchie: non volevo che il vocio dei
compagni spezzasse quell’incantesimo. Avevo voglia di
sciogliermi dalla cordata, liberarmi del peso dello zaino e
correre laggiù, segnando quella distesa immacolata con le
mie orme, e lì saltare, fare capriole e lasciarmi rotolare
lungo i pendii come un bambino. All’improvviso, però, il
pensiero andò a Dario, mio compagno di tante vittorie
giovanili sui campi di canottaggio ma soprattutto, fuori
dalla barca, l’amico fraterno, prima che l’inimmaginabile
(l’infatuazione verso una stessa ragazza che aveva illuso
entrambi) ci allontanasse, ciascuno convinto - a torto - di
essere stato tradito dall’altro. L’avevo rivisto la domenica
precedente dopo lunghi anni di reciproco e insensato
silenzio, ridotto al lumicino da un male inesorabile su un
letto d’ospedale a Firenze (aveva chiesto alla moglie di
rintracciarmi e di potermi rivedere); la larva che mi ero
53. 41
trovato davanti non aveva nulla a che fare con il ragazzo
aitante e gioioso che avevo conosciuto: Dio, quanto avrei
voluto strappare il groviglio di tubicini che lo avvolgeva e
porre immediatamente fine a quella disumana trasfor-
mazione del “mio” Dario, dandogli la pace! Come quella che
stavo provando io adesso, di fronte a tanta assoluta
bellezza… Egoisticamente, scacciai via l’antico amico dai
miei pensieri.
La salita alla cima più alta delle Marbrées - quella nord -
non è tecnicamente ostica. Tuttavia un tratto interamente
innevato ci rallentò parecchio; il ghiaccio, infatti, s’era fatto
poltiglia: quando, al di sopra della testa, vi conficcavo la
becca della piccozza e poi tiravo per issarmi, quest’ultima
scivolava subito giù sfarinando il terreno; alla stessa stregua,
i gradini che ero costretto a crearmi con le punte anteriori
dei ramponi e dopo a consolidare battendovi ripetutamente
sopra il piede, quasi sempre poi cedevano sotto il mio peso,
facendomi slittare in basso e perdere più terreno di quanto
non ne avessi appena guadagnato. Sempre badando, ovvia-
mente, a non perdere comunque mai l’appoggio sulla
montagna, altrimenti l’intera cordata avrebbe potuto cor-
rere il rischio di ruzzolare giù per il lunghissimo canalone.
“Ma non avevo proprio nient’altro da fare oggi?” - mi
chiedevo, grondando sudore e col pensiero che correva al
caffellatte con focaccia calda che a quell’ora mi avrebbe
servito a letto mia moglie se me ne fossi invece rimasto
cheto a Genova.
Ad ogni modo, facendo stridere orripilantemente i
ramponi sulle rocce della torretta sommitale, alla fine
54. 42
giungemmo in vetta (un’autentica “punta”, v’è spazio a
sedere per una persona soltanto). La giornata era splendida
e avrei voluto fermarmi lassù per un po’, ma Fulvio (il
capo-cordata) batté ripetutamente il dito sul suo orologio
da polso per rammentarci che eravamo alquanto in ritardo
sulla tabella di marcia.
Lungo la cresta innevata che digrada verso sud tutte le
cordate procedettero con estrema cautela: la stretta
“traccia” era ormai quasi melmosa e talvolta i ramponi non
facevano granché presa, così il rischio di scivolare e poi
andar giù a velocità supersonica lungo l'uno o l’altro dei
ripidissimi fianchi della montagna diventava… beh,
plausibile. “Occhio, Claudio, concentrati sui passi, ricordati
che tieni famiglia!”, continuavo a ripetermi. Primo di
cordata nella lenta e delicata discesa, ad un tratto mi avvidi
di un provvidenziale spuntone di roccia intorno al quale
fissai prontamente un cordino di sicurezza, attrezzandolo
poi di moschettone; dopodiché proseguii però oltre,
dimenticandomi bellamente di inserire dentro quest’ultimo
la corda che mi legava alla compagna dietro! Fulvio dall’alto
mi segnalò a voce l’omissione ed io, rettificando il mio
ritornello (“Occhio, imbecille, ricordati che… ecc. ecc.),
tornai indietro per rimediare. Poi più dabbasso, data
l'eccessiva lentezza con la quale stavamo procedendo,
venne infine deciso di portarci direttamente sul ghiacciaio,
calandoci uno alla volta con manovre di corda attraverso un
ripido canale di neve.
Quando fui sulla terrazza del Nuovo Rifugio Torino
accesi il cellulare per avvisare a casa che la giornata si era
55. 43
conclusa - così pensavo - felicemente; subito un “bip” mi
segnalò la presenza di un messaggio nella segreteria tele-
fonica. Era della moglie di Dario: mi informava, con un filo
di voce, che lui se ne era andato alle 6,15 di quel mattino,
cioè all’ora in cui, durante la risalita del ghiacciaio, mi era
improvvisamente comparso nella mente...
Un mese più tardi, coronando un sogno, giunsi lungo la
“via normale” sulla vetta della Cima Grande di Lavaredo.
Avevo letto che anche lassù, fissate ad una corda tesa,
sventolavano delle piccole “lung-ta” himalayane e così dallo
zaino estrassi un oggetto di cui, per nulla al mondo, mi sarei
prima mai spossessato: la medaglia di bronzo conquistata in
un'importante regata internazionale insieme a Dario. Con il
suo stesso nastrino azzurro la assicurai bene alla funicella,
immediatamente dopo l’ultimo drappo sacro: congiunsi le
mani sul petto e le rivolsi un lungo inchino, poi i miei occhi
si persero, malinconici, nelle meraviglie che mi circon-
davano.
Non credo in alcun aldilà. Tuttavia, ancora oggi mi piace
pensare che il vento e il gelo, polverizzando poco a poco
quel pezzo di metallo, abbiano “liberato” la storia di fra-
terna amicizia che essa custodiva, conducendola fino alle
stelle e rendendola lassù eterna.
56. 44
Il sogno di Aleksej
Fuori, allo scrosciare monotono della pioggia, si aggiunse ad
un tratto il lontano rumore di un cavallo al galoppo. Il
ritmico calpestio degli zoccoli si fece sempre più vicino e
quando fu giunto davanti all'ingresso della casa si bloccò
bruscamente; un istante dopo si udì un frenetico bussare
alla porta.
“Chi mai può essere?” - si domandò Sergeevic che,
avvertendo l'avvicinarsi dell'animale, aveva intanto smesso
di mangiare.
Si sentì nuovamente battere all'uscio. “Vi prego, aprite!”
- implorò dall'altra parte una debole voce, subito soffocata
dal rombo assordante di un tuono.
“Vai ad aprire immediatamente, o chiunque egli sia si
buscherà un bel malanno!” - disse l'anziano Vladimir a
Sergeevic, suo figlio; il robusto contadino si alzò dalla
tavola e corse a togliere la trave che sprangava dall'interno
la porta di casa. Un giovane avvolto in un lungo mantello
grondante d'acqua si precipitò immediatamente dentro, e
57. 45
prima che l'altro richiudesse a fatica l'uscio sospinto dal
vento un lampo illuminò nella notte il cavallo che fuggiva
via terrorizzato tra fittissime linee di pioggia.
“Vi ringrazio” - disse il giovane cavaliere con voce
spossata, mentre ai suoi piedi si era già formata una larga
pozza d'acqua.
Tutti gli occhi della famiglia erano appuntati su di lui:
era alto e snello, e sul pallido viso rigato dalle gocce di
pioggia che gli colavano giù dai capelli biondi si potevano
ancora scorgere i segni di una passata fierezza, cancellata da
un qualcosa di doloroso; dal basso della cappa consunta
fuoriuscivano due stivali da soldato il cui colore era celato
da uno spesso strato di fango.
“Toglietevi il mantello e accomodatevi alla nostra
tavola”, disse l'anziano padrone di casa al nuovo arrivato.
“Avevamo appena iniziato la cena. E non preoccupatevi per
le vostre calzature”- aggiunse, accorgendosi del suo
imbarazzo e continuando a esaminarne i lineamenti con
interesse.
Intorno al tavolo apparecchiato, oltre al vecchio, erano
seduti una tipa corpulenta più o meno della medesima età,
una seconda donna molto più giovane e due bambini. Ma
nessun altro. “Grazie” - disse l'ospite con voce delusa - “Ma
non vorrei arrecarvi fastidio...”.
"Su, via, niente complimenti in casa mia!” - ridacchiò
pacatamente Vladimir - “Siete il benvenuto fra noi!”.
Il cavaliere ringraziò mentre Sergeevic lo aiutava a
disfarsi del pesante pastrano impregnato d'acqua. Sotto in-
dossava una logora casacca verde da ùssaro zarista, la quale
58. 46
doveva essere stata un tempo molto elegante e che era
tenuta ferma alla vita da una cintura di pelle nera da cui
pendeva una spada dall'impugnatura lavorata in oro; i
calzoni scuri con una striscia laterale rossa per gamba erano
alquanto sudici e strappati in più punti.
“Non dovrebbe aggirarsi per le campagne con questo
tempaccio!” - lo rimproverò la vecchia che si era alzata per
porgerli un panno con cui asciugarsi il viso.
“Grazie, siete tutti molto gentili” - disse il cavaliere.
La donna lo prese per un braccio e lo condusse a sedersi
su una sedia di fronte a Vladimir che seguitava intanto a
studiare il suo volto, mentre Sergeevic, dopo avere siste-
mato il mantello ad asciugare vicino al caminetto che
scaldava tiepidamente l'ambiente, riprese il proprio posto a
fianco della ragazza; la donna anziana pose poi davanti
all'ospite un piatto di montone arrostito e un boccale pieno
di vòdka.
“Vi presento la mia famiglia” - riprese a parlare il
vecchio - “Io mi chiamo Vladimir, e insieme a mio figlio
Sergeevic coltivo il fazzoletto di terra che circonda questa
casa. Loro, i miei nipoti” - disse indicando affettuosamente i
bambini seduti alla sua destra - “si prendono invece cura
delle capre e delle vacche che teniamo nella stalla qui
dietro l'abitazione: sono anche piuttosto competenti, i due
birbanti!”. I piccoli assunsero un’aria orgogliosa sentendosi
lodati per il loro compito di alta responsabilità, e il
cavaliere li guardò con tenerezza.
“Lei è Lunjevica, la sposa di Sergeevic” - continuò
Vladimir additando la ragazza - “Invece questa donnaccia
59. 47
brontolona e petulante è mia moglie Draga!”. Scoppiarono
allegre risate e la vecchia stessa sembrò divertita per la
facezia; però allorché i due bambini presero a canzonarla
anche loro con alcune battute attinenti alla sua pinguedine,
la donna mutò bruscamente umore e cominciò a gesticolare
adirata contro i nipoti: non permetteva che qualcuno
all'infuori del marito si burlasse di lei!
“Su, Draga, stanno solo scherzando! Sai che in realtà ti
vogliono un gran bene!" - la calmò divertito Vladimir,
mentre Sergeevic e sua moglie si guardavano l’un con l’altra
sforzandosi, per rispetto, di non ridacchiare oltre pure loro.
Anche il giovane cavaliere accennò un sorriso: la scena
era stata capace di rallegrarlo, e per lui era difficile diver-
tirsi, ormai da tempo.
“Ora però basta con le chiacchiere!” - sentenziò
Vladimir, rivolgendosi poi di nuovo all'ùssaro. “Immagino
che voi, signore, abbiate fame, e non è educato” - soggiunse
ammonendo gli altri - “parlare mentre si mangia”.
Si fecero tutti il segno della croce sul petto e ripresero la
cena interrotta poco prima. All'esterno continuava a dilu-
viare. Di tanto in tanto qualche lampo illuminava a giorno
la stanza, rischiarata altrimenti dal fuoco del caminetto;
subito dopo seguiva il boato sordo del tuono.
Da dietro la porticina che comunicava direttamente con
la stalla proveniva un belare inquieto e talvolta anche le
mucche facevano udire il loro muggito preoccupato.
“Le bestie sono impaurite” - commentò uno dei bambini.
“No, hanno solo fame” - rispose noncurante il padre,
seguitando a mangiare con gusto.
60. 48
Il soldato invece masticava con scarsa convinzione; non
sembrava neppure rendersi conto di avere qualcosa in
bocca, immerso com'era in chissà quali pensieri.
“Forse l'arrosto non è di vostro gradimento?” - domandò
premurosa Draga, che se ne era accorta.
“Oh, no, tutt'altro!” - si scosse confuso l’ospite - “E'
molto gustoso, davvero! Il fatto è che, pur non toccando ci-
bo da diversi giorni, ora stranamente non ho molto appe-
tito” - si spiegò, temendo di averla potuta offendere.
“Oh, povero ragazzo, per questo siete così sciupato! Forse
qualche preoccupazione vi assilla?”.
“No, affatto, tutto procede per il meglio” - si affrettò a
rispondere il giovane - “Vi ringrazio in ogni caso per le
vostre premure”.
Dopodiché il silenzio non venne più interrotto. Quando
infine tutti ebbero terminato di cenare (solo il soldato non
aveva mangiato praticamente nulla), l'anziano capofamiglia
si alzò per primo dalla tavola e mentre con una mano
estraeva la pipa dalla tasca dei pantaloni, con un calmo
gesto dell'altra invitò il militare ad andare a sedere insieme
a lui su alcuni sgabelli posti davanti al focolare. Il contadino
più giovane invece si infilò a fatica oltre il ristretto uscio
che dava sulla stalla, seguito dai due figli che strascinavano
ciascuno una cesta di cibo per gli animali (i quali avevano
intanto cominciato a protestare più energicamente); le due
donne, dopo avere diligentemente sparecchiato la mensa,
scomparvero dentro una minuscola e fumosa cucina.
“Non mi avete ancora detto il vostro nome e il luogo in
cui siete diretto” - domandò Vladimir quando furono soli.
61. 49
“Mi chiamo Lev… Lev Malenkov. Sono un messaggero e
vado… ad est. Devo consegnare alcuni importanti dispacci
al comando della guarnigione della capitale”.
Il vecchio sembrò non avere ascoltato la risposta,
affaccendato com'era nel tentativo di accendere la pipa che
teneva stretta nella bocca nascosta alla vista da una folta
barba bianca. Quando il tabacco fu finalmente affocato, si
curvò appoggiando i gomiti sulle ginocchia e chiuse gli
occhi: ristette così, come sonnecchiante, per parecchi mi-
nuti; mentre la pioggia fuori si abbatteva con veemenza
contro i battenti delle piccole finestre, dalla pipa fuoriusci-
vano a intervalli regolari cerchi di fumo che spandevano
nella stanza un gradevole aroma di erba nicotiana.
Quando si raddrizzò, Vladimir vide che il giovane fissava
malinconico le fiamme che nel caminetto giocherellavano a
confondersi continuamente l'una con l'altra. “Da quanti
giorni non dormite, soldato?” - domandò quasi con
indifferenza, dopo essersi tolto la pipa di bocca.
“Non saprei, ho perso ormai il conto” - rispose
meccanicamente l'altro, senza distogliere lo sguardo dal
fuoco.
“La missione affidatavi è dunque della massima impor-
tanza, se per portarla al più presto a termine vi private
anche di cibo e riposo” - osservò il vecchio contraendo il
viso in una finta espressione di ammirazione.
“Già”.
“Siete davvero un bravo soldato”".
62. 50
“Vi ringrazio”. disse laconicamente l'ùssaro continuando
a fissare i tizzoni incandescenti.
Il vecchio gettò dentro il caminetto alcuni pezzi di legna
accatastati ai suoi piedi. “Non siete certo di molte parole”
- continuò, ricacciandosi la pipa tra la barba; dalla cucina
frattanto giungeva il vociare delle due donne indaffarate
nella pulizia delle stoviglie, mentre nella stalla le bestie
avevano cessato di lagnarsi. Fuori il sibilo del vento si
faceva sempre più acuto e la pioggia non accennava ad
attenuarsi. “Credo che dobbiate dormire qui, questa notte”
- commentò Vladimir.
“No, non posso. Devo andare”.
“Vi pigliereste una polmonite! Inoltre in questo mo-
mento non mi sembrate proprio essere nelle condizioni
migliori per affrontare un lungo viaggio: avete assolu-
tamente bisogno di riposare, se volete giungere a San
Pietroburgo. Sempre ammesso” - continuò ridacchiando
ironicamente - “che Voi dobbiate veramente portare dei
dispacci alla capitale...”.
Il soldato si voltò verso il vecchio, guardandolo per
qualche istante disorientato; poi rigirò lo sguardo sul fuoco
e la sua espressione tornò assente.
“Per raggiungere San Pietroburgo bisogna cavalcare
verso ovest, e non verso est come Voi avete detto. Un
portaordini” - osservò Vladimir con tono di paterno
rimprovero - “sa esattamente in che direzione dirigersi e ha
in cima ai suoi pensieri la propria cavalcatura: non mi è
parso che vi siate dannato per la perdita del vostro
cavallo!”. Si interruppe un momento, il tempo di dare un
63. 51
paio di rapide boccate alla pipa. “Ed inoltre” - riprese poi -
“un semplice messo di solito non porta una spada dall'elsa
d'oro”.
Il giovane soldato permaneva silenzioso e indifferente.
“Non è comunque per queste ragioni che so che Voi non
dovete affatto andare alla capitale; perché, anzi, non vi
farete più ritorno fino a quando non avrete trovato ciò che
state disperatamente cercando, principe Aleksej”.
“Come fate a sapere che sono il principe Aleksej?” - si
rigirò di botto l’altro, interdetto.
“Due anni fa mi sono recato a San Pietroburgo per com-
perare delle bestie: là vi ho visto passare lungo la strada
principale, mentre la folla si apriva davanti a Voi che
montavate uno stupendo cavallo bianco, scortato dalle
guardie dello Zar vostro padre. Il vostro volto fiero mi è
rimasto impresso nella memoria: vi siete molto consumato
da allora, ma non ho avuto eccessiva difficoltà a ricono-
scervi ugualmente quando siete entrato qui”. L'espressione
del buon vecchio si fece ad un tratto più seria. “So anche
cosa state cercando; l'intero popolo di Russia sa cosa sta in-
seguendo inutilmente da più di un anno il suo amato
Zarèvic!”.
Il giovane tornò ad ignorare le parole del contadino.
“Vostra madre la Zarina è molto in ansia per Voi: vo-
gliate perdonare la mia insolenza, ma credo che non sia
stato giusto da parte di Sua Altezza non fare avere più noti-
zie di sé da quando è partita!”'.
64. 52
Il principe chiuse gli occhi appesantiti dalla stanchezza,
sospirando: quindici mesi erano trascorsi dalla notte in cui
Lei gli era apparsa - bellissima! - in sogno...
Era rimasta a lungo rifugiata tra le sue braccia; poi, sco-
stadolo dolcemente con la mano e scioltisi sulle spalle i lun-
ghi capelli, ella aveva liberato il proprio delicato essere da
ciò che lo nascondeva: e lui aveva allora dimenticato il
mondo intorno!
Sì, quindici mesi erano passati da quando era infine giun-
ta l'alba e al risveglio l'aveva cercata invano nel suo letto…
Da quel giorno ogni altra cosa era divenuta vuota e vana,
e così sarebbe ormai stato fino a quando Lei non lo avrebbe
reso nuovamente felice con una sua carezza.
Aveva spiegato tutto ai genitori, era balzato in sella al
suo destriero ed era partito a spron battuto alla ricerca di
quella donna; i sovrani lo avevano lasciato andare, creden-
do a un capriccio giovanile che lo avrebbe stancato nel vol-
gere di qualche giorno. Oltre un anno era invece scivolato
via: aveva cavalcato senza requie attraverso le steppe, sfi-
dando la neve e il gelo dell’inverno siberiano, il caldo e la
sete del deserto del Volga, frugando il volto di ogni ragazza
che incontrava nella speranza sempre delusa di riconoscervi
il sorriso cercato. Più di un anno, e il vecchio Zar, dopo
tanta paziente attesa, si era infine incollerito: non conce-
piva che il principe ereditario continuasse a girovagare per
l'impero anziché tornare a palazzo e iniziare ad interessarsi
delle faccende di governo, di cui molto presto avrebbe
dovuto assumere la pesante responsabilità. Mille cosacchi a
cavallo erano stati così sguinzagliati alla sua ricerca e un
65. 53
ingente premio in rubli era stato promesso a quello che
avrebbe ricondotto alla reggia e alla ragione il principe
scapestrato; ma questi sembrava essere svanito nel nulla,
nonostante vi fosse sempre qualcuno pronto a giurare di
avere visto lo Zarèvic galoppare in questo o in quell’altro
punto del regno.
Così Aleksej ora era costretto anche a sfuggire coloro che
un tempo erano stati suoi fedeli soldati e che ora, allettati
dal denaro, davano la caccia al loro signore come se fosse il
più pericoloso degli assassini. Lui però non poteva far ritor-
no a corte senza quella fanciulla. No, doveva continuare a
rovistare bene le pianure, la tundra, ogni montagna...
“Se continuerete così vi ammalerete gravemente”
- interruppe i suoi pensieri Vladimir - “Tornate a casa,
Zarèvic!”.
Il principe fissò il contadino scuotendo il capo. Poi si al-
zò e ripiglio il mantello: era ancora molto bagnato, ma se lo
gettò ugualmente sulle spalle. “Spero abbiate una cavalca-
tura. Ve la pagherò bene, ho con me ancora molto denaro”.
“No, ve la donerò. Ma Voi, dove volete andare? Tor-
natevene a Pietroburgo” - incalzò l’anziano - “Il popolo vi
attende, avrà presto bisogno della vostra guida”.
“Non posso, credetemi”.
“Dove vi condurrete, allora?”.
“Non lo so: uscirò dai confini di mio padre, mi dirigerò
verso il Catai; attraverserò anche l'oceano, se necessario”.
“I cosacchi vi troveranno, prima o poi”.
“Per fermarmi dovranno uccidermi”.
Il vecchio lo guardò con commiserazione.
66. 54
“Non avete ragione di preoccuparvi per me, buon
Vladimir. Sono solo alla ricerca della mia felicità: un giorno
la troverò”.
“No, mio Zarèvic. Voi non la raggiungerete mai. Voi
morirete molto presto”.
Un breve silenzio. “Forse è davvero scritto così”
- mormorò infine Aleksej con un velo di rassegnazione
nella voce.
Il vecchio Vladimir non insistette: aveva capito che
niente avrebbe potuto persuadere il principe a desistere da
quella ricerca folle. Con calma si sollevò dalla panca sulla
quale era seduto, spense la pipa, rovesciò le ceneri nel ca-
minetto e si diresse in cucina; disse qualcosa alle donne che
vi si trovavano dentro e poi si affacciò sull'uscio che dava
alla stalla: “Sergeevic, prendi uno dei cavalli, sellalo e por-
talo davanti alla porta!”.
Sergeevic fece capolino dal maleodorante ricovero. “Ma
fuori sta ancora diluviando!” - esclamò stupito - “Il signore
può pernottare da noi”.
“Il signore ha molta fretta” - spiegò Vladimir - “Egli deve
raggiungere la capitale al più presto e qui ha già perso del
tempo prezioso”. Anche le donne sporsero dalla cucina le
loro facce interrogative.
“Signore, rimani qui!” - strillò uno dei bambini sbucando
dalla stalla e saltellando poi allegramente fino a lui - “Devi
ancora raccontarci delle battaglie che hai fatto!”.
Aleksej gli accarezzò una guancia, sorridendo. “Devo
proprio andare, mi dispiace; te le racconterò un'altra volta”.
67. 55
Sergeevic si gettò allora nella tormenta, mentre gli altri
si radunarono intorno al cavaliere. Draga gli diede una bi-
saccia di viveri. “Grazie, siete stati molto cari con me”, disse
loro Aleksej.
“Buona fortuna, portaordini!”- gli augurò il vecchio
Vladimir stringendogli forte le spalle.
L’ùssaro aprì la porta e una folata gelida sferzò la stanza.
Guardò quella gente un'ultima volta e poi si lanciò verso il
cavallo tenuto alla briglia dal già zuppo Sergeevic; montò in
groppa e si lanciò ventre a terra perdendosi subito nella
tempesta, mentre il contadino si precipitava al riparo den-
tro casa.
“Perché lo hai lasciato andare, padre?”.
“Perché, figlio mio, egli deve ancora trovare la più im-
portante delle cose: il significato di sé stesso!”, gli rispose il
vecchio.
68. 56
La folle gara
Genova, una notte di fine maggio dell’anno 2014. Dal
divano sul quale è accovacciato, Nelson - il cane di famiglia -
mi guarda con un’espressione interrogativa mentre pian
piano, per non svegliare moglie e figlia che dormono nelle
camere accanto, in sala raccolgo le mie cose e poi scivolo
oltre l’uscio di casa. Sono le 4.20 e fuori è ancora buio pesto;
sulla mia “Vespa” malconcia, lungo strade deserte alla volta
del porto, non sento però freddo, segno che l’afa estiva è
ormai alle porte e che mi sarà dunque impossibile d’ora in
avanti svolgere prolungati allenamenti a secco in orari
differenti da questo.
Attacco a remare nella vasca da canottaggio all’aperto del
“Rowing Club Genovese 1890”, la mia società, alle 5.10 e mi
sembra di essere tornato ai tempi del liceo, quando da
agonista mi allenavo quotidianamente prima di recarmi in
classe. Soltanto che adesso sono alla vigilia dei 54 anni e
mentre dodici gabbiani - dodici, li ho contati! - volteggiano
69. 57
con insistenza una trentina di metri sopra la mia testa simili
a pazienti avvoltoi, mi domando: “Ma che diavolo sto
facendo?”.
Due anni fa, al termine dell’impegnativo mandato di
Presidente del Comitato Ligure della Federazione Italiana
Canottaggio, avevo deciso di non farmi più coinvolgere in
faccende remiere; da allora avevo frequentato il mio club
per il tempo strettamente necessario ad allenarmi un po’
per le mie escursioni in montagna. Ma domenica scorsa è
stata proprio la stizza per non avere potuto partecipare ad
una salita alpinistica a causa di una influenza fuori stagione
ad avermi fatto sconsideratamente dire di sì alla contem-
poranea offerta di Stefano di prendere parte alla gara di
canottaggio più lunga del mondo: 160 chilometri!
Nel 2008, per celebrare il 120° anniversario della fonda-
zione della nostra Federazione, avevo messo su un viaggio
costiero a remi da Genova a Roma (con la risalita del
Tevere, circa 550 chilometri di percorso). Con due imbar-
cazioni da 4 vogatori più timoniere per raggiungere la capi-
tale impiegammo otto giorni, il più “lungo” dei quali misurò
circa 80 chilometri, suddivisi in due tappe; in quella pome-
ridiana la mia maglia da bianca divenne rossastra per via del
sangue che mi sgocciolava giù dalle palme delle mani deva-
state dall’attrito con le impugnature dei remi: bene, sul
vasto lago di Ginevra avrei dovuto rivivere “doppio” (per di
più in un’unica soluzione e con “spirito” da gara)
quell’incubo… Un’autentica pazzia!
A completare l’equipaggio si sono dichiarati disponibili
Pippo e Gaetano (anch’essi fattisi le ossa con me e Stefano
70. 58
nella Genova-Roma) e Luca; l’imbarcazione prevista dal
regolamento di gara - una “GIG” a 4 con timoniere - grazie
alle buone relazioni di Luca ci verrà gentilmente prestata,
nuova di zecca, dal Cantiere Nautico Salani. Saremo l’unico
armo italiano in gara.
“Ecco esplosa la crisi dei 50!”, ha sentenziato mia moglie
allorché l’ho informata della decisione. A me, invece, era
piaciuto prendere in prestito la risposta data da George
Mallory al giornalista che gli aveva chiesto perché mai
volesse scalare l’Everest, all’epoca ancora inviolato (“Perché
esiste”). Perlomeno fino a questa mattina: dopo soltanto
due ore e quaranta minuti di voga un crampo mi paralizza
la coscia sinistra; non c’è verso di lenirlo e riprendere a re-
mare, così mi tiro su e claudicante e avvilito mi dirigo verso
le docce: per acquisire una condizione fisica adeguata alla
mostruosità in cui mi sono cacciato ho solo quattro mesi di
tempo... “Sì, è’ una vera follia”, continuo a ripetere a me
stesso più tardi mentre varco la soglia dell’ufficio.
Lago di Lemano (Ginevra), sabato 27 settembre 2014.
Dopo quei crucci primaverili per mettermi in forma avevo
dato vita ad una bizzarra alchimia di allenamenti: alpini-
smo, marce montane forzate, spinning, nuoto e, natural-
mente, canottaggio (in vasca, ad esempio, sono poi arrivato
a vogare per cinque ore consecutive). Ma dopo poche ore
dal “via” del giro completo dell’immenso Lemano - dato
con puntualità svizzera alle 8,00 - sotto il sole caldo ecco
che i crampi sono ridiventati per tutti i regatanti l’insidia
maggiore. Quando acchiappano me penso con sconforto
71. 59
“…ecco, è finita qui!”. Lo sforzarsi a gestirli per quasi
un’ora e infine riuscire a superarli si dimostra quasi un’arte.
Il resto - ma questo già lo sapevo - è un crescendo
wagneriano di bruciore alle mani piagate dal remo, di
dolore (vero) nel fondo-schiena e ai glutei, i quali ultimi
poco dopo Montreux - ove finalmente abbiamo svoltato la
prua verso Ginevra, lontana ormai “soltanto” un’ottantina
di chilometri - iniziano a smaniare sul carrello, ora
spostandosi di qualche millimetro a sinistra, poi di nuovo
verso destra (o indietro) un minuto dopo, e così via all’infi-
nito, alla spasmodica ricerca di un po’ di sollievo. Stilla
dopo stilla l’acido lattico mi rende inoltre le gambe sempre
più pesanti; nei pressi di Evian mi salta in mente di
ricalcolare - in base al nostro ritmo di palate - quante volte
esse si saranno compresse a molla al termine di questa in-
credibile giornata: circa 20.000.
Tutto ciò è tuttavia comune a ogni scriteriato convenuto
quest’oggi sul grande lago, incluso quel Tim Grohmann, oro
agli ultimi Giochi Olimpici nel 4 di coppia, che con il suo
giovane equipaggio tedesco è al comando della regata. Vice-
versa, oltre che sull’acqua, ciascuno di noi sta navigando in
un oceano di pensieri invece tutti personali, che si accaval-
lano nelle mente veloci come onde.
E’ sorprendente l’avvicendarsi di momenti nei quali
giungo a sentirmi realmente uno stupido (“Metterti ancora
a “giocare” sulla barchetta alla tua età! - mi biasima di tanto
in tanto una voce dentro - Ma va’, piantala lì e tornatene
subito dalla tua famiglia!”) con altri - precisamente quando
si assottiglia il distacco con l’equipaggio dietro o con quello
72. 60
avanti - nei quali l’antico impeto agonistico si riaccende e
prende prepotentemente il sopravvento su ogni altra consi-
derazione. Così come è strano l’alternarsi di fasi di grande
spossatezza a inaspettate - e anche prolungate - fiammate di
energia, durante le quali allora potenzio il tiro per il mero
piacere di sentire il musicale sciabordio della prua mentre
taglia agile e veloce l’acqua del placido Lemano e nel con-
tempo penso che quest’avventura, indipendentemente da
come essa finirà, si aggiungerà comunque al mosaico della
mia esistenza, rappresentando un nuovo tassello di me.
“Finché mi sarà concesso voglio sentirmi vivo”, mi dico. E
allora, contraddittoriamente, sono assolutamente felice di
trovarmi qui.
Guardando le colline che corrono parallele alle rive ho
anche ripensato alla mia recente salita della Cima Grande di
Lavaredo, iniziando poi a pianificare nella mente quella del
Sassolungo1 anche al fine di annullare per un po’ il senso
del tempo e potermi così infine ridestare con la piacevole
“sorpresa” di una bella manciata di chilometri in meno da
percorrere (“Beh, non è poi così tanto lunga!”). In realtà
l’unico vero “trucco” - se mai può esisterne uno - è non
pensare mai al traguardo (che altrimenti diventa un mirag-
gio angosciante e insostenibile psicologicamente), bensì
concentrarsi a far bene ogni singola palata, come se fosse
allo stesso tempo la prima e l’ultima della giornata.
La stanchezza, si sa, rende irritabili: così durante il lungo
viaggio non manca qualche battibecco tra noi; ma le
1
Scalata poi realizzata nel luglio 2015.
73. 61
incrociate, antiche amicizie e la consapevolezza di trovarci
- alla lettera - sulla stessa barca ci mantengono uniti:
stringiamo i denti e sopperiamo vicendevolmente alle
inevitabili, provvisorie carenze di qualche compagno.
Discorso simile in occasione dei cambi al timone (ogni ora
circa), nei quali ci riveliamo di gran lunga i più lenti elar-
gendo vantaggi significativi agli avversari: la cosa ogni volta
mi manda in bestia, ma subito mi rientra chiara in testa
l’idea che l’importante è arrivare in fondo.
Giunti a Sciez, dalla riva ci arrivano urla di incitamento:
sono Cristiano (il “meteopatologo” - come lo chiama
Stefano - che ci fornisce consulenza meteorologica sin dal
Genova-Roma) e il suo “apprendista” Simone; lo scambio di
battute gridate porta in barca una certa allegria. Lo scon-
certante bunker atomico dove a terra abbiamo alloggio
insieme agli altri equipaggi continua tuttavia ad assumere
sempre più nelle nostre teste le sembianze di un hotel in
stile Las Vegas, dotato di mille comfort.
Sopraggiunge infine la notte e con essa il freddo. Stefano
- passato nuovamente al timone essendo egli il più capace a
manovrare al buio - combatte contro l’ipotermia rinserrato
dentro il sottile telo isotermico da montagna caricato a bor-
do già ieri sera insieme a molto altro materiale, tra cui bar-
rette energetiche e bustine di sali minerali da sciogliere
nell’acqua raccolta via via direttamente dal lago e da tran-
gugiare - letteralmente - durante i cambi al timone.
Sento che quest’ultima fase della regata mi rimarrà
impressa per sempre nella memoria: nel silenzio, sotto le
stelle, la barca prende a correre più veloce verso la meta,
74. 62
che la mente sa ormai prossima ma che al corpo esausto
appare invece ancora tremendamente lontana. In mezzo
all’acqua, guardando la luna, rivivo le emozioni provate
tanto tempo fa da giovane sottufficiale di leva sulla torretta
del sommergibile “Enrico Toti” durante il rientro notturno
alla base dopo un’esercitazione…
Quando finalmente posso drizzarmi in piedi sul pontile
della Société Nautique de Gèneve scopro di avere perso il
senso dell’equilibrio: inarcato sui remi per 14 ore e 17
minuti (tanto è durata per noi la gara), ho infatti finito con
il dotarmi di un altro baricentro e ci vorrà più di un’ora per
tornare a pieno diritto nel mondo dei bipedi.
Mi informano che siamo il decimo equipaggio ad avere
tagliato il traguardo (altri tredici armi lo supereranno dopo
di noi). Posizione di classifica tutto sommato soddisfacente,
della quale tuttavia in questo momento non mi importa
davvero nulla: sono arrivato e tanto, semplicemente, mi
basta.
Corro (si fa per dire) sotto la doccia calda e poi mi godo
una delle scomode panche di legno dello spogliatoio, da
dove con il cellulare avviso a casa che non si sono liberati di
me; Luca dalla bilancia esclama sbalordito di avere perso
dieci chili, da recuperare con urgenza seduti intorno a una
delle tavole imbandite per questo “circo di matti” nel
ristorante del club organizzatore. Gaetano, quello perenne-
mente affamato, molla però subito il cibo: avverte senso di
nausea e un forte giramento di testa, “costringendomi” così
a divorare anche la sua parte. Pippo ci raggiunge poco dopo,
rinfrancato da uno dei massaggiatori messi a disposizione
75. 63
degli atleti sbarcati.
Mentre prendo coscienza di avere la mano sinistra semi-
inerte (una tendinite?), Stefano inizia a snocciolare la sua
analisi della nostra corsa alla ricerca delle cose da
“correggere”. Capisco subito cosa ha in mente; lo guardo
dritto negli occhi e gli ringhio: “No, caro mio, non mi fre-
ghi una seconda volta!”. Nel cuore, però, gli sono ricono-
scente.
79. 67
Anno 1988
PREMESSA
Quella che segue è la storia di Luke Dohrow, così come
sopravvive nei ricordi di quanti gli furono amici e, in
particolare, di mia cugina Silvia, la quale l’ha a me narrata
due anni or sono quando mi sono recato negli Stati Uniti
per (finalmente) conoscerla.
Ne sono rimasto colpito e in seguito mi è sembrato giusto
testimoniarla, ricostruendola pian piano - seppur in modo
frammentario - anche grazie allo scambio di lettere avuto
con alcuni altri protagonisti della vicenda.
Spero, ora che essa è finalmente ultimata, di riuscire a
coinvolgere l’eventuale lettore, precisando che nomi di
luoghi e persone sono naturalmente diversi da quelli reali.
L'Autore
83. 71
I
Alle cinque esatte il gracchiare sordo della sveglia strappò
bruscamente il ragazzo dal sonno: era ora di alzarsi, l'alle-
namento quotidiano lo attendeva.
A Luke costò più fatica del solito, quel mattino, tirarsi
giù dal letto. Con la mente ancora intorpidita, si trascinò
fino alla camera da bagno per una rapida doccia ravvivante;
riacquistata così coscienza di sé raggiunse la cucina per la
colazione, sforzandosi di fare il minor rumore possibile per
non svegliare l'intera casa. Mentre a piccoli sorsi mandava
giù il tè bollente ascoltava attentamente il vento che fuori
sibilava forte: sotto i suoi colpi le tapparelle emettevano un
crepitio simile a quello della legna al fuoco. “Uhm, mare
agitato, oggi” - pensò il canottiere.
Le lancette segnavano già un quarto alle sei allorché
chiuse la porta di casa dietro di sé. Fuori era ancora notte
fonda: su in alto le stelle brillavano di un turchino insolito,
mentre il vento soffiava davvero vigoroso. Il ragazzo tirò
fuori dalla rimessa la motocicletta e si avviò lungo strade
84. 72
deserte e gelide (nonostante il pesante giaccone sulla moto
faceva un freddo cane!) alla volta dell'abitazione del suo
allenatore.
Allo squillo del campanello seguì una breve attesa, poi
ecco una finestra aprirsi al piano superiore della graziosa
villetta e un minuscolo faccino barbuto presentarsi asson-
nato alla luce della luna. Dopo aver salutato con un floscio
“hi”, il signor Lopez trascinò lo sguardo sugli alberi del giar-
dino circostante: le piante ondeggiavano forte, il che gli
strappò una smorfia di disappunto. Fece comunque al
ragazzo cenno di attendere e richiuse le imposte dietro di
sé.
Nel frattempo un pallido chiarore era andato diffon-
dendosi, restituendo un primo incerto contorno alle cose.
Luke nell’attesa si sedette sul basso muretto di una aiuola,
con lo sguardo rivolto al cielo stellato; intorno l'aria era
frizzante: la respirò profondamente e - quasi questa posse-
desse una qualche virtù misteriosa - una curiosa, eccitata
allegria lo pervase.
Giunto che fu il signor Lopez, salirono sulla piccola
utilitaria di quest'ultimo. A dispetto del parabrezza comple-
tamente appannato per l'umidità, il piccolo allenatore guidò
a velocità sostenuta giù per il lungomare, una mano sul
volante, l'altra agli occhi che si stropicciava senza posa, per
fermarsi infine davanti al cancello del “Green Springs
Rowing Club”. Qui, puntuali come sempre, si trovavano già
gli altri componenti dell'equipaggio, anch'essi tutti avvolti
in pesanti casacche e con i berretti di lana cacciati in testa;
accucciato in un canto, tutto intirizzito dall’umidità pene-
85. 73
trante del primissimo mattino, stava poi - piccino piccino -
il timoniere.
Il sole aveva da poco fatto capolino sulla linea
dell'orizzonte allorché i ragazzi, dopo essersi velocemente
cambiati, si staccarono con la loro imbarcazione dal pontile;
Lopez, ex timoniere dai discreti trascorsi, seguiva i canot-
tieri a bordo di un gommone.
Al riparo dal vento, il mare si rivelò meno ostile sotto i
muraglioni dell'isola di Santa Clara, sulla quale la Green
Springs vecchia ancora dormiva beata. L'oceano era qui
colorato di un blu profondo e la fioca luce dell'alba donava
qua e là alla superficie leggermente increspata riflessi ar-
gentati; dietro la città, lontana, la vetta innevata del Monte
Tolimas faceva da sfondo alla gioia di vivere di quei ragazzi.
…La fatica, come iniettata da siringhe, entrava nelle loro
membra a fiotti, più densi e brucianti ad ogni nuova palata;
soprattutto le gambe, spingendo forte sul carrello, si erano
oramai quasi calcificate.
Lopez controllò il cronometro e un sorrisetto di soddi-
sfazione si disegnò sulle sue labbra: l'armo stava viaggiando
nel pieno rispetto della tabella di marcia e al termine della
prova mancavano ormai solo duecentocinquanta metri,
quelli in cui un equipaggio, raccogliendo ogni energia resi-
dua, si produce nello scatto finale. Semplice, in teoria; ma
per un canottiere, ogni volta, è come cercare di cavare an-
cora acqua da una spugna già totalmente prosciugata.
“Forza, ragazzi! E' questo il momento, “serrate” adesso!”
- urlò tuttavia l'uomo del gommone.