SlideShare a Scribd company logo
1 of 251
Download to read offline
CLAUDIO LORETO
RACCONTI
GLI OCCHI SULLA SCIA
CLAUDIO LORETO
GLI OCCHI
SULLA SCIA
Racconti di remi, piccozze e amori
La vita è un po’ come il canottaggio.
Il canottiere solca veloce l’acqua,
ma con lo sguardo rivolto indietro:
ha sempre dinanzi agli occhi (e calcola)
la scia della sua imbarcazione;
similmente, ognuno di noi nel corso della propria esistenza
spesse volte si gira
e tira le somme di quanto fino ad allora ha fatto.
Poiché ciascuno è il risultato del proprio passato.
Dedicato a chi il destino,
con me davvero benevolo,
mi ha fatto incontrare:
mia moglie Nicoletta e nostra figlia Erika.
PREFAZIONE
Ai tempi del liceo fantasticavo di diventare un
corrispondente di guerra; poi, invece, ho finito con
il rimediare un meno spericolato impiego in banca:
occupazione certamente poco avventurosa, ma che
perlomeno mi ha garantito un minimo di tran-
quillità economica grazie alla quale ho anche potuto
girovagare un po’ e realizzare come “freelance”, per
svariati anni, reportages ed articoli per quotidiani e
riviste, soddisfacendo così almeno in parte la mia
aspirazione giovanile.
Occasionalmente mi sono pure azzardato a buttar
giù qualche “storiella”; a detta di qualcuno, tuttavia,
le mie qualità di narratore non sono all’altezza di
quelle - probabilmente già non eccelse - di cronista.
Pazienza, nessuno è perfetto.
Ho voluto ugualmente raccoglierle in questo vo-
lume vuoi per non smarrirle, vuoi perché ci sono
comunque affezionato: alcune di esse, infatti, risal-
gono al periodo della scuola superiore.
L’ultimo racconto (“Passaggio in India” ) in verità
appartiene al genere giornalistico: l’ho inserito (un
po’ impropriamente) in quanto è legato ad un mo-
mento fondamentale della mia vita.
L’Autore
INDICE
Il Nido della Tigre Pagina 1
La lettera 6
Anurag, il fuggiasco 11
Sul Ghiacciaio del Gigante 39
Il sogno di Aleksej 44
La folle gara 56
Storia di una Storia 65
La tempesta segreta del nuotatore 201
Il messaggio del vento 209
Passaggio in India 218
Prospetto attività pubblicistica 236
1
Il Nido della Tigre
Nel 1986, poco dopo il congedo dalla Marina, mi ritrovai in
Himalaya. Allora il Paese del Dragone Tonante (così viene
chiamato il Bhutan dai suoi abitanti) era un regno
praticamente “proibito” ed io vi fui ammesso grazie
all’ostinazione di un ortopedico giramondo capitato infine
laggiù e desideroso, dopo alcuni anni, di rivedere qualche
familiare: preso letteralmente per stanchezza, il burocrate
competente aveva alla fine concesso - oltre ai permessi a
favore di due parenti (la mia ragazza e suo padre) - un
terzo, incredibile visto d’ingresso per me.
Quell’anno il monsone s’era attardato, minacciando così
pioggia anche la mattina della nostra salita al Nido della
Tigre. “Eccolo lassù!” - esclamò ad un tratto Giancarlo, il
medico, mentre ci preparavamo alla marcia: uno strappo
nella nebbia per un attimo lasciò intravedere, in
lontananza, il bianco monastero dalle cupole - si diceva -
rivestite d’oro zecchino, appuntato a un impressionante
strapiombo a 3.120 metri di altezza; là un giovane che
aspirava a diventare lama stava affrontando la prevista
prova preliminare di tre anni di solitudine.
2
Imboccammo un ponticello sul fiume Paro e quindi un
melmoso sentiero che s’inerpicava su per la montagna,
dentro una foresta di pini adorni di licheni. Lo zaino,
rigonfio com’era di riso, zucchero e biscotti da offrire al
seminarista, mi faceva affondare gli scarponi nel fango. Da
giovane canottiere esuberante (ma ancora inesperto di
montagna) qual ero, decisi allora di fare di quell’ostica
ascesa un superbo allenamento; così, regolando bene la
respirazione, forzai il passo e presi ad andare su ve-
locemente. Troppo. Dopo circa mezz’ora, infatti, il cuore
d’improvviso cominciò a martellarmi nel petto con il ritmo
di una mitragliatrice, letteralmente impazzito! Mi tolsi
subito dalle spalle la pesantissima sacca e mi sdraiai supino
su un ripiano roccioso contornato da bandiere con incise le
preghiere dei pellegrini, ma ci volle un po’ perché anche la
mia richiesta venisse accolta dagli dèi lassù e il battito si
regolarizzasse. Attesi quindi l’arrivo degli altri (Nicoletta
non mi risparmiò i suoi rimbrotti) e ripresi il cammino con
più umiltà.
Per tutto il tempo fummo accompagnati dal gracchiare
rauco dei corvi che, a nugoli, girovagavano oziosi nel cielo;
una lunga processione di batuffoli di vapore procedeva,
anch’essa pigramente, tra le montagne selvose che cir-
condavano la sottostante Valle di Paro. La nostra meta,
invece, sembrò averne abbastanza delle nubi, iniziando a
offrirsi ai nostri occhi in tutto il suo incanto.
Il mio futuro suocero, intanto, s’interrogava circa
l’origine del nome del monastero: era legato a una leggenda
locale (secondo la quale Padmasambhava, il secondo
3
Buddha, era andato a meditare in una grotta lassù in groppa
alla moglie trasformatasi in una tigre volante) oppure alle
meno metafisiche tigri di montagna che, seppure in via di
estinzione, ancora popolavano la zona, come sosteneva
qualcuno?
Io ero invece curioso di conoscere l’interpretazione che
l’aspirante monaco avrebbe potuto dare del sogno che
avevo fatto la notte precedente: dopo un feroce com-
battimento, con la spada avevo trapassato la corazza di un
malvagio Cavaliere Nero, di cui mi era ignoto il volto;
strappatogli l’elmo, con sgomento dentro quell’armatura
avevo però visto me stesso, fissarmi con occhi vitrei…
Lasciato il bosco, discendemmo un viottolo scavato
lungo la parete che si drizzava verticale di fronte al costone
sul quale poggiava, in bilico, il convento; a metà della pista,
per rispondere a un richiamo, mi voltai di botto cozzando
con lo zaino contro la roccia: sospinto in avanti dal
contraccolpo, per alcuni interminabili secondi pencolai,
con il sangue gelato nelle vene, sull’orlo del baratro.
Giungemmo infine ad una cascatella d’acqua che
salterellava giù chiassosa lungo la linea di congiunzione
della parete con la montagna santa di Padmasambhava; lì la
traccia riprendeva a salire ripida lungo quest’ultima:
l’ultimo strappo, in realtà, e dopo tre ore di affanno eccoci
finalmente davanti al Taktshang!
L’apprendista monaco non era esattamente un isolato:
insieme a lui trovammo infatti un ragazzino suo parente e
un altro escursionista, uno spagnolo che - in barba alla
spiritualità del luogo e ad ogni ideale della montagna - si
4
premurò subito e gratuitamente di renderci nota la sua
scarsa considerazione degli italiani (dal canto nostro
troncammo sul nascere il rapporto). Il padrone di casa
accolse invece i nuovi arrivati con molta cortesia: per
rinfrancare le forze ci offrì del tè con dentro sciolto burro
di yak, dopodiché ci condusse in visita al santuario che si
rivelò in avanzato stato di deterioramento strutturale, ma
ricco di suggestivi arredi sacri; la Sala dei Mille Buddha
(così chiamata per via delle mille rappresentazioni
dell’Illuminato che ricoprivano le sue pareti) induceva
seriamente al misticismo. Poi, in un locale ricavato da una
grotta, eccola, lei, la tigre: una grande statua della belva,
raffigurata con le fauci spalancate e gli artigli affondati
nelle carni di due malcapitati.
L’ospite in seguito, più che al confronto filosofico, si
mostrò molto interessato alle mie moderne calzature da
trekking e provò a venderci delle lattine di… Coca-Cola (!).
Al momento del commiato l’occhio mi cadde poi su un
cestello di riso frammisto a polpa di yak in salsa piccante,
pronto al consumo: per i buddisti non era però riprovevole
ammazzare e mangiare gli animali?
“Loro dicono che sarebbe peccato lasciare a putrefare le
bestie già macellate dalle etnie di religione diversa” - mi
spiegò Giancarlo. “Oppure quelle precipitate dai dirupi…
sui quali però” - aggiunse - “all’occorrenza vengono furbe-
scamente sospinte a pascolare dai loro proprietari!”.
“Ho capito: la coscienza è a posto e lo stomaco pieno”
- commentai io. L’ipocrisia non conosce confini.
5
Alcuni giorni dopo un piccolo bimotore, volando a
sobbalzi e scricchiolando paurosamente dentro le strette
gole del Basso Himalaya rivoltate dal monsone, ci
riconsegnò a un’alluvionata Calcutta; da qui raggiungemmo
Dacca, Dubai, Roma e infine Genova. Inaspettatamente,
l’attraversamento in taxi della mia città mi turbò: il brutale
contrasto tra quel ritrovato ambiente di cemento, asfalto e
lamiera e le incontaminate, splendide catene montagnose
che conservavo ancora negli occhi (e nelle quali la presenza
umana era soltanto un accessorio) rendeva lampante che il
mondo moderno si muoveva sulla strada sbagliata. Allo
stesso tempo, il Shangri-La non esisteva: la natura umana è
infatti la stessa ad ogni latitudine; riprova di ciò sarebbero
state, qualche anno più tardi, l’insensata politica razziale
avviata dal governo bhutanese e le dolorose vicende che ne
conseguirono.
Quanto al mio strano sogno, lo risolsi a modo mio: in
ciascuno di noi albergano insieme il bene e il male; e se
dare libero corso a quest’ultimo è facilissimo, realizzare il
primo richiede impegno e consapevolezza… Perdiana,
l’esperienza nel Bhutan mi aveva forse avvicinato al buddi-
smo? Beh, di certo so solo che essa contribuì al germo-
gliare della mia futura, grande passione per le montagne.
6
La lettera
Non appena fui fuori di casa i brividi mi scombussolarono:
quell’alba faceva più freddo del solito. Esitai per qualche
attimo (dietro l’uscio il letto era ancora caldo), poi innestai
risoluto il passo: la strada dall’abitato di La Villa al Col di
Lana era piuttosto lunga.
Mi piaceva del resto girovagare per valli quando tutti
ancora dormivano e dunque nessun suono umano distur-
bava lo stato di grazia in cui scivolavo attraversando radure
e boschi, dove cancellavo i pensieri e diventavo ingordo di
sensazioni; così quella mattina, di nuovo, lo scroscio del
torrente Giaric mi trasmise un senso di purezza, i prati
vellutati dell’Armentarola mi saziarono di quiete e le fanta-
stiche guglie delle Conturines mi accesero di meraviglia.
Mi domandai con quali occhi avevano però osservato
quei medesimi luoghi i giovani sepolti nel piccolo cimitero
militare tedesco che toccai poco prima di raggiungere il
Passo Valparola: un secolo prima, infatti, le montagne sopra
avevano avuto il volto della morte.
7
Sul valico si attardavano bave di nebbia che intiriz-
zivano; mi concessi una tazza del tè bollente del Rifugio,
alle spalle del quale poi imboccai il sentiero che conduceva
sotto le pareti verticali delle Pale di Gerda e del Gruppo del
Setsas, di cui costeggiai i lunghi basamenti forzando ulte-
riormente il passo nonostante che marciassi più che spedito
già da alcune ore. L’immenso silenzio nel quale avanzavo di
tanto in tanto veniva rotto dai fischi acuti delle marmotte,
come a rammentarmi che il mondo non appartiene soltanto
all’uomo.
Superai il Passo Siéf e risalìi la scoscesa e interminabile
trincea che gli austro-ungarici avevano scavato lungo tutto
il crinale del monte omonimo; quando trovai la via inter-
rotta da un grande cratere restai interdetto: per sloggiare il
nemico entrambi gli opposti eserciti avevano fatto esplo-
dere più volte il Siéf (e altre montagne vicine), scavando
nella sua pancia gallerie che terminavano con enormi stan-
ze poi stipate di dinamite. Che “innovative” e del tutto inu-
tili stragi: il fronte dolomitico non si era comunque smosso
di una virgola!
Al di là del fosso si stagliava la mia meta, il Col di Lana,
ribattezzato dai fanti “Col di Sangue” (infatti la contesa
della sua vetta costò la vita di ottomila di loro). Mi calai
nella spaccatura, saltellai tra i detriti dell’esplosione e poi,
seguendo una malferma fune metallica dispiegata lungo la
cresta, mi inerpicai su su fino alle croci poste sulla cima del
Lana, resa tozza anch’essa nel 1916 da oltre cinque ton-
nellate di esplosivo. Per un po’, tutto solo, gironzolai su
quel cocuzzolo, fotografando la cappelletta, un bivacco
8
allestito dagli Alpini, l’obelisco eretto affinché si serbasse
memoria dell’insensatezza della guerra e tutti i magnifici
panorami che potei godere da lassù.
Avevo appena intrapreso la via del ritorno quando giù,
lungo il fianco ripido della montagna, un riverbero del sole
incerto di quel mattino richiamò la mia attenzione. Dal
terreno affiorava infatti un oggetto, verosimilmente di
metallo: un residuato bellico, riportato alla luce dal tardivo
disgelo dell’inverno più nevoso degli ultimi trent’anni,
oppure una moderna lattina gettata da un escursionista
incivile? Incuriosito, mollai il cavo e discesi con cautela il
pendio; tra le mani mi ritrovai così un astuccio ossidato,
che faticai a schiudere: al suo interno una vecchissima stilo-
grafica, alcuni pennini e un foglio accuratamente ripiegato
ma molto ingiallito, che apersi con estrema delicatezza
temendo che potesse andare in mille pezzi. Guardai la
prima riga (Sabato, 12 maggio 1917 ) ed ebbi un sussulto.
Poi - a fatica, poiché sbiadito dal tempo - lessi il resto.
Mia adorata,
più non ti angustierò con pensieri foschi come feci
- senza sul momento avvedermene - nell’ultima mia, che fu
dettata dai patimenti per il gelo e specialmente dal
turbamento per la morte del caro capitano Silvestri.
Oggi - finalmente! - il sole illumina le trincee: si sono
scaldati anche i cuori, perché le armi tacciono. Posso
dunque abbandonarmi alla contemplazione della Marmo-
lada, del Sella e - volgendo gli occhi dall’altra parte - del
Civetta: nonostante la guerra, mi è davvero impossibile
9
avere in odio tanta superba bellezza! All’opposto, un
tale Paradiso - nel quale gli scoppi appaiono ancor più
sacrilegio - insegna ad amare il mondo come mai: così è con
una nuova, immensa tenerezza nel cuore che si guarda un
fiore fare capolino tra i sassi o si accarezza “Lampo” (così lo
abbiamo battezzato!), il cane vagabondo e spaurito che
trovò rifugio da noi un paio di mesi or sono (e che
qualcuno, per lenire per una giornata i morsi della fame,
invece aspira a mangiare!).
Pure in tempo di pace, tenere di più a mente che un
giorno non ci saremo più gioverebbe a sgombrare la nostra
esistenza dalle futilità, le inutili rabbie e le meschine in-
vidie di cui essa è zeppa e a vivere invece con pienezza le
cose davvero importanti, che sono poi poche ed ovvie.
Conquisteremmo la serenità, che è somma ricchezza! Non
credi anche tu, cara?
Dopo la guerra, allorquando la memoria di essa mi sarà
forse divenuta un po’ meno dolorosa, chissà, potrei
immaginare di affittare camera, in estate, nel piccolo paese
di Corvara e condurre te e la nostra piccola Elisa a vedere
questi luoghi pur tuttavia deliziosissimi: te ne innamo-
reresti subito, ne sono certo (e io diventerei un po’ geloso di
loro).
Nel frattempo, insegna fin d’ora alla bambina ad
inseguire con tutte le proprie forze i suoi sogni: se li
realizzerà sarà assolutamente felice; nel caso invece non
riuscisse, dopo i suoi giorni non sarebbero comunque
avvelenati dal rimpianto di non averne avuto l’audacia.
10
Ora ti devo ahimè lasciare, perché ho da svolgere un giro
d’ispezione. Attendo con ansia Vostre notizie. Un bacio.
Sempre tuo,
Alberto
Quella lettera non era mai partita, dunque il soldato che
l’aveva scritta probabilmente era rimasto ucciso: in quale
punto del monte - mi chiesi guardando intorno - e come? E
cosa ne era stato della sua famiglia? La figlia aveva poi
avuto una vita felice? Scavai lì stesso una buca con il
pugnale che trasportavo nello zaino e vi seppellii dentro il
ritrovamento: era giusto che quella manifestazione d’amore
restasse per sempre dove si era manifestata.
Una girandola di pensieri mi accompagnò lungo tutto il
tragitto di ritorno, fatto sotto una pioggia battente. Non
appena fui a casa, cercai mia moglie e l’abbracciai forte.
11
Anurag, il fuggiasco
Delle mille straordinarie vicende nelle quali mi sono
imbattuto nel corso del mio lungo vagabondare per il
mondo, quella che più soventemente riaffiora alla mia
mente - e che ora vi narrerò - ebbe inizio nel lontanissimo
“Shan-Yul”.
Correva l’Anno del Cervo. A quell’epoca ero giovane, nel
pieno del vigore, e tuttavia dopo tre mesi ininterrotti di
viaggio attraverso le mastodontiche Montagne delle Grandi
Scimmie non potevo non accusare la stanchezza. Così un
mattino, abbandonatomi sulla soffice erba d’un prato,
lasciavo che i raggi del sole mi ritemprassero; la caval-
catura, un po’ più in là, si dissetava ad un ruscello il cui
scrosciare arrivava alle mie orecchie dolce come una
melodia.
Il nitrito d’allarme dell’animale d’un tratto mi scosse dal
torpore in cui mi ero lasciato scivolare (abbassando così la
guardia), ma ormai era troppo tardi: qualsiasi mia reazione
avrebbe cozzato contro le lance che mi venivano puntate
sul petto. Mentre attendevo che da un’istante all’altro le
12
lame dei miei implacabili inseguitori affondassero nelle mie
carni, una voce interrogò: “Cosa ci fai tu qui? Non sai che
agli stranieri è proibito avventurarsi nel Shan-Yul?”.
La Terra del Leopardo Bianco! Non immaginavo di
essermi spinto tanto oltre nella mia fuga… Dunque non si
trattava di coloro che avevo temuto; ciononostante quegli
sconosciuti, che il sole mi impediva di vedere in viso, non
sembravano meno ostili. “Avanti, rispondi!” - intimò la
medesima ombra mentre le punte delle lance davano
sostegno alla richiesta premendo forte sulle mie costole.
“Perdonatemi, ma tale divieto non mi era noto” - dissi -
“Comunque, quale Cavaliere della Sacra Confederazione,
sono affrancato dal rispetto di qualsiasi frontiera; vi prego
dunque di ritrarre le vostre armi e di lasciarmi libero di
andare: ho ancora molta strada da fare”.
Me le aste non si scostarono.
“A giudicare dalle vostre vesti, forestiero”- riprese dopo
un attento esame la voce di quello che doveva essere il capo
della pattuglia - “si direbbe che quanto affermate d’essere
corrisponda a verità; ma di questi tempi abbiamo motivo di
dubitare di chiunque. Vi scorteremo pertanto alla fortezza.
Là avremo modo di sincerarci della vostra buona fede, nel
qual caso potrete riprendere immediatamente il vostro
viaggio; diversamente, esso avrà termine per sempre: per i
comuni trasgressori la pena infatti è la morte. Intanto vi
prego di consegnarmi la vostra spada”.
Mi fu permesso di recuperare le mie poche altre cose e,
attorniato dai soldati, dovetti cavalcare per quattro ore e
più alla volta dell’Hatha Dzong - la “Fortezza del Sole e
13
della Luna” - attraverso risaie inaridite e villaggi
abbandonati, senza incontrare anima viva. I volti inquieti
dei miei guardiani tradivano una gran fretta di giungere a
destinazione; a ciò non prestai comunque molta attenzione,
preso com’ero dal pensiero che quel contrattempo poteva
tornare a vantaggio dei miei ex confratelli i quali sapevo
sguinzagliati come lupi famelici sulle mie tracce. Solo il
trambusto all’interno dello Dzong, allorché ne varcammo i
sorvegliatissimi portali, mi distolse dalle mie preoc-
cupazioni: era un andirivieni di uomini in armi, un traffico
ingovernato di buoi che spostavano carri rigurgitanti
cadaveri e un affannarsi di donne intorno ai moribondi che
gemevano ammassati agli angoli del vasto cortile; questo
era annebbiato e reso ancor più tetro dai vapori che
turbinavano dai pentoloni approntati qua e là per sfamare i
vivi, i quali - scheletrici com’erano - somigliavano però più
a fantasmi. Il lezzo di una tale moltitudine si aggiungeva al
puzzo delle immondizie e degli escrementi disseminati
ovunque, in una mistura terribile che rendeva inutile
l’incenso bruciato in gran quantità dai Lama e che pro-
vocava conati di vomito in coloro che, come me freschi del
luogo, non avevano ancora il naso e la vista abituati a tanto
disgusto. Eppure quel gigantesco letamaio doveva apparire
un luogo di salvezza per la fiumana di disgraziati che, dietro
noi, seguitava a riversarsi dentro lo Dzong...
“Non sapevo che il Shan-Yul fosse in guerra. Chi è il
vostro nemico?” - domandai al capitano della scorta.
“Il Demonio!” - fu la sua risposta.
14
***
“Ora che abbiamo visto l’emblema dell’Ordine dei
Cavalieri della Sacra Confederazione” - deglutì l’obeso
monaco mal celando lo schifo per la figura del falco
impressa a fuoco sulla mia spalla destra - “e siamo pertanto
certi del vostro rango, vogliate accettare le nostre più
profonde scuse e il nostro sincero benvenuto, nobile
signore!”.
“Sì, cavaliere” - sorrise affabilmente l’altro (e più gracile)
lama, mentre con un cenno del capo congedava il capitano
e i suoi uomini - “Ci dispiace di avervi arrecato fastidio con
la nostra ispezione, ma certamente capirete: siamo in
guerra, e contro il più temibile degli avversari, in quanto
invisibile…”. Entrambi i miei interlocutori erano avvolti da
una grande stoffa color amaranto, avevano i capelli rasi e i
piedi scalzi.
“Un nemico contro il quale ci servono uomini di grande
esperienza” - riprese a parlare quello grasso - “Come lo sono
i Cavalieri della Confederazione. Siamo dunque stati
incaricati dal santo Je-Khempo, voce dell’Illuminato, di
pregarvi di volere aiutare i nostri migliori guerrieri in una
spedizione di capitale importanza per le sorti del
Shan-Yul”.
Una richiesta, nel mio caso, da respingere
immediatamente. “Sono commosso dalla vostra
considerazione” - risposi, mentre seminudo al centro della
gelida sala riprendevo possesso degli indumenti sfilatimi
15
per la verifica della mia identità - “Purtroppo non potrò
godere dell’onore offertomi: la mia via conduce altrove e mi
attende impaziente. Sono sicuro che il Supremo Lama
troverà un’altro e più valido appoggio all’importante
missione”.
I due dovevano evidentemente essere convinti di
ricevere una risposta ben diversa, poiché il mio no li
sorprese. “Ma non potete rifiutarvi!” - proruppe infatti
risentito quello mingherlino - “Quando riceveste il marchio
del falco giuraste che avreste servito il Bene al di sopra
d’ogni cosa!”.
“Il Bene? Beh, ho fatto ampia esperienza che esso è una
cosa piuttosto soggettiva e mutevole: per lo più combacia
con il tornaconto!”.
“Voi non sapete quel che dite!” - alzò la voce il monaco
corpulento.
“Voi bestemmiate!” - gli fece eco l’altro, indignato.
“In ogni caso il cosiddetto Bene mi chiama altrove!”
- tagliai corto io, finendo di rivestirmi.
“Cavaliere, qui il Male ha gettato in campo tutte le sue
forze. All’interno dei nostri confini è in atto lo scontro
finale tra la Luce e le Tenebre, tra la Vita e la Morte: se la
Terra del Leopardo Bianco - dove l’Illuminato si è
manifestato - soccomberà, il mondo intero avrà poi presto
fine. La vostra presenza è necessaria qua più che altrove!”.
“Vi ripeto che la vostra stima di me è fuori misura”.
“…Eppure un tempo non esistevano parole per
descrivere la generosità di un guerriero della Confede-
razione” - commentò alle mie spalle, ferma e profonda, una
16
nuova voce. I due monaci si piegarono immediatamente in
un profondo inchino a mani giunte; mi voltai e vidi una
figura allampanata dentro una lunga tonaca gialla: gli
sgradevoli lineamenti di quel volto, sul quale si disegnava
un sorriso falsamente benevolo, tradivano un’anima astuta
e doppia. Abbassai comunque lievemente il capo in segno
di omaggio.
“Sapevo che per convincervi a prendere parte alla nostra
causa sarebbe stato alla fine necessario il mio intervento”
- proseguì, facendo segno agli incapaci sottoposti di lasciare
immediatamente la stanza (i due, profondendosi in lunghe
riverenze, si ritirarono umiliati). Compresi che si trattava
del Je-Khempo, il sommo sacerdote.
“Siete davvero così certo” - gli domandai quando fummo
soli - “di riuscire dove i vostri monaci hanno fallito?”.
“Oh, sì” - rispose il calvo prelato - “Non potete restare
insensibile all’appello che vi viene dallo stesso rappresen-
tante dell’Illuminato!”.
“Visto che origliavate alla porta, allora saprete che mi
attende cosa molto urgente”, replicai brusco (ulteriori
lungaggini avrebbero infatti potuto rivelarsi per me
pericolose). “Perdonatemi dunque se mi congedo dalla
Vostra Superba Persona”. E dopo aver recuperato la spada e
ossequiato con un salamelecco, mi diressi verso una delle
uscite della sala.
“Credo che vi convenga rimandare l’impegno che dite
attendervi fuori di qui, dato che si tratta… della forca!”.
Mi bloccai sull’uscio, col sangue raggelato.
“Vi starete certo domandando, nobile Anurag, come
17
abbia fatto a smascherarvi” - ricominciò quello con una
nota di perverso divertimento nella voce - “Dovete allora
sapere che gli uomini lanciati al vostro inseguimento per
farvi pagare il tradimento da voi perpetrato - come vedete,
sono ben informato - hanno perso le vostre tracce; così, per
acciuffarvi, settimane addietro essi hanno inviato in volo
colombi a tutti i Paesi aderenti alla Santa Congregazione,
con legato alla zampa il comando di trattenere i pellegrini
corrispondenti alla descrizione fornita fintanto che quelli
non fossero arrivati per identificarli. Io ho ignorato la ri-
chiesta, avendo ben altra sciagura di cui occuparmi; quando
dalla torre vi ho però visto fare ingresso nello Dzong
scortato dagli armigeri non ho avuto dubbi: il ritratto del
traditore vi calzava a pennello. Tuttavia alla riconoscenza
del re di Kodagar e del Gran Maestro dei Cavalieri della
Confederazione ho subito preferito l’opportunità di sfrut-
tare il vostro famoso talento: in breve, se voi ci aiuterete io
eviterò di segnalare la vostra presenza qui a coloro che
tanto vi desiderano morto; anzi, se riuscirete nel compito
proporrò che il vostro caso venga rivisto. Allora, qual’è la
vostra ultima parola?”-concluse iniziando a girarmi intorno
con le braccia intrecciate dietro la schiena.
“Potrei uccidervi e fuggire ancora”.
“La sala è circondata da numerosi soldati con ordini ben
precisi”.
“Dunque non mi lasciate scelta…”.
“Eccellente!” - sorrise il Je-Khempo, già certo dell’esito di
quella discussione - “La spedizione a cui vi unirete muoverà
tra due giorni. Ora vi accompagneranno alla vostra stanza,
18
affinché vi possiate rinfrescare e riposare; tutto è già stato
predisposto per il vostro piacere: questa notte riceverete la
visita di una bella… signora. Ah, dimenticavo: i vostri
movimenti saranno naturalmente oggetto delle nostre
“attenzioni”.
“Non ne dubitavo. Una cosa tengo però a dirvi: io non
sono il traditore che si racconta”.
“Lo so bene, mio caro Anurag, ma mi è utile unirmi al
coro di chi invece lo crede”. Quindi si allontanò e nella sala
comparve l’inserviente al quale ero stato affidato.
***
La gelosia può rendere un uomo abietto: era così
accaduto che, essendo i bellissimi occhi verdi della prin-
cipessa Alisha e gli apprezzamenti di suo padre (il sovrano
di Kodagar, al cui servizio ero stato inviato dal Gran
Maestro) rivolti a me anziché al generale Sukumar,
quest’ultimo aveva macchinato un inganno per sgombrare
il campo alle proprie ambizioni: in qualche modo aveva
sottratto delle gemme rare dall’alloggio della principessa,
facendole poi rinvenire dalle guardie dentro il mio
guanciale durante la perquisizione di ogni angolo del
castello ordinata immediatamente dopo la scoperta del
furto. Avevo compreso il suo disegno dalla risata beffarda
alla quale si era lasciato andare mentre comandava il mio
arresto agli sgherri che lo accompagnavano; ero ancora un
giovane irruento e così il mio sbaglio fu di estrarre il
19
pugnale dalla cintura e di avventarmi furibondo su di lui,
colpendolo a morte: se quello pagò la sua malevolenza, io
però - uccidendolo - agli occhi di tutti avevo come firmato
una confessione. Ladro, assassino e traditore degli ideali
della Confederazione sui quali avevo giurato: da allora non
mi era rimasta che la fuga.
Nel giudizio del Je-Khempo il mio arrivo, da ultimo, nel
Shan-Yul era stato voluto dalla Provvidenza: la mia com-
provata abilità nel nascondermi sarebbe infatti potuta
tornare utile per scovare, viceversa, l’eremita che si diceva
avrebbe potuto salvare il Paese.
Namgyal, il comandante della spedizione (dieci soldati
più io), dopo la nostra partenza mi spiegò che il flagello che
aveva colpito la Terra del Leopardo Bianco aveva avuto
inizio alla grande fiera che una volta all’anno si teneva fuori
le poderose mura dello Dzong, richiamando da ogni angolo
del Paese molti mercanti e una gran folla di compratori. A
smerciare succulenta polpa di yak aromatizzata con spezie
piccanti era giunto da non si sa quale remota contrada
anche un nuovo venditore, assai abile nel richiamare
clienti; costui era in realtà un emissario di Ratnakar, il
Signore delle Tenebre al servizio di Kàla (il Dio del Tempo
e della Morte, acerrimo nemico dell’Illuminato): quelle
carni erano state sapientemente infettate, facendo esplo-
dere di lì a pochi giorni un male oscuro e contagioso in
ciascuno dei villaggi in cui esse erano state infine con-
sumate.
L’epidemia era dilagata; i lama, depositari della sapienza
medica, si erano rivelati incapaci di contrastarla. Il mi-
20
sterioso morbo disfaceva il cervello: taluni sfuggivano allo
strazio uccidendosi; gli altri, meno lesti, prima di morire
sprofondavano invece nella follia, spesso sguazzando nelle
più torbide depravazioni. Ratnakar intanto attendeva
pazientemente che la devastazione così scatenata giungesse
a pieno compimento, per potere poi fare invadere con fa-
cilità dai suoi scherani quell’immenso dominio ormai privo
finanche di esercito.
Alcuni monaci avevano però informato il Je-Khempo
che anni prima un loro confratello di nome Songtesen,
mentre attraversava una terra di miscredenti, era caduto
vittima di un male analogo, ritrovando però poi il senno
grazie - si vociferava - ad un intruglio di erbe; dopodiché il
miracolato aveva dismesso la tonaca e, rifiutato il mondo, si
era ritirato in un luogo sconosciuto. Trovare costui e farsi
rivelare il rimedio: questo, appunto, il compito affidato alla
spedizione.
Le speranze riposte in me dal Je-Khempo non rimasero
deluse: combinando gli indizi raccolti nei villaggi o di
pastore in pastore, e discernendo in base all’esperienza
acquisita da fuggiasco le notizie verosimili dalle pure
fantasie, non mi fu in effetti troppo difficile individuare il
nascondiglio del quale eravamo alla ricerca: un convento
abbandonato sulla Montagna della Sorte.
Alta e cupa, quest’ultima era annegata nella nebbia
quando - tormentati dalla pioggia - giungemmo ai suoi
piedi.
“Eccolo, lassù!”, grido d’un tratto uno dei soldati: uno
strappo nella foschia lasciò intravedere un palazzo in rovina
21
appuntato, come per magia, ad una spaventosa parete ver-
ticale; un attimo dopo un’ondata di vapore lo nascose di
nuovo alla vista.
“Finalmente!” - sospirò Namgyal - “L’eremita ci salverà
tutti!”.
Smontati dai cavalli, ci addentrammo a piedi nella fitta
foresta e imboccammo il sentiero che portava su in alto;
risalirlo costò ore di tremenda fatica: il peso delle armi ci
affondava le gambe nel fango, e i cuori battevano dentro i
petti come impazziti; da sopra frotte di corvi ci sorve-
gliavano torturando le nostre orecchie con il loro gracchio
rauco e cadenzato. Poi con passo cauto superammo indenni
il sottilissimo, interminabile camminamento scavato da
mani misteriose lungo la liscia parete senza fondo e infine,
dopo una breve arrampicata tra grossi sbalzi di roccia, fum-
mo all’ingresso della fatiscente costruzione.
Dentro dovemmo improvvisare delle torce. Fu un susse-
guirsi di sale polverose e drappeggiate di ragnatele, e
oramai prossime al crollo; il tanfo mozzava il respiro. Poi,
nell’ultima stanza (l’unica rischiarata da dei bracieri),
seduto per terra trovammo un vecchio intento a scrivere
qualcosa; egli non si curò minimamente dell’intrusione
degli uomini armati - che eppure per lui avrebbe dovuto
rappresentare un evento straordinario - e seguitò
imperterrito a consumare inchiostro su inchiostro; i nostri
ripetuti ossequi caddero nel vuoto e, soprattutto, le nostre
ansiose domande dovettero attendere parecchio prima di
ottenere la considerazione dell’anziano.
22
“Nobili cavalieri” - parlò con malcelato fastidio
l’eremita - “la malattia della quale mi riferite e che, sì, io
ho conosciuto, è davvero terribile, perché il suo principio
muta continuamente: così l’infuso che ha purgato il mio
sangue - e che voi ora pretendete di conoscere - può
all’opposto avvelenare ancora di più quello d’altri…”.
“Voi comunque rivelateci la cura” - insistette Namgyal.
“In realtà io ignoro la formula della medicina che mi fu
somministrata dai maghi di Rangarpur”.
Rangarpur! La città che antiche leggende narravano
sperduta, e cionondimeno sfarzosissima, tra le sabbie infuo-
cate del Tejasthal, lo sconfinato deserto a nord delle ultime
contrade calpestate dai pastori nomadi! Nessuno dei
temerari che si erano avventurati là aveva mai fatto ritorno:
si credeva che esso fosse popolato da demoni e per questo
era proibito; e ogni uomo assennato dubitava fortemente
dell’esistenza, laggiù, di una prospera acropoli. Ma ora
quell’eremita giurava di averla visitata innumerevoli volte,
per filosofeggiare con i suoi sacerdoti.
“Stento a crederti, vecchio “ - replicò Namgyal - “Ad
ogni modo, indicaci la via per raggiungerla”.
“Oltrepassate i Monti Narayani, quindi inoltratevi nel
deserto - con lo sguardo fisso a nord - per due giorni; dalla
terza alba in poi cavalcate invece sempre sulla scia del sole:
come per mano, esso vi condurrà a destinazione”.
“Ma dopo aver girato le briglie ad ovest, precisamente
quanto tempo ancora occorrerà per vedere i bastioni di
Rangarpur?”.
23
“Tre, quattro giorni… forse un anno… forse può non
bastare una vita intera”.
“Ti prendi gioco di me, vecchio? Piuttosto dimmi: la città
è protetta soltanto da mura, o anche da fossati?”.
“Chi può dirlo? Essa si mostra a ciascuno in una forma
diversa; molti, poi, neppure riescono a vederla”.
“Che storia è mai questa? Tu sei pazzo!” - gridò il
capitano.
“Ho esaudito ogni tua domanda, guerriero; ora non mi
resta che pregare l’Illuminato affinché vi sorregga nel
vostro compito” - troncò il colloquio l’eremita,
accomiatandosi dagli indesiderati visitatori con un inchino
meramente formale; quindi, voltateci le spalle, riprese a
ricamare d’inchiostro le sue pergamene.
Namgyal si sentì oltraggiato da tale comportamento ed
intimò a gran voce all’eremita di offrire le proprie scuse;
non ricevendo però da questi alcuna considerazione, in uno
scoppio incontrollato di collera sfoderò la spada e con essa
lo trafisse da parte a parte; con grande sbigottimento di
tutti, quel vecchio irriverente non patì però alcun danno: si
girò e scoppiò in un riso fragoroso che, propagandosi di sala
in sala, riecheggiò a lungo nel monastero.
“Questa è stregoneria!” - balbettò Namgyal. Mentre
indietreggiava spaventato la sua lama urtò uno degli alti
bracieri, il quale si abbatté su una pila di manoscritti che
prese immediatamente fuoco; da lì scintille incandescenti
schizzarono leste sulle cataste affianco, e in men che non si
dica il locale si tramutò in un rogo e lo sghignazzio
dell’eremita in un urlo di cupa disperazione: infatti, mano a
24
mano che le carte che aveva compilato durante il lungo
distacco dal mondo si incenerivano, il suo corpo si
disfaceva, evaporando, finché di lui non restò nell’aria che
un ultimo, breve lamento strozzato.
Confusi da quei sortilegi e ormai toccati dalle fiamme,
fuggimmo precipitosamente dal convento; quando, rag-
giunti finalmente i cavalli, volgemmo lo sguardo verso
l’alto, di esso non rimaneva che un cumulo di sassi fumanti.
Quella sera nessuno di noi parlò.
***
Dopo avere risalito per tre giorni il boscoso versante
meridionale della catena dei Narayani giungemmo sul
Kesendirian-La, il “Passo della Solitudine”. Dabbasso si
estendeva ora un rosso, arido oceano di sassi e sabbia di cui
non si riusciva a scorgere la fine: a quella vista inquietante
anche i più allegri fra noi ammutolirono. Prima di iniziare
la lunga discesa verso quell’orrenda landa arroventata
Namgyal ordinò di legare ai rami di un albero le sete zeppe
di preghiere scritte affidategli dai lama dello Dzong: i venti
delle montagne avrebbero rapidamente stinto quelle sup-
pliche, portandole su fino agli dei affinché questi le acco-
gliessero e proteggessero così la spedizione; dopodiché i
soldati si sedettero intorno alla pianta e trascorsero qualche
tempo a recitare sommessi mantra. Io me ne stetti da parte,
pensando ad altro…
25
***
Era da una settimana ormai che ci addentravamo nel
Tejasthal, il quale s’era fatto via via sempre più sabbioso ed
estenuante; quel settimo dì il sole aveva raggiunto il suo
punto più alto e intorpidiva le nostre facoltà mentre proce-
devamo lentamente in colonna, quando all’improvviso
Namgyal si mise a gridare. “Rangarpur, Rangarpur!” -
ripeteva, contagiando d’eccitazione la propria cavalcatura
che rizzata sulle zampe posteriori nitriva smodata, e
indicando con insistenza ai compagni un punto lontano
all’orizzonte, un po’ più a nord rispetto alla nostra direttrice
di marcia. Per quanto, riparandoli con la mano dalla luce
accecante, stringessimo gli occhi per allungare la vista, sia
io che gli altri tuttavia non scorgemmo nient’altro che dune
tremule dentro l’etere rovente.
“Com’è possibile che non riusciate a vedere una fortezza
tanto possente, e torri così alte?” - si meravigliò Namgyal -
“Non sentite lo squillo delle trombe? Probabilmente le
vedette hanno avvistato la polvere sollevata dai nostri
cavalli!”,
“Temo che tu sia vittima di un miraggio” - cercai di
persuaderlo.
“Io invece credo che i bagliori del deserto abbiano
guastato la vista di tutti voi!” - insistette quello -
“Comunque potremo facilmente scoprire se io sono oppure
no un visionario portandoci più a ridosso di quella che tu,
presuntuoso straniero, sostieni essere una fantasticheria”
- aggiunse con tono provocatorio. “Dunque avanti!”,
26
comandò poi, lanciando il cavallo in una ardua e folle corsa
tra i dossi sabbiosi. Obbedendo al proprio capitano, gli altri
spronarono anch’essi le bestie; ed io mossi appresso a loro,
non potendo certo concedermi il lusso di rimanere laggiù
da solo.
Masticando polvere cavalcavamo un centinaio di metri
più indietro dell’ufficiale - che intanto sbraitava di vedere
già le cancellate della città - allorché d’un tratto lo
vedemmo sprofondare insieme al suo destriero nella sabbia:
un enorme gorgo si era improvvisamente animato sotto di
loro e in pochi attimi essi vennero inghiottiti dal deserto. I
nostri cavalli si inchiodarono, presi come noi dal terrore:
nitrivano e scalciavano furiosamente, alla fine ci disarcio-
narono e fuggirono in ogni direzione, verso il Nulla, abban-
donandoci alla nostra sorte.
Dopo la disperazione iniziale, pian piano riacquistammo
il controllo di noi stessi; fu fatto il punto della situazione e
tutti convenimmo che senza più acqua né cibo - finiti
chissà dove, legati alle selle - sarebbe stato insensato tentare
a piedi la via del ritorno: la distanza che ci separava dai
Monti Narayani era ormai troppo grande, sole e sabbia ci
avrebbero uccisi ben prima di poterli intravedere.
Non ci restava che la fragile speranza di un’oasi, più
avanti. Ci liberammo d’ogni bardatura conservando unica-
mente la spada, aggirammo il punto - tornato quieto - in cui
il povero Namgyal era stato risucchiato e riprendemmo il
cammino verso occidente, con l’assillo (o forse l’augurio) di
incappare anche noi nelle sabbie mobili.
27
Con sofferenze che mi è impossibile descrivere ci
spingemmo tra le dune per alcuni dì ancora, lottando stre-
nuamente per sopravvivere all’arsura del giorno e al gelo
della notte; poi poco a poco il suolo si fece più compatto e
infine ci trovammo ad avanzare - per un tempo che non so
calcolare per via dello stato di semi incoscienza in cui ero
scivolato - in una pianura pietrosa e senza visibile termine.
Anche questa nuova desolazione non conosceva una sola
pozzanghera, radice o preda animale: i più prostrati
(quattro) caddero, per non rialzarsi più; i superstiti non
poterono che lasciarli al loro destino, trascinandosi poi in
avanti per una, forse due albe ancora. Finché qualcuno non
strillò di nuovo: “Rangarpur, Rangarpur!”.
Scrutai l’orizzonte, ma non vidi nulla. Eppure gli altri
cinque mi giuravano - tutti - di vederla davvero, questa
volta: una poderosa cittadella, laggiù, sulla sommità di un
isolato picco roccioso! Sforzai ancora gli occhi bruciati e
doloranti, ma invano. Intanto i miei compagni con le
ultime forze loro rimaste già arrancavano verso il castello
strepitando con voci roche e agitando le braccia per aria nel
tentativo di richiamare l’attenzione ed il soccorso di quanti
dovevano essere lì di guardia; ed io, ancora immobile e
dubbioso, dovetti assistere - inorridito - al ripetersi del
maleficio: il cielo fu percosso da un boato spaventoso e
subito dopo la terra iniziò a tremare furiosamente
spalancando una gigantesca voragine dentro la quale, uno
dietro l’altro, tutti quegli sventurati precipitarono senza
emettere un solo lamento, come muti. Venni scaraventato a
terra e, picchiando il capo contro un sasso, persi i sensi;
28
della fortezza, se mai era veramente esistita, di certo non
restava più nulla.
***
Durante quella specie di sonno un frammento di me
rimasto comunque ancora vigile ebbe come la sensazione di
volare giù lungo un pozzo senza fondo. Quando finalmente
mi riebbi ci volle un po’ prima che mi rendessi conto di
trovarmi in un luogo diverso, ma non meno desolato: me ne
stavo seduto in una immensa distesa di melma grigia che
ribolliva qua e là e dalla quale esalavano odori nauseabondi
che si condensavano poi in una sottile coltre di nebbia;
tutt’intorno si intravedevano, affogate nel fango, spoglie
d’alberi inceneriti dalle saette e carcasse putrefatte di bestie
sconosciute: non fu facile abituare i polmoni a tanto fetore.
Tiratomi su, iniziai a vagare affannosamente per quella
palude, talvolta sprofondando fino alla cintola, alla vana
ricerca di una sponda, mentre dentro cercavo di frenare
l’angoscia che andava assalendomi.
D’improvviso, alle mie spalle, risuonò una lunga e sorda
risata. Mi voltai e vidi, offuscata a tratti dai vapori, la figura
di un imponente cavaliere dall’armatura nera, il cui volto si
celava dietro la visiera di un elmo anch’esso del colore della
notte e sormontato dall’effige del dio Kàla. Mi avvicinai con
circospezione al misterioso guerriero, ora silenzioso e
immobile nel fango; tra le mani egli teneva, puntata contro
di me, una spada che riluceva sinistramente.
29
“Chi siete, cavaliere?” - gli domandai, sguainando
comunque anch’io la mia arma.
“Mi chiamano Ratnakar”.
Era dunque lui, il Signore delle Tenebre! “Cosa volete da
me?” - chiesi trasecolato.
“La tua vita!”.
“Ditemi il perché! Vi ho forse arrecato in qualche modo
offesa?”.
“Tu hai osato intralciare il supremo disegno di Kàla”.
“Non posso essergli stato d’ostacolo: non ho trovato
Rangarpur”.
“Oh, Rangarpur…” - prese a ridacchiare quello.
“Non esiste, vero? Come pure il siero miracoloso… Già...
In verità l’avevo sospettato…”.
“Per questo ora ti trovi qui. L’eremita e i tuoi ultimi
compagni, al pari di quasi tutti gli umani, sono invece finiti
vittime delle menzogne in cui hanno creduto, o voluto
credere: per vivere l’uomo ha bisogno di illusioni. Noi due,
però, non abbiamo miti: siamo simili, io e te”.
“Io non sono come voi!”.
“Dunque non comprendi? Sei in questo luogo proprio
perché anche tu stai per raggiungere la Consapevolezza: è
essa la formula che vai ricercando! Ma non l’avrai: il mondo
degli umani è oramai vicino alla sua fine, se tu giungessi
alla Verità e tornassi indietro a divulgarla potresti ancora
salvarlo, e io avrei fallito! Perciò devi morire. Ora!”. E così
dicendo si scagliò contro di me.
30
***
Fu uno scontro tra pari abilità, che si protrasse a lungo; il
fango si rimestava sotto le nostre mosse spandendo miasmi
ancora più velenosi che bruciavano gli occhi e la gola,
mentre una folla di avvoltoi assisteva al duello accomodata
sui rami rinsecchiti sparsi dattorno, schiamazzando ad ogni
incrociarsi delle lame. Nell’aria risonavano boati lontani,
mentre misteriosi scintillii, crepitando, illuminavano a
tratti la plumbea palude.
Allorché venni ferito sia pure superficialmente ad un
braccio capii che non combattevamo però ad armi pari: il
ferro dell’avversario doveva infatti essere stato intinto in
qualche droga, perché nel volgere di pochi istanti le forze
mi abbandonarono; mi afflosciai sulle ginocchia, mentre
nelle vene sentivo dilagare un senso di delusione.
Ritto innanzi a me, il cavaliere nero mi derideva mentre
- ormai inerte - attendevo il colpo mortale. Si era adesso
impadronito di me uno stato d’animo dapprima di noia e
poi di disgusto per la vita che stavo per lasciare: pregai
Ratnakar di finirmi immediatamente. Lui smise di ghignare
e nello stordimento lo vidi sollevare la lama alta nell’aria,
pronta ad abbattersi brutalmente sulla mia nuca.
Non so come accadde: un anelito di vita evidentemente
trascurato dal veleno mi guizzò fuori dal cuore e corse fino
alle mani che ancora impugnavano la spada, la quale
d’improvviso scattò verso l’alto trapassando così la corazza
nemica. Non un gemito fuoriuscì da essa: solo sangue, che
31
scivolando copioso e veloce lungo l’arma conficcata mi
inondò i polsi. Le braccia del cavaliere nero, ancora drizzate
in alto, si irrigidirono, lasciando cadere poi giù la spada; io
mollai la presa sulla mia, infilzata dentro quel corpo
divenuto di pietra che alla fine si abbatté all’indietro
affondando con un tonfo sordo nel fango.
Volli allora vedere il volto di colui che aveva bramato di
essere il mio carnefice. Ma quale fu il mio sgomento
allorché, strappatogli via l’elmo, dentro quell’armatura io
vidi me stesso, fissarmi con occhi vitrei! Sconvolto, scappai
via iniziando a vagabondare senza scopo per la laguna
maledetta, finché questa volta non toccai una riva sulla
quale, stremato, mi accasciai.
Venni trovato, più morto che vivo, da dei pastori sbucati
là chissà come, i quali mi legarono prono sul dorso di uno
yak e mi portarono al loro accampamento, dove mi guari-
rono miracolosamente dal letale veleno.
Quando, dopo alcune settimane, fui finalmente in grado
di rimettermi in piedi e uscii dalla tenda che mi ospitava,
restai letteralmente senza fiato: davanti a me, bianco e
immenso contro il cielo azzurro, si ergeva il Chomoananda,
la più alta delle montagne conosciute! Il suo spirito chiamò
il mio cuore: così, non appena fui di nuovo pienamente in
possesso delle mie forze, partii per raggiungerne la cima. E
lassù trovai ciò che Ratnakar voleva proibirmi.
Avevo da pochi giorni fatto ritorno al campo quando nel
mio ricovero irruppero sei uomini che indossavano le
uniformi, impolverate e lacerate da un lunghissimo viaggio,
32
dell’armata di Kodagar. “Finalmente vi abbiamo trovato”
- dissero - “Abbiamo l’ordine di condurvi da re Virendra”.
“Per divertire, immagino, la plebaglia annoiata con una
bella impiccagione!” - commentai io sarcastico - “E così sia:
sono stanco di fuggire…”.
“Non vi sarà alcuna esecuzione, prode Anurag” - chiarì
uno di quelli, chinando rispettosamente il capo - “Il vostro
caso è stato rivisto”.
***
La sala reale mi apparve cambiata dall’ultima volta che
l’avevo veduta, alcuni anni prima; in effetti sembrava
riadattata per ospitare un’importante cerimonia. Quando
fui al cospetto di Sua Maestà feci per inginocchiarmi
riverentemente, ma egli con un cenno della mano me lo
proibì; poi, con una smorfia di fatica che tradiva il tempo
accumulatosi sulle sue spalle, si alzò dal trono e mi venne
incontro dispiegando un sorriso paterno, per stringermi
infine forte a sé.
“Anurag, hai salvato il mondo dall’Oscurità! Gli uomini
te ne saranno eternamente grati!”.
Dentro la tenda, in preda alla febbre alta, avevo delirato
per giorni, farfugliando tra mille cose pure parole sul mio
conto e su ciò che era accaduto nella palude; i pastori ave-
vano fatto arrivare quelle importanti notizie a Kodagar
(perciò i soldati questa volta erano riuscito a localizzarmi e
a raggiungermi!) e da lì esse erano poi rimbalzate
dappertutto. L’esercito delle Tenebre, perduto il suo
33
Signore, si era disciolto come neve al sole e nel Shan-Yul
l’epidemia, non più rinfocolata da nuovi untori, pian piano
si era esaurita; ed io, da ladro e assassino, di punto in bianco
mi ero trasformato per tutti in uno straordinario eroe.
“Ti domando perdono per avere dubitato della tua
rettitudine e per aver spinto il Gran Maestro a decretare la
tua caccia, ma a prima vista tutto davvero era contro di te”,
si giustificò il sovrano con tono di sincero rimorso. “E’ stata
mia figlia - oh, lei si è sempre rifiutata di pensarti
colpevole! - a esibirmi trionfante la prova dell’inganno
ordito da Sukumar”.
Appresi così che circa un anno dopo la mia fuga da
Kodagar il fratello di colui che avevo ucciso aveva chiesto
udienza alla principessa per mostrarle una lettera con la
quale lo scellerato generale, in uno sfogo, gli aveva
confidato l’insana gelosia che lo stava consumando nonché
il suo meschino piano di rivalsa; non volendo disonorare la
memoria del congiunto costui aveva taciuto a lungo, poi
però la sua coscienza non aveva più permesso che si
perseguitasse un innocente. Dopo di ciò i miei inseguitori
avevano inteso semplicemente riportarmi con ogni onore
tra i miei pari, ma io non potevo saperlo e così avevo
seguitato a ingegnarmi per restare uccel di bosco (la storia
dei colombi viaggiatori, dunque, era stato un inganno del
Je-Khempo per potermi usare!).
“Lei vorrebbe salutarti, prima di abbandonare il palazzo”
- disse poi Virendra.
Lo guardai con aria interrogativa.
34
“Come, non sai nulla? Fra quattro giorni andrà in sposa
- proprio qui, in questa sala - al re di Sawangal! Su, brinda
anche tu a questa unione che frutterà pace e prosperità a
due popoli a lungo nemici” - continuò il re con voce
festosa, comandando poi ai servitori di portare due calici di
vino. Il mio fu amarissimo: a quella notizia, che mi aveva
gelato il cuore, avrei preferito mille volte la morte con gli
altri nel deserto.
Alisha… Per tutti quegli anni solitari aveva riempito i
miei sogni la notte e occupato i miei pensieri di giorno!
Quando ero arrivato a Kodagar in entrambi era subito
scoppiata la passione, celata tuttavia l’un l’altro e al mondo
(poiché ambedue la sapevamo inaccettabile per i disegni di
corte) ma ugualmente resa manifesta a tutti dai nostri occhi
che si cercavano continuamente per poi fingere di guardare
oltre quando si incrociavano, dal tremore delle nostre
parole nelle conversazioni che si dissimulava nate per caso,
e alla fine confessata da quel “Ti amo!” sussurratoci recipro-
camente all’orecchio al termine del nostro ultimo ballo, la
sera prima della mia inimmaginabile fuga: era stato il
ricordo improvviso di quel magico momento, in realtà, ad
avermi acceso lo sprazzo di vigore che mi aveva salvato dal
Signore delle Tenebre.
Avevo l’animo in subbuglio mentre, accompagnato da
una damigella chiacchierona che tuttavia non ascoltavo,
salivo le scale che conducevano al suo appartamento e che
parevano non volere terminare mai. La trovai seduta presso
il finestrone, col viso illuminato dai raggi del sole che
filtravano attraverso i grandi vetri smerigliati e i lunghi
35
capelli vellutati raccolti in trecce da un’altra ancella devota;
l’aria, nella stanza, profumava di lei.
Nel rivedermi ebbe un sobbalzo di gioia, ma subito si
ricompose; congedata la giovinetta - che uscì dalla stanza
omaggiandomi con un inchino - ella prima d’ogni altra cosa
volle sincerarsi del mio buon stato di salute, quindi mi
invitò a sedere su uno scranno di fronte al suo. La guardavo
completamente disarmato: era diventata, se mai ciò fosse
stato possibile, ancora più bella!
Conservando in principio un certo distacco che mi
disorientò (il suo sentimento si era dunque spento?) mi
chiese dei luoghi lontani e delle genti diverse che, mio
malgrado, avevo conosciuto; volle poi sapere di più sulla
mia salita in cima al Chomoananda: sciogliendosi final-
mente un po’, ascoltò con partecipazione il racconto di
quella ascesa di giorni e giorni dentro la neve, la quale
passo dopo passo mi aveva prosciugato il respiro e le forze,
mentre la mente per il gelo e la sete era andata via via
popolandosi di fantasmi.
“Da lassù ho però poi visto il mondo intero: abban-
donatomi allo stupore, ho riempito la mia anima di bellezza
e provato una pace immensa; e il timore della Morte e del
Nulla è svanito, per sempre. Sono tornato indietro spogliato
d’ogni smania di averi e privilegi, ma gonfio di desiderio di
guardare con uno sguardo nuovo la vita”. Lei vacillò: non
osando con le mani, prese a carezzarmi il volto con gli
occhi, pieni di trasporto e, insieme, di smarrimento. Poi
però si scosse e tornò ad imporsi compostezza.
Mi domandò quindi altre cose ancora, ma nulla su ciò
36
che veramente mi premeva: nulla, cioè, su noi due. Così,
esaurito alla fine ogni spunto di conversazione, nella stanza
scese un imbarazzante silenzio; io d’altronde continuavo a
lanciare occhiate astiose alla veste da sposa in preparazione
in un angolo dell’appartamento.
“ Dunque sarete presto regina…” - ruppi infine gli
indugi.
Lei si alzò in piedi accostandosi alla finestra, guardando
oltre, lontano.
“Siete innamorata di lui?”.
“E’ un uomo gentile. Con il tempo imparerò ad amarlo
pienamente”.
“Non credete affatto a ciò che dite!”.
“Siete uno sfrontato!” - rispose lei stizzita, senza
nemmeno voltarsi.
“No, sono soltanto uno sventurato che vive per voi”.
La sua figura delicata si irrigidì: strinse forte i pugni e
serrò gli occhi, da cui iniziarono a scivolare giù calde
lacrime. “Mio padre desidera, e il mio futuro consorte è
d’accordo, che Voi veniate a Sawangal per assumere il
comando della guarnigione di quel palazzo e servirmi come
guardia personale. Ora io vi prego… vi imploro…”
- continuò tra i primi singhiozzi - “di non accettare questo
privilegio; anzi, vi comando di non oltrepassare mai le fron-
tiere del mio nuovo regno e, infine, di… dimenticarmi!”.
“Al ballo diceste di amarmi!”.
“E dunque?”- ribatté lei con voce sconfortata e risentita
insieme - “Dopo la vostra fuga ho sofferto enormemente;
37
senza più notizie, vi ho infine creduto morto. Le cose han-
no così seguito il loro corso, senza tenere conto dei miei
desideri. E ora voi rispuntate dal nulla e… pretendete forse
che io rifiuti le nozze? Per il nobiluomo a cui sono pro-
messa sarebbe un affronto tale da portare probabilmente ad
una nuova guerra! Per me ormai non è più possibile tornare
indietro, lo capite? Il destino, evidentemente, ci vuole
divisi…”. E per soffocare l’angoscia che era ormai sul punto
di travolgerla, sempre volgendomi le spalle pose brusca-
mente fine all’incontro: “E’ giunto il momento di salutarci,
cavaliere!”.
Io non capivo più nulla, se non che desideravo paz-
zamente di prenderla tra le braccia, e baciarla. Ma ciò
avrebbe reso ancora più insostenibile il male che ci stavamo
infliggendo a vicenda, e così alla fine non mi mossi.
“Sapermi l’artefice della nostra infelicità rimarrà per me il
peggiore dei castighi…” - fui solo capace di bisbigliare.
Lei si girò. “Forse ci incontreremo di nuovo in un’altra
vita” - sorrise triste - “Ora però vai… vai, ti supplico… mio
unico, immenso amore!”.
***
Non tornai dal Gran Maestro e dai cavalieri della Sacra
Confederazione. La mia stella mi condusse altrove, lontano:
attraversai molti altri deserti e nuovi ghiacciai, valicai
scoscese montagne ancora ignote all’uomo, finché non
giunsi qui, a Dalimkot, dove finalmente mi fermai e volli
dimenticare il mio rango e il mio stesso nome per diventare
38
- per tutti coloro che da allora in poi ebbero a conoscermi -
semplicemente il mite Nihar, allevatore di api.
Lo struggimento per Alisha pian piano si è trasformato in
nostalgia e infine, nel crepuscolo della vita, in un dolcis-
simo ricordo: adesso che sono vecchio mi da pace sapere
che, a dispetto del tempo e della lontananza, lei in realtà è
appartenuta, e sempre apparterà, soltanto a me, ed io a lei.
Nell’illusoria ma nondimeno consolante attesa di incon-
trarla davvero di nuovo in un’altra vita.
Ho spesso ripensato anche alla furia di Ratnakar contro
la stirpe degli uomini. Egli era caduto in errore: non avrei
mai potuto salvare gli umani, perché ben pochi fra essi pos-
sono accogliere le verità che appresi sulla cima della grande
montagna; ironia della sorte, fu proprio lui a preservare il
mondo, allorché intese fermarmi trovando invece la morte:
così le fantasie degli uomini poterono rigermogliare, do-
nando loro nuovamente la speranza.
Riflettendo su me stesso, accetto tutto quanto nel bene e
nel male ho voluto o dovuto vivere, poiché mi hanno reso
quel che sono: un uomo, che ora attende con serenità il suo
ultimo giorno. E a voi dico: vivete con intensità e con
amore ogni vostro istante, seppur sapete che d’essi non
resterà nulla. Sarete allora creature degne.
39
Sul Ghiacciaio del Gigante
Fuori, nel buio, il vento ululava rabbioso e gelido. Rinserrai
immediatamente la finestrella della camerata, provando un
avvilente senso di piccolezza, e mi costruìi addosso
un’armatura di indumenti termici; scesi coi compagni in
sala a tracannare due tazzoni di tè bollente e poi - moderno
Don Chisciotte - spalancai l’uscio del rifugio e mi lanciai
per primo nella tormenta, che però nel frattempo era - di
colpo - clamorosamente cessata.
Quella domenica di giugno l’intera penisola sarebbe stata
difatti preda di una eccezionale canicola: sul Ghiacciaio del
Gigante, alle 5,30 del mattino, i miei ramponi calpestavano
neve già mezza frolla e durante la marcia di aggiramento
delle “Aiguilles Marbrées” (che intendevamo salire dal
versante est) dovetti via via aprire ogni possibile cerniera
per evitare di ritrovarmi infine a sguazzare dentro uno
scafandro di sudore (per inciso, ero già alquanto irritato dal
non essere riuscito a chiudere occhio per tutta la notte,
probabilmente per via dello sbalzo di quota).
40
Lo scenario circostante, in compenso, mozzava il respiro
e lungo la salita approfittai di una breve sosta della mia
cordata per voltarmi e divorarlo con gli occhi: sulla destra,
contro il chiarore pallido del sole sorgente, si stagliava
scura la forma di un incredibile pilastro obliquo (il famoso
“Dente del Gigante”); di fronte si estendeva un immenso
anfiteatro bianco tra i cui palchi di picchi aguzzi sedevano
con regalità il Tacul e l'Aiguille du Midi, mentre il
sottostante, ondulato oceano di neve si colorava d’arancio
laddove arrivavano - filtrando attraverso i varchi delle
montagne - i primi raggi del mattino; a sinistra, suscitan-
domi brividi, si ergeva poi - grandioso e fiero - lui, il Monte
Bianco! Ero come ipnotizzato, e schiacciai forte le palme
delle mani contro le orecchie: non volevo che il vocio dei
compagni spezzasse quell’incantesimo. Avevo voglia di
sciogliermi dalla cordata, liberarmi del peso dello zaino e
correre laggiù, segnando quella distesa immacolata con le
mie orme, e lì saltare, fare capriole e lasciarmi rotolare
lungo i pendii come un bambino. All’improvviso, però, il
pensiero andò a Dario, mio compagno di tante vittorie
giovanili sui campi di canottaggio ma soprattutto, fuori
dalla barca, l’amico fraterno, prima che l’inimmaginabile
(l’infatuazione verso una stessa ragazza che aveva illuso
entrambi) ci allontanasse, ciascuno convinto - a torto - di
essere stato tradito dall’altro. L’avevo rivisto la domenica
precedente dopo lunghi anni di reciproco e insensato
silenzio, ridotto al lumicino da un male inesorabile su un
letto d’ospedale a Firenze (aveva chiesto alla moglie di
rintracciarmi e di potermi rivedere); la larva che mi ero
41
trovato davanti non aveva nulla a che fare con il ragazzo
aitante e gioioso che avevo conosciuto: Dio, quanto avrei
voluto strappare il groviglio di tubicini che lo avvolgeva e
porre immediatamente fine a quella disumana trasfor-
mazione del “mio” Dario, dandogli la pace! Come quella che
stavo provando io adesso, di fronte a tanta assoluta
bellezza… Egoisticamente, scacciai via l’antico amico dai
miei pensieri.
La salita alla cima più alta delle Marbrées - quella nord -
non è tecnicamente ostica. Tuttavia un tratto interamente
innevato ci rallentò parecchio; il ghiaccio, infatti, s’era fatto
poltiglia: quando, al di sopra della testa, vi conficcavo la
becca della piccozza e poi tiravo per issarmi, quest’ultima
scivolava subito giù sfarinando il terreno; alla stessa stregua,
i gradini che ero costretto a crearmi con le punte anteriori
dei ramponi e dopo a consolidare battendovi ripetutamente
sopra il piede, quasi sempre poi cedevano sotto il mio peso,
facendomi slittare in basso e perdere più terreno di quanto
non ne avessi appena guadagnato. Sempre badando, ovvia-
mente, a non perdere comunque mai l’appoggio sulla
montagna, altrimenti l’intera cordata avrebbe potuto cor-
rere il rischio di ruzzolare giù per il lunghissimo canalone.
“Ma non avevo proprio nient’altro da fare oggi?” - mi
chiedevo, grondando sudore e col pensiero che correva al
caffellatte con focaccia calda che a quell’ora mi avrebbe
servito a letto mia moglie se me ne fossi invece rimasto
cheto a Genova.
Ad ogni modo, facendo stridere orripilantemente i
ramponi sulle rocce della torretta sommitale, alla fine
42
giungemmo in vetta (un’autentica “punta”, v’è spazio a
sedere per una persona soltanto). La giornata era splendida
e avrei voluto fermarmi lassù per un po’, ma Fulvio (il
capo-cordata) batté ripetutamente il dito sul suo orologio
da polso per rammentarci che eravamo alquanto in ritardo
sulla tabella di marcia.
Lungo la cresta innevata che digrada verso sud tutte le
cordate procedettero con estrema cautela: la stretta
“traccia” era ormai quasi melmosa e talvolta i ramponi non
facevano granché presa, così il rischio di scivolare e poi
andar giù a velocità supersonica lungo l'uno o l’altro dei
ripidissimi fianchi della montagna diventava… beh,
plausibile. “Occhio, Claudio, concentrati sui passi, ricordati
che tieni famiglia!”, continuavo a ripetermi. Primo di
cordata nella lenta e delicata discesa, ad un tratto mi avvidi
di un provvidenziale spuntone di roccia intorno al quale
fissai prontamente un cordino di sicurezza, attrezzandolo
poi di moschettone; dopodiché proseguii però oltre,
dimenticandomi bellamente di inserire dentro quest’ultimo
la corda che mi legava alla compagna dietro! Fulvio dall’alto
mi segnalò a voce l’omissione ed io, rettificando il mio
ritornello (“Occhio, imbecille, ricordati che… ecc. ecc.),
tornai indietro per rimediare. Poi più dabbasso, data
l'eccessiva lentezza con la quale stavamo procedendo,
venne infine deciso di portarci direttamente sul ghiacciaio,
calandoci uno alla volta con manovre di corda attraverso un
ripido canale di neve.
Quando fui sulla terrazza del Nuovo Rifugio Torino
accesi il cellulare per avvisare a casa che la giornata si era
43
conclusa - così pensavo - felicemente; subito un “bip” mi
segnalò la presenza di un messaggio nella segreteria tele-
fonica. Era della moglie di Dario: mi informava, con un filo
di voce, che lui se ne era andato alle 6,15 di quel mattino,
cioè all’ora in cui, durante la risalita del ghiacciaio, mi era
improvvisamente comparso nella mente...
Un mese più tardi, coronando un sogno, giunsi lungo la
“via normale” sulla vetta della Cima Grande di Lavaredo.
Avevo letto che anche lassù, fissate ad una corda tesa,
sventolavano delle piccole “lung-ta” himalayane e così dallo
zaino estrassi un oggetto di cui, per nulla al mondo, mi sarei
prima mai spossessato: la medaglia di bronzo conquistata in
un'importante regata internazionale insieme a Dario. Con il
suo stesso nastrino azzurro la assicurai bene alla funicella,
immediatamente dopo l’ultimo drappo sacro: congiunsi le
mani sul petto e le rivolsi un lungo inchino, poi i miei occhi
si persero, malinconici, nelle meraviglie che mi circon-
davano.
Non credo in alcun aldilà. Tuttavia, ancora oggi mi piace
pensare che il vento e il gelo, polverizzando poco a poco
quel pezzo di metallo, abbiano “liberato” la storia di fra-
terna amicizia che essa custodiva, conducendola fino alle
stelle e rendendola lassù eterna.
44
Il sogno di Aleksej
Fuori, allo scrosciare monotono della pioggia, si aggiunse ad
un tratto il lontano rumore di un cavallo al galoppo. Il
ritmico calpestio degli zoccoli si fece sempre più vicino e
quando fu giunto davanti all'ingresso della casa si bloccò
bruscamente; un istante dopo si udì un frenetico bussare
alla porta.
“Chi mai può essere?” - si domandò Sergeevic che,
avvertendo l'avvicinarsi dell'animale, aveva intanto smesso
di mangiare.
Si sentì nuovamente battere all'uscio. “Vi prego, aprite!”
- implorò dall'altra parte una debole voce, subito soffocata
dal rombo assordante di un tuono.
“Vai ad aprire immediatamente, o chiunque egli sia si
buscherà un bel malanno!” - disse l'anziano Vladimir a
Sergeevic, suo figlio; il robusto contadino si alzò dalla
tavola e corse a togliere la trave che sprangava dall'interno
la porta di casa. Un giovane avvolto in un lungo mantello
grondante d'acqua si precipitò immediatamente dentro, e
45
prima che l'altro richiudesse a fatica l'uscio sospinto dal
vento un lampo illuminò nella notte il cavallo che fuggiva
via terrorizzato tra fittissime linee di pioggia.
“Vi ringrazio” - disse il giovane cavaliere con voce
spossata, mentre ai suoi piedi si era già formata una larga
pozza d'acqua.
Tutti gli occhi della famiglia erano appuntati su di lui:
era alto e snello, e sul pallido viso rigato dalle gocce di
pioggia che gli colavano giù dai capelli biondi si potevano
ancora scorgere i segni di una passata fierezza, cancellata da
un qualcosa di doloroso; dal basso della cappa consunta
fuoriuscivano due stivali da soldato il cui colore era celato
da uno spesso strato di fango.
“Toglietevi il mantello e accomodatevi alla nostra
tavola”, disse l'anziano padrone di casa al nuovo arrivato.
“Avevamo appena iniziato la cena. E non preoccupatevi per
le vostre calzature”- aggiunse, accorgendosi del suo
imbarazzo e continuando a esaminarne i lineamenti con
interesse.
Intorno al tavolo apparecchiato, oltre al vecchio, erano
seduti una tipa corpulenta più o meno della medesima età,
una seconda donna molto più giovane e due bambini. Ma
nessun altro. “Grazie” - disse l'ospite con voce delusa - “Ma
non vorrei arrecarvi fastidio...”.
"Su, via, niente complimenti in casa mia!” - ridacchiò
pacatamente Vladimir - “Siete il benvenuto fra noi!”.
Il cavaliere ringraziò mentre Sergeevic lo aiutava a
disfarsi del pesante pastrano impregnato d'acqua. Sotto in-
dossava una logora casacca verde da ùssaro zarista, la quale
46
doveva essere stata un tempo molto elegante e che era
tenuta ferma alla vita da una cintura di pelle nera da cui
pendeva una spada dall'impugnatura lavorata in oro; i
calzoni scuri con una striscia laterale rossa per gamba erano
alquanto sudici e strappati in più punti.
“Non dovrebbe aggirarsi per le campagne con questo
tempaccio!” - lo rimproverò la vecchia che si era alzata per
porgerli un panno con cui asciugarsi il viso.
“Grazie, siete tutti molto gentili” - disse il cavaliere.
La donna lo prese per un braccio e lo condusse a sedersi
su una sedia di fronte a Vladimir che seguitava intanto a
studiare il suo volto, mentre Sergeevic, dopo avere siste-
mato il mantello ad asciugare vicino al caminetto che
scaldava tiepidamente l'ambiente, riprese il proprio posto a
fianco della ragazza; la donna anziana pose poi davanti
all'ospite un piatto di montone arrostito e un boccale pieno
di vòdka.
“Vi presento la mia famiglia” - riprese a parlare il
vecchio - “Io mi chiamo Vladimir, e insieme a mio figlio
Sergeevic coltivo il fazzoletto di terra che circonda questa
casa. Loro, i miei nipoti” - disse indicando affettuosamente i
bambini seduti alla sua destra - “si prendono invece cura
delle capre e delle vacche che teniamo nella stalla qui
dietro l'abitazione: sono anche piuttosto competenti, i due
birbanti!”. I piccoli assunsero un’aria orgogliosa sentendosi
lodati per il loro compito di alta responsabilità, e il
cavaliere li guardò con tenerezza.
“Lei è Lunjevica, la sposa di Sergeevic” - continuò
Vladimir additando la ragazza - “Invece questa donnaccia
47
brontolona e petulante è mia moglie Draga!”. Scoppiarono
allegre risate e la vecchia stessa sembrò divertita per la
facezia; però allorché i due bambini presero a canzonarla
anche loro con alcune battute attinenti alla sua pinguedine,
la donna mutò bruscamente umore e cominciò a gesticolare
adirata contro i nipoti: non permetteva che qualcuno
all'infuori del marito si burlasse di lei!
“Su, Draga, stanno solo scherzando! Sai che in realtà ti
vogliono un gran bene!" - la calmò divertito Vladimir,
mentre Sergeevic e sua moglie si guardavano l’un con l’altra
sforzandosi, per rispetto, di non ridacchiare oltre pure loro.
Anche il giovane cavaliere accennò un sorriso: la scena
era stata capace di rallegrarlo, e per lui era difficile diver-
tirsi, ormai da tempo.
“Ora però basta con le chiacchiere!” - sentenziò
Vladimir, rivolgendosi poi di nuovo all'ùssaro. “Immagino
che voi, signore, abbiate fame, e non è educato” - soggiunse
ammonendo gli altri - “parlare mentre si mangia”.
Si fecero tutti il segno della croce sul petto e ripresero la
cena interrotta poco prima. All'esterno continuava a dilu-
viare. Di tanto in tanto qualche lampo illuminava a giorno
la stanza, rischiarata altrimenti dal fuoco del caminetto;
subito dopo seguiva il boato sordo del tuono.
Da dietro la porticina che comunicava direttamente con
la stalla proveniva un belare inquieto e talvolta anche le
mucche facevano udire il loro muggito preoccupato.
“Le bestie sono impaurite” - commentò uno dei bambini.
“No, hanno solo fame” - rispose noncurante il padre,
seguitando a mangiare con gusto.
48
Il soldato invece masticava con scarsa convinzione; non
sembrava neppure rendersi conto di avere qualcosa in
bocca, immerso com'era in chissà quali pensieri.
“Forse l'arrosto non è di vostro gradimento?” - domandò
premurosa Draga, che se ne era accorta.
“Oh, no, tutt'altro!” - si scosse confuso l’ospite - “E'
molto gustoso, davvero! Il fatto è che, pur non toccando ci-
bo da diversi giorni, ora stranamente non ho molto appe-
tito” - si spiegò, temendo di averla potuta offendere.
“Oh, povero ragazzo, per questo siete così sciupato! Forse
qualche preoccupazione vi assilla?”.
“No, affatto, tutto procede per il meglio” - si affrettò a
rispondere il giovane - “Vi ringrazio in ogni caso per le
vostre premure”.
Dopodiché il silenzio non venne più interrotto. Quando
infine tutti ebbero terminato di cenare (solo il soldato non
aveva mangiato praticamente nulla), l'anziano capofamiglia
si alzò per primo dalla tavola e mentre con una mano
estraeva la pipa dalla tasca dei pantaloni, con un calmo
gesto dell'altra invitò il militare ad andare a sedere insieme
a lui su alcuni sgabelli posti davanti al focolare. Il contadino
più giovane invece si infilò a fatica oltre il ristretto uscio
che dava sulla stalla, seguito dai due figli che strascinavano
ciascuno una cesta di cibo per gli animali (i quali avevano
intanto cominciato a protestare più energicamente); le due
donne, dopo avere diligentemente sparecchiato la mensa,
scomparvero dentro una minuscola e fumosa cucina.
“Non mi avete ancora detto il vostro nome e il luogo in
cui siete diretto” - domandò Vladimir quando furono soli.
49
“Mi chiamo Lev… Lev Malenkov. Sono un messaggero e
vado… ad est. Devo consegnare alcuni importanti dispacci
al comando della guarnigione della capitale”.
Il vecchio sembrò non avere ascoltato la risposta,
affaccendato com'era nel tentativo di accendere la pipa che
teneva stretta nella bocca nascosta alla vista da una folta
barba bianca. Quando il tabacco fu finalmente affocato, si
curvò appoggiando i gomiti sulle ginocchia e chiuse gli
occhi: ristette così, come sonnecchiante, per parecchi mi-
nuti; mentre la pioggia fuori si abbatteva con veemenza
contro i battenti delle piccole finestre, dalla pipa fuoriusci-
vano a intervalli regolari cerchi di fumo che spandevano
nella stanza un gradevole aroma di erba nicotiana.
Quando si raddrizzò, Vladimir vide che il giovane fissava
malinconico le fiamme che nel caminetto giocherellavano a
confondersi continuamente l'una con l'altra. “Da quanti
giorni non dormite, soldato?” - domandò quasi con
indifferenza, dopo essersi tolto la pipa di bocca.
“Non saprei, ho perso ormai il conto” - rispose
meccanicamente l'altro, senza distogliere lo sguardo dal
fuoco.
“La missione affidatavi è dunque della massima impor-
tanza, se per portarla al più presto a termine vi private
anche di cibo e riposo” - osservò il vecchio contraendo il
viso in una finta espressione di ammirazione.
“Già”.
“Siete davvero un bravo soldato”".
50
“Vi ringrazio”. disse laconicamente l'ùssaro continuando
a fissare i tizzoni incandescenti.
Il vecchio gettò dentro il caminetto alcuni pezzi di legna
accatastati ai suoi piedi. “Non siete certo di molte parole”
- continuò, ricacciandosi la pipa tra la barba; dalla cucina
frattanto giungeva il vociare delle due donne indaffarate
nella pulizia delle stoviglie, mentre nella stalla le bestie
avevano cessato di lagnarsi. Fuori il sibilo del vento si
faceva sempre più acuto e la pioggia non accennava ad
attenuarsi. “Credo che dobbiate dormire qui, questa notte”
- commentò Vladimir.
“No, non posso. Devo andare”.
“Vi pigliereste una polmonite! Inoltre in questo mo-
mento non mi sembrate proprio essere nelle condizioni
migliori per affrontare un lungo viaggio: avete assolu-
tamente bisogno di riposare, se volete giungere a San
Pietroburgo. Sempre ammesso” - continuò ridacchiando
ironicamente - “che Voi dobbiate veramente portare dei
dispacci alla capitale...”.
Il soldato si voltò verso il vecchio, guardandolo per
qualche istante disorientato; poi rigirò lo sguardo sul fuoco
e la sua espressione tornò assente.
“Per raggiungere San Pietroburgo bisogna cavalcare
verso ovest, e non verso est come Voi avete detto. Un
portaordini” - osservò Vladimir con tono di paterno
rimprovero - “sa esattamente in che direzione dirigersi e ha
in cima ai suoi pensieri la propria cavalcatura: non mi è
parso che vi siate dannato per la perdita del vostro
cavallo!”. Si interruppe un momento, il tempo di dare un
51
paio di rapide boccate alla pipa. “Ed inoltre” - riprese poi -
“un semplice messo di solito non porta una spada dall'elsa
d'oro”.
Il giovane soldato permaneva silenzioso e indifferente.
“Non è comunque per queste ragioni che so che Voi non
dovete affatto andare alla capitale; perché, anzi, non vi
farete più ritorno fino a quando non avrete trovato ciò che
state disperatamente cercando, principe Aleksej”.
“Come fate a sapere che sono il principe Aleksej?” - si
rigirò di botto l’altro, interdetto.
“Due anni fa mi sono recato a San Pietroburgo per com-
perare delle bestie: là vi ho visto passare lungo la strada
principale, mentre la folla si apriva davanti a Voi che
montavate uno stupendo cavallo bianco, scortato dalle
guardie dello Zar vostro padre. Il vostro volto fiero mi è
rimasto impresso nella memoria: vi siete molto consumato
da allora, ma non ho avuto eccessiva difficoltà a ricono-
scervi ugualmente quando siete entrato qui”. L'espressione
del buon vecchio si fece ad un tratto più seria. “So anche
cosa state cercando; l'intero popolo di Russia sa cosa sta in-
seguendo inutilmente da più di un anno il suo amato
Zarèvic!”.
Il giovane tornò ad ignorare le parole del contadino.
“Vostra madre la Zarina è molto in ansia per Voi: vo-
gliate perdonare la mia insolenza, ma credo che non sia
stato giusto da parte di Sua Altezza non fare avere più noti-
zie di sé da quando è partita!”'.
52
Il principe chiuse gli occhi appesantiti dalla stanchezza,
sospirando: quindici mesi erano trascorsi dalla notte in cui
Lei gli era apparsa - bellissima! - in sogno...
Era rimasta a lungo rifugiata tra le sue braccia; poi, sco-
stadolo dolcemente con la mano e scioltisi sulle spalle i lun-
ghi capelli, ella aveva liberato il proprio delicato essere da
ciò che lo nascondeva: e lui aveva allora dimenticato il
mondo intorno!
Sì, quindici mesi erano passati da quando era infine giun-
ta l'alba e al risveglio l'aveva cercata invano nel suo letto…
Da quel giorno ogni altra cosa era divenuta vuota e vana,
e così sarebbe ormai stato fino a quando Lei non lo avrebbe
reso nuovamente felice con una sua carezza.
Aveva spiegato tutto ai genitori, era balzato in sella al
suo destriero ed era partito a spron battuto alla ricerca di
quella donna; i sovrani lo avevano lasciato andare, creden-
do a un capriccio giovanile che lo avrebbe stancato nel vol-
gere di qualche giorno. Oltre un anno era invece scivolato
via: aveva cavalcato senza requie attraverso le steppe, sfi-
dando la neve e il gelo dell’inverno siberiano, il caldo e la
sete del deserto del Volga, frugando il volto di ogni ragazza
che incontrava nella speranza sempre delusa di riconoscervi
il sorriso cercato. Più di un anno, e il vecchio Zar, dopo
tanta paziente attesa, si era infine incollerito: non conce-
piva che il principe ereditario continuasse a girovagare per
l'impero anziché tornare a palazzo e iniziare ad interessarsi
delle faccende di governo, di cui molto presto avrebbe
dovuto assumere la pesante responsabilità. Mille cosacchi a
cavallo erano stati così sguinzagliati alla sua ricerca e un
53
ingente premio in rubli era stato promesso a quello che
avrebbe ricondotto alla reggia e alla ragione il principe
scapestrato; ma questi sembrava essere svanito nel nulla,
nonostante vi fosse sempre qualcuno pronto a giurare di
avere visto lo Zarèvic galoppare in questo o in quell’altro
punto del regno.
Così Aleksej ora era costretto anche a sfuggire coloro che
un tempo erano stati suoi fedeli soldati e che ora, allettati
dal denaro, davano la caccia al loro signore come se fosse il
più pericoloso degli assassini. Lui però non poteva far ritor-
no a corte senza quella fanciulla. No, doveva continuare a
rovistare bene le pianure, la tundra, ogni montagna...
“Se continuerete così vi ammalerete gravemente”
- interruppe i suoi pensieri Vladimir - “Tornate a casa,
Zarèvic!”.
Il principe fissò il contadino scuotendo il capo. Poi si al-
zò e ripiglio il mantello: era ancora molto bagnato, ma se lo
gettò ugualmente sulle spalle. “Spero abbiate una cavalca-
tura. Ve la pagherò bene, ho con me ancora molto denaro”.
“No, ve la donerò. Ma Voi, dove volete andare? Tor-
natevene a Pietroburgo” - incalzò l’anziano - “Il popolo vi
attende, avrà presto bisogno della vostra guida”.
“Non posso, credetemi”.
“Dove vi condurrete, allora?”.
“Non lo so: uscirò dai confini di mio padre, mi dirigerò
verso il Catai; attraverserò anche l'oceano, se necessario”.
“I cosacchi vi troveranno, prima o poi”.
“Per fermarmi dovranno uccidermi”.
Il vecchio lo guardò con commiserazione.
54
“Non avete ragione di preoccuparvi per me, buon
Vladimir. Sono solo alla ricerca della mia felicità: un giorno
la troverò”.
“No, mio Zarèvic. Voi non la raggiungerete mai. Voi
morirete molto presto”.
Un breve silenzio. “Forse è davvero scritto così”
- mormorò infine Aleksej con un velo di rassegnazione
nella voce.
Il vecchio Vladimir non insistette: aveva capito che
niente avrebbe potuto persuadere il principe a desistere da
quella ricerca folle. Con calma si sollevò dalla panca sulla
quale era seduto, spense la pipa, rovesciò le ceneri nel ca-
minetto e si diresse in cucina; disse qualcosa alle donne che
vi si trovavano dentro e poi si affacciò sull'uscio che dava
alla stalla: “Sergeevic, prendi uno dei cavalli, sellalo e por-
talo davanti alla porta!”.
Sergeevic fece capolino dal maleodorante ricovero. “Ma
fuori sta ancora diluviando!” - esclamò stupito - “Il signore
può pernottare da noi”.
“Il signore ha molta fretta” - spiegò Vladimir - “Egli deve
raggiungere la capitale al più presto e qui ha già perso del
tempo prezioso”. Anche le donne sporsero dalla cucina le
loro facce interrogative.
“Signore, rimani qui!” - strillò uno dei bambini sbucando
dalla stalla e saltellando poi allegramente fino a lui - “Devi
ancora raccontarci delle battaglie che hai fatto!”.
Aleksej gli accarezzò una guancia, sorridendo. “Devo
proprio andare, mi dispiace; te le racconterò un'altra volta”.
55
Sergeevic si gettò allora nella tormenta, mentre gli altri
si radunarono intorno al cavaliere. Draga gli diede una bi-
saccia di viveri. “Grazie, siete stati molto cari con me”, disse
loro Aleksej.
“Buona fortuna, portaordini!”- gli augurò il vecchio
Vladimir stringendogli forte le spalle.
L’ùssaro aprì la porta e una folata gelida sferzò la stanza.
Guardò quella gente un'ultima volta e poi si lanciò verso il
cavallo tenuto alla briglia dal già zuppo Sergeevic; montò in
groppa e si lanciò ventre a terra perdendosi subito nella
tempesta, mentre il contadino si precipitava al riparo den-
tro casa.
“Perché lo hai lasciato andare, padre?”.
“Perché, figlio mio, egli deve ancora trovare la più im-
portante delle cose: il significato di sé stesso!”, gli rispose il
vecchio.
56
La folle gara
Genova, una notte di fine maggio dell’anno 2014. Dal
divano sul quale è accovacciato, Nelson - il cane di famiglia -
mi guarda con un’espressione interrogativa mentre pian
piano, per non svegliare moglie e figlia che dormono nelle
camere accanto, in sala raccolgo le mie cose e poi scivolo
oltre l’uscio di casa. Sono le 4.20 e fuori è ancora buio pesto;
sulla mia “Vespa” malconcia, lungo strade deserte alla volta
del porto, non sento però freddo, segno che l’afa estiva è
ormai alle porte e che mi sarà dunque impossibile d’ora in
avanti svolgere prolungati allenamenti a secco in orari
differenti da questo.
Attacco a remare nella vasca da canottaggio all’aperto del
“Rowing Club Genovese 1890”, la mia società, alle 5.10 e mi
sembra di essere tornato ai tempi del liceo, quando da
agonista mi allenavo quotidianamente prima di recarmi in
classe. Soltanto che adesso sono alla vigilia dei 54 anni e
mentre dodici gabbiani - dodici, li ho contati! - volteggiano
57
con insistenza una trentina di metri sopra la mia testa simili
a pazienti avvoltoi, mi domando: “Ma che diavolo sto
facendo?”.
Due anni fa, al termine dell’impegnativo mandato di
Presidente del Comitato Ligure della Federazione Italiana
Canottaggio, avevo deciso di non farmi più coinvolgere in
faccende remiere; da allora avevo frequentato il mio club
per il tempo strettamente necessario ad allenarmi un po’
per le mie escursioni in montagna. Ma domenica scorsa è
stata proprio la stizza per non avere potuto partecipare ad
una salita alpinistica a causa di una influenza fuori stagione
ad avermi fatto sconsideratamente dire di sì alla contem-
poranea offerta di Stefano di prendere parte alla gara di
canottaggio più lunga del mondo: 160 chilometri!
Nel 2008, per celebrare il 120° anniversario della fonda-
zione della nostra Federazione, avevo messo su un viaggio
costiero a remi da Genova a Roma (con la risalita del
Tevere, circa 550 chilometri di percorso). Con due imbar-
cazioni da 4 vogatori più timoniere per raggiungere la capi-
tale impiegammo otto giorni, il più “lungo” dei quali misurò
circa 80 chilometri, suddivisi in due tappe; in quella pome-
ridiana la mia maglia da bianca divenne rossastra per via del
sangue che mi sgocciolava giù dalle palme delle mani deva-
state dall’attrito con le impugnature dei remi: bene, sul
vasto lago di Ginevra avrei dovuto rivivere “doppio” (per di
più in un’unica soluzione e con “spirito” da gara)
quell’incubo… Un’autentica pazzia!
A completare l’equipaggio si sono dichiarati disponibili
Pippo e Gaetano (anch’essi fattisi le ossa con me e Stefano
58
nella Genova-Roma) e Luca; l’imbarcazione prevista dal
regolamento di gara - una “GIG” a 4 con timoniere - grazie
alle buone relazioni di Luca ci verrà gentilmente prestata,
nuova di zecca, dal Cantiere Nautico Salani. Saremo l’unico
armo italiano in gara.
“Ecco esplosa la crisi dei 50!”, ha sentenziato mia moglie
allorché l’ho informata della decisione. A me, invece, era
piaciuto prendere in prestito la risposta data da George
Mallory al giornalista che gli aveva chiesto perché mai
volesse scalare l’Everest, all’epoca ancora inviolato (“Perché
esiste”). Perlomeno fino a questa mattina: dopo soltanto
due ore e quaranta minuti di voga un crampo mi paralizza
la coscia sinistra; non c’è verso di lenirlo e riprendere a re-
mare, così mi tiro su e claudicante e avvilito mi dirigo verso
le docce: per acquisire una condizione fisica adeguata alla
mostruosità in cui mi sono cacciato ho solo quattro mesi di
tempo... “Sì, è’ una vera follia”, continuo a ripetere a me
stesso più tardi mentre varco la soglia dell’ufficio.
Lago di Lemano (Ginevra), sabato 27 settembre 2014.
Dopo quei crucci primaverili per mettermi in forma avevo
dato vita ad una bizzarra alchimia di allenamenti: alpini-
smo, marce montane forzate, spinning, nuoto e, natural-
mente, canottaggio (in vasca, ad esempio, sono poi arrivato
a vogare per cinque ore consecutive). Ma dopo poche ore
dal “via” del giro completo dell’immenso Lemano - dato
con puntualità svizzera alle 8,00 - sotto il sole caldo ecco
che i crampi sono ridiventati per tutti i regatanti l’insidia
maggiore. Quando acchiappano me penso con sconforto
59
“…ecco, è finita qui!”. Lo sforzarsi a gestirli per quasi
un’ora e infine riuscire a superarli si dimostra quasi un’arte.
Il resto - ma questo già lo sapevo - è un crescendo
wagneriano di bruciore alle mani piagate dal remo, di
dolore (vero) nel fondo-schiena e ai glutei, i quali ultimi
poco dopo Montreux - ove finalmente abbiamo svoltato la
prua verso Ginevra, lontana ormai “soltanto” un’ottantina
di chilometri - iniziano a smaniare sul carrello, ora
spostandosi di qualche millimetro a sinistra, poi di nuovo
verso destra (o indietro) un minuto dopo, e così via all’infi-
nito, alla spasmodica ricerca di un po’ di sollievo. Stilla
dopo stilla l’acido lattico mi rende inoltre le gambe sempre
più pesanti; nei pressi di Evian mi salta in mente di
ricalcolare - in base al nostro ritmo di palate - quante volte
esse si saranno compresse a molla al termine di questa in-
credibile giornata: circa 20.000.
Tutto ciò è tuttavia comune a ogni scriteriato convenuto
quest’oggi sul grande lago, incluso quel Tim Grohmann, oro
agli ultimi Giochi Olimpici nel 4 di coppia, che con il suo
giovane equipaggio tedesco è al comando della regata. Vice-
versa, oltre che sull’acqua, ciascuno di noi sta navigando in
un oceano di pensieri invece tutti personali, che si accaval-
lano nelle mente veloci come onde.
E’ sorprendente l’avvicendarsi di momenti nei quali
giungo a sentirmi realmente uno stupido (“Metterti ancora
a “giocare” sulla barchetta alla tua età! - mi biasima di tanto
in tanto una voce dentro - Ma va’, piantala lì e tornatene
subito dalla tua famiglia!”) con altri - precisamente quando
si assottiglia il distacco con l’equipaggio dietro o con quello
60
avanti - nei quali l’antico impeto agonistico si riaccende e
prende prepotentemente il sopravvento su ogni altra consi-
derazione. Così come è strano l’alternarsi di fasi di grande
spossatezza a inaspettate - e anche prolungate - fiammate di
energia, durante le quali allora potenzio il tiro per il mero
piacere di sentire il musicale sciabordio della prua mentre
taglia agile e veloce l’acqua del placido Lemano e nel con-
tempo penso che quest’avventura, indipendentemente da
come essa finirà, si aggiungerà comunque al mosaico della
mia esistenza, rappresentando un nuovo tassello di me.
“Finché mi sarà concesso voglio sentirmi vivo”, mi dico. E
allora, contraddittoriamente, sono assolutamente felice di
trovarmi qui.
Guardando le colline che corrono parallele alle rive ho
anche ripensato alla mia recente salita della Cima Grande di
Lavaredo, iniziando poi a pianificare nella mente quella del
Sassolungo1 anche al fine di annullare per un po’ il senso
del tempo e potermi così infine ridestare con la piacevole
“sorpresa” di una bella manciata di chilometri in meno da
percorrere (“Beh, non è poi così tanto lunga!”). In realtà
l’unico vero “trucco” - se mai può esisterne uno - è non
pensare mai al traguardo (che altrimenti diventa un mirag-
gio angosciante e insostenibile psicologicamente), bensì
concentrarsi a far bene ogni singola palata, come se fosse
allo stesso tempo la prima e l’ultima della giornata.
La stanchezza, si sa, rende irritabili: così durante il lungo
viaggio non manca qualche battibecco tra noi; ma le
1
Scalata poi realizzata nel luglio 2015.
61
incrociate, antiche amicizie e la consapevolezza di trovarci
- alla lettera - sulla stessa barca ci mantengono uniti:
stringiamo i denti e sopperiamo vicendevolmente alle
inevitabili, provvisorie carenze di qualche compagno.
Discorso simile in occasione dei cambi al timone (ogni ora
circa), nei quali ci riveliamo di gran lunga i più lenti elar-
gendo vantaggi significativi agli avversari: la cosa ogni volta
mi manda in bestia, ma subito mi rientra chiara in testa
l’idea che l’importante è arrivare in fondo.
Giunti a Sciez, dalla riva ci arrivano urla di incitamento:
sono Cristiano (il “meteopatologo” - come lo chiama
Stefano - che ci fornisce consulenza meteorologica sin dal
Genova-Roma) e il suo “apprendista” Simone; lo scambio di
battute gridate porta in barca una certa allegria. Lo scon-
certante bunker atomico dove a terra abbiamo alloggio
insieme agli altri equipaggi continua tuttavia ad assumere
sempre più nelle nostre teste le sembianze di un hotel in
stile Las Vegas, dotato di mille comfort.
Sopraggiunge infine la notte e con essa il freddo. Stefano
- passato nuovamente al timone essendo egli il più capace a
manovrare al buio - combatte contro l’ipotermia rinserrato
dentro il sottile telo isotermico da montagna caricato a bor-
do già ieri sera insieme a molto altro materiale, tra cui bar-
rette energetiche e bustine di sali minerali da sciogliere
nell’acqua raccolta via via direttamente dal lago e da tran-
gugiare - letteralmente - durante i cambi al timone.
Sento che quest’ultima fase della regata mi rimarrà
impressa per sempre nella memoria: nel silenzio, sotto le
stelle, la barca prende a correre più veloce verso la meta,
62
che la mente sa ormai prossima ma che al corpo esausto
appare invece ancora tremendamente lontana. In mezzo
all’acqua, guardando la luna, rivivo le emozioni provate
tanto tempo fa da giovane sottufficiale di leva sulla torretta
del sommergibile “Enrico Toti” durante il rientro notturno
alla base dopo un’esercitazione…
Quando finalmente posso drizzarmi in piedi sul pontile
della Société Nautique de Gèneve scopro di avere perso il
senso dell’equilibrio: inarcato sui remi per 14 ore e 17
minuti (tanto è durata per noi la gara), ho infatti finito con
il dotarmi di un altro baricentro e ci vorrà più di un’ora per
tornare a pieno diritto nel mondo dei bipedi.
Mi informano che siamo il decimo equipaggio ad avere
tagliato il traguardo (altri tredici armi lo supereranno dopo
di noi). Posizione di classifica tutto sommato soddisfacente,
della quale tuttavia in questo momento non mi importa
davvero nulla: sono arrivato e tanto, semplicemente, mi
basta.
Corro (si fa per dire) sotto la doccia calda e poi mi godo
una delle scomode panche di legno dello spogliatoio, da
dove con il cellulare avviso a casa che non si sono liberati di
me; Luca dalla bilancia esclama sbalordito di avere perso
dieci chili, da recuperare con urgenza seduti intorno a una
delle tavole imbandite per questo “circo di matti” nel
ristorante del club organizzatore. Gaetano, quello perenne-
mente affamato, molla però subito il cibo: avverte senso di
nausea e un forte giramento di testa, “costringendomi” così
a divorare anche la sua parte. Pippo ci raggiunge poco dopo,
rinfrancato da uno dei massaggiatori messi a disposizione
63
degli atleti sbarcati.
Mentre prendo coscienza di avere la mano sinistra semi-
inerte (una tendinite?), Stefano inizia a snocciolare la sua
analisi della nostra corsa alla ricerca delle cose da
“correggere”. Capisco subito cosa ha in mente; lo guardo
dritto negli occhi e gli ringhio: “No, caro mio, non mi fre-
ghi una seconda volta!”. Nel cuore, però, gli sono ricono-
scente.
64
65
STORIA DI UNA STORIA
66
67
Anno 1988
PREMESSA
Quella che segue è la storia di Luke Dohrow, così come
sopravvive nei ricordi di quanti gli furono amici e, in
particolare, di mia cugina Silvia, la quale l’ha a me narrata
due anni or sono quando mi sono recato negli Stati Uniti
per (finalmente) conoscerla.
Ne sono rimasto colpito e in seguito mi è sembrato giusto
testimoniarla, ricostruendola pian piano - seppur in modo
frammentario - anche grazie allo scambio di lettere avuto
con alcuni altri protagonisti della vicenda.
Spero, ora che essa è finalmente ultimata, di riuscire a
coinvolgere l’eventuale lettore, precisando che nomi di
luoghi e persone sono naturalmente diversi da quelli reali.
L'Autore
68
69
PARTE PRIMA
70
71
I
Alle cinque esatte il gracchiare sordo della sveglia strappò
bruscamente il ragazzo dal sonno: era ora di alzarsi, l'alle-
namento quotidiano lo attendeva.
A Luke costò più fatica del solito, quel mattino, tirarsi
giù dal letto. Con la mente ancora intorpidita, si trascinò
fino alla camera da bagno per una rapida doccia ravvivante;
riacquistata così coscienza di sé raggiunse la cucina per la
colazione, sforzandosi di fare il minor rumore possibile per
non svegliare l'intera casa. Mentre a piccoli sorsi mandava
giù il tè bollente ascoltava attentamente il vento che fuori
sibilava forte: sotto i suoi colpi le tapparelle emettevano un
crepitio simile a quello della legna al fuoco. “Uhm, mare
agitato, oggi” - pensò il canottiere.
Le lancette segnavano già un quarto alle sei allorché
chiuse la porta di casa dietro di sé. Fuori era ancora notte
fonda: su in alto le stelle brillavano di un turchino insolito,
mentre il vento soffiava davvero vigoroso. Il ragazzo tirò
fuori dalla rimessa la motocicletta e si avviò lungo strade
72
deserte e gelide (nonostante il pesante giaccone sulla moto
faceva un freddo cane!) alla volta dell'abitazione del suo
allenatore.
Allo squillo del campanello seguì una breve attesa, poi
ecco una finestra aprirsi al piano superiore della graziosa
villetta e un minuscolo faccino barbuto presentarsi asson-
nato alla luce della luna. Dopo aver salutato con un floscio
“hi”, il signor Lopez trascinò lo sguardo sugli alberi del giar-
dino circostante: le piante ondeggiavano forte, il che gli
strappò una smorfia di disappunto. Fece comunque al
ragazzo cenno di attendere e richiuse le imposte dietro di
sé.
Nel frattempo un pallido chiarore era andato diffon-
dendosi, restituendo un primo incerto contorno alle cose.
Luke nell’attesa si sedette sul basso muretto di una aiuola,
con lo sguardo rivolto al cielo stellato; intorno l'aria era
frizzante: la respirò profondamente e - quasi questa posse-
desse una qualche virtù misteriosa - una curiosa, eccitata
allegria lo pervase.
Giunto che fu il signor Lopez, salirono sulla piccola
utilitaria di quest'ultimo. A dispetto del parabrezza comple-
tamente appannato per l'umidità, il piccolo allenatore guidò
a velocità sostenuta giù per il lungomare, una mano sul
volante, l'altra agli occhi che si stropicciava senza posa, per
fermarsi infine davanti al cancello del “Green Springs
Rowing Club”. Qui, puntuali come sempre, si trovavano già
gli altri componenti dell'equipaggio, anch'essi tutti avvolti
in pesanti casacche e con i berretti di lana cacciati in testa;
accucciato in un canto, tutto intirizzito dall’umidità pene-
73
trante del primissimo mattino, stava poi - piccino piccino -
il timoniere.
Il sole aveva da poco fatto capolino sulla linea
dell'orizzonte allorché i ragazzi, dopo essersi velocemente
cambiati, si staccarono con la loro imbarcazione dal pontile;
Lopez, ex timoniere dai discreti trascorsi, seguiva i canot-
tieri a bordo di un gommone.
Al riparo dal vento, il mare si rivelò meno ostile sotto i
muraglioni dell'isola di Santa Clara, sulla quale la Green
Springs vecchia ancora dormiva beata. L'oceano era qui
colorato di un blu profondo e la fioca luce dell'alba donava
qua e là alla superficie leggermente increspata riflessi ar-
gentati; dietro la città, lontana, la vetta innevata del Monte
Tolimas faceva da sfondo alla gioia di vivere di quei ragazzi.
…La fatica, come iniettata da siringhe, entrava nelle loro
membra a fiotti, più densi e brucianti ad ogni nuova palata;
soprattutto le gambe, spingendo forte sul carrello, si erano
oramai quasi calcificate.
Lopez controllò il cronometro e un sorrisetto di soddi-
sfazione si disegnò sulle sue labbra: l'armo stava viaggiando
nel pieno rispetto della tabella di marcia e al termine della
prova mancavano ormai solo duecentocinquanta metri,
quelli in cui un equipaggio, raccogliendo ogni energia resi-
dua, si produce nello scatto finale. Semplice, in teoria; ma
per un canottiere, ogni volta, è come cercare di cavare an-
cora acqua da una spugna già totalmente prosciugata.
“Forza, ragazzi! E' questo il momento, “serrate” adesso!”
- urlò tuttavia l'uomo del gommone.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.
CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.

More Related Content

What's hot

Connie mason morgan e lucia
Connie mason   morgan e luciaConnie mason   morgan e lucia
Connie mason morgan e luciaghost305
 
Storia delle terre di dragonais
Storia delle terre di dragonaisStoria delle terre di dragonais
Storia delle terre di dragonaisLorenzo Meacci
 
Io cito, tu city
Io cito, tu cityIo cito, tu city
Io cito, tu cityrosasala
 
In Memoriam Temporum Felicitatis
In Memoriam Temporum FelicitatisIn Memoriam Temporum Felicitatis
In Memoriam Temporum FelicitatisAlberto Bencivenga
 
In viaggio con Ulisse
In viaggio con UlisseIn viaggio con Ulisse
In viaggio con Ulissepaoluc
 
11 carlos castaneda, il lato attivo dell infinito
11 carlos castaneda, il lato attivo dell infinito11 carlos castaneda, il lato attivo dell infinito
11 carlos castaneda, il lato attivo dell infinitoGio Aita
 

What's hot (9)

Racconto concorso maggio
Racconto concorso maggioRacconto concorso maggio
Racconto concorso maggio
 
Connie mason morgan e lucia
Connie mason   morgan e luciaConnie mason   morgan e lucia
Connie mason morgan e lucia
 
Storia delle terre di dragonais
Storia delle terre di dragonaisStoria delle terre di dragonais
Storia delle terre di dragonais
 
Io cito, tu city
Io cito, tu cityIo cito, tu city
Io cito, tu city
 
In Memoriam Temporum Felicitatis
In Memoriam Temporum FelicitatisIn Memoriam Temporum Felicitatis
In Memoriam Temporum Felicitatis
 
In viaggio con Ulisse
In viaggio con UlisseIn viaggio con Ulisse
In viaggio con Ulisse
 
11 carlos castaneda, il lato attivo dell infinito
11 carlos castaneda, il lato attivo dell infinito11 carlos castaneda, il lato attivo dell infinito
11 carlos castaneda, il lato attivo dell infinito
 
La fata di ferro
La fata di ferroLa fata di ferro
La fata di ferro
 
Mercantedilibrimaledettiestratto
MercantedilibrimaledettiestrattoMercantedilibrimaledettiestratto
Mercantedilibrimaledettiestratto
 

Similar to CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.

Amok (opere di stefan zweig) (italian edition)
Amok (opere di stefan zweig) (italian edition)Amok (opere di stefan zweig) (italian edition)
Amok (opere di stefan zweig) (italian edition)Galia Gallis
 
1-UN-CITTADINO-DI-CARCOSA.pdf
1-UN-CITTADINO-DI-CARCOSA.pdf1-UN-CITTADINO-DI-CARCOSA.pdf
1-UN-CITTADINO-DI-CARCOSA.pdfFrancescoMorello4
 
Il re dei viaggi ulisse
Il re dei viaggi ulisse   Il re dei viaggi ulisse
Il re dei viaggi ulisse Laura Franchini
 
Giudice per una profezia, poeta per amore, mentore (per mia scelta personale)
Giudice per una profezia, poeta per amore, mentore (per mia scelta personale)Giudice per una profezia, poeta per amore, mentore (per mia scelta personale)
Giudice per una profezia, poeta per amore, mentore (per mia scelta personale)Davide Aresi
 
Narrazione1
Narrazione1Narrazione1
Narrazione1rosyna
 
Fantasticheria - giovanni verga
Fantasticheria -  giovanni vergaFantasticheria -  giovanni verga
Fantasticheria - giovanni vergaGiorgio Spano
 
La divina commedia
La divina commediaLa divina commedia
La divina commediaIC LODI IV
 
Il volto santo di Lucca: la leggenda.
Il  volto santo di Lucca: la leggenda. Il  volto santo di Lucca: la leggenda.
Il volto santo di Lucca: la leggenda. Maria Concetta
 
La simbologia nell'inferno di Dante
La simbologia nell'inferno di DanteLa simbologia nell'inferno di Dante
La simbologia nell'inferno di DanteMeditazione Gnostica
 
Sogno missionario patagonia
Sogno missionario patagoniaSogno missionario patagonia
Sogno missionario patagoniaMaike Loes
 
Donne e Amori (La mia meta)
Donne e Amori (La mia meta)Donne e Amori (La mia meta)
Donne e Amori (La mia meta)Clay Casati
 
Viaggiamo insieme alla ricerca dell 'isola
Viaggiamo insieme alla ricerca dell 'isolaViaggiamo insieme alla ricerca dell 'isola
Viaggiamo insieme alla ricerca dell 'isolaic giovanni paolo II
 

Similar to CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti. (20)

Amok (opere di stefan zweig) (italian edition)
Amok (opere di stefan zweig) (italian edition)Amok (opere di stefan zweig) (italian edition)
Amok (opere di stefan zweig) (italian edition)
 
1-UN-CITTADINO-DI-CARCOSA.pdf
1-UN-CITTADINO-DI-CARCOSA.pdf1-UN-CITTADINO-DI-CARCOSA.pdf
1-UN-CITTADINO-DI-CARCOSA.pdf
 
Racconti dei saggi del sole
Racconti dei saggi del soleRacconti dei saggi del sole
Racconti dei saggi del sole
 
Il re dei viaggi ulisse
Il re dei viaggi ulisse   Il re dei viaggi ulisse
Il re dei viaggi ulisse
 
Vanity Fair
Vanity FairVanity Fair
Vanity Fair
 
Marcinelle
MarcinelleMarcinelle
Marcinelle
 
Purgatorio f
Purgatorio fPurgatorio f
Purgatorio f
 
Il bacio azzurro
Il bacio azzurroIl bacio azzurro
Il bacio azzurro
 
Giudice per una profezia, poeta per amore, mentore (per mia scelta personale)
Giudice per una profezia, poeta per amore, mentore (per mia scelta personale)Giudice per una profezia, poeta per amore, mentore (per mia scelta personale)
Giudice per una profezia, poeta per amore, mentore (per mia scelta personale)
 
Montagne da raccontare
Montagne da raccontareMontagne da raccontare
Montagne da raccontare
 
Narrazione1
Narrazione1Narrazione1
Narrazione1
 
mercantedilibrimaledettiestratto
mercantedilibrimaledettiestrattomercantedilibrimaledettiestratto
mercantedilibrimaledettiestratto
 
Fantasticheria - giovanni verga
Fantasticheria -  giovanni vergaFantasticheria -  giovanni verga
Fantasticheria - giovanni verga
 
La divina commedia
La divina commediaLa divina commedia
La divina commedia
 
Il volto santo di Lucca: la leggenda.
Il  volto santo di Lucca: la leggenda. Il  volto santo di Lucca: la leggenda.
Il volto santo di Lucca: la leggenda.
 
Mal aria
Mal ariaMal aria
Mal aria
 
La simbologia nell'inferno di Dante
La simbologia nell'inferno di DanteLa simbologia nell'inferno di Dante
La simbologia nell'inferno di Dante
 
Sogno missionario patagonia
Sogno missionario patagoniaSogno missionario patagonia
Sogno missionario patagonia
 
Donne e Amori (La mia meta)
Donne e Amori (La mia meta)Donne e Amori (La mia meta)
Donne e Amori (La mia meta)
 
Viaggiamo insieme alla ricerca dell 'isola
Viaggiamo insieme alla ricerca dell 'isolaViaggiamo insieme alla ricerca dell 'isola
Viaggiamo insieme alla ricerca dell 'isola
 

More from ClaudioLoreto

CLAUDIO LORETO - OLTRE LE NUBI, IL SOLE - Racconti (Ottobre 2023).
CLAUDIO LORETO - OLTRE LE NUBI, IL SOLE - Racconti (Ottobre 2023).CLAUDIO LORETO - OLTRE LE NUBI, IL SOLE - Racconti (Ottobre 2023).
CLAUDIO LORETO - OLTRE LE NUBI, IL SOLE - Racconti (Ottobre 2023).ClaudioLoreto
 
CLAUDIO LORETO - SULLE ALI DEL GABBIANO - Romanzo (Editore De Ferrari - Ottob...
CLAUDIO LORETO - SULLE ALI DEL GABBIANO - Romanzo (Editore De Ferrari - Ottob...CLAUDIO LORETO - SULLE ALI DEL GABBIANO - Romanzo (Editore De Ferrari - Ottob...
CLAUDIO LORETO - SULLE ALI DEL GABBIANO - Romanzo (Editore De Ferrari - Ottob...ClaudioLoreto
 
CLAUDIO LORETO - ROMANZO "LIQUIRIZIA" (Ottobre 2019 - EDITRICE LEUCOTEA).
CLAUDIO LORETO - ROMANZO "LIQUIRIZIA" (Ottobre 2019 - EDITRICE LEUCOTEA).CLAUDIO LORETO - ROMANZO "LIQUIRIZIA" (Ottobre 2019 - EDITRICE LEUCOTEA).
CLAUDIO LORETO - ROMANZO "LIQUIRIZIA" (Ottobre 2019 - EDITRICE LEUCOTEA).ClaudioLoreto
 
CLAUDIO LORETO - I SEGRETI DI SHARIN KOT (Romanzo, De Ferrari Editore. Anno 2...
CLAUDIO LORETO - I SEGRETI DI SHARIN KOT (Romanzo, De Ferrari Editore. Anno 2...CLAUDIO LORETO - I SEGRETI DI SHARIN KOT (Romanzo, De Ferrari Editore. Anno 2...
CLAUDIO LORETO - I SEGRETI DI SHARIN KOT (Romanzo, De Ferrari Editore. Anno 2...ClaudioLoreto
 
CLAUDIO LORETO - L'ULTIMA CRODA - Romanzo.
CLAUDIO LORETO - L'ULTIMA CRODA - Romanzo.CLAUDIO LORETO - L'ULTIMA CRODA - Romanzo.
CLAUDIO LORETO - L'ULTIMA CRODA - Romanzo.ClaudioLoreto
 
CLAUDIO LORETO - PROSPETTO ATTIVITA' PUBBLICISTICA
CLAUDIO LORETO - PROSPETTO ATTIVITA' PUBBLICISTICACLAUDIO LORETO - PROSPETTO ATTIVITA' PUBBLICISTICA
CLAUDIO LORETO - PROSPETTO ATTIVITA' PUBBLICISTICAClaudioLoreto
 

More from ClaudioLoreto (6)

CLAUDIO LORETO - OLTRE LE NUBI, IL SOLE - Racconti (Ottobre 2023).
CLAUDIO LORETO - OLTRE LE NUBI, IL SOLE - Racconti (Ottobre 2023).CLAUDIO LORETO - OLTRE LE NUBI, IL SOLE - Racconti (Ottobre 2023).
CLAUDIO LORETO - OLTRE LE NUBI, IL SOLE - Racconti (Ottobre 2023).
 
CLAUDIO LORETO - SULLE ALI DEL GABBIANO - Romanzo (Editore De Ferrari - Ottob...
CLAUDIO LORETO - SULLE ALI DEL GABBIANO - Romanzo (Editore De Ferrari - Ottob...CLAUDIO LORETO - SULLE ALI DEL GABBIANO - Romanzo (Editore De Ferrari - Ottob...
CLAUDIO LORETO - SULLE ALI DEL GABBIANO - Romanzo (Editore De Ferrari - Ottob...
 
CLAUDIO LORETO - ROMANZO "LIQUIRIZIA" (Ottobre 2019 - EDITRICE LEUCOTEA).
CLAUDIO LORETO - ROMANZO "LIQUIRIZIA" (Ottobre 2019 - EDITRICE LEUCOTEA).CLAUDIO LORETO - ROMANZO "LIQUIRIZIA" (Ottobre 2019 - EDITRICE LEUCOTEA).
CLAUDIO LORETO - ROMANZO "LIQUIRIZIA" (Ottobre 2019 - EDITRICE LEUCOTEA).
 
CLAUDIO LORETO - I SEGRETI DI SHARIN KOT (Romanzo, De Ferrari Editore. Anno 2...
CLAUDIO LORETO - I SEGRETI DI SHARIN KOT (Romanzo, De Ferrari Editore. Anno 2...CLAUDIO LORETO - I SEGRETI DI SHARIN KOT (Romanzo, De Ferrari Editore. Anno 2...
CLAUDIO LORETO - I SEGRETI DI SHARIN KOT (Romanzo, De Ferrari Editore. Anno 2...
 
CLAUDIO LORETO - L'ULTIMA CRODA - Romanzo.
CLAUDIO LORETO - L'ULTIMA CRODA - Romanzo.CLAUDIO LORETO - L'ULTIMA CRODA - Romanzo.
CLAUDIO LORETO - L'ULTIMA CRODA - Romanzo.
 
CLAUDIO LORETO - PROSPETTO ATTIVITA' PUBBLICISTICA
CLAUDIO LORETO - PROSPETTO ATTIVITA' PUBBLICISTICACLAUDIO LORETO - PROSPETTO ATTIVITA' PUBBLICISTICA
CLAUDIO LORETO - PROSPETTO ATTIVITA' PUBBLICISTICA
 

CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA - Racconti.

  • 2.
  • 3. CLAUDIO LORETO GLI OCCHI SULLA SCIA Racconti di remi, piccozze e amori
  • 4.
  • 5. La vita è un po’ come il canottaggio. Il canottiere solca veloce l’acqua, ma con lo sguardo rivolto indietro: ha sempre dinanzi agli occhi (e calcola) la scia della sua imbarcazione; similmente, ognuno di noi nel corso della propria esistenza spesse volte si gira e tira le somme di quanto fino ad allora ha fatto. Poiché ciascuno è il risultato del proprio passato.
  • 6.
  • 7. Dedicato a chi il destino, con me davvero benevolo, mi ha fatto incontrare: mia moglie Nicoletta e nostra figlia Erika.
  • 8.
  • 9. PREFAZIONE Ai tempi del liceo fantasticavo di diventare un corrispondente di guerra; poi, invece, ho finito con il rimediare un meno spericolato impiego in banca: occupazione certamente poco avventurosa, ma che perlomeno mi ha garantito un minimo di tran- quillità economica grazie alla quale ho anche potuto girovagare un po’ e realizzare come “freelance”, per svariati anni, reportages ed articoli per quotidiani e riviste, soddisfacendo così almeno in parte la mia aspirazione giovanile. Occasionalmente mi sono pure azzardato a buttar giù qualche “storiella”; a detta di qualcuno, tuttavia, le mie qualità di narratore non sono all’altezza di quelle - probabilmente già non eccelse - di cronista. Pazienza, nessuno è perfetto. Ho voluto ugualmente raccoglierle in questo vo- lume vuoi per non smarrirle, vuoi perché ci sono comunque affezionato: alcune di esse, infatti, risal- gono al periodo della scuola superiore. L’ultimo racconto (“Passaggio in India” ) in verità appartiene al genere giornalistico: l’ho inserito (un po’ impropriamente) in quanto è legato ad un mo- mento fondamentale della mia vita. L’Autore
  • 10.
  • 11. INDICE Il Nido della Tigre Pagina 1 La lettera 6 Anurag, il fuggiasco 11 Sul Ghiacciaio del Gigante 39 Il sogno di Aleksej 44 La folle gara 56 Storia di una Storia 65 La tempesta segreta del nuotatore 201 Il messaggio del vento 209 Passaggio in India 218 Prospetto attività pubblicistica 236
  • 12.
  • 13. 1 Il Nido della Tigre Nel 1986, poco dopo il congedo dalla Marina, mi ritrovai in Himalaya. Allora il Paese del Dragone Tonante (così viene chiamato il Bhutan dai suoi abitanti) era un regno praticamente “proibito” ed io vi fui ammesso grazie all’ostinazione di un ortopedico giramondo capitato infine laggiù e desideroso, dopo alcuni anni, di rivedere qualche familiare: preso letteralmente per stanchezza, il burocrate competente aveva alla fine concesso - oltre ai permessi a favore di due parenti (la mia ragazza e suo padre) - un terzo, incredibile visto d’ingresso per me. Quell’anno il monsone s’era attardato, minacciando così pioggia anche la mattina della nostra salita al Nido della Tigre. “Eccolo lassù!” - esclamò ad un tratto Giancarlo, il medico, mentre ci preparavamo alla marcia: uno strappo nella nebbia per un attimo lasciò intravedere, in lontananza, il bianco monastero dalle cupole - si diceva - rivestite d’oro zecchino, appuntato a un impressionante strapiombo a 3.120 metri di altezza; là un giovane che aspirava a diventare lama stava affrontando la prevista prova preliminare di tre anni di solitudine.
  • 14. 2 Imboccammo un ponticello sul fiume Paro e quindi un melmoso sentiero che s’inerpicava su per la montagna, dentro una foresta di pini adorni di licheni. Lo zaino, rigonfio com’era di riso, zucchero e biscotti da offrire al seminarista, mi faceva affondare gli scarponi nel fango. Da giovane canottiere esuberante (ma ancora inesperto di montagna) qual ero, decisi allora di fare di quell’ostica ascesa un superbo allenamento; così, regolando bene la respirazione, forzai il passo e presi ad andare su ve- locemente. Troppo. Dopo circa mezz’ora, infatti, il cuore d’improvviso cominciò a martellarmi nel petto con il ritmo di una mitragliatrice, letteralmente impazzito! Mi tolsi subito dalle spalle la pesantissima sacca e mi sdraiai supino su un ripiano roccioso contornato da bandiere con incise le preghiere dei pellegrini, ma ci volle un po’ perché anche la mia richiesta venisse accolta dagli dèi lassù e il battito si regolarizzasse. Attesi quindi l’arrivo degli altri (Nicoletta non mi risparmiò i suoi rimbrotti) e ripresi il cammino con più umiltà. Per tutto il tempo fummo accompagnati dal gracchiare rauco dei corvi che, a nugoli, girovagavano oziosi nel cielo; una lunga processione di batuffoli di vapore procedeva, anch’essa pigramente, tra le montagne selvose che cir- condavano la sottostante Valle di Paro. La nostra meta, invece, sembrò averne abbastanza delle nubi, iniziando a offrirsi ai nostri occhi in tutto il suo incanto. Il mio futuro suocero, intanto, s’interrogava circa l’origine del nome del monastero: era legato a una leggenda locale (secondo la quale Padmasambhava, il secondo
  • 15. 3 Buddha, era andato a meditare in una grotta lassù in groppa alla moglie trasformatasi in una tigre volante) oppure alle meno metafisiche tigri di montagna che, seppure in via di estinzione, ancora popolavano la zona, come sosteneva qualcuno? Io ero invece curioso di conoscere l’interpretazione che l’aspirante monaco avrebbe potuto dare del sogno che avevo fatto la notte precedente: dopo un feroce com- battimento, con la spada avevo trapassato la corazza di un malvagio Cavaliere Nero, di cui mi era ignoto il volto; strappatogli l’elmo, con sgomento dentro quell’armatura avevo però visto me stesso, fissarmi con occhi vitrei… Lasciato il bosco, discendemmo un viottolo scavato lungo la parete che si drizzava verticale di fronte al costone sul quale poggiava, in bilico, il convento; a metà della pista, per rispondere a un richiamo, mi voltai di botto cozzando con lo zaino contro la roccia: sospinto in avanti dal contraccolpo, per alcuni interminabili secondi pencolai, con il sangue gelato nelle vene, sull’orlo del baratro. Giungemmo infine ad una cascatella d’acqua che salterellava giù chiassosa lungo la linea di congiunzione della parete con la montagna santa di Padmasambhava; lì la traccia riprendeva a salire ripida lungo quest’ultima: l’ultimo strappo, in realtà, e dopo tre ore di affanno eccoci finalmente davanti al Taktshang! L’apprendista monaco non era esattamente un isolato: insieme a lui trovammo infatti un ragazzino suo parente e un altro escursionista, uno spagnolo che - in barba alla spiritualità del luogo e ad ogni ideale della montagna - si
  • 16. 4 premurò subito e gratuitamente di renderci nota la sua scarsa considerazione degli italiani (dal canto nostro troncammo sul nascere il rapporto). Il padrone di casa accolse invece i nuovi arrivati con molta cortesia: per rinfrancare le forze ci offrì del tè con dentro sciolto burro di yak, dopodiché ci condusse in visita al santuario che si rivelò in avanzato stato di deterioramento strutturale, ma ricco di suggestivi arredi sacri; la Sala dei Mille Buddha (così chiamata per via delle mille rappresentazioni dell’Illuminato che ricoprivano le sue pareti) induceva seriamente al misticismo. Poi, in un locale ricavato da una grotta, eccola, lei, la tigre: una grande statua della belva, raffigurata con le fauci spalancate e gli artigli affondati nelle carni di due malcapitati. L’ospite in seguito, più che al confronto filosofico, si mostrò molto interessato alle mie moderne calzature da trekking e provò a venderci delle lattine di… Coca-Cola (!). Al momento del commiato l’occhio mi cadde poi su un cestello di riso frammisto a polpa di yak in salsa piccante, pronto al consumo: per i buddisti non era però riprovevole ammazzare e mangiare gli animali? “Loro dicono che sarebbe peccato lasciare a putrefare le bestie già macellate dalle etnie di religione diversa” - mi spiegò Giancarlo. “Oppure quelle precipitate dai dirupi… sui quali però” - aggiunse - “all’occorrenza vengono furbe- scamente sospinte a pascolare dai loro proprietari!”. “Ho capito: la coscienza è a posto e lo stomaco pieno” - commentai io. L’ipocrisia non conosce confini.
  • 17. 5 Alcuni giorni dopo un piccolo bimotore, volando a sobbalzi e scricchiolando paurosamente dentro le strette gole del Basso Himalaya rivoltate dal monsone, ci riconsegnò a un’alluvionata Calcutta; da qui raggiungemmo Dacca, Dubai, Roma e infine Genova. Inaspettatamente, l’attraversamento in taxi della mia città mi turbò: il brutale contrasto tra quel ritrovato ambiente di cemento, asfalto e lamiera e le incontaminate, splendide catene montagnose che conservavo ancora negli occhi (e nelle quali la presenza umana era soltanto un accessorio) rendeva lampante che il mondo moderno si muoveva sulla strada sbagliata. Allo stesso tempo, il Shangri-La non esisteva: la natura umana è infatti la stessa ad ogni latitudine; riprova di ciò sarebbero state, qualche anno più tardi, l’insensata politica razziale avviata dal governo bhutanese e le dolorose vicende che ne conseguirono. Quanto al mio strano sogno, lo risolsi a modo mio: in ciascuno di noi albergano insieme il bene e il male; e se dare libero corso a quest’ultimo è facilissimo, realizzare il primo richiede impegno e consapevolezza… Perdiana, l’esperienza nel Bhutan mi aveva forse avvicinato al buddi- smo? Beh, di certo so solo che essa contribuì al germo- gliare della mia futura, grande passione per le montagne.
  • 18. 6 La lettera Non appena fui fuori di casa i brividi mi scombussolarono: quell’alba faceva più freddo del solito. Esitai per qualche attimo (dietro l’uscio il letto era ancora caldo), poi innestai risoluto il passo: la strada dall’abitato di La Villa al Col di Lana era piuttosto lunga. Mi piaceva del resto girovagare per valli quando tutti ancora dormivano e dunque nessun suono umano distur- bava lo stato di grazia in cui scivolavo attraversando radure e boschi, dove cancellavo i pensieri e diventavo ingordo di sensazioni; così quella mattina, di nuovo, lo scroscio del torrente Giaric mi trasmise un senso di purezza, i prati vellutati dell’Armentarola mi saziarono di quiete e le fanta- stiche guglie delle Conturines mi accesero di meraviglia. Mi domandai con quali occhi avevano però osservato quei medesimi luoghi i giovani sepolti nel piccolo cimitero militare tedesco che toccai poco prima di raggiungere il Passo Valparola: un secolo prima, infatti, le montagne sopra avevano avuto il volto della morte.
  • 19. 7 Sul valico si attardavano bave di nebbia che intiriz- zivano; mi concessi una tazza del tè bollente del Rifugio, alle spalle del quale poi imboccai il sentiero che conduceva sotto le pareti verticali delle Pale di Gerda e del Gruppo del Setsas, di cui costeggiai i lunghi basamenti forzando ulte- riormente il passo nonostante che marciassi più che spedito già da alcune ore. L’immenso silenzio nel quale avanzavo di tanto in tanto veniva rotto dai fischi acuti delle marmotte, come a rammentarmi che il mondo non appartiene soltanto all’uomo. Superai il Passo Siéf e risalìi la scoscesa e interminabile trincea che gli austro-ungarici avevano scavato lungo tutto il crinale del monte omonimo; quando trovai la via inter- rotta da un grande cratere restai interdetto: per sloggiare il nemico entrambi gli opposti eserciti avevano fatto esplo- dere più volte il Siéf (e altre montagne vicine), scavando nella sua pancia gallerie che terminavano con enormi stan- ze poi stipate di dinamite. Che “innovative” e del tutto inu- tili stragi: il fronte dolomitico non si era comunque smosso di una virgola! Al di là del fosso si stagliava la mia meta, il Col di Lana, ribattezzato dai fanti “Col di Sangue” (infatti la contesa della sua vetta costò la vita di ottomila di loro). Mi calai nella spaccatura, saltellai tra i detriti dell’esplosione e poi, seguendo una malferma fune metallica dispiegata lungo la cresta, mi inerpicai su su fino alle croci poste sulla cima del Lana, resa tozza anch’essa nel 1916 da oltre cinque ton- nellate di esplosivo. Per un po’, tutto solo, gironzolai su quel cocuzzolo, fotografando la cappelletta, un bivacco
  • 20. 8 allestito dagli Alpini, l’obelisco eretto affinché si serbasse memoria dell’insensatezza della guerra e tutti i magnifici panorami che potei godere da lassù. Avevo appena intrapreso la via del ritorno quando giù, lungo il fianco ripido della montagna, un riverbero del sole incerto di quel mattino richiamò la mia attenzione. Dal terreno affiorava infatti un oggetto, verosimilmente di metallo: un residuato bellico, riportato alla luce dal tardivo disgelo dell’inverno più nevoso degli ultimi trent’anni, oppure una moderna lattina gettata da un escursionista incivile? Incuriosito, mollai il cavo e discesi con cautela il pendio; tra le mani mi ritrovai così un astuccio ossidato, che faticai a schiudere: al suo interno una vecchissima stilo- grafica, alcuni pennini e un foglio accuratamente ripiegato ma molto ingiallito, che apersi con estrema delicatezza temendo che potesse andare in mille pezzi. Guardai la prima riga (Sabato, 12 maggio 1917 ) ed ebbi un sussulto. Poi - a fatica, poiché sbiadito dal tempo - lessi il resto. Mia adorata, più non ti angustierò con pensieri foschi come feci - senza sul momento avvedermene - nell’ultima mia, che fu dettata dai patimenti per il gelo e specialmente dal turbamento per la morte del caro capitano Silvestri. Oggi - finalmente! - il sole illumina le trincee: si sono scaldati anche i cuori, perché le armi tacciono. Posso dunque abbandonarmi alla contemplazione della Marmo- lada, del Sella e - volgendo gli occhi dall’altra parte - del Civetta: nonostante la guerra, mi è davvero impossibile
  • 21. 9 avere in odio tanta superba bellezza! All’opposto, un tale Paradiso - nel quale gli scoppi appaiono ancor più sacrilegio - insegna ad amare il mondo come mai: così è con una nuova, immensa tenerezza nel cuore che si guarda un fiore fare capolino tra i sassi o si accarezza “Lampo” (così lo abbiamo battezzato!), il cane vagabondo e spaurito che trovò rifugio da noi un paio di mesi or sono (e che qualcuno, per lenire per una giornata i morsi della fame, invece aspira a mangiare!). Pure in tempo di pace, tenere di più a mente che un giorno non ci saremo più gioverebbe a sgombrare la nostra esistenza dalle futilità, le inutili rabbie e le meschine in- vidie di cui essa è zeppa e a vivere invece con pienezza le cose davvero importanti, che sono poi poche ed ovvie. Conquisteremmo la serenità, che è somma ricchezza! Non credi anche tu, cara? Dopo la guerra, allorquando la memoria di essa mi sarà forse divenuta un po’ meno dolorosa, chissà, potrei immaginare di affittare camera, in estate, nel piccolo paese di Corvara e condurre te e la nostra piccola Elisa a vedere questi luoghi pur tuttavia deliziosissimi: te ne innamo- reresti subito, ne sono certo (e io diventerei un po’ geloso di loro). Nel frattempo, insegna fin d’ora alla bambina ad inseguire con tutte le proprie forze i suoi sogni: se li realizzerà sarà assolutamente felice; nel caso invece non riuscisse, dopo i suoi giorni non sarebbero comunque avvelenati dal rimpianto di non averne avuto l’audacia.
  • 22. 10 Ora ti devo ahimè lasciare, perché ho da svolgere un giro d’ispezione. Attendo con ansia Vostre notizie. Un bacio. Sempre tuo, Alberto Quella lettera non era mai partita, dunque il soldato che l’aveva scritta probabilmente era rimasto ucciso: in quale punto del monte - mi chiesi guardando intorno - e come? E cosa ne era stato della sua famiglia? La figlia aveva poi avuto una vita felice? Scavai lì stesso una buca con il pugnale che trasportavo nello zaino e vi seppellii dentro il ritrovamento: era giusto che quella manifestazione d’amore restasse per sempre dove si era manifestata. Una girandola di pensieri mi accompagnò lungo tutto il tragitto di ritorno, fatto sotto una pioggia battente. Non appena fui a casa, cercai mia moglie e l’abbracciai forte.
  • 23. 11 Anurag, il fuggiasco Delle mille straordinarie vicende nelle quali mi sono imbattuto nel corso del mio lungo vagabondare per il mondo, quella che più soventemente riaffiora alla mia mente - e che ora vi narrerò - ebbe inizio nel lontanissimo “Shan-Yul”. Correva l’Anno del Cervo. A quell’epoca ero giovane, nel pieno del vigore, e tuttavia dopo tre mesi ininterrotti di viaggio attraverso le mastodontiche Montagne delle Grandi Scimmie non potevo non accusare la stanchezza. Così un mattino, abbandonatomi sulla soffice erba d’un prato, lasciavo che i raggi del sole mi ritemprassero; la caval- catura, un po’ più in là, si dissetava ad un ruscello il cui scrosciare arrivava alle mie orecchie dolce come una melodia. Il nitrito d’allarme dell’animale d’un tratto mi scosse dal torpore in cui mi ero lasciato scivolare (abbassando così la guardia), ma ormai era troppo tardi: qualsiasi mia reazione avrebbe cozzato contro le lance che mi venivano puntate sul petto. Mentre attendevo che da un’istante all’altro le
  • 24. 12 lame dei miei implacabili inseguitori affondassero nelle mie carni, una voce interrogò: “Cosa ci fai tu qui? Non sai che agli stranieri è proibito avventurarsi nel Shan-Yul?”. La Terra del Leopardo Bianco! Non immaginavo di essermi spinto tanto oltre nella mia fuga… Dunque non si trattava di coloro che avevo temuto; ciononostante quegli sconosciuti, che il sole mi impediva di vedere in viso, non sembravano meno ostili. “Avanti, rispondi!” - intimò la medesima ombra mentre le punte delle lance davano sostegno alla richiesta premendo forte sulle mie costole. “Perdonatemi, ma tale divieto non mi era noto” - dissi - “Comunque, quale Cavaliere della Sacra Confederazione, sono affrancato dal rispetto di qualsiasi frontiera; vi prego dunque di ritrarre le vostre armi e di lasciarmi libero di andare: ho ancora molta strada da fare”. Me le aste non si scostarono. “A giudicare dalle vostre vesti, forestiero”- riprese dopo un attento esame la voce di quello che doveva essere il capo della pattuglia - “si direbbe che quanto affermate d’essere corrisponda a verità; ma di questi tempi abbiamo motivo di dubitare di chiunque. Vi scorteremo pertanto alla fortezza. Là avremo modo di sincerarci della vostra buona fede, nel qual caso potrete riprendere immediatamente il vostro viaggio; diversamente, esso avrà termine per sempre: per i comuni trasgressori la pena infatti è la morte. Intanto vi prego di consegnarmi la vostra spada”. Mi fu permesso di recuperare le mie poche altre cose e, attorniato dai soldati, dovetti cavalcare per quattro ore e più alla volta dell’Hatha Dzong - la “Fortezza del Sole e
  • 25. 13 della Luna” - attraverso risaie inaridite e villaggi abbandonati, senza incontrare anima viva. I volti inquieti dei miei guardiani tradivano una gran fretta di giungere a destinazione; a ciò non prestai comunque molta attenzione, preso com’ero dal pensiero che quel contrattempo poteva tornare a vantaggio dei miei ex confratelli i quali sapevo sguinzagliati come lupi famelici sulle mie tracce. Solo il trambusto all’interno dello Dzong, allorché ne varcammo i sorvegliatissimi portali, mi distolse dalle mie preoc- cupazioni: era un andirivieni di uomini in armi, un traffico ingovernato di buoi che spostavano carri rigurgitanti cadaveri e un affannarsi di donne intorno ai moribondi che gemevano ammassati agli angoli del vasto cortile; questo era annebbiato e reso ancor più tetro dai vapori che turbinavano dai pentoloni approntati qua e là per sfamare i vivi, i quali - scheletrici com’erano - somigliavano però più a fantasmi. Il lezzo di una tale moltitudine si aggiungeva al puzzo delle immondizie e degli escrementi disseminati ovunque, in una mistura terribile che rendeva inutile l’incenso bruciato in gran quantità dai Lama e che pro- vocava conati di vomito in coloro che, come me freschi del luogo, non avevano ancora il naso e la vista abituati a tanto disgusto. Eppure quel gigantesco letamaio doveva apparire un luogo di salvezza per la fiumana di disgraziati che, dietro noi, seguitava a riversarsi dentro lo Dzong... “Non sapevo che il Shan-Yul fosse in guerra. Chi è il vostro nemico?” - domandai al capitano della scorta. “Il Demonio!” - fu la sua risposta.
  • 26. 14 *** “Ora che abbiamo visto l’emblema dell’Ordine dei Cavalieri della Sacra Confederazione” - deglutì l’obeso monaco mal celando lo schifo per la figura del falco impressa a fuoco sulla mia spalla destra - “e siamo pertanto certi del vostro rango, vogliate accettare le nostre più profonde scuse e il nostro sincero benvenuto, nobile signore!”. “Sì, cavaliere” - sorrise affabilmente l’altro (e più gracile) lama, mentre con un cenno del capo congedava il capitano e i suoi uomini - “Ci dispiace di avervi arrecato fastidio con la nostra ispezione, ma certamente capirete: siamo in guerra, e contro il più temibile degli avversari, in quanto invisibile…”. Entrambi i miei interlocutori erano avvolti da una grande stoffa color amaranto, avevano i capelli rasi e i piedi scalzi. “Un nemico contro il quale ci servono uomini di grande esperienza” - riprese a parlare quello grasso - “Come lo sono i Cavalieri della Confederazione. Siamo dunque stati incaricati dal santo Je-Khempo, voce dell’Illuminato, di pregarvi di volere aiutare i nostri migliori guerrieri in una spedizione di capitale importanza per le sorti del Shan-Yul”. Una richiesta, nel mio caso, da respingere immediatamente. “Sono commosso dalla vostra considerazione” - risposi, mentre seminudo al centro della gelida sala riprendevo possesso degli indumenti sfilatimi
  • 27. 15 per la verifica della mia identità - “Purtroppo non potrò godere dell’onore offertomi: la mia via conduce altrove e mi attende impaziente. Sono sicuro che il Supremo Lama troverà un’altro e più valido appoggio all’importante missione”. I due dovevano evidentemente essere convinti di ricevere una risposta ben diversa, poiché il mio no li sorprese. “Ma non potete rifiutarvi!” - proruppe infatti risentito quello mingherlino - “Quando riceveste il marchio del falco giuraste che avreste servito il Bene al di sopra d’ogni cosa!”. “Il Bene? Beh, ho fatto ampia esperienza che esso è una cosa piuttosto soggettiva e mutevole: per lo più combacia con il tornaconto!”. “Voi non sapete quel che dite!” - alzò la voce il monaco corpulento. “Voi bestemmiate!” - gli fece eco l’altro, indignato. “In ogni caso il cosiddetto Bene mi chiama altrove!” - tagliai corto io, finendo di rivestirmi. “Cavaliere, qui il Male ha gettato in campo tutte le sue forze. All’interno dei nostri confini è in atto lo scontro finale tra la Luce e le Tenebre, tra la Vita e la Morte: se la Terra del Leopardo Bianco - dove l’Illuminato si è manifestato - soccomberà, il mondo intero avrà poi presto fine. La vostra presenza è necessaria qua più che altrove!”. “Vi ripeto che la vostra stima di me è fuori misura”. “…Eppure un tempo non esistevano parole per descrivere la generosità di un guerriero della Confede- razione” - commentò alle mie spalle, ferma e profonda, una
  • 28. 16 nuova voce. I due monaci si piegarono immediatamente in un profondo inchino a mani giunte; mi voltai e vidi una figura allampanata dentro una lunga tonaca gialla: gli sgradevoli lineamenti di quel volto, sul quale si disegnava un sorriso falsamente benevolo, tradivano un’anima astuta e doppia. Abbassai comunque lievemente il capo in segno di omaggio. “Sapevo che per convincervi a prendere parte alla nostra causa sarebbe stato alla fine necessario il mio intervento” - proseguì, facendo segno agli incapaci sottoposti di lasciare immediatamente la stanza (i due, profondendosi in lunghe riverenze, si ritirarono umiliati). Compresi che si trattava del Je-Khempo, il sommo sacerdote. “Siete davvero così certo” - gli domandai quando fummo soli - “di riuscire dove i vostri monaci hanno fallito?”. “Oh, sì” - rispose il calvo prelato - “Non potete restare insensibile all’appello che vi viene dallo stesso rappresen- tante dell’Illuminato!”. “Visto che origliavate alla porta, allora saprete che mi attende cosa molto urgente”, replicai brusco (ulteriori lungaggini avrebbero infatti potuto rivelarsi per me pericolose). “Perdonatemi dunque se mi congedo dalla Vostra Superba Persona”. E dopo aver recuperato la spada e ossequiato con un salamelecco, mi diressi verso una delle uscite della sala. “Credo che vi convenga rimandare l’impegno che dite attendervi fuori di qui, dato che si tratta… della forca!”. Mi bloccai sull’uscio, col sangue raggelato. “Vi starete certo domandando, nobile Anurag, come
  • 29. 17 abbia fatto a smascherarvi” - ricominciò quello con una nota di perverso divertimento nella voce - “Dovete allora sapere che gli uomini lanciati al vostro inseguimento per farvi pagare il tradimento da voi perpetrato - come vedete, sono ben informato - hanno perso le vostre tracce; così, per acciuffarvi, settimane addietro essi hanno inviato in volo colombi a tutti i Paesi aderenti alla Santa Congregazione, con legato alla zampa il comando di trattenere i pellegrini corrispondenti alla descrizione fornita fintanto che quelli non fossero arrivati per identificarli. Io ho ignorato la ri- chiesta, avendo ben altra sciagura di cui occuparmi; quando dalla torre vi ho però visto fare ingresso nello Dzong scortato dagli armigeri non ho avuto dubbi: il ritratto del traditore vi calzava a pennello. Tuttavia alla riconoscenza del re di Kodagar e del Gran Maestro dei Cavalieri della Confederazione ho subito preferito l’opportunità di sfrut- tare il vostro famoso talento: in breve, se voi ci aiuterete io eviterò di segnalare la vostra presenza qui a coloro che tanto vi desiderano morto; anzi, se riuscirete nel compito proporrò che il vostro caso venga rivisto. Allora, qual’è la vostra ultima parola?”-concluse iniziando a girarmi intorno con le braccia intrecciate dietro la schiena. “Potrei uccidervi e fuggire ancora”. “La sala è circondata da numerosi soldati con ordini ben precisi”. “Dunque non mi lasciate scelta…”. “Eccellente!” - sorrise il Je-Khempo, già certo dell’esito di quella discussione - “La spedizione a cui vi unirete muoverà tra due giorni. Ora vi accompagneranno alla vostra stanza,
  • 30. 18 affinché vi possiate rinfrescare e riposare; tutto è già stato predisposto per il vostro piacere: questa notte riceverete la visita di una bella… signora. Ah, dimenticavo: i vostri movimenti saranno naturalmente oggetto delle nostre “attenzioni”. “Non ne dubitavo. Una cosa tengo però a dirvi: io non sono il traditore che si racconta”. “Lo so bene, mio caro Anurag, ma mi è utile unirmi al coro di chi invece lo crede”. Quindi si allontanò e nella sala comparve l’inserviente al quale ero stato affidato. *** La gelosia può rendere un uomo abietto: era così accaduto che, essendo i bellissimi occhi verdi della prin- cipessa Alisha e gli apprezzamenti di suo padre (il sovrano di Kodagar, al cui servizio ero stato inviato dal Gran Maestro) rivolti a me anziché al generale Sukumar, quest’ultimo aveva macchinato un inganno per sgombrare il campo alle proprie ambizioni: in qualche modo aveva sottratto delle gemme rare dall’alloggio della principessa, facendole poi rinvenire dalle guardie dentro il mio guanciale durante la perquisizione di ogni angolo del castello ordinata immediatamente dopo la scoperta del furto. Avevo compreso il suo disegno dalla risata beffarda alla quale si era lasciato andare mentre comandava il mio arresto agli sgherri che lo accompagnavano; ero ancora un giovane irruento e così il mio sbaglio fu di estrarre il
  • 31. 19 pugnale dalla cintura e di avventarmi furibondo su di lui, colpendolo a morte: se quello pagò la sua malevolenza, io però - uccidendolo - agli occhi di tutti avevo come firmato una confessione. Ladro, assassino e traditore degli ideali della Confederazione sui quali avevo giurato: da allora non mi era rimasta che la fuga. Nel giudizio del Je-Khempo il mio arrivo, da ultimo, nel Shan-Yul era stato voluto dalla Provvidenza: la mia com- provata abilità nel nascondermi sarebbe infatti potuta tornare utile per scovare, viceversa, l’eremita che si diceva avrebbe potuto salvare il Paese. Namgyal, il comandante della spedizione (dieci soldati più io), dopo la nostra partenza mi spiegò che il flagello che aveva colpito la Terra del Leopardo Bianco aveva avuto inizio alla grande fiera che una volta all’anno si teneva fuori le poderose mura dello Dzong, richiamando da ogni angolo del Paese molti mercanti e una gran folla di compratori. A smerciare succulenta polpa di yak aromatizzata con spezie piccanti era giunto da non si sa quale remota contrada anche un nuovo venditore, assai abile nel richiamare clienti; costui era in realtà un emissario di Ratnakar, il Signore delle Tenebre al servizio di Kàla (il Dio del Tempo e della Morte, acerrimo nemico dell’Illuminato): quelle carni erano state sapientemente infettate, facendo esplo- dere di lì a pochi giorni un male oscuro e contagioso in ciascuno dei villaggi in cui esse erano state infine con- sumate. L’epidemia era dilagata; i lama, depositari della sapienza medica, si erano rivelati incapaci di contrastarla. Il mi-
  • 32. 20 sterioso morbo disfaceva il cervello: taluni sfuggivano allo strazio uccidendosi; gli altri, meno lesti, prima di morire sprofondavano invece nella follia, spesso sguazzando nelle più torbide depravazioni. Ratnakar intanto attendeva pazientemente che la devastazione così scatenata giungesse a pieno compimento, per potere poi fare invadere con fa- cilità dai suoi scherani quell’immenso dominio ormai privo finanche di esercito. Alcuni monaci avevano però informato il Je-Khempo che anni prima un loro confratello di nome Songtesen, mentre attraversava una terra di miscredenti, era caduto vittima di un male analogo, ritrovando però poi il senno grazie - si vociferava - ad un intruglio di erbe; dopodiché il miracolato aveva dismesso la tonaca e, rifiutato il mondo, si era ritirato in un luogo sconosciuto. Trovare costui e farsi rivelare il rimedio: questo, appunto, il compito affidato alla spedizione. Le speranze riposte in me dal Je-Khempo non rimasero deluse: combinando gli indizi raccolti nei villaggi o di pastore in pastore, e discernendo in base all’esperienza acquisita da fuggiasco le notizie verosimili dalle pure fantasie, non mi fu in effetti troppo difficile individuare il nascondiglio del quale eravamo alla ricerca: un convento abbandonato sulla Montagna della Sorte. Alta e cupa, quest’ultima era annegata nella nebbia quando - tormentati dalla pioggia - giungemmo ai suoi piedi. “Eccolo, lassù!”, grido d’un tratto uno dei soldati: uno strappo nella foschia lasciò intravedere un palazzo in rovina
  • 33. 21 appuntato, come per magia, ad una spaventosa parete ver- ticale; un attimo dopo un’ondata di vapore lo nascose di nuovo alla vista. “Finalmente!” - sospirò Namgyal - “L’eremita ci salverà tutti!”. Smontati dai cavalli, ci addentrammo a piedi nella fitta foresta e imboccammo il sentiero che portava su in alto; risalirlo costò ore di tremenda fatica: il peso delle armi ci affondava le gambe nel fango, e i cuori battevano dentro i petti come impazziti; da sopra frotte di corvi ci sorve- gliavano torturando le nostre orecchie con il loro gracchio rauco e cadenzato. Poi con passo cauto superammo indenni il sottilissimo, interminabile camminamento scavato da mani misteriose lungo la liscia parete senza fondo e infine, dopo una breve arrampicata tra grossi sbalzi di roccia, fum- mo all’ingresso della fatiscente costruzione. Dentro dovemmo improvvisare delle torce. Fu un susse- guirsi di sale polverose e drappeggiate di ragnatele, e oramai prossime al crollo; il tanfo mozzava il respiro. Poi, nell’ultima stanza (l’unica rischiarata da dei bracieri), seduto per terra trovammo un vecchio intento a scrivere qualcosa; egli non si curò minimamente dell’intrusione degli uomini armati - che eppure per lui avrebbe dovuto rappresentare un evento straordinario - e seguitò imperterrito a consumare inchiostro su inchiostro; i nostri ripetuti ossequi caddero nel vuoto e, soprattutto, le nostre ansiose domande dovettero attendere parecchio prima di ottenere la considerazione dell’anziano.
  • 34. 22 “Nobili cavalieri” - parlò con malcelato fastidio l’eremita - “la malattia della quale mi riferite e che, sì, io ho conosciuto, è davvero terribile, perché il suo principio muta continuamente: così l’infuso che ha purgato il mio sangue - e che voi ora pretendete di conoscere - può all’opposto avvelenare ancora di più quello d’altri…”. “Voi comunque rivelateci la cura” - insistette Namgyal. “In realtà io ignoro la formula della medicina che mi fu somministrata dai maghi di Rangarpur”. Rangarpur! La città che antiche leggende narravano sperduta, e cionondimeno sfarzosissima, tra le sabbie infuo- cate del Tejasthal, lo sconfinato deserto a nord delle ultime contrade calpestate dai pastori nomadi! Nessuno dei temerari che si erano avventurati là aveva mai fatto ritorno: si credeva che esso fosse popolato da demoni e per questo era proibito; e ogni uomo assennato dubitava fortemente dell’esistenza, laggiù, di una prospera acropoli. Ma ora quell’eremita giurava di averla visitata innumerevoli volte, per filosofeggiare con i suoi sacerdoti. “Stento a crederti, vecchio “ - replicò Namgyal - “Ad ogni modo, indicaci la via per raggiungerla”. “Oltrepassate i Monti Narayani, quindi inoltratevi nel deserto - con lo sguardo fisso a nord - per due giorni; dalla terza alba in poi cavalcate invece sempre sulla scia del sole: come per mano, esso vi condurrà a destinazione”. “Ma dopo aver girato le briglie ad ovest, precisamente quanto tempo ancora occorrerà per vedere i bastioni di Rangarpur?”.
  • 35. 23 “Tre, quattro giorni… forse un anno… forse può non bastare una vita intera”. “Ti prendi gioco di me, vecchio? Piuttosto dimmi: la città è protetta soltanto da mura, o anche da fossati?”. “Chi può dirlo? Essa si mostra a ciascuno in una forma diversa; molti, poi, neppure riescono a vederla”. “Che storia è mai questa? Tu sei pazzo!” - gridò il capitano. “Ho esaudito ogni tua domanda, guerriero; ora non mi resta che pregare l’Illuminato affinché vi sorregga nel vostro compito” - troncò il colloquio l’eremita, accomiatandosi dagli indesiderati visitatori con un inchino meramente formale; quindi, voltateci le spalle, riprese a ricamare d’inchiostro le sue pergamene. Namgyal si sentì oltraggiato da tale comportamento ed intimò a gran voce all’eremita di offrire le proprie scuse; non ricevendo però da questi alcuna considerazione, in uno scoppio incontrollato di collera sfoderò la spada e con essa lo trafisse da parte a parte; con grande sbigottimento di tutti, quel vecchio irriverente non patì però alcun danno: si girò e scoppiò in un riso fragoroso che, propagandosi di sala in sala, riecheggiò a lungo nel monastero. “Questa è stregoneria!” - balbettò Namgyal. Mentre indietreggiava spaventato la sua lama urtò uno degli alti bracieri, il quale si abbatté su una pila di manoscritti che prese immediatamente fuoco; da lì scintille incandescenti schizzarono leste sulle cataste affianco, e in men che non si dica il locale si tramutò in un rogo e lo sghignazzio dell’eremita in un urlo di cupa disperazione: infatti, mano a
  • 36. 24 mano che le carte che aveva compilato durante il lungo distacco dal mondo si incenerivano, il suo corpo si disfaceva, evaporando, finché di lui non restò nell’aria che un ultimo, breve lamento strozzato. Confusi da quei sortilegi e ormai toccati dalle fiamme, fuggimmo precipitosamente dal convento; quando, rag- giunti finalmente i cavalli, volgemmo lo sguardo verso l’alto, di esso non rimaneva che un cumulo di sassi fumanti. Quella sera nessuno di noi parlò. *** Dopo avere risalito per tre giorni il boscoso versante meridionale della catena dei Narayani giungemmo sul Kesendirian-La, il “Passo della Solitudine”. Dabbasso si estendeva ora un rosso, arido oceano di sassi e sabbia di cui non si riusciva a scorgere la fine: a quella vista inquietante anche i più allegri fra noi ammutolirono. Prima di iniziare la lunga discesa verso quell’orrenda landa arroventata Namgyal ordinò di legare ai rami di un albero le sete zeppe di preghiere scritte affidategli dai lama dello Dzong: i venti delle montagne avrebbero rapidamente stinto quelle sup- pliche, portandole su fino agli dei affinché questi le acco- gliessero e proteggessero così la spedizione; dopodiché i soldati si sedettero intorno alla pianta e trascorsero qualche tempo a recitare sommessi mantra. Io me ne stetti da parte, pensando ad altro…
  • 37. 25 *** Era da una settimana ormai che ci addentravamo nel Tejasthal, il quale s’era fatto via via sempre più sabbioso ed estenuante; quel settimo dì il sole aveva raggiunto il suo punto più alto e intorpidiva le nostre facoltà mentre proce- devamo lentamente in colonna, quando all’improvviso Namgyal si mise a gridare. “Rangarpur, Rangarpur!” - ripeteva, contagiando d’eccitazione la propria cavalcatura che rizzata sulle zampe posteriori nitriva smodata, e indicando con insistenza ai compagni un punto lontano all’orizzonte, un po’ più a nord rispetto alla nostra direttrice di marcia. Per quanto, riparandoli con la mano dalla luce accecante, stringessimo gli occhi per allungare la vista, sia io che gli altri tuttavia non scorgemmo nient’altro che dune tremule dentro l’etere rovente. “Com’è possibile che non riusciate a vedere una fortezza tanto possente, e torri così alte?” - si meravigliò Namgyal - “Non sentite lo squillo delle trombe? Probabilmente le vedette hanno avvistato la polvere sollevata dai nostri cavalli!”, “Temo che tu sia vittima di un miraggio” - cercai di persuaderlo. “Io invece credo che i bagliori del deserto abbiano guastato la vista di tutti voi!” - insistette quello - “Comunque potremo facilmente scoprire se io sono oppure no un visionario portandoci più a ridosso di quella che tu, presuntuoso straniero, sostieni essere una fantasticheria” - aggiunse con tono provocatorio. “Dunque avanti!”,
  • 38. 26 comandò poi, lanciando il cavallo in una ardua e folle corsa tra i dossi sabbiosi. Obbedendo al proprio capitano, gli altri spronarono anch’essi le bestie; ed io mossi appresso a loro, non potendo certo concedermi il lusso di rimanere laggiù da solo. Masticando polvere cavalcavamo un centinaio di metri più indietro dell’ufficiale - che intanto sbraitava di vedere già le cancellate della città - allorché d’un tratto lo vedemmo sprofondare insieme al suo destriero nella sabbia: un enorme gorgo si era improvvisamente animato sotto di loro e in pochi attimi essi vennero inghiottiti dal deserto. I nostri cavalli si inchiodarono, presi come noi dal terrore: nitrivano e scalciavano furiosamente, alla fine ci disarcio- narono e fuggirono in ogni direzione, verso il Nulla, abban- donandoci alla nostra sorte. Dopo la disperazione iniziale, pian piano riacquistammo il controllo di noi stessi; fu fatto il punto della situazione e tutti convenimmo che senza più acqua né cibo - finiti chissà dove, legati alle selle - sarebbe stato insensato tentare a piedi la via del ritorno: la distanza che ci separava dai Monti Narayani era ormai troppo grande, sole e sabbia ci avrebbero uccisi ben prima di poterli intravedere. Non ci restava che la fragile speranza di un’oasi, più avanti. Ci liberammo d’ogni bardatura conservando unica- mente la spada, aggirammo il punto - tornato quieto - in cui il povero Namgyal era stato risucchiato e riprendemmo il cammino verso occidente, con l’assillo (o forse l’augurio) di incappare anche noi nelle sabbie mobili.
  • 39. 27 Con sofferenze che mi è impossibile descrivere ci spingemmo tra le dune per alcuni dì ancora, lottando stre- nuamente per sopravvivere all’arsura del giorno e al gelo della notte; poi poco a poco il suolo si fece più compatto e infine ci trovammo ad avanzare - per un tempo che non so calcolare per via dello stato di semi incoscienza in cui ero scivolato - in una pianura pietrosa e senza visibile termine. Anche questa nuova desolazione non conosceva una sola pozzanghera, radice o preda animale: i più prostrati (quattro) caddero, per non rialzarsi più; i superstiti non poterono che lasciarli al loro destino, trascinandosi poi in avanti per una, forse due albe ancora. Finché qualcuno non strillò di nuovo: “Rangarpur, Rangarpur!”. Scrutai l’orizzonte, ma non vidi nulla. Eppure gli altri cinque mi giuravano - tutti - di vederla davvero, questa volta: una poderosa cittadella, laggiù, sulla sommità di un isolato picco roccioso! Sforzai ancora gli occhi bruciati e doloranti, ma invano. Intanto i miei compagni con le ultime forze loro rimaste già arrancavano verso il castello strepitando con voci roche e agitando le braccia per aria nel tentativo di richiamare l’attenzione ed il soccorso di quanti dovevano essere lì di guardia; ed io, ancora immobile e dubbioso, dovetti assistere - inorridito - al ripetersi del maleficio: il cielo fu percosso da un boato spaventoso e subito dopo la terra iniziò a tremare furiosamente spalancando una gigantesca voragine dentro la quale, uno dietro l’altro, tutti quegli sventurati precipitarono senza emettere un solo lamento, come muti. Venni scaraventato a terra e, picchiando il capo contro un sasso, persi i sensi;
  • 40. 28 della fortezza, se mai era veramente esistita, di certo non restava più nulla. *** Durante quella specie di sonno un frammento di me rimasto comunque ancora vigile ebbe come la sensazione di volare giù lungo un pozzo senza fondo. Quando finalmente mi riebbi ci volle un po’ prima che mi rendessi conto di trovarmi in un luogo diverso, ma non meno desolato: me ne stavo seduto in una immensa distesa di melma grigia che ribolliva qua e là e dalla quale esalavano odori nauseabondi che si condensavano poi in una sottile coltre di nebbia; tutt’intorno si intravedevano, affogate nel fango, spoglie d’alberi inceneriti dalle saette e carcasse putrefatte di bestie sconosciute: non fu facile abituare i polmoni a tanto fetore. Tiratomi su, iniziai a vagare affannosamente per quella palude, talvolta sprofondando fino alla cintola, alla vana ricerca di una sponda, mentre dentro cercavo di frenare l’angoscia che andava assalendomi. D’improvviso, alle mie spalle, risuonò una lunga e sorda risata. Mi voltai e vidi, offuscata a tratti dai vapori, la figura di un imponente cavaliere dall’armatura nera, il cui volto si celava dietro la visiera di un elmo anch’esso del colore della notte e sormontato dall’effige del dio Kàla. Mi avvicinai con circospezione al misterioso guerriero, ora silenzioso e immobile nel fango; tra le mani egli teneva, puntata contro di me, una spada che riluceva sinistramente.
  • 41. 29 “Chi siete, cavaliere?” - gli domandai, sguainando comunque anch’io la mia arma. “Mi chiamano Ratnakar”. Era dunque lui, il Signore delle Tenebre! “Cosa volete da me?” - chiesi trasecolato. “La tua vita!”. “Ditemi il perché! Vi ho forse arrecato in qualche modo offesa?”. “Tu hai osato intralciare il supremo disegno di Kàla”. “Non posso essergli stato d’ostacolo: non ho trovato Rangarpur”. “Oh, Rangarpur…” - prese a ridacchiare quello. “Non esiste, vero? Come pure il siero miracoloso… Già... In verità l’avevo sospettato…”. “Per questo ora ti trovi qui. L’eremita e i tuoi ultimi compagni, al pari di quasi tutti gli umani, sono invece finiti vittime delle menzogne in cui hanno creduto, o voluto credere: per vivere l’uomo ha bisogno di illusioni. Noi due, però, non abbiamo miti: siamo simili, io e te”. “Io non sono come voi!”. “Dunque non comprendi? Sei in questo luogo proprio perché anche tu stai per raggiungere la Consapevolezza: è essa la formula che vai ricercando! Ma non l’avrai: il mondo degli umani è oramai vicino alla sua fine, se tu giungessi alla Verità e tornassi indietro a divulgarla potresti ancora salvarlo, e io avrei fallito! Perciò devi morire. Ora!”. E così dicendo si scagliò contro di me.
  • 42. 30 *** Fu uno scontro tra pari abilità, che si protrasse a lungo; il fango si rimestava sotto le nostre mosse spandendo miasmi ancora più velenosi che bruciavano gli occhi e la gola, mentre una folla di avvoltoi assisteva al duello accomodata sui rami rinsecchiti sparsi dattorno, schiamazzando ad ogni incrociarsi delle lame. Nell’aria risonavano boati lontani, mentre misteriosi scintillii, crepitando, illuminavano a tratti la plumbea palude. Allorché venni ferito sia pure superficialmente ad un braccio capii che non combattevamo però ad armi pari: il ferro dell’avversario doveva infatti essere stato intinto in qualche droga, perché nel volgere di pochi istanti le forze mi abbandonarono; mi afflosciai sulle ginocchia, mentre nelle vene sentivo dilagare un senso di delusione. Ritto innanzi a me, il cavaliere nero mi derideva mentre - ormai inerte - attendevo il colpo mortale. Si era adesso impadronito di me uno stato d’animo dapprima di noia e poi di disgusto per la vita che stavo per lasciare: pregai Ratnakar di finirmi immediatamente. Lui smise di ghignare e nello stordimento lo vidi sollevare la lama alta nell’aria, pronta ad abbattersi brutalmente sulla mia nuca. Non so come accadde: un anelito di vita evidentemente trascurato dal veleno mi guizzò fuori dal cuore e corse fino alle mani che ancora impugnavano la spada, la quale d’improvviso scattò verso l’alto trapassando così la corazza nemica. Non un gemito fuoriuscì da essa: solo sangue, che
  • 43. 31 scivolando copioso e veloce lungo l’arma conficcata mi inondò i polsi. Le braccia del cavaliere nero, ancora drizzate in alto, si irrigidirono, lasciando cadere poi giù la spada; io mollai la presa sulla mia, infilzata dentro quel corpo divenuto di pietra che alla fine si abbatté all’indietro affondando con un tonfo sordo nel fango. Volli allora vedere il volto di colui che aveva bramato di essere il mio carnefice. Ma quale fu il mio sgomento allorché, strappatogli via l’elmo, dentro quell’armatura io vidi me stesso, fissarmi con occhi vitrei! Sconvolto, scappai via iniziando a vagabondare senza scopo per la laguna maledetta, finché questa volta non toccai una riva sulla quale, stremato, mi accasciai. Venni trovato, più morto che vivo, da dei pastori sbucati là chissà come, i quali mi legarono prono sul dorso di uno yak e mi portarono al loro accampamento, dove mi guari- rono miracolosamente dal letale veleno. Quando, dopo alcune settimane, fui finalmente in grado di rimettermi in piedi e uscii dalla tenda che mi ospitava, restai letteralmente senza fiato: davanti a me, bianco e immenso contro il cielo azzurro, si ergeva il Chomoananda, la più alta delle montagne conosciute! Il suo spirito chiamò il mio cuore: così, non appena fui di nuovo pienamente in possesso delle mie forze, partii per raggiungerne la cima. E lassù trovai ciò che Ratnakar voleva proibirmi. Avevo da pochi giorni fatto ritorno al campo quando nel mio ricovero irruppero sei uomini che indossavano le uniformi, impolverate e lacerate da un lunghissimo viaggio,
  • 44. 32 dell’armata di Kodagar. “Finalmente vi abbiamo trovato” - dissero - “Abbiamo l’ordine di condurvi da re Virendra”. “Per divertire, immagino, la plebaglia annoiata con una bella impiccagione!” - commentai io sarcastico - “E così sia: sono stanco di fuggire…”. “Non vi sarà alcuna esecuzione, prode Anurag” - chiarì uno di quelli, chinando rispettosamente il capo - “Il vostro caso è stato rivisto”. *** La sala reale mi apparve cambiata dall’ultima volta che l’avevo veduta, alcuni anni prima; in effetti sembrava riadattata per ospitare un’importante cerimonia. Quando fui al cospetto di Sua Maestà feci per inginocchiarmi riverentemente, ma egli con un cenno della mano me lo proibì; poi, con una smorfia di fatica che tradiva il tempo accumulatosi sulle sue spalle, si alzò dal trono e mi venne incontro dispiegando un sorriso paterno, per stringermi infine forte a sé. “Anurag, hai salvato il mondo dall’Oscurità! Gli uomini te ne saranno eternamente grati!”. Dentro la tenda, in preda alla febbre alta, avevo delirato per giorni, farfugliando tra mille cose pure parole sul mio conto e su ciò che era accaduto nella palude; i pastori ave- vano fatto arrivare quelle importanti notizie a Kodagar (perciò i soldati questa volta erano riuscito a localizzarmi e a raggiungermi!) e da lì esse erano poi rimbalzate dappertutto. L’esercito delle Tenebre, perduto il suo
  • 45. 33 Signore, si era disciolto come neve al sole e nel Shan-Yul l’epidemia, non più rinfocolata da nuovi untori, pian piano si era esaurita; ed io, da ladro e assassino, di punto in bianco mi ero trasformato per tutti in uno straordinario eroe. “Ti domando perdono per avere dubitato della tua rettitudine e per aver spinto il Gran Maestro a decretare la tua caccia, ma a prima vista tutto davvero era contro di te”, si giustificò il sovrano con tono di sincero rimorso. “E’ stata mia figlia - oh, lei si è sempre rifiutata di pensarti colpevole! - a esibirmi trionfante la prova dell’inganno ordito da Sukumar”. Appresi così che circa un anno dopo la mia fuga da Kodagar il fratello di colui che avevo ucciso aveva chiesto udienza alla principessa per mostrarle una lettera con la quale lo scellerato generale, in uno sfogo, gli aveva confidato l’insana gelosia che lo stava consumando nonché il suo meschino piano di rivalsa; non volendo disonorare la memoria del congiunto costui aveva taciuto a lungo, poi però la sua coscienza non aveva più permesso che si perseguitasse un innocente. Dopo di ciò i miei inseguitori avevano inteso semplicemente riportarmi con ogni onore tra i miei pari, ma io non potevo saperlo e così avevo seguitato a ingegnarmi per restare uccel di bosco (la storia dei colombi viaggiatori, dunque, era stato un inganno del Je-Khempo per potermi usare!). “Lei vorrebbe salutarti, prima di abbandonare il palazzo” - disse poi Virendra. Lo guardai con aria interrogativa.
  • 46. 34 “Come, non sai nulla? Fra quattro giorni andrà in sposa - proprio qui, in questa sala - al re di Sawangal! Su, brinda anche tu a questa unione che frutterà pace e prosperità a due popoli a lungo nemici” - continuò il re con voce festosa, comandando poi ai servitori di portare due calici di vino. Il mio fu amarissimo: a quella notizia, che mi aveva gelato il cuore, avrei preferito mille volte la morte con gli altri nel deserto. Alisha… Per tutti quegli anni solitari aveva riempito i miei sogni la notte e occupato i miei pensieri di giorno! Quando ero arrivato a Kodagar in entrambi era subito scoppiata la passione, celata tuttavia l’un l’altro e al mondo (poiché ambedue la sapevamo inaccettabile per i disegni di corte) ma ugualmente resa manifesta a tutti dai nostri occhi che si cercavano continuamente per poi fingere di guardare oltre quando si incrociavano, dal tremore delle nostre parole nelle conversazioni che si dissimulava nate per caso, e alla fine confessata da quel “Ti amo!” sussurratoci recipro- camente all’orecchio al termine del nostro ultimo ballo, la sera prima della mia inimmaginabile fuga: era stato il ricordo improvviso di quel magico momento, in realtà, ad avermi acceso lo sprazzo di vigore che mi aveva salvato dal Signore delle Tenebre. Avevo l’animo in subbuglio mentre, accompagnato da una damigella chiacchierona che tuttavia non ascoltavo, salivo le scale che conducevano al suo appartamento e che parevano non volere terminare mai. La trovai seduta presso il finestrone, col viso illuminato dai raggi del sole che filtravano attraverso i grandi vetri smerigliati e i lunghi
  • 47. 35 capelli vellutati raccolti in trecce da un’altra ancella devota; l’aria, nella stanza, profumava di lei. Nel rivedermi ebbe un sobbalzo di gioia, ma subito si ricompose; congedata la giovinetta - che uscì dalla stanza omaggiandomi con un inchino - ella prima d’ogni altra cosa volle sincerarsi del mio buon stato di salute, quindi mi invitò a sedere su uno scranno di fronte al suo. La guardavo completamente disarmato: era diventata, se mai ciò fosse stato possibile, ancora più bella! Conservando in principio un certo distacco che mi disorientò (il suo sentimento si era dunque spento?) mi chiese dei luoghi lontani e delle genti diverse che, mio malgrado, avevo conosciuto; volle poi sapere di più sulla mia salita in cima al Chomoananda: sciogliendosi final- mente un po’, ascoltò con partecipazione il racconto di quella ascesa di giorni e giorni dentro la neve, la quale passo dopo passo mi aveva prosciugato il respiro e le forze, mentre la mente per il gelo e la sete era andata via via popolandosi di fantasmi. “Da lassù ho però poi visto il mondo intero: abban- donatomi allo stupore, ho riempito la mia anima di bellezza e provato una pace immensa; e il timore della Morte e del Nulla è svanito, per sempre. Sono tornato indietro spogliato d’ogni smania di averi e privilegi, ma gonfio di desiderio di guardare con uno sguardo nuovo la vita”. Lei vacillò: non osando con le mani, prese a carezzarmi il volto con gli occhi, pieni di trasporto e, insieme, di smarrimento. Poi però si scosse e tornò ad imporsi compostezza. Mi domandò quindi altre cose ancora, ma nulla su ciò
  • 48. 36 che veramente mi premeva: nulla, cioè, su noi due. Così, esaurito alla fine ogni spunto di conversazione, nella stanza scese un imbarazzante silenzio; io d’altronde continuavo a lanciare occhiate astiose alla veste da sposa in preparazione in un angolo dell’appartamento. “ Dunque sarete presto regina…” - ruppi infine gli indugi. Lei si alzò in piedi accostandosi alla finestra, guardando oltre, lontano. “Siete innamorata di lui?”. “E’ un uomo gentile. Con il tempo imparerò ad amarlo pienamente”. “Non credete affatto a ciò che dite!”. “Siete uno sfrontato!” - rispose lei stizzita, senza nemmeno voltarsi. “No, sono soltanto uno sventurato che vive per voi”. La sua figura delicata si irrigidì: strinse forte i pugni e serrò gli occhi, da cui iniziarono a scivolare giù calde lacrime. “Mio padre desidera, e il mio futuro consorte è d’accordo, che Voi veniate a Sawangal per assumere il comando della guarnigione di quel palazzo e servirmi come guardia personale. Ora io vi prego… vi imploro…” - continuò tra i primi singhiozzi - “di non accettare questo privilegio; anzi, vi comando di non oltrepassare mai le fron- tiere del mio nuovo regno e, infine, di… dimenticarmi!”. “Al ballo diceste di amarmi!”. “E dunque?”- ribatté lei con voce sconfortata e risentita insieme - “Dopo la vostra fuga ho sofferto enormemente;
  • 49. 37 senza più notizie, vi ho infine creduto morto. Le cose han- no così seguito il loro corso, senza tenere conto dei miei desideri. E ora voi rispuntate dal nulla e… pretendete forse che io rifiuti le nozze? Per il nobiluomo a cui sono pro- messa sarebbe un affronto tale da portare probabilmente ad una nuova guerra! Per me ormai non è più possibile tornare indietro, lo capite? Il destino, evidentemente, ci vuole divisi…”. E per soffocare l’angoscia che era ormai sul punto di travolgerla, sempre volgendomi le spalle pose brusca- mente fine all’incontro: “E’ giunto il momento di salutarci, cavaliere!”. Io non capivo più nulla, se non che desideravo paz- zamente di prenderla tra le braccia, e baciarla. Ma ciò avrebbe reso ancora più insostenibile il male che ci stavamo infliggendo a vicenda, e così alla fine non mi mossi. “Sapermi l’artefice della nostra infelicità rimarrà per me il peggiore dei castighi…” - fui solo capace di bisbigliare. Lei si girò. “Forse ci incontreremo di nuovo in un’altra vita” - sorrise triste - “Ora però vai… vai, ti supplico… mio unico, immenso amore!”. *** Non tornai dal Gran Maestro e dai cavalieri della Sacra Confederazione. La mia stella mi condusse altrove, lontano: attraversai molti altri deserti e nuovi ghiacciai, valicai scoscese montagne ancora ignote all’uomo, finché non giunsi qui, a Dalimkot, dove finalmente mi fermai e volli dimenticare il mio rango e il mio stesso nome per diventare
  • 50. 38 - per tutti coloro che da allora in poi ebbero a conoscermi - semplicemente il mite Nihar, allevatore di api. Lo struggimento per Alisha pian piano si è trasformato in nostalgia e infine, nel crepuscolo della vita, in un dolcis- simo ricordo: adesso che sono vecchio mi da pace sapere che, a dispetto del tempo e della lontananza, lei in realtà è appartenuta, e sempre apparterà, soltanto a me, ed io a lei. Nell’illusoria ma nondimeno consolante attesa di incon- trarla davvero di nuovo in un’altra vita. Ho spesso ripensato anche alla furia di Ratnakar contro la stirpe degli uomini. Egli era caduto in errore: non avrei mai potuto salvare gli umani, perché ben pochi fra essi pos- sono accogliere le verità che appresi sulla cima della grande montagna; ironia della sorte, fu proprio lui a preservare il mondo, allorché intese fermarmi trovando invece la morte: così le fantasie degli uomini poterono rigermogliare, do- nando loro nuovamente la speranza. Riflettendo su me stesso, accetto tutto quanto nel bene e nel male ho voluto o dovuto vivere, poiché mi hanno reso quel che sono: un uomo, che ora attende con serenità il suo ultimo giorno. E a voi dico: vivete con intensità e con amore ogni vostro istante, seppur sapete che d’essi non resterà nulla. Sarete allora creature degne.
  • 51. 39 Sul Ghiacciaio del Gigante Fuori, nel buio, il vento ululava rabbioso e gelido. Rinserrai immediatamente la finestrella della camerata, provando un avvilente senso di piccolezza, e mi costruìi addosso un’armatura di indumenti termici; scesi coi compagni in sala a tracannare due tazzoni di tè bollente e poi - moderno Don Chisciotte - spalancai l’uscio del rifugio e mi lanciai per primo nella tormenta, che però nel frattempo era - di colpo - clamorosamente cessata. Quella domenica di giugno l’intera penisola sarebbe stata difatti preda di una eccezionale canicola: sul Ghiacciaio del Gigante, alle 5,30 del mattino, i miei ramponi calpestavano neve già mezza frolla e durante la marcia di aggiramento delle “Aiguilles Marbrées” (che intendevamo salire dal versante est) dovetti via via aprire ogni possibile cerniera per evitare di ritrovarmi infine a sguazzare dentro uno scafandro di sudore (per inciso, ero già alquanto irritato dal non essere riuscito a chiudere occhio per tutta la notte, probabilmente per via dello sbalzo di quota).
  • 52. 40 Lo scenario circostante, in compenso, mozzava il respiro e lungo la salita approfittai di una breve sosta della mia cordata per voltarmi e divorarlo con gli occhi: sulla destra, contro il chiarore pallido del sole sorgente, si stagliava scura la forma di un incredibile pilastro obliquo (il famoso “Dente del Gigante”); di fronte si estendeva un immenso anfiteatro bianco tra i cui palchi di picchi aguzzi sedevano con regalità il Tacul e l'Aiguille du Midi, mentre il sottostante, ondulato oceano di neve si colorava d’arancio laddove arrivavano - filtrando attraverso i varchi delle montagne - i primi raggi del mattino; a sinistra, suscitan- domi brividi, si ergeva poi - grandioso e fiero - lui, il Monte Bianco! Ero come ipnotizzato, e schiacciai forte le palme delle mani contro le orecchie: non volevo che il vocio dei compagni spezzasse quell’incantesimo. Avevo voglia di sciogliermi dalla cordata, liberarmi del peso dello zaino e correre laggiù, segnando quella distesa immacolata con le mie orme, e lì saltare, fare capriole e lasciarmi rotolare lungo i pendii come un bambino. All’improvviso, però, il pensiero andò a Dario, mio compagno di tante vittorie giovanili sui campi di canottaggio ma soprattutto, fuori dalla barca, l’amico fraterno, prima che l’inimmaginabile (l’infatuazione verso una stessa ragazza che aveva illuso entrambi) ci allontanasse, ciascuno convinto - a torto - di essere stato tradito dall’altro. L’avevo rivisto la domenica precedente dopo lunghi anni di reciproco e insensato silenzio, ridotto al lumicino da un male inesorabile su un letto d’ospedale a Firenze (aveva chiesto alla moglie di rintracciarmi e di potermi rivedere); la larva che mi ero
  • 53. 41 trovato davanti non aveva nulla a che fare con il ragazzo aitante e gioioso che avevo conosciuto: Dio, quanto avrei voluto strappare il groviglio di tubicini che lo avvolgeva e porre immediatamente fine a quella disumana trasfor- mazione del “mio” Dario, dandogli la pace! Come quella che stavo provando io adesso, di fronte a tanta assoluta bellezza… Egoisticamente, scacciai via l’antico amico dai miei pensieri. La salita alla cima più alta delle Marbrées - quella nord - non è tecnicamente ostica. Tuttavia un tratto interamente innevato ci rallentò parecchio; il ghiaccio, infatti, s’era fatto poltiglia: quando, al di sopra della testa, vi conficcavo la becca della piccozza e poi tiravo per issarmi, quest’ultima scivolava subito giù sfarinando il terreno; alla stessa stregua, i gradini che ero costretto a crearmi con le punte anteriori dei ramponi e dopo a consolidare battendovi ripetutamente sopra il piede, quasi sempre poi cedevano sotto il mio peso, facendomi slittare in basso e perdere più terreno di quanto non ne avessi appena guadagnato. Sempre badando, ovvia- mente, a non perdere comunque mai l’appoggio sulla montagna, altrimenti l’intera cordata avrebbe potuto cor- rere il rischio di ruzzolare giù per il lunghissimo canalone. “Ma non avevo proprio nient’altro da fare oggi?” - mi chiedevo, grondando sudore e col pensiero che correva al caffellatte con focaccia calda che a quell’ora mi avrebbe servito a letto mia moglie se me ne fossi invece rimasto cheto a Genova. Ad ogni modo, facendo stridere orripilantemente i ramponi sulle rocce della torretta sommitale, alla fine
  • 54. 42 giungemmo in vetta (un’autentica “punta”, v’è spazio a sedere per una persona soltanto). La giornata era splendida e avrei voluto fermarmi lassù per un po’, ma Fulvio (il capo-cordata) batté ripetutamente il dito sul suo orologio da polso per rammentarci che eravamo alquanto in ritardo sulla tabella di marcia. Lungo la cresta innevata che digrada verso sud tutte le cordate procedettero con estrema cautela: la stretta “traccia” era ormai quasi melmosa e talvolta i ramponi non facevano granché presa, così il rischio di scivolare e poi andar giù a velocità supersonica lungo l'uno o l’altro dei ripidissimi fianchi della montagna diventava… beh, plausibile. “Occhio, Claudio, concentrati sui passi, ricordati che tieni famiglia!”, continuavo a ripetermi. Primo di cordata nella lenta e delicata discesa, ad un tratto mi avvidi di un provvidenziale spuntone di roccia intorno al quale fissai prontamente un cordino di sicurezza, attrezzandolo poi di moschettone; dopodiché proseguii però oltre, dimenticandomi bellamente di inserire dentro quest’ultimo la corda che mi legava alla compagna dietro! Fulvio dall’alto mi segnalò a voce l’omissione ed io, rettificando il mio ritornello (“Occhio, imbecille, ricordati che… ecc. ecc.), tornai indietro per rimediare. Poi più dabbasso, data l'eccessiva lentezza con la quale stavamo procedendo, venne infine deciso di portarci direttamente sul ghiacciaio, calandoci uno alla volta con manovre di corda attraverso un ripido canale di neve. Quando fui sulla terrazza del Nuovo Rifugio Torino accesi il cellulare per avvisare a casa che la giornata si era
  • 55. 43 conclusa - così pensavo - felicemente; subito un “bip” mi segnalò la presenza di un messaggio nella segreteria tele- fonica. Era della moglie di Dario: mi informava, con un filo di voce, che lui se ne era andato alle 6,15 di quel mattino, cioè all’ora in cui, durante la risalita del ghiacciaio, mi era improvvisamente comparso nella mente... Un mese più tardi, coronando un sogno, giunsi lungo la “via normale” sulla vetta della Cima Grande di Lavaredo. Avevo letto che anche lassù, fissate ad una corda tesa, sventolavano delle piccole “lung-ta” himalayane e così dallo zaino estrassi un oggetto di cui, per nulla al mondo, mi sarei prima mai spossessato: la medaglia di bronzo conquistata in un'importante regata internazionale insieme a Dario. Con il suo stesso nastrino azzurro la assicurai bene alla funicella, immediatamente dopo l’ultimo drappo sacro: congiunsi le mani sul petto e le rivolsi un lungo inchino, poi i miei occhi si persero, malinconici, nelle meraviglie che mi circon- davano. Non credo in alcun aldilà. Tuttavia, ancora oggi mi piace pensare che il vento e il gelo, polverizzando poco a poco quel pezzo di metallo, abbiano “liberato” la storia di fra- terna amicizia che essa custodiva, conducendola fino alle stelle e rendendola lassù eterna.
  • 56. 44 Il sogno di Aleksej Fuori, allo scrosciare monotono della pioggia, si aggiunse ad un tratto il lontano rumore di un cavallo al galoppo. Il ritmico calpestio degli zoccoli si fece sempre più vicino e quando fu giunto davanti all'ingresso della casa si bloccò bruscamente; un istante dopo si udì un frenetico bussare alla porta. “Chi mai può essere?” - si domandò Sergeevic che, avvertendo l'avvicinarsi dell'animale, aveva intanto smesso di mangiare. Si sentì nuovamente battere all'uscio. “Vi prego, aprite!” - implorò dall'altra parte una debole voce, subito soffocata dal rombo assordante di un tuono. “Vai ad aprire immediatamente, o chiunque egli sia si buscherà un bel malanno!” - disse l'anziano Vladimir a Sergeevic, suo figlio; il robusto contadino si alzò dalla tavola e corse a togliere la trave che sprangava dall'interno la porta di casa. Un giovane avvolto in un lungo mantello grondante d'acqua si precipitò immediatamente dentro, e
  • 57. 45 prima che l'altro richiudesse a fatica l'uscio sospinto dal vento un lampo illuminò nella notte il cavallo che fuggiva via terrorizzato tra fittissime linee di pioggia. “Vi ringrazio” - disse il giovane cavaliere con voce spossata, mentre ai suoi piedi si era già formata una larga pozza d'acqua. Tutti gli occhi della famiglia erano appuntati su di lui: era alto e snello, e sul pallido viso rigato dalle gocce di pioggia che gli colavano giù dai capelli biondi si potevano ancora scorgere i segni di una passata fierezza, cancellata da un qualcosa di doloroso; dal basso della cappa consunta fuoriuscivano due stivali da soldato il cui colore era celato da uno spesso strato di fango. “Toglietevi il mantello e accomodatevi alla nostra tavola”, disse l'anziano padrone di casa al nuovo arrivato. “Avevamo appena iniziato la cena. E non preoccupatevi per le vostre calzature”- aggiunse, accorgendosi del suo imbarazzo e continuando a esaminarne i lineamenti con interesse. Intorno al tavolo apparecchiato, oltre al vecchio, erano seduti una tipa corpulenta più o meno della medesima età, una seconda donna molto più giovane e due bambini. Ma nessun altro. “Grazie” - disse l'ospite con voce delusa - “Ma non vorrei arrecarvi fastidio...”. "Su, via, niente complimenti in casa mia!” - ridacchiò pacatamente Vladimir - “Siete il benvenuto fra noi!”. Il cavaliere ringraziò mentre Sergeevic lo aiutava a disfarsi del pesante pastrano impregnato d'acqua. Sotto in- dossava una logora casacca verde da ùssaro zarista, la quale
  • 58. 46 doveva essere stata un tempo molto elegante e che era tenuta ferma alla vita da una cintura di pelle nera da cui pendeva una spada dall'impugnatura lavorata in oro; i calzoni scuri con una striscia laterale rossa per gamba erano alquanto sudici e strappati in più punti. “Non dovrebbe aggirarsi per le campagne con questo tempaccio!” - lo rimproverò la vecchia che si era alzata per porgerli un panno con cui asciugarsi il viso. “Grazie, siete tutti molto gentili” - disse il cavaliere. La donna lo prese per un braccio e lo condusse a sedersi su una sedia di fronte a Vladimir che seguitava intanto a studiare il suo volto, mentre Sergeevic, dopo avere siste- mato il mantello ad asciugare vicino al caminetto che scaldava tiepidamente l'ambiente, riprese il proprio posto a fianco della ragazza; la donna anziana pose poi davanti all'ospite un piatto di montone arrostito e un boccale pieno di vòdka. “Vi presento la mia famiglia” - riprese a parlare il vecchio - “Io mi chiamo Vladimir, e insieme a mio figlio Sergeevic coltivo il fazzoletto di terra che circonda questa casa. Loro, i miei nipoti” - disse indicando affettuosamente i bambini seduti alla sua destra - “si prendono invece cura delle capre e delle vacche che teniamo nella stalla qui dietro l'abitazione: sono anche piuttosto competenti, i due birbanti!”. I piccoli assunsero un’aria orgogliosa sentendosi lodati per il loro compito di alta responsabilità, e il cavaliere li guardò con tenerezza. “Lei è Lunjevica, la sposa di Sergeevic” - continuò Vladimir additando la ragazza - “Invece questa donnaccia
  • 59. 47 brontolona e petulante è mia moglie Draga!”. Scoppiarono allegre risate e la vecchia stessa sembrò divertita per la facezia; però allorché i due bambini presero a canzonarla anche loro con alcune battute attinenti alla sua pinguedine, la donna mutò bruscamente umore e cominciò a gesticolare adirata contro i nipoti: non permetteva che qualcuno all'infuori del marito si burlasse di lei! “Su, Draga, stanno solo scherzando! Sai che in realtà ti vogliono un gran bene!" - la calmò divertito Vladimir, mentre Sergeevic e sua moglie si guardavano l’un con l’altra sforzandosi, per rispetto, di non ridacchiare oltre pure loro. Anche il giovane cavaliere accennò un sorriso: la scena era stata capace di rallegrarlo, e per lui era difficile diver- tirsi, ormai da tempo. “Ora però basta con le chiacchiere!” - sentenziò Vladimir, rivolgendosi poi di nuovo all'ùssaro. “Immagino che voi, signore, abbiate fame, e non è educato” - soggiunse ammonendo gli altri - “parlare mentre si mangia”. Si fecero tutti il segno della croce sul petto e ripresero la cena interrotta poco prima. All'esterno continuava a dilu- viare. Di tanto in tanto qualche lampo illuminava a giorno la stanza, rischiarata altrimenti dal fuoco del caminetto; subito dopo seguiva il boato sordo del tuono. Da dietro la porticina che comunicava direttamente con la stalla proveniva un belare inquieto e talvolta anche le mucche facevano udire il loro muggito preoccupato. “Le bestie sono impaurite” - commentò uno dei bambini. “No, hanno solo fame” - rispose noncurante il padre, seguitando a mangiare con gusto.
  • 60. 48 Il soldato invece masticava con scarsa convinzione; non sembrava neppure rendersi conto di avere qualcosa in bocca, immerso com'era in chissà quali pensieri. “Forse l'arrosto non è di vostro gradimento?” - domandò premurosa Draga, che se ne era accorta. “Oh, no, tutt'altro!” - si scosse confuso l’ospite - “E' molto gustoso, davvero! Il fatto è che, pur non toccando ci- bo da diversi giorni, ora stranamente non ho molto appe- tito” - si spiegò, temendo di averla potuta offendere. “Oh, povero ragazzo, per questo siete così sciupato! Forse qualche preoccupazione vi assilla?”. “No, affatto, tutto procede per il meglio” - si affrettò a rispondere il giovane - “Vi ringrazio in ogni caso per le vostre premure”. Dopodiché il silenzio non venne più interrotto. Quando infine tutti ebbero terminato di cenare (solo il soldato non aveva mangiato praticamente nulla), l'anziano capofamiglia si alzò per primo dalla tavola e mentre con una mano estraeva la pipa dalla tasca dei pantaloni, con un calmo gesto dell'altra invitò il militare ad andare a sedere insieme a lui su alcuni sgabelli posti davanti al focolare. Il contadino più giovane invece si infilò a fatica oltre il ristretto uscio che dava sulla stalla, seguito dai due figli che strascinavano ciascuno una cesta di cibo per gli animali (i quali avevano intanto cominciato a protestare più energicamente); le due donne, dopo avere diligentemente sparecchiato la mensa, scomparvero dentro una minuscola e fumosa cucina. “Non mi avete ancora detto il vostro nome e il luogo in cui siete diretto” - domandò Vladimir quando furono soli.
  • 61. 49 “Mi chiamo Lev… Lev Malenkov. Sono un messaggero e vado… ad est. Devo consegnare alcuni importanti dispacci al comando della guarnigione della capitale”. Il vecchio sembrò non avere ascoltato la risposta, affaccendato com'era nel tentativo di accendere la pipa che teneva stretta nella bocca nascosta alla vista da una folta barba bianca. Quando il tabacco fu finalmente affocato, si curvò appoggiando i gomiti sulle ginocchia e chiuse gli occhi: ristette così, come sonnecchiante, per parecchi mi- nuti; mentre la pioggia fuori si abbatteva con veemenza contro i battenti delle piccole finestre, dalla pipa fuoriusci- vano a intervalli regolari cerchi di fumo che spandevano nella stanza un gradevole aroma di erba nicotiana. Quando si raddrizzò, Vladimir vide che il giovane fissava malinconico le fiamme che nel caminetto giocherellavano a confondersi continuamente l'una con l'altra. “Da quanti giorni non dormite, soldato?” - domandò quasi con indifferenza, dopo essersi tolto la pipa di bocca. “Non saprei, ho perso ormai il conto” - rispose meccanicamente l'altro, senza distogliere lo sguardo dal fuoco. “La missione affidatavi è dunque della massima impor- tanza, se per portarla al più presto a termine vi private anche di cibo e riposo” - osservò il vecchio contraendo il viso in una finta espressione di ammirazione. “Già”. “Siete davvero un bravo soldato”".
  • 62. 50 “Vi ringrazio”. disse laconicamente l'ùssaro continuando a fissare i tizzoni incandescenti. Il vecchio gettò dentro il caminetto alcuni pezzi di legna accatastati ai suoi piedi. “Non siete certo di molte parole” - continuò, ricacciandosi la pipa tra la barba; dalla cucina frattanto giungeva il vociare delle due donne indaffarate nella pulizia delle stoviglie, mentre nella stalla le bestie avevano cessato di lagnarsi. Fuori il sibilo del vento si faceva sempre più acuto e la pioggia non accennava ad attenuarsi. “Credo che dobbiate dormire qui, questa notte” - commentò Vladimir. “No, non posso. Devo andare”. “Vi pigliereste una polmonite! Inoltre in questo mo- mento non mi sembrate proprio essere nelle condizioni migliori per affrontare un lungo viaggio: avete assolu- tamente bisogno di riposare, se volete giungere a San Pietroburgo. Sempre ammesso” - continuò ridacchiando ironicamente - “che Voi dobbiate veramente portare dei dispacci alla capitale...”. Il soldato si voltò verso il vecchio, guardandolo per qualche istante disorientato; poi rigirò lo sguardo sul fuoco e la sua espressione tornò assente. “Per raggiungere San Pietroburgo bisogna cavalcare verso ovest, e non verso est come Voi avete detto. Un portaordini” - osservò Vladimir con tono di paterno rimprovero - “sa esattamente in che direzione dirigersi e ha in cima ai suoi pensieri la propria cavalcatura: non mi è parso che vi siate dannato per la perdita del vostro cavallo!”. Si interruppe un momento, il tempo di dare un
  • 63. 51 paio di rapide boccate alla pipa. “Ed inoltre” - riprese poi - “un semplice messo di solito non porta una spada dall'elsa d'oro”. Il giovane soldato permaneva silenzioso e indifferente. “Non è comunque per queste ragioni che so che Voi non dovete affatto andare alla capitale; perché, anzi, non vi farete più ritorno fino a quando non avrete trovato ciò che state disperatamente cercando, principe Aleksej”. “Come fate a sapere che sono il principe Aleksej?” - si rigirò di botto l’altro, interdetto. “Due anni fa mi sono recato a San Pietroburgo per com- perare delle bestie: là vi ho visto passare lungo la strada principale, mentre la folla si apriva davanti a Voi che montavate uno stupendo cavallo bianco, scortato dalle guardie dello Zar vostro padre. Il vostro volto fiero mi è rimasto impresso nella memoria: vi siete molto consumato da allora, ma non ho avuto eccessiva difficoltà a ricono- scervi ugualmente quando siete entrato qui”. L'espressione del buon vecchio si fece ad un tratto più seria. “So anche cosa state cercando; l'intero popolo di Russia sa cosa sta in- seguendo inutilmente da più di un anno il suo amato Zarèvic!”. Il giovane tornò ad ignorare le parole del contadino. “Vostra madre la Zarina è molto in ansia per Voi: vo- gliate perdonare la mia insolenza, ma credo che non sia stato giusto da parte di Sua Altezza non fare avere più noti- zie di sé da quando è partita!”'.
  • 64. 52 Il principe chiuse gli occhi appesantiti dalla stanchezza, sospirando: quindici mesi erano trascorsi dalla notte in cui Lei gli era apparsa - bellissima! - in sogno... Era rimasta a lungo rifugiata tra le sue braccia; poi, sco- stadolo dolcemente con la mano e scioltisi sulle spalle i lun- ghi capelli, ella aveva liberato il proprio delicato essere da ciò che lo nascondeva: e lui aveva allora dimenticato il mondo intorno! Sì, quindici mesi erano passati da quando era infine giun- ta l'alba e al risveglio l'aveva cercata invano nel suo letto… Da quel giorno ogni altra cosa era divenuta vuota e vana, e così sarebbe ormai stato fino a quando Lei non lo avrebbe reso nuovamente felice con una sua carezza. Aveva spiegato tutto ai genitori, era balzato in sella al suo destriero ed era partito a spron battuto alla ricerca di quella donna; i sovrani lo avevano lasciato andare, creden- do a un capriccio giovanile che lo avrebbe stancato nel vol- gere di qualche giorno. Oltre un anno era invece scivolato via: aveva cavalcato senza requie attraverso le steppe, sfi- dando la neve e il gelo dell’inverno siberiano, il caldo e la sete del deserto del Volga, frugando il volto di ogni ragazza che incontrava nella speranza sempre delusa di riconoscervi il sorriso cercato. Più di un anno, e il vecchio Zar, dopo tanta paziente attesa, si era infine incollerito: non conce- piva che il principe ereditario continuasse a girovagare per l'impero anziché tornare a palazzo e iniziare ad interessarsi delle faccende di governo, di cui molto presto avrebbe dovuto assumere la pesante responsabilità. Mille cosacchi a cavallo erano stati così sguinzagliati alla sua ricerca e un
  • 65. 53 ingente premio in rubli era stato promesso a quello che avrebbe ricondotto alla reggia e alla ragione il principe scapestrato; ma questi sembrava essere svanito nel nulla, nonostante vi fosse sempre qualcuno pronto a giurare di avere visto lo Zarèvic galoppare in questo o in quell’altro punto del regno. Così Aleksej ora era costretto anche a sfuggire coloro che un tempo erano stati suoi fedeli soldati e che ora, allettati dal denaro, davano la caccia al loro signore come se fosse il più pericoloso degli assassini. Lui però non poteva far ritor- no a corte senza quella fanciulla. No, doveva continuare a rovistare bene le pianure, la tundra, ogni montagna... “Se continuerete così vi ammalerete gravemente” - interruppe i suoi pensieri Vladimir - “Tornate a casa, Zarèvic!”. Il principe fissò il contadino scuotendo il capo. Poi si al- zò e ripiglio il mantello: era ancora molto bagnato, ma se lo gettò ugualmente sulle spalle. “Spero abbiate una cavalca- tura. Ve la pagherò bene, ho con me ancora molto denaro”. “No, ve la donerò. Ma Voi, dove volete andare? Tor- natevene a Pietroburgo” - incalzò l’anziano - “Il popolo vi attende, avrà presto bisogno della vostra guida”. “Non posso, credetemi”. “Dove vi condurrete, allora?”. “Non lo so: uscirò dai confini di mio padre, mi dirigerò verso il Catai; attraverserò anche l'oceano, se necessario”. “I cosacchi vi troveranno, prima o poi”. “Per fermarmi dovranno uccidermi”. Il vecchio lo guardò con commiserazione.
  • 66. 54 “Non avete ragione di preoccuparvi per me, buon Vladimir. Sono solo alla ricerca della mia felicità: un giorno la troverò”. “No, mio Zarèvic. Voi non la raggiungerete mai. Voi morirete molto presto”. Un breve silenzio. “Forse è davvero scritto così” - mormorò infine Aleksej con un velo di rassegnazione nella voce. Il vecchio Vladimir non insistette: aveva capito che niente avrebbe potuto persuadere il principe a desistere da quella ricerca folle. Con calma si sollevò dalla panca sulla quale era seduto, spense la pipa, rovesciò le ceneri nel ca- minetto e si diresse in cucina; disse qualcosa alle donne che vi si trovavano dentro e poi si affacciò sull'uscio che dava alla stalla: “Sergeevic, prendi uno dei cavalli, sellalo e por- talo davanti alla porta!”. Sergeevic fece capolino dal maleodorante ricovero. “Ma fuori sta ancora diluviando!” - esclamò stupito - “Il signore può pernottare da noi”. “Il signore ha molta fretta” - spiegò Vladimir - “Egli deve raggiungere la capitale al più presto e qui ha già perso del tempo prezioso”. Anche le donne sporsero dalla cucina le loro facce interrogative. “Signore, rimani qui!” - strillò uno dei bambini sbucando dalla stalla e saltellando poi allegramente fino a lui - “Devi ancora raccontarci delle battaglie che hai fatto!”. Aleksej gli accarezzò una guancia, sorridendo. “Devo proprio andare, mi dispiace; te le racconterò un'altra volta”.
  • 67. 55 Sergeevic si gettò allora nella tormenta, mentre gli altri si radunarono intorno al cavaliere. Draga gli diede una bi- saccia di viveri. “Grazie, siete stati molto cari con me”, disse loro Aleksej. “Buona fortuna, portaordini!”- gli augurò il vecchio Vladimir stringendogli forte le spalle. L’ùssaro aprì la porta e una folata gelida sferzò la stanza. Guardò quella gente un'ultima volta e poi si lanciò verso il cavallo tenuto alla briglia dal già zuppo Sergeevic; montò in groppa e si lanciò ventre a terra perdendosi subito nella tempesta, mentre il contadino si precipitava al riparo den- tro casa. “Perché lo hai lasciato andare, padre?”. “Perché, figlio mio, egli deve ancora trovare la più im- portante delle cose: il significato di sé stesso!”, gli rispose il vecchio.
  • 68. 56 La folle gara Genova, una notte di fine maggio dell’anno 2014. Dal divano sul quale è accovacciato, Nelson - il cane di famiglia - mi guarda con un’espressione interrogativa mentre pian piano, per non svegliare moglie e figlia che dormono nelle camere accanto, in sala raccolgo le mie cose e poi scivolo oltre l’uscio di casa. Sono le 4.20 e fuori è ancora buio pesto; sulla mia “Vespa” malconcia, lungo strade deserte alla volta del porto, non sento però freddo, segno che l’afa estiva è ormai alle porte e che mi sarà dunque impossibile d’ora in avanti svolgere prolungati allenamenti a secco in orari differenti da questo. Attacco a remare nella vasca da canottaggio all’aperto del “Rowing Club Genovese 1890”, la mia società, alle 5.10 e mi sembra di essere tornato ai tempi del liceo, quando da agonista mi allenavo quotidianamente prima di recarmi in classe. Soltanto che adesso sono alla vigilia dei 54 anni e mentre dodici gabbiani - dodici, li ho contati! - volteggiano
  • 69. 57 con insistenza una trentina di metri sopra la mia testa simili a pazienti avvoltoi, mi domando: “Ma che diavolo sto facendo?”. Due anni fa, al termine dell’impegnativo mandato di Presidente del Comitato Ligure della Federazione Italiana Canottaggio, avevo deciso di non farmi più coinvolgere in faccende remiere; da allora avevo frequentato il mio club per il tempo strettamente necessario ad allenarmi un po’ per le mie escursioni in montagna. Ma domenica scorsa è stata proprio la stizza per non avere potuto partecipare ad una salita alpinistica a causa di una influenza fuori stagione ad avermi fatto sconsideratamente dire di sì alla contem- poranea offerta di Stefano di prendere parte alla gara di canottaggio più lunga del mondo: 160 chilometri! Nel 2008, per celebrare il 120° anniversario della fonda- zione della nostra Federazione, avevo messo su un viaggio costiero a remi da Genova a Roma (con la risalita del Tevere, circa 550 chilometri di percorso). Con due imbar- cazioni da 4 vogatori più timoniere per raggiungere la capi- tale impiegammo otto giorni, il più “lungo” dei quali misurò circa 80 chilometri, suddivisi in due tappe; in quella pome- ridiana la mia maglia da bianca divenne rossastra per via del sangue che mi sgocciolava giù dalle palme delle mani deva- state dall’attrito con le impugnature dei remi: bene, sul vasto lago di Ginevra avrei dovuto rivivere “doppio” (per di più in un’unica soluzione e con “spirito” da gara) quell’incubo… Un’autentica pazzia! A completare l’equipaggio si sono dichiarati disponibili Pippo e Gaetano (anch’essi fattisi le ossa con me e Stefano
  • 70. 58 nella Genova-Roma) e Luca; l’imbarcazione prevista dal regolamento di gara - una “GIG” a 4 con timoniere - grazie alle buone relazioni di Luca ci verrà gentilmente prestata, nuova di zecca, dal Cantiere Nautico Salani. Saremo l’unico armo italiano in gara. “Ecco esplosa la crisi dei 50!”, ha sentenziato mia moglie allorché l’ho informata della decisione. A me, invece, era piaciuto prendere in prestito la risposta data da George Mallory al giornalista che gli aveva chiesto perché mai volesse scalare l’Everest, all’epoca ancora inviolato (“Perché esiste”). Perlomeno fino a questa mattina: dopo soltanto due ore e quaranta minuti di voga un crampo mi paralizza la coscia sinistra; non c’è verso di lenirlo e riprendere a re- mare, così mi tiro su e claudicante e avvilito mi dirigo verso le docce: per acquisire una condizione fisica adeguata alla mostruosità in cui mi sono cacciato ho solo quattro mesi di tempo... “Sì, è’ una vera follia”, continuo a ripetere a me stesso più tardi mentre varco la soglia dell’ufficio. Lago di Lemano (Ginevra), sabato 27 settembre 2014. Dopo quei crucci primaverili per mettermi in forma avevo dato vita ad una bizzarra alchimia di allenamenti: alpini- smo, marce montane forzate, spinning, nuoto e, natural- mente, canottaggio (in vasca, ad esempio, sono poi arrivato a vogare per cinque ore consecutive). Ma dopo poche ore dal “via” del giro completo dell’immenso Lemano - dato con puntualità svizzera alle 8,00 - sotto il sole caldo ecco che i crampi sono ridiventati per tutti i regatanti l’insidia maggiore. Quando acchiappano me penso con sconforto
  • 71. 59 “…ecco, è finita qui!”. Lo sforzarsi a gestirli per quasi un’ora e infine riuscire a superarli si dimostra quasi un’arte. Il resto - ma questo già lo sapevo - è un crescendo wagneriano di bruciore alle mani piagate dal remo, di dolore (vero) nel fondo-schiena e ai glutei, i quali ultimi poco dopo Montreux - ove finalmente abbiamo svoltato la prua verso Ginevra, lontana ormai “soltanto” un’ottantina di chilometri - iniziano a smaniare sul carrello, ora spostandosi di qualche millimetro a sinistra, poi di nuovo verso destra (o indietro) un minuto dopo, e così via all’infi- nito, alla spasmodica ricerca di un po’ di sollievo. Stilla dopo stilla l’acido lattico mi rende inoltre le gambe sempre più pesanti; nei pressi di Evian mi salta in mente di ricalcolare - in base al nostro ritmo di palate - quante volte esse si saranno compresse a molla al termine di questa in- credibile giornata: circa 20.000. Tutto ciò è tuttavia comune a ogni scriteriato convenuto quest’oggi sul grande lago, incluso quel Tim Grohmann, oro agli ultimi Giochi Olimpici nel 4 di coppia, che con il suo giovane equipaggio tedesco è al comando della regata. Vice- versa, oltre che sull’acqua, ciascuno di noi sta navigando in un oceano di pensieri invece tutti personali, che si accaval- lano nelle mente veloci come onde. E’ sorprendente l’avvicendarsi di momenti nei quali giungo a sentirmi realmente uno stupido (“Metterti ancora a “giocare” sulla barchetta alla tua età! - mi biasima di tanto in tanto una voce dentro - Ma va’, piantala lì e tornatene subito dalla tua famiglia!”) con altri - precisamente quando si assottiglia il distacco con l’equipaggio dietro o con quello
  • 72. 60 avanti - nei quali l’antico impeto agonistico si riaccende e prende prepotentemente il sopravvento su ogni altra consi- derazione. Così come è strano l’alternarsi di fasi di grande spossatezza a inaspettate - e anche prolungate - fiammate di energia, durante le quali allora potenzio il tiro per il mero piacere di sentire il musicale sciabordio della prua mentre taglia agile e veloce l’acqua del placido Lemano e nel con- tempo penso che quest’avventura, indipendentemente da come essa finirà, si aggiungerà comunque al mosaico della mia esistenza, rappresentando un nuovo tassello di me. “Finché mi sarà concesso voglio sentirmi vivo”, mi dico. E allora, contraddittoriamente, sono assolutamente felice di trovarmi qui. Guardando le colline che corrono parallele alle rive ho anche ripensato alla mia recente salita della Cima Grande di Lavaredo, iniziando poi a pianificare nella mente quella del Sassolungo1 anche al fine di annullare per un po’ il senso del tempo e potermi così infine ridestare con la piacevole “sorpresa” di una bella manciata di chilometri in meno da percorrere (“Beh, non è poi così tanto lunga!”). In realtà l’unico vero “trucco” - se mai può esisterne uno - è non pensare mai al traguardo (che altrimenti diventa un mirag- gio angosciante e insostenibile psicologicamente), bensì concentrarsi a far bene ogni singola palata, come se fosse allo stesso tempo la prima e l’ultima della giornata. La stanchezza, si sa, rende irritabili: così durante il lungo viaggio non manca qualche battibecco tra noi; ma le 1 Scalata poi realizzata nel luglio 2015.
  • 73. 61 incrociate, antiche amicizie e la consapevolezza di trovarci - alla lettera - sulla stessa barca ci mantengono uniti: stringiamo i denti e sopperiamo vicendevolmente alle inevitabili, provvisorie carenze di qualche compagno. Discorso simile in occasione dei cambi al timone (ogni ora circa), nei quali ci riveliamo di gran lunga i più lenti elar- gendo vantaggi significativi agli avversari: la cosa ogni volta mi manda in bestia, ma subito mi rientra chiara in testa l’idea che l’importante è arrivare in fondo. Giunti a Sciez, dalla riva ci arrivano urla di incitamento: sono Cristiano (il “meteopatologo” - come lo chiama Stefano - che ci fornisce consulenza meteorologica sin dal Genova-Roma) e il suo “apprendista” Simone; lo scambio di battute gridate porta in barca una certa allegria. Lo scon- certante bunker atomico dove a terra abbiamo alloggio insieme agli altri equipaggi continua tuttavia ad assumere sempre più nelle nostre teste le sembianze di un hotel in stile Las Vegas, dotato di mille comfort. Sopraggiunge infine la notte e con essa il freddo. Stefano - passato nuovamente al timone essendo egli il più capace a manovrare al buio - combatte contro l’ipotermia rinserrato dentro il sottile telo isotermico da montagna caricato a bor- do già ieri sera insieme a molto altro materiale, tra cui bar- rette energetiche e bustine di sali minerali da sciogliere nell’acqua raccolta via via direttamente dal lago e da tran- gugiare - letteralmente - durante i cambi al timone. Sento che quest’ultima fase della regata mi rimarrà impressa per sempre nella memoria: nel silenzio, sotto le stelle, la barca prende a correre più veloce verso la meta,
  • 74. 62 che la mente sa ormai prossima ma che al corpo esausto appare invece ancora tremendamente lontana. In mezzo all’acqua, guardando la luna, rivivo le emozioni provate tanto tempo fa da giovane sottufficiale di leva sulla torretta del sommergibile “Enrico Toti” durante il rientro notturno alla base dopo un’esercitazione… Quando finalmente posso drizzarmi in piedi sul pontile della Société Nautique de Gèneve scopro di avere perso il senso dell’equilibrio: inarcato sui remi per 14 ore e 17 minuti (tanto è durata per noi la gara), ho infatti finito con il dotarmi di un altro baricentro e ci vorrà più di un’ora per tornare a pieno diritto nel mondo dei bipedi. Mi informano che siamo il decimo equipaggio ad avere tagliato il traguardo (altri tredici armi lo supereranno dopo di noi). Posizione di classifica tutto sommato soddisfacente, della quale tuttavia in questo momento non mi importa davvero nulla: sono arrivato e tanto, semplicemente, mi basta. Corro (si fa per dire) sotto la doccia calda e poi mi godo una delle scomode panche di legno dello spogliatoio, da dove con il cellulare avviso a casa che non si sono liberati di me; Luca dalla bilancia esclama sbalordito di avere perso dieci chili, da recuperare con urgenza seduti intorno a una delle tavole imbandite per questo “circo di matti” nel ristorante del club organizzatore. Gaetano, quello perenne- mente affamato, molla però subito il cibo: avverte senso di nausea e un forte giramento di testa, “costringendomi” così a divorare anche la sua parte. Pippo ci raggiunge poco dopo, rinfrancato da uno dei massaggiatori messi a disposizione
  • 75. 63 degli atleti sbarcati. Mentre prendo coscienza di avere la mano sinistra semi- inerte (una tendinite?), Stefano inizia a snocciolare la sua analisi della nostra corsa alla ricerca delle cose da “correggere”. Capisco subito cosa ha in mente; lo guardo dritto negli occhi e gli ringhio: “No, caro mio, non mi fre- ghi una seconda volta!”. Nel cuore, però, gli sono ricono- scente.
  • 76. 64
  • 78. 66
  • 79. 67 Anno 1988 PREMESSA Quella che segue è la storia di Luke Dohrow, così come sopravvive nei ricordi di quanti gli furono amici e, in particolare, di mia cugina Silvia, la quale l’ha a me narrata due anni or sono quando mi sono recato negli Stati Uniti per (finalmente) conoscerla. Ne sono rimasto colpito e in seguito mi è sembrato giusto testimoniarla, ricostruendola pian piano - seppur in modo frammentario - anche grazie allo scambio di lettere avuto con alcuni altri protagonisti della vicenda. Spero, ora che essa è finalmente ultimata, di riuscire a coinvolgere l’eventuale lettore, precisando che nomi di luoghi e persone sono naturalmente diversi da quelli reali. L'Autore
  • 80. 68
  • 82. 70
  • 83. 71 I Alle cinque esatte il gracchiare sordo della sveglia strappò bruscamente il ragazzo dal sonno: era ora di alzarsi, l'alle- namento quotidiano lo attendeva. A Luke costò più fatica del solito, quel mattino, tirarsi giù dal letto. Con la mente ancora intorpidita, si trascinò fino alla camera da bagno per una rapida doccia ravvivante; riacquistata così coscienza di sé raggiunse la cucina per la colazione, sforzandosi di fare il minor rumore possibile per non svegliare l'intera casa. Mentre a piccoli sorsi mandava giù il tè bollente ascoltava attentamente il vento che fuori sibilava forte: sotto i suoi colpi le tapparelle emettevano un crepitio simile a quello della legna al fuoco. “Uhm, mare agitato, oggi” - pensò il canottiere. Le lancette segnavano già un quarto alle sei allorché chiuse la porta di casa dietro di sé. Fuori era ancora notte fonda: su in alto le stelle brillavano di un turchino insolito, mentre il vento soffiava davvero vigoroso. Il ragazzo tirò fuori dalla rimessa la motocicletta e si avviò lungo strade
  • 84. 72 deserte e gelide (nonostante il pesante giaccone sulla moto faceva un freddo cane!) alla volta dell'abitazione del suo allenatore. Allo squillo del campanello seguì una breve attesa, poi ecco una finestra aprirsi al piano superiore della graziosa villetta e un minuscolo faccino barbuto presentarsi asson- nato alla luce della luna. Dopo aver salutato con un floscio “hi”, il signor Lopez trascinò lo sguardo sugli alberi del giar- dino circostante: le piante ondeggiavano forte, il che gli strappò una smorfia di disappunto. Fece comunque al ragazzo cenno di attendere e richiuse le imposte dietro di sé. Nel frattempo un pallido chiarore era andato diffon- dendosi, restituendo un primo incerto contorno alle cose. Luke nell’attesa si sedette sul basso muretto di una aiuola, con lo sguardo rivolto al cielo stellato; intorno l'aria era frizzante: la respirò profondamente e - quasi questa posse- desse una qualche virtù misteriosa - una curiosa, eccitata allegria lo pervase. Giunto che fu il signor Lopez, salirono sulla piccola utilitaria di quest'ultimo. A dispetto del parabrezza comple- tamente appannato per l'umidità, il piccolo allenatore guidò a velocità sostenuta giù per il lungomare, una mano sul volante, l'altra agli occhi che si stropicciava senza posa, per fermarsi infine davanti al cancello del “Green Springs Rowing Club”. Qui, puntuali come sempre, si trovavano già gli altri componenti dell'equipaggio, anch'essi tutti avvolti in pesanti casacche e con i berretti di lana cacciati in testa; accucciato in un canto, tutto intirizzito dall’umidità pene-
  • 85. 73 trante del primissimo mattino, stava poi - piccino piccino - il timoniere. Il sole aveva da poco fatto capolino sulla linea dell'orizzonte allorché i ragazzi, dopo essersi velocemente cambiati, si staccarono con la loro imbarcazione dal pontile; Lopez, ex timoniere dai discreti trascorsi, seguiva i canot- tieri a bordo di un gommone. Al riparo dal vento, il mare si rivelò meno ostile sotto i muraglioni dell'isola di Santa Clara, sulla quale la Green Springs vecchia ancora dormiva beata. L'oceano era qui colorato di un blu profondo e la fioca luce dell'alba donava qua e là alla superficie leggermente increspata riflessi ar- gentati; dietro la città, lontana, la vetta innevata del Monte Tolimas faceva da sfondo alla gioia di vivere di quei ragazzi. …La fatica, come iniettata da siringhe, entrava nelle loro membra a fiotti, più densi e brucianti ad ogni nuova palata; soprattutto le gambe, spingendo forte sul carrello, si erano oramai quasi calcificate. Lopez controllò il cronometro e un sorrisetto di soddi- sfazione si disegnò sulle sue labbra: l'armo stava viaggiando nel pieno rispetto della tabella di marcia e al termine della prova mancavano ormai solo duecentocinquanta metri, quelli in cui un equipaggio, raccogliendo ogni energia resi- dua, si produce nello scatto finale. Semplice, in teoria; ma per un canottiere, ogni volta, è come cercare di cavare an- cora acqua da una spugna già totalmente prosciugata. “Forza, ragazzi! E' questo il momento, “serrate” adesso!” - urlò tuttavia l'uomo del gommone.