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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO – BICOCCA
Facoltà di Psicologia
Corso di Laurea in Comunicazione e Psicologia
“L’Importanza di Essere Vaghi”
Relatore: Prof. Francesca Panzeri
Tesi di Laurea Triennale di
Annalisa Mazzola
matricola 728871
Anno Accademico 2011-2012
1
Ringraziamenti
Il primo ringraziamento va alla dott.ssa Francesca Panzeri che mi ha aiutata, sostenuta, stimolata,
supportata e corretta nel corso della realizzazione di questo elaborato, senza di lei non avrei mai avuto
né la forza né la capacità di avventurarmi in questo mondo e scoprire cose nuove ed interessanti.
Il secondo ringraziamento va ai miei genitori e parenti, che hanno finanziato i miei studi, e che hanno
creduto in me lasciandomi avventurare in questo percorso.
Il terzo ringraziamento va ai miei amici Jasmine, Melissa, Alessandra e Andrea che hanno ascoltato
nel corso di questi tre anni racconti sulle cose imparate e sui vissuti universitari, che non hanno
migliorato le loro vite, ma nonostante questo ci sono sempre stati a sostenermi ed a incoraggiarmi
nelle mie scelte, come solo i veri amici fanno.
Il quarto, e non perché di minor importanza, va alle mie amiche e compagne di corso Alice, Marisol e
Viviana che sono riuscite a non abbandonare gli studi nonostante la mia presenza, che mi hanno
aiutata a passare diversi esami con uno studio di gruppo sempre efficace e risolutivo, che hanno reso le
mie giornate universitarie più divertenti e stimolanti, e che mi hanno sempre supportata e sopportata,
condividendo insieme a me questa bella esperienza.
2
“L’importanza di essere vaghi”
Introduzione 3
Capitolo 1
1.1 Il Linguaggio Umano e La Comunicazione Animale 5
1.2 Le Caratteristiche Fondamentali Del Linguaggio Umano 6
1.3 Il Principio Di Composizionalità 8
1.4 Il Significato Delle Parole 9
1.5 I Casi Limite e Il Concetto Di Vaghezza 12
1.6 La Vaghezza In Rapporto Con Ambiguità, Deissi e Frasi
Generiche 15
Capitolo 2
2.1 Un’ Analisi Della Vaghezza 19
2.2 L’Approccio di Lasersohn 20
2.3 L’Approccio Supervalutazione 23
Capitolo 3
3.1 Introduzione Al Capitolo 26
3.2 Gli Aggettivi 26
3.3 Aggettivi e Vaghezza 28
3.4 Un’Analisi Sperimentale 30
3.5 Discussione Dei Risultati Ottenuti 34
Conclusioni 36
Bibliografia 38
3
Introduzione
La vaghezza è un fenomeno pervasivo nel nostro linguaggio. Ho
deciso di affrontare quest’argomento perché mi sono accorta che
il più delle volte, quando comunichiamo non prestiamo
attenzione a quello che diciamo, ma nonostante le nostre
distrazioni ed i nostri errori riusciamo a comprenderci. Il nostro
modo di comunicare per tanto è vago, cioè poco preciso. Ma
perché ? Se fossimo sempre precisi il nostro linguaggio sarebbe
caratterizzato da una prolissità inaudita. Infatti ad esempio una
conversazione banale, sarebbe trasformata in una senza via
d’uscita, come:
a) Scusi, mi può dire che ore sono?
b) Certo! Sono le 2, 13 minuti, 26 secondi, 18 decimi, 23
centesimi…
e così all’infinito, fino a che uno dei due interlocutori non
decida di porre fine allo scambio di informazioni.
Dall’altra però parlare in modo poco preciso lascia troppa libertà
di interpretazione, e può portare dei problemi, se ad esempio si
da un significato diverso da quello che la persona con la quale
stiamo parlando intendeva. Consideriamo una conversazione che
può avvenire tutti i giorni come
a) Paolo non è poi così giovane, ha 53 anni!
b) Beh per me è vecchio per fare quel lavoro.
contiene due parole, “giovane” e “vecchio”, che non hanno
confini ben delimitati e possono assumere un significato diverso
da persona a persona e generare così problemi di
interpretazione. Infatti cosa segna il confine da “giovane” a
“vecchio”? C’è un momento preciso in cui uno smette di essere
“giovane”? Le domande sono chiare, ma i nostri mezzi per
rispondere sono incompleti, e l’incompletezza sta nelle domande
stesse: é di fatto il nostro linguaggio a non offrire una
spiegazione chiara. Quando si cerca di attribuire un significato
ad un temine vago, ci rendiamo conto che i nostri mezzi non
bastano, perché ci accorgiamo che il risultato resiste comunque
ai nostri tentativi di attribuire un valore di verità alla frase.
Riusciamo però a comprendere il significato di queste frasi,
perché siamo in grado di attribuire un singolo significato ad ogni
parola, in base proprio alla nostra conoscenza, e di correlarlo
con quello di tutte le altre che compongono la frase intera.
4
L’ideale sarebbe comunicare con estrema brevità e precisione,
per evitare ogni genere di errore, ma di fatto è molto difficile
attuarle contemporaneamente. Un individuo è in grado di
comunicare con brevità, ma non sempre lo fa con precisione.
Nel corso di questa trattazione infatti, vedremo che un’assoluta
precisione, come appena accennato, non è richiesta: gli individui
sotto un certo punto di vista si accontentano di non essere
totalmente precisi. L’obiettivo di questo lavoro è quello di
capire perché nonostante i diversi problemi che porta con sé,
parlare in modo vago è utile per scopi comunicativi e perché gli
individui si comportano in questo modo.
5
Capitolo 1
1.1 Il Linguaggio Umano e La Comunicazione
Animale
In quanto animali comunichiamo. Il verbo “comunicare”
racchiude in sé diversi aspetti che possono essere il condividere,
il mettere o avere in comune, lo scambiare, il rendere partecipe e
molti altri. Questi aspetti possono essere usati per diversi scopi
che vanno dallo scambio di informazioni, al puro mantenimento
di relazioni sociali. Infatti, la comunicazione comprende diverse
azioni dalle più rudimentali e naturali come l’espressione del
volto, gli atteggiamenti o i gesti, a quelle più articolate che si
sono evolute nel corso della storia come la stampa, la radio o il
cinema. Possiamo sostenere dunque che non tutti gli eventi
attraverso cui comunichiamo sono però eventi linguistici. Un
evento linguistico è determinato da caratteristiche distintive che
sono proprie solo del nostro linguaggio. Il vocabolario
Zanichelli1
infatti, definisce il linguaggio come la “capacità
peculiare della specie umana di comunicare per mezzo di un
sistema di segni vocali […] la quale presuppone l’esistenza di
una funzione simbolica”. Studi attraverso metodo comparativo2
hanno dimostrato che anche diversi animali comunicano per
risolvere problemi di varia natura, sfruttando codici di
comunicazione specifici della loro specie. Infatti, le api hanno
sviluppato una “danza” che permette di comunicare fra loro
dove si trova una determinata fonte di cibo; gli uccelli hanno
diversi tipi di “canto” che veicolano messaggi diversi, e così per
molte specie diverse, dai mammiferi marini fino ad arrivare
quelli più vicini a noi: i primati. I primati sono gli animali verso
i quali si è concentrata maggiormente la ricerca sul linguaggio
animale: sono animali molto comunicativi, hanno diversi tipi di
richiamo (da grugniti ai fischi), ma hanno anche un sistema di
espressioni facciali e posture che hanno un ruolo ancora più
importante. Difficilmente però possiamo affermare che queste
forme di comunicazione sono paragonabili al linguaggio umano.
Infatti nessuna delle evidenze riscontrate negli esperimenti
1
Edizione consultata del 2006
2
M.D Hauser, N. Chomsky e W.T. Fitch, The Faculty of Language: What is it, Who has it, and How did it evolve?, in
“Science”, 22, 298, pp. 1569-79, citato in Nespor, M., Napoli, D.J., L’animale parlante. Introduzione allo studio del
linguaggio, Carocci Editore, Roma, 2004; E in Guasti, M.T., L’acquisizione del linguaggio: un’introduzione, Raffaello
Cortina Editore, Milano, 2007.
6
condotti dimostra che gli animali usino un linguaggio naturale
paragonabile a quello umano. Gli animali sono in grado di
associare una parola ad un evento nel mondo, se insegnato loro
sottoforma di apprendimento stimolo-risposta, ma non possiamo
assumere che apprendano il significato delle parole nello stesso
modo della specie umana: non sono in grado di creare delle
parole, non le producono spontaneamente. Possiamo quindi dire
che il tratto che ci distingue dagli animali è proprio il nostro
linguaggio: è infatti l’abilità che permette agli uomini di
comunicare tramite messaggi di qualsiasi tipo. Si può ritenere
che questa abilità sia naturale negli individui, perché si sviluppa
a partire dalla nascita: si può assumere che sia una caratteristica
biologica della nostra specie, infatti impariamo a parlare come
impariamo a camminare o vedere, senza essere consapevoli dei
meccanismi che governano le varie competenze che
acquisiamo3
. La comunicazione avviene perché attraverso il
linguaggio riflettiamo, ragioniamo e pensiamo, traduciamo cioè
in un codice le nostre idee e poi le possiamo trasmettere ad altri.
È appunto la nostra modalità di comunicare che ci distingue
dagli altri esseri del creato.
1.2 Le Caratteristiche Fondamentali Del Linguaggio
Come accennato prima, il linguaggio umano è quindi
caratterizzato da alcune proprietà che lo contraddistinguono.
Charles F. Hockett (1959) individua 16 tratti distintivi per
caratterizzare il linguaggio orale e tra le principali4
troviamo:
- L’arbitrarietà: la relazione tra forma e significato di una
parola è arbitraria, se fosse vero il contrario esisterebbe una
solo lingua umana nel mondo ad esempio.
- Una grammatica: il linguaggio è governato da una
grammatica intesa come strutturazione dei segni (e quindi le
parole). Secondo la tradizione “Chomskyana” include la
formulazione di un insieme di principi e parametri, i quali
riflettono le regolarità che si trovano.
3
Sulla base della teoria della grammatica generativa formulata da Noam Chomsky (1957) il linguaggio sarebbe infatti una
capacità determinata biologicamente: gli individui dispongono di una dotazione genetica che consente loro di acquisire il
linguaggio (grammatica universale). La grammatica universale è un sistema cognitivo che permette di acquisire, comprendere
e produrre un numero infinito di elementi a partire da un insieme finito e associare una certa forma a un determinato
significato.
4
Hockett, C.F., in The Origin of Speech in “Scientific American”, 203, pp. 89–97, 1960, citato in Guasti. M.T.,
L’acquisizione del linguaggio: un’introduzione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007.
7
- Il riferimento a distanza: la capacità di riferirsi a qualcosa
che non è fisicamente presente.
- L’abilità di potersi riferire a delle astrazioni: la capacità di
riferirsi ad idee astratte.
- La creatività: la possibilità di creare e comprendere frasi
nuove, mai dette o sentite prima.
- La ricorsività: la possibilità di creare frasi indefinitamente
lunghe.
Sebbene sia stato dimostrato che alcune specie animali abbiano
tipi di comunicazione che condividono alcune di queste
caratteristiche, ce ne sono due tra queste che sono esclusive
della specie umana: la ricorsività e la creatività.
La ricorsività e la creatività investono ogni aspetto della lingua
parlata.
Consideriamo la frase
1) Ieri Carlo abbaiava tranquillamente nel laghetto giallo.
Com’è possibile che un individuo riesca a comprendere il
significato dell’enunciato in 1) che non ha mai sentito prima?
Cosa vuol dire comprendere il significato di questo enunciato?
Noi siamo in grado di comprendere il significato di un numero
potenzialmente infinito di enunciati della nostra lingua poiché
fondamentalmente in quanto individui siamo in grado di
compiere due azioni che ci permettono di veicolare messaggi:
- Imparare e memorizzare i significati delle parole.
- Applicare le regole che permettono di combinarle.
La prima azione è legata al’arbitrarietà: il rapporto tra segno e
significato deve essere appreso, perché il lessico cambia da
lingua a lingua e non esistono connessioni prevedibili tra
espressioni linguistiche e significati denotati (infatti non esiste
nessun indicatore nella parola “gatto” che ci aiuti ad associare
questa parola proprio a quel determinato animale).
La seconda azione invece, si ricollega proprio alla creatività. Il
significato delle frasi è ottenuto infatti in maniera
composizionale a partire dal significato delle singole espressioni
componenti e delle regole in base a cui queste vengono
combinate. Infatti a differenza di enunciati come
2) * Un sotto morde il gatto cane la sedia
3) # La sedia morde il gatto sotto un cane
8
che sono rispettivamente il primo non-grammaticale5
e il
secondo portatore di una violazione semantica6
, a enunciati
come quello espresso in 1), che rispetta le regole che
caratterizzano la nostra lingua, è possibile attribuire un
significato. La comprensione di un enunciato quindi non può
basarsi su una preliminare esposizione in cui quello stesso
enunciato è stato proferito e al successivo ricordo.
1.3 Il Principio Di Composizionalità
Il significato di un’espressione linguistica, come abbiamo
appena detto, implica quindi una serie di azioni. Riusciamo ad
attribuire un significato alla frase espressa in 1) poiché
attribuiamo un significato alle singole espressioni che la
compongono: abbiamo cioè appreso il significato di un
determinato numero di parole (che varia da individuo ad
individuo) e una serie di regole per combinarle tra loro. Infatti :
- Ieri = identifica un momento nel tempo.
- Carlo = identifica un individuo specifico.
- Abbaiava = esprime una particolare azione, fatta in un
determinato momento del tempo.
- Tranquillamente = esprime un modo di compiere un’azione.
Relazionando tra loro questi significati, che nonostante tutto
possono apparire strani posti assieme, arriviamo a comprendere
la frase intera. In questo caso avremo identificato in un
determinato istante di tempo nel passato, un individuo di nome
Carlo che compiva l’azione di abbaiare, in modo tranquillo, in
un determinato luogo: vicino ad un lago che era giallo. Non
possiamo dire se la frase sia vera o meno, ma possiamo
assumere che abbia un senso. Perché tale relazione possa
funzionare dobbiamo credere che ogni singola parola porti un
contributo semantico e combinandosi con le altre, e faccia
arrivare in maniera “automatica” al significato complessivo.
Ecco perché comprendiamo e produciamo frasi mai sentite
prima. Questo meccanismo prende il nome di principio di
5
Una frase non-grammaticale è una frase che non rispetta la relazione formale che intercorre tra i segni posta dalla sintassi
della lingua di appartenenza della frase.
6
Una frase che porta una violazione semantica è una frase che viola la relazione tra i segni linguistici e gli oggetti del mondo
che sono da questi designati
9
composizionalità e venne espresso per primo da Gottlob Frege7
(1892). Prendiamo ad esempio la frase
4) Paolo bacia Maria sulla guancia.
Il significato di tale enunciato è un insieme di condizioni di
verità, ed è ottenuto a partire dal significato delle singole
espressioni e dal modo in cui queste si relazionano. Infatti:
- Paolo = denota un particolare individuo che è portatore di
quel nome (come Maria).
- Bacia = è un verbo transitivo, e in quanto tale denota
l’insieme di coppie ordinate che stanno tra loro nella
relazione indicata dal verbo.
- Sulla = è un sintagma preposizionale che denota un insieme
di “posizioni” .
- Guancia = denota un nome comune.
Sappiamo cioè che nella lingua italiana, secondo la sintassi, il
verbo transitivo si combina prima con il suo complemento (in
questo caso Maria), mentre la semantica ci ricorda quale regola
di significato dobbiamo applicare quando combiniamo il verbo
transitivo con il complemento.
Le espressioni semplici corrispondono a un insieme di
condizioni di applicazione, cioè a condizioni che un oggetto
deve soddisfare perché una parola gli si possa applicare.
Quindi comprendere il significato di un enunciato equivale a
sapere quali situazioni rendono vero l’enunciato, non se un
enunciato è di fatto vero o falso. Ciò vuol dire che comprendere
il significato significa comprendere le sue condizioni di verità:
bisogna essere in grado di discriminare quali situazioni lo
rendono vero da quali lo rendono falso. Ma vediamo più nel
dettaglio.
1.4 Il Significato Delle Parole
Come sopra accennato il significato di un’espressione semplice
corrisponde a un insieme di condizioni di applicazione,
7
Gottlob Frege (1848-1925) è stato un matematico, logico e filosofo tedesco. È considerato il padre del pensiero formale del
Novecento. Egli considerava l'aritmetica, costituita da proposizioni analitiche, riducibile alla sola logica. Avrebbe dimostrato
che i giudizi dell'aritmetica sono analitici, e pertanto dimostrabili in modo esclusivamente logico, cioè facendo ricorso
soltanto alle regole del pensiero razionale. L’articolo di riferimento per gli studiosi del linguaggio è Über Sinn und
Bedeutung ("Senso e significato") del 1892.
10
condizioni che devono essere soddisfatte affinché una parola gli
si possa applicare. Perciò, la frase:
5) Il gatto dorme
risulterà vera se e solo se è vero che il gatto dorme, cioè se si
verificano le corrispondenti condizioni di verità.
Si può quindi assumere che nomi propri denotino individui,
mentre nomi comuni si riferiscano a insiemi di individui, e che
una frase come
6) Barack Obama è presidente degli Stati Uniti
oppure come
7) Valentino Rossi guida
siano vere se e solo se l’individuo denotato dal nome proprio
gode effettivamente della proprietà connessa al nome comune
oppure al verbo. Nel nostro caso la 6) risulterà vera se e solo se
Barack Obama sia effettivamente presidente degli Stati Uniti,
mentre la frase in 7) è vera se e solo se è vero che Valentino
Rossi guidi, nel momento in cui si sta parlando.
Infatti :
- Mammifero => { x : x è un mammifero} . Denota cioè
l’insieme di individui che sono mammiferi (e include ad
esempio l’uomo, i primati, i mammiferi marini ….).
- Uomo => { x : x è un uomo}. Denota cioè l’insieme di tutti
gli individui che sono uomini.
Per Frege esistono solo due valori di verità il Vero e il Falso,
rifacendosi alla pura logica Aristotelica. Lo scopo di Frege
infatti, era quello di formalizzare linguaggi matematici: cercava
cioè di formalizzare le verità aritmetiche e derivarle da assiomi
logici, non mirava a sostituire il linguaggio naturale con uno più
preciso e logico. Infatti egli non concepì in questi termini i nomi
comuni. Per lui il significato di “uomo”, ad esempio, è un
11
concetto. Sostiene infatti che il significato di “uomo” sia “una
funzione da individui a valori di verità”: cioè, data una serie di
individui di cui posso voler parlare, sarà attribuito il significato
di “uomo” quando risulta “vero” che quell’individuo soddisfa la
funzione (cioè è un uomo), e sarà “falso” altrimenti. Si può poi
però arrivare ad identificare come significato di “uomo”
l’insieme di individui del dominio che la funzione-concetto
abbia individuato come uomini.
E proprio in quest’ottica comprendere un enunciato equivale a
riconoscere quale situazione lo renderebbe vero e quale falso,
non significa sapere se di fatto sia vero o falso. Seguendo quindi
il suo obiettivo, per Frege era chiaro che i concetti dovessero
avere confini precisi, cioè le funzioni dovevano essere totali.
Infatti, affermava:
“ A definition of a concept (of a possible predicate) must […]
unambiguously determine, as regards any object, whether or
not it falls under the concept […]. Thus there must not be any
object as regards to which the definition leaves in doubt
whether it falls under the concept […]. We may express this
metaphorically as follows: the concept must have a sharp
boundary.”8
cioè ogni concetto deve avere un confine ben definito. Parlando
di un linguaggio matematico, se una definizione comprendesse
ad esempio “Considerare un numero grande”, il significato di
“Numero grande” sarebbe poco preciso, ci si chiederebbe
“Grande quanto?” e questo per un linguaggio matematico
sarebbe un problema.
Il problema di espressioni che non hanno confini ben delimitati,
si ripresenta anche nel linguaggio quotidiano ed è il prossimo
problema che affronteremo.
8
Frege, G., Grundgesetze der Arithmetik, begriffsschriftlich abgeleitet, Band II, Jena, Pohle; traduzione inglese parziale in
“Translation from the Philosophical Writings of Gottlob Frege”, ed. P.T Geach e M. Black, Oxford, Blackwell, 1952, pp. 21-
41, citato in Varzi, A., Vagueness, Logic, and Ontology, in “The Dialogue”, Yearbooks for Philosophical Hermeneutics, 1
(2001), pp 135-154.
12
1.5 I Casi Limite e Il Concetto Di Vaghezza
Abbiamo detto che per comprendere un significato sarebbe
opportuno attribuire un valore di verità all’oggetto preso in
considerazione. Questo non risulta essere particolarmente
problematico quando parliamo di Barack Obama, di un gatto o
di tagliare con il coltello. Infatti con questi tre diversi esempi
subito ci torna alla mente ciò di cui stiamo parlando: nel primo
caso faremo riferimento alla figura concreta del presidente
americano, nel secondo del tipico gatto che magari gioca con
una pallina e nel terzo caso ci immaginiamo l’azione ad esempio
del tagliare la carne o il pane. Queste rappresentazioni non sono
sempre ovvie e facili. Consideriamo ad esempio due personaggi
noti come Gerry Scotti e il presidente della repubblica Giorgio
Napolitano. Possiamo dire che questi due personaggi siano
“calvi”? O ancora, consideriamo Dumbo, il noto elefantino della
Disney: possiamo affermare che sia “grosso”? Diversamente
consideriamo un uomo con due teste: tagliandone una possiamo
dire di averlo decapitato?
Perché ci viene difficile rispondere a queste semplici domande?
Nei termini di Frege parole come “calvo” e “grosso” sono un
problema, perché non si riesce ad assegnare con sicurezza un
valore di verità univoco (“Vero” o “Falso”) agli individui presi
in considerazione. Non c’è modo di denotarli in modo univoco.
In termini “insiemistici”, analogamente, il concetto di “calvo”
non ha confini netti, cioè possiamo dire che non appartiene ad
un insieme unico (o in altre parole non sapremmo in che insieme
farlo rientrare – in quello dei “calvi” o in quello dei “non
calvi”?).
Allo stesso modo non sempre è facile dire se una persona sia
“giovane”, “puntuale” o “ricca” ad esempio. Si tratta di concetti
che non hanno limiti ben precisi, sono flessibili ed applicabili a
oggetti simili che possono però essere totalmente estranei uno
all’altro. Questi concetti per i quali appunto non esiste un
insieme di appartenenza univoco esibiscono i cosiddetti “casi
limite” (borderline case) ossia, esistono degli individui per i
quali non si è sicuri se il concetto si applica o meno e ai quali,
quindi, non si sa se la funzione-concetto avrà come output il
valore vero o falso. La vaghezza si fonda sui “casi limite”.
Come siamo in grado di comprendere ciò che diciamo, di
comunicare, se esistono termini vaghi ai quali non possiamo
attribuire un significato univoco? Non dovremmo essere
immersi nella più totale confusione quando ci si presentano
13
termini di questo tipo in un dialogo o in una comunicazione
scritta?
Il problema di questi casi si presenta in tutte le diverse categorie
grammaticali di uso quotidiano. Infatti se analizziamo i nomi
comuni, come “tazza” o “bicchiere”, ritroviamo il nostro
problema. Se noi pensiamo a questi due oggetti ci si figurerà
nella nostra mente un immagine prototipica di questi oggetti. Per
cui oggetti somiglianti a questo
1)
saranno fatti rientrare nella categoria (o insieme) “tazza”, mentre
oggetti che hanno le stesse caratteristiche della figura 2)
2)
rientreranno nell’insieme “bicchiere”. Esistono però “tazze” (o
“bicchieri) che non rientrano in nessuno dei due insieme come le
seguenti immagini
Quindi se noi ci immaginiamo un continuum che va da “tazza” a
“bicchiere”, questi oggetti saranno posti a metà o più vicini
all’uno o all’altro estremo.
14
Questo fenomeno si presenta anche con i nomi propri. Infatti
uno studioso in particolare, Achille Varzi9
, si concentra su quei
nomi e descrizioni definite di cui ci serviamo per riferirci a
oggetti anziché a concetti, classi o relazioni. Nomi o descrizioni
come “Everest” o “Cervino” non hanno referenti così
determinati come si pensa. Se noi considerassimo ad esempio il
Cervino, sappiamo che certe zolle di terra fanno parte della
montagna, ed altre non fanno parte di essa. Ma che dire di tutte
le zolle di terra intermedie, il cui rapporto col Cervino è
indeterminato?
Sotto la prospettiva dei verbi e degli avverbi il problema è
analogo. Se noi consideriamo l’azione di “camminare” e quella
del “correre”, dove si pone il confine tra una e l’altra? Esiste una
velocità espressa in Km/H che determina il passaggio specifico
dal “camminare” al “correre”?
La maggior parte della questione problematica però, è
rappresentata dagli aggettivi. Riconsideriamo quanto detto in
precedenza. Il punto problematico, e sottolineato da Frege, è che
per molti aggettivi non si può attribuire una “funzione-concetto”
univoca all’oggetto considerato, non esiste quindi un unico
insieme di riferimento. Gli aggettivi possiamo raggrupparli in
due grandi gruppi: quelli che si comportano come “alto” o
“grosso”, e quelli che si comportano come “calvo”. La vaghezza
degli aggettivi del primo tipo si differenzia in due punti. Se noi
affermiamo
8) Marco è alto
posta ad esempio l’altezza di Marco a 1,84 m, abbiamo due
possibili interpretazioni:
i) Marco può essere alto rispetto ad uno standard x.
ii) Marco può essere alto rispetto ad un contesto a cui mi
sto riferendo.
Nel primo caso, se consideriamo come standard x quello della
media italiana di altezza posta ad esempio a 1,78 m e
considerata la reale altezza di Marco, possiamo affermare che
Marco sia alto. Ma se, come nel secondo caso, mi sto riferendo
alla nazionale italiana di basket, Marco nonostante la sua altezza
9
Achille Varzi (1958) è un filosofo italiano, Esponente della filosofia analitica, in Italia è noto principalmente per le sue
ricerche di logica. Varzi, A., I confini del Cervino, in V. Fano, G. Tarozzi, and M. Stanzione (eds.), “Prospettive della logica
e della filosofia della scienza”, Cosenza, Rubbettino, pp. 431-445, 2001.
15
rispetto alla media, è basso per far parte di una squadra di
basket. Lo stesso vale per aggettivi come “grande”: infatti
tornando all’esempio citato prima, Dumbo è “grande” rispetto
agli altri elefanti o rispetto agli altri animali?
Il problema che si affronta con gli aggettivi del secondo tipo,
come “calvo”, è diverso. Questi aggettivi non vanno rapportati a
standard o a contesti percettivi, questi aggettivi non dovrebbero
essere modificabili da avverbi: una cosa è in un modo o non lo
è, una persona è “calva” o non lo è, non dovrebbero esistere
casi intermedi. Ma non è cosi.
Dov’è posto il confine tra Gerry Scotti, Giorgio Napolitano e
l’arbitro Collina? In che insieme vanno fatti rientrare?
Si può parlare di vaghezza ogni volta che un concetto o
un’espressione linguistica ammette “casi limite” di applicazione:
cioè concetti per cui non sappiamo se applicare o no la regola.
1.6 La Vaghezza In Rapporto Con Ambiguità, Deissi e
Frasi Generiche
Come accennato sopra la vaghezza dipende in gran parte dai
casi limite e non ha una definizione univoca. Possiamo però
sostenere che parlare in modo vago significhi parlare in modo
poco preciso: infatti la vaghezza è generalmente contrapposta
alla precisione ed esprime quella proprietà appartenente ai
concetti di non essere definiti in modo chiaro e netto. Quindi se
un termine, o un concetto, è vago di per sé, posto in una frase, o
in un periodo più complesso, renderà anche tale espressione
vaga, se appunto applichiamo il principio di composizionalità
per giungere al significato dell’enunciato complesso.
Proprio perché non siamo in grado di applicare sempre questa
definizione, il concetto di vaghezza può essere confuso con
quello di ambiguità.
Ambiguità e vaghezza in realtà indicano due cose diverse, anche
se sono molto simili. Prendiamo ad esempio la frase:
16
8) Bea ha una vecchia credenza.
La parola “credenza” può essere interpretata in due modi
diversi: può voler indicare un’opinione, una convinzione, che
Bea ha da tempo, ma può voler anche indicare un vecchio
armadio per sala da pranzo dove Bea ripone le stoviglie. Questa
interpretazione è legata all’ambiguità. Infatti, se considerassimo
il fatto che il patrimonio linguistico di ciascun parlante, sia
diverso da individuo a individuo, ogni testo, messaggio o
informazione, potrebbe potenzialmente essere fonte di
ambiguità, cioè il significato che dà il mittente, o la sorgente del
messaggio, potrebbe essere diverso da quello interpretato dal
destinatario.
Quando leggiamo una frase ambigua facciamo molto fatica a
capire quale significato attribuire all’espressione all’istante: noi
leggiamo la frase in base a una certa interpretazione poi, se
avvisati, cerchiamo la seconda o la terza interpretazione, e solo
alla fine sceglieremo tra le interpretazioni date quella più
appropriata. Se tutto ciò che basterebbe per la determinazione
del significato di un enunciato fosse la composizione dei singoli
significati che noi attribuiamo alle parole, tutte le volte che
ascolteremmo un enunciato ambiguo, dovremmo comprendere
tutti i suoi possibili significati. Ma questo non avviene.
L’ambiguità quindi deve essere il parlante a risolverla, cioè a
riferire il termine ambiguo a uno specifico significato.
Ambiguità e vaghezza per ciò si differenziano rispetto alla
discrezione del parlante: se una parola è ambigua, il parlante può
risolvere l’ambiguità specificando il significato. Ma se una
parola è vaga, il parlante non può risolvere il problema: i “casi
limite” non sono risolvibili con la specificazione letterale del
termine.
Quando si cerca di attribuire un significato ad un temine vago, ci
rendiamo conto che i nostri mezzi non bastano, perché ci
accorgiamo che il risultato resiste comunque ai nostri tentativi di
attribuire un valore di verità alla frase. Inoltre questo contrasto
tra ambiguità e vaghezza è oscurato dal fatto che molte parole
possono essere allo stesso tempo sia vaghe che ambigue. Però
non esistono solo queste due “categorie” di frasi: esistono anche
frasi “generiche” (o “generali”).
Un termine matematico come “angolo retto” offre un esempio di
come un termine può essere “generico” senza essere vago,
perché è riferito a uno specifico significato conosciuto da tutti,
17
senza possibilità di confonderlo con un altro. Infatti se si
considera la frase
9) Paolo non è uno scapolo.
è una frase “generica”10
: può essere anch’essa accostata alla
vaghezza, ma ha un significato ancora diverso, sia
dall’ambiguità che dalla vaghezza stessa. Considerando che
essere un “scapolo” significa avere delle caratteristiche come
essere un umano, un uomo, adulto e non sposato… la nostra
frase può essere vera, per quattro diverse ragioni appunto, e
potrebbe per ciò essere interpretata in quattro modi diversi, ma
non viene specificata cioè la ragione per cui Paolo non è uno
scapolo.
Perciò in contrasto con le frasi vaghe, le frasi “generiche”
hanno determinate condizioni di verità, non pongono una
minaccia alle condizioni semantiche di verità e possono essere
anch’esse risolte dal parlante specificando appunto ciò di cui si
sta parlando.
Un altro fenomeno che si può accostare alla vaghezza è la deissi,
cioè una funzione linguistica che serve a collocare
un enunciato in una situazione nello spazio e nel tempo. La
deissi fa riferimento a espressioni linguistiche la cui
interpretazione è legata al contesto in cui vengono profferite.
Infatti espressioni come
10) Gira a destra!
11) Vieni qua!
assumono un significato diverso da situazione a situazione, e se
sentite così, senza tenere in considerazione chi parla e a chi è
rivolta, possono non avere senso. Perciò bisogna essere a
conoscenza di informazioni sullo spazio di riferimento del
parlante. O in altre parole possono essere risolte con gesti del
parlante, che specifica, anche in questo caso, a cosa si sta
riferendo.
Riassumendo quindi, abbiamo visto che questi altri problemi
linguistici sono risolvibili grazie al contributo del contesto e del
parlante. La vaghezza differentemente è irrisolvibile, perché
10
In Rooji, R. van, Vagueness and Linguistics, in Giuseppina Ronzitti (ed.) “Vagueness: a guide.”, Heidelberg: Springer, pp.
3-6; Sorensen, R., Vagueness, in ”Standford Enciclopedia of Philosophy”, pp. 2-6, 2006.
18
anche tentando di risolverla i termini che la generano restano
comunque vaghi. Non c’è modo di specificare in che modo una
persona sia “calva”: lo è o non lo è. Dipende appunto dal
significato che un individuo possiede di quel termine e se
applicare o meno la regola per cui un individuo ha o meno
quella determinata caratteristica individuata dall’aggettivo
(come “essere calvo”). Infatti anche cercando di eliminare la
vaghezza imponendo confini ben precisi alle espressioni del
linguaggio umano, quindi cercando di dare dei confini alle
espressioni che non ne hanno, i nostri nuovi confini posti,
sarebbero soggetti anch’essi a una certa vaghezza nella
riformulazione.
Il risultato di una eventuale specificazione di un termine vago
resiste ai nostri tentativi di attribuire un valore di verità alla
frase.
19
Capitolo 2
2.1 Un’Analisi Della Vaghezza
Come abbiamo visto nel capitolo precedente la vaghezza è un
fenomeno altamente pervasivo: si presenta in ogni ambito del
nostro linguaggio e non è propriamente risolvibile. Come siamo
in grado allora di comprendere i significati, nonostante questo
problema? Se considerassimo la comunicazione come un
processo di attribuzione di intenzioni, se non riuscissimo ad
attribuire un’intenzione, poiché non sappiamo attribuire un
significato ad un’espressione, come può la comunicazione
avvenire? Ma è davvero un problema quello della vaghezza o ci
aiuta nel nostro linguaggio quotidiano?
Consideriamo la frase
12) Maria è arrivata alle 3
Immaginiamoci che Maria sia arrivata alle 3:02. In quali
condizioni la considereremo vera ? Se e solo se Maria sia
arrivata effettivamente alle 3 in punto, o accetteremo anche un
suo eventuale ritardo (o anticipo) ?
In condizioni particolari l’esatta ora del suo arrivo potrebbe
essere importante, ma la maggior parte delle volte questo livello
di precisione non è richiesto. Infatti sarebbe strano considerare
che ad esempio Maria venisse accusata di ritardo per essere
arrivata solo 15 secondi, o due minuti, dopo le 3. Se prestassimo
attenzione al modo in cui gli individui parlano ci accorgeremmo
che lo fanno molto liberamente, dicono cioè cose che è
riconosciuto essere false, ma sono abbastanza vicine alla verità
da essere accettate. Per capire come interpretare enunciati come
quello in 12) sono state proposte due famiglie di teorie. La
prima prevede che fasi come quella in 12) siano letteralmente
false in una situazione in cui Maria sia arrivata di fatto alle 3:02,
perché “alle 3” individua un particolare istante di tempo. Una
frase come quella in 12) verrebbe però considerata
pragmaticamente accettabile, interpretata cioè come “le 3 in
punto”. Il secondo approccio, diversamente, considera frasi
come quella in 12) vere o false in relazione alla situazione in cui
è proferita. Ma vediamoli più nel dettaglio.
20
2.2 L’Approccio di Lasersohn
La prima posizione che prendiamo in considerazione è quella
sostenuta da Peter Lasersohn11
. Come accennato sopra
prendiamo in considerazione la frase
12) Maria è arrivata alle 3
e il fatto che Maria sia arrivata alle 3:02. Nel linguaggio
quotidiano non diremo che Maria sia arrivata in ritardo, ma la
accetteremo, anche se di fatto Maria è arrivata alle 3:02. Quando
parliamo diciamo cose che non sono sempre letteralmente vere,
ma sono abbastanza vicine alla verità da essere considerate tali.
Perciò per Lasersohn questa frase è letteralmente falsa, perché
“alle 3” indica un preciso istante di tempo (significa “alle 3 in
punto”). Infatti secondo Lasersohn non esistono vie di mezzo in
senso letterale: quello che è detto non corrisponde a quello che
realmente è accaduto e quindi la frase risulta letteralmente falsa.
Ma viene ritenuta pragmaticamente accettabile, perché
abbastanza vicina alla verità da essere considerata vera.
Il senso di vicinanza alla verità non è facile da definire perché
una frase può “deviare” dalla verità in una miriade di modi, e
alcuni non misurabili. Siccome non esiste un metodo generale
per valutare quanto abbastanza vicino alla verità sia, possiamo
solo verificare l’ora dell’effettivo arrivo di Maria per stabilire se
la frase sia vera o meno. Quindi non possiamo dare una
definizione della verità della frase, ma possiamo valutare la
“precisione” valutandone, appunto, l’accuratezza.
Esiste perciò, secondo Lasersohn, un “alone pragmatico” nel
nostro linguaggio che permette di comprenderci parlando
liberamente. Possono esserci, diverse strategie per regolare
l’alone e la distanza dalla verità. Ad esempio, ci si può
accordare implicitamente sul fatto che la deviazione dalla verità
sia autorizzata perché nel discorso i partecipanti trovano
conveniente ignorare irrilevanti distinzioni e dettagli. Infatti
parlare in un modo iper-preciso non porterebbe vantaggi all’atto
comunicativo, anzi creerebbe un carico cognitivo che
l’individuo non riuscirebbe a sopportare.
Non sarebbe ammissibile parlare e accettare frasi “iper-precise”
come
13) Paolo ha 1.567.876.332 capelli in testa.
11
Peter Lasersohn è professore di linguistica all’“University of Illinois”. Troviamo i riferimenti in Lasersohn, P., Pragmatic
Halos, in “Language”, Vol. 75, No. 3. (Sep., 1999), pp. 522 -551.
21
14) Maria è arrivata alle 3, 02 minuti, e 3 secondi, 2
decimi...
poiché apparirebbero strane e rimarremmo perplessi di fronte ad
una persona che ci parla in questo modo.
“L’alone pragmatico” quindi permette di considerare veri
enunciati come quello in 12) quando in realtà sono letteralmente
falsi, per ragioni che possono diverse. Possiamo raffigurarci
l’alone pragmatico in questo modo:
cioè considerando un’espressione data z che denota un oggetto x
(posta al centro), si può definire alone l’insieme dei contesti
associati ad x, posti attorno ad x come un grappolo o in modo
circolare, con la sua relazione di ordine, chiamandolo alone
pragmatico di x e più in generale, alone pragmatico di z. Si può
dire che l’alone sia un fenomeno cumulativo: se un’espressione
complessa è costituita da più concetti, da più elementi, ognuno
col suo alone pragmatico, saranno tutti addizionati per formare
un alone più grande, cioè l’alone dell’espressione complessa. Al
centro abbiamo quindi il momento preciso in cui accade
l’evento, attorno cerchi che formano appunto un “alone” che
include il momento preciso, rendendoli veri fino a una
determinata ampiezza. Infatti se Maria fosse arrivata alle 3:15, la
frase in 12) sarebbe stata falsa sotto ogni punto di vista.
Possiamo dire che “l’alone pragmatico” permette di
comprenderci parlando liberamente. Per Lasersohn perciò frasi
di questo tipo sono sempre letteralmente false, ma vengono
accettate per una questione di praticità. In aggiunta egli sostiene
22
che esistano delle parole in grado di modificare questo “alone”.
Prendiamo ad esempio la frase
15) Maria è arrivata esattamente alle 3
non significa la stessa cosa della frase espressa in 12). La frase
in 15) non permette di parlare così liberamente come la frase in
12). In maniera diversa, la frase enunciata in 12) porta un
maggiore “allentamento” della frase rispetto a quella in 15) nel
determinare quanto è abbastanza vicino alla verità.
Si può quindi sostenere che parole come “esattamente” aiutino a
regolare l’alone: ci aiutano cioè a determinare quanto sia
abbastanza “abbastanza vicino alla verità”.
I regolatori dell’alone informano su quanti dettagli possono
essere ignorati e determinano l’ampiezza dell’alone stesso:
un’espressione avrà un alone più ampio o più ristretto a seconda
del regolatore usato. I regolatori sono appunto parole che si
comportano come “esattamente” e sono parole che limitano la
libertà delle espressioni. Analizziamo alcuni casi in particolare.
Esattamente e tutti
Un esempio citato poco fa è quello di “esattamente”. Con la
parola “esattamente”, considerando la frase in 15) in rapporto
alla frase in 12) ci viene più difficile accettare il ritardo di
Maria, o un eventuale anticipo. A paragone “esattamente alle 3”
non ha la stessa denotazione di “alle 3”. Il reale effetto di
“esattamente” sull’alone pragmatico è che restringe l’alone
attorno “alle 3”, eliminando l’insieme di quelle eventualità che
si pongono al di fuori della delimitazione. Se pensiamo
all’immagine, il centro rimane lo stesso, mentre i cerchi attorno
si restringono.
In modo analogo ad “esattamente”, anche “tutti” restringe
l’alone pragmatico. Consideriamo la differenza tra le frasi
16) I bambini costruirono una zattera
17) Tutti i bambini costruirono una zattera
Frasi come queste, che contengono nomi plurali collegati con
“i” o “tutti i” sono di solito ambigue e possono essere
interpretate collettivamente o distributivamente.
Su una lettura collettiva le frasi in 16) e in 17) attribuiscono
l’azione di “costruire” ai “bambini” come gruppo. Ma è diverso
da frasi come
23
18) Ogni bambino dorme
19) Ognuno dei bambini dorme
che attribuisce l’azione di “dormire” ad ogni individuo, come
individualità in rapporto al gruppo totale appunto. Quest’effetto
non è dovuto all’ambiguità nel nome, ma alla semantica del
predicato coinvolto. Se si considera “bambini” come blocco,
come gruppo unico, non come insieme di individui, non si arriva
a pensare che possono essercene alcuni che non hanno
contribuito alla costruzione della zattera, perché si considera
appunto implicitamente che tutti abbiano contribuito. Con
l’aggiunta di “tutti”, la possibilità che ce ne sia qualcuno che
non abbia contribuito, viene esplicitamente esclusa.
Liberamente e approssimativamente parlando
Diversamente dai regolatori appena citati, espressioni come
“Liberamente parlando” e “approssimativamente parlando”, o
“circa”, cambiano l’alone in modo diverso. Queste espressioni
hanno un chiaro effetto sul valore di verità dell’espressione con
cui si combinano. Infatti, una frase come
20) Liberamente parlando, Gianni è un Re!
indica che la persona di “Gianni” ha le capacità di comando
tipiche di un re, non avendo tecnicamente il titolo di re. Il fatto
che Gianni non sia un re non rende la frase in 20) falsa. Al
contrario, non si sa nemmeno se può essere vero che Gianni sia
un re. Quindi “liberamente parlando” è un segnale che ci avvisa
della necessità di un “range” più ampio per il nostro alone. In
realtà queste espressioni non espandono l’alone dell’espressione
modificandolo, ma espandono l’insieme degli oggetti dentro
l’alone. Pensando all’immagine ancora una volta, è come se il
centro si allargasse verso l’alone. Anch’essi forzano la
denotazione e l’alone a coincidere più strettamente.
“Esattamente” e simili, lo fanno stringendo l’alone più vicino
alla denotazione, “Liberamente” espande la denotazione per
allargarla all’ampiezza dell’alone.
2.3 L’approccio Supervalutazionale
In anni recenti è stato proposto il secondo approccio che
prendiamo in considerazione: il metodo supervalutazionale.
Secondo questo approccio ogni enunciato viene valutato in una
24
situazione. Al variare della situazione, può variare il significato
(inteso come valore di verità): una stessa frase può essere “vera”
o “falsa” a seconda della situazione. Questa prospettiva è
totalmente diversa dalla precedente: per Lasersohn infatti una
frase non ha la possibilità di assumere un valore di verità in
relazione alla situazione, è letteralmente vera o letteralmente
falsa a prescindere.
Questo metodo non è una posizione nuova e tenta di risolvere il
problema portato dalla vaghezza basandosi su una concezione
semantica della vaghezza: è indeterminato se o meno un oggetto
cade dentro i confini dell’estensione del termine vago, cioè pone
la vaghezza nel sistema di rappresentazione.
In questa prospettiva, il valore di verità di un enunciato che
contiene espressioni vaghe è determinato dai valori di verità che
esso può ricevere a seconda di come si consideri precisare il
significato di quelle espressioni. In altre parole un enunciato è
composto da diverse espressioni, ognuna delle quale tenta di
precisare il significato dell’enunciato stesso. In un certo senso,
in quest’ottica, ci rifacciamo al principio di composizionalità
proposto da Frege e quindi, il valore di verità di un’affermazione
vaga sarà una funzione del valore di verità delle sue
“precisificazioni”: presuppone che l’insieme di queste
precisificazioni sia esso stesso preciso. Se ogni
“precisificazione” determina il valore “vero”, allora diremo che
l’enunciato stesso è vero: i diversi significati che potremmo
attribuire a quelle espressioni non fanno alcuna differenza e
l’enunciato sarebbe vero in ogni caso (o super-vero).
Analogamente, se l’enunciato risulta falso in ogni
“precisificazione” allora diremo che è falso (o super-falso),
nonostante la presenza di espressioni vaghe.
La vera questione problematica, anche in questa visione, si pone
con i “casi limite”: infatti quando l’enunciato risulta vero in
alcune “precisificazioni” e false in altre, c’è un problema. In
questi casi la vaghezza fa sentire il suo peso e il valore
complessivo dell’enunciato risulta indeterminato. Possiamo dire
che i “casi limite” non hanno un valore di verità, per questo ci è
difficile dire se un enunciato di questo tipo sia vero o falso.
Ad esempio se riconsideriamo la frase in 12) e un contesto in cui
Maria deve prendere il treno alle 3:00, asseriremo che Maria è
arrivata di fatto in ritardo arrivando alle 3:02 e perdendo il treno.
Quindi è falso sostenere che Maria sia arrivata alle 3:00.
Differentemente se, considerando sempre la frase in 12), Maria
fosse arrivata alle 3:02 ma per un appuntamento con una sua
25
amica alle 3:02 il ritardo non viene preso in considerazione, e
quindi si può affermare che Maria sia arrivata alle 3:00. Quindi
una stessa frase , come quella in 12) ad esempio, può assumere
significati diversi a seconda della situazione e quindi un valore
di verità diverso.
26
Capitolo 3
3.1 Introduzione al capitolo
Come abbiamo visto fino ad ora la vaghezza è un fenomeno che
comprende ogni ambito del nostro linguaggio dai verbi agli
aggettivi, dai nomi comuni ai nomi propri: non esiste categoria
linguistica che non sia toccata da questo fenomeno. Inoltre, va
ricordato che questo fenomeno si riscontra anche in altre lingue:
non è una prerogativa unica dell’italiano. In queste pagine,
abbiamo anche mostrato che la vaghezza dipende in gran parte
dai “casi limite” ed esistono parole che generano un “alone” che
permette di accettare la poca precisione degli individui nei loro
atti comunicativi.
Gli autori però, si sono concentrati maggiormente sul dominio
degli aggettivi. Perciò, in questo capitolo, faremo una breve
rassegna sugli aggettivi ed affronteremo un caso sperimentale
volto ad indagare l’interpretazione dei vari tipi di aggettivi.
Infine discuteremo i risultati ottenuti.
3.2 Gli Aggettivi
L'aggettivo è una parte del discorso che ne modifica
semanticamente un'altra, che può essere ad esempio un
sostantivo, con cui si rapporta sintatticamente e con cui ha
una concordanza grammaticale.
Gli aggettivi non son tutti uguali tra loro, ed oltre alla
distinzione più generale tra aggettivi qualificativi ed indicativi12
,
possono essere distinti in due grandi classi: gli aggettivi scalari e
gli aggettivi non-scalari.
Gli aggettivi scalari sono quegli aggettivi che possono entrare in
costruzioni comparative e che possono essere modificati da
espressioni che indicano “gradi” diversi: individuano un livello
in cui un individuo possiede la proprietà posta dall’aggettivo13
.
12
In italiano gli aggettivi vengono tradizionalmente divisi in due classi: la prima è quella degli aggettivi qualificativi che
specificano la qualità di un nome, pronome o un intero sintagma, e sono aggettivi come forte, giovane, bello, rettangolare, blu
(…). La seconda classe è quella degli indicativi che specificano il nome su piani diversi da quello qualitativo e sono
divisibili a loro volta in diverse classi: possono essere possessivi, numerali, dimostrativi o indefiniti. (da
http://www.treccani.it/enciclopedia/aggettivo/)
13
Bartsch & Vennemann (1973); Seuren (1973); Cresswell (1977); Von Stechow (1984); Heim (1985, 2000); Kennedy
(1999); Kennedy & McNally (2005), citati in Panzeri, F., Foppolo, F., “Straight Bananas. Shifting standards for absolute
gradable adjectives” presso Università degli studi Milano-Bicocca, discussione presentata a Psycholinguistics across the
borders, Rovereto 24-25/06/2010.
27
Si può dire che gli aggettivi evochino una “scala” che va da un
minore ad un maggiore grado in cui l’individuo possiede la
caratteristica denotata dall’aggettivo.
Al contrario, gli aggettivi non-scalari sono quelli che non
possiedono queste caratteristiche: non possono cioè essere
ordinati su una “scala” e non è possibile effettuare costruzioni
comparative.
Aggettivi quindi come “incinta”, “morto” o “disoccupato” sono
aggettivi non-scalari. Infatti frasi come:
a. Simona è abbastanza incinta
b. Napoleone è estremamente morto
c. Leonardo è più disoccupato di Stefania
sono anomale, perché non ha senso considerarli in rapporto a
qualcos’altro, o porli in un ordine: una persona non può essere
abbastanza morta, abbastanza incinta o abbastanza disoccupato.
Sono proprietà che gli individui hanno o non hanno. Non
esistono casi intermedi.
Diversamente è possibile costruire frasi semanticamente corrette
come:
a. Luca è più intelligente di Riccardo
b. Simone è estremamente grasso
c. Paolo è più alto di Maria
perché appunto aggettivi come “intelligente”, “grasso” o “alto”
sono aggettivi scalari, ed ha quindi senso porli in costruzioni
comparative.
Va sottolineato che non sempre, tutti gli aggettivi scalari sono
interpretati allo stesso modo.
Esistono infatti due classi di aggettivi scalari: gli aggettivi
scalari relativi e gli aggettivi scalari assoluti.
La prima classe comprende aggettivi per i quali lo standard di
riferimento varia a seconda del contesto, perciò non è possibile
interpretare un aggettivo scalare relativo senza conoscere quale
sia lo standard inteso. Quindi come accennato prima con frasi
come
23) Dumbo è grande
possiamo avere due possibili interpretazioni:
28
i) Dumbo può essere grande rispetto ad uno standard (se
prendo ad esempio in considerazione la grandezza
media degli elefanti).
ii) Dumbo può essere grande rispetto ad un contesto a cui
mi sto riferendo (se ad esempio mi riferisco all’insieme
composto dagli animali domestici).
Nel primo caso, considerando queste due interpretazioni la frase
risulterà falsa, mentre nel secondo vera. Per questi aggettivi
(come “grande/piccolo”, “alto/basso”, “veloce/lento”) vanno
sempre considerate le considerazioni contestuali, per poter
attribuire un valore di verità alla frase.
La seconda classe di aggettivi scalari comprende aggettivi che si
comportano diversamente, cioè che non ricercano lo standard di
riferimento nel contesto, ma sembra che siano indipendenti da
considerazioni percettive o da classi di comparazione: sono cioè
indipendenti dal contesto, e lo standard sembra essere una
caratteristica “intrinseca” agli aggettivi stessi ed indica un grado
massimo o minimo. Aggettivi che si comportano in questo modo
sono aggettivi come “aperto/chiuso”, “pieno/vuoto” o
“liscio/ruvido”, e sono chiamati aggettivi scalari assoluti. Sono
sempre aggettivi scalari, ma la loro interpretazione non varia a
seconda del contesto. Se noi consideriamo la frase
24) La strada che porta a casa di Laura è dritta
sappiamo che “dritta” ha un significato che “ha in sé” un
massimo grado di “drittezza” e un minimo grado di “stortezza”
(così come “storto” ha almeno un minimo grado di “stortezza”):
una “strada dritta”, non avrà alcun elemento che rimanda al
concetto di storto, perché se una cosa è dritta non può essere, in
linea teorica, storta.
In base a queste differenze, gli aggettivi dovrebbero appartenere
ad una o all’altra categoria e quindi essere non-scalari, scalari
relativi o scalari assoluti. Questa demarcazione non viene però
rispettata in modo netto, e abbiamo così aggettivi che si
comportano in modo diverso, semplicemente in base al contesto.
3.3 Aggettivi e Vaghezza
Come abbiamo appena visto, gli aggettivi scalari relativi sono
quelli che portano i maggiori problemi: hanno variabilità
29
contestuale, ed è quindi necessario specificare i referenti
contestuali quando entrano in gioco. Questi aggettivi però,
esibiscono anche i cosiddetti “casi limite” (“borderline cases”).
Infatti se consideriamo l’altezza media italiana posta a 1,78 m e
il fatto che un individuo come Luca sia alto 1,79 m, una frase
come
25) Luca è alto
non risulta essere nè vera nè falsa, perché è difficile attribuire un
valore di verità alla frase. Perciò, in linea teorica, solo gli
aggettivi scalari relativi dovrebbero essere soggetti al tipo di
vaghezza connesso con l’esistenza dei “casi limite”, mentre gli
aggettivi non scalari e gli aggettivi scalari assoluti dovrebbero
invece essere in grado di dividere il dominio degli individui in
due insiemi distinti: quello degli individui che posseggono la
proprietà in questione (ad esempio gli individui che sono
italiani), e quelli che non la posseggono. Infatti se “dritto” vuol
dire “completamente dritto” una cosa che ha anche un solo
minimo grado di “stortezza” non è “dritta”.
Ma è davvero così netta questa demarcazione?
Aggettivi come “incinta” e “disoccupato” non dovrebbero
esibire questo tipo di vaghezza né di dipendenza contestuale, e
non dovrebbero dar luogo ai cosiddetti “casi limite”. Aggettivi
di questo tipo hanno significati ben precisi e non è quindi
pensabile che assumano un significato diverso in base al
contesto. Un aggettivo quindi come “incinta” si comporta come
i nomi comuni e dovrebbe denotare l’insieme di individui che
sono “incinta”. Ma è davvero così?
30
3.4 Un’Analisi Sperimentale
Per rispondere alla domanda posta alla fine del paragrafo
precedente e capire “di che cosa” sia responsabile la vaghezza, è
stato condotto uno studio14
. Lo scopo è quello di verificare se, in
particolare, l’aggiunta di fattori contestuali può “modulare”
l’interpretazione di questi aggettivi.
Lo studio è stato effettuato su più di 130 soggetti, a cui veniva
sottoposta una presentazione su formato power point di 177
items in totale. Per ognuna delle diapositive, contenente un item
(un’immagine), veniva posta l’affermazione :
“Quest’ [oggetto raffigurato] è [aggettivo]”
ai partecipanti veniva poi chiesto di giudicare se l’affermazione
potesse essere applicata all’immagine rappresentata o meno,
usando una delle tre opzioni: “Sì”, “No” o “Non posso
dirlo/Dipende”.
Tale studio è stato condotto per scopi diversi, ma all’interno
degli item sperimentali c’erano 4 aggettivi che si riferiscono alla
forma di oggetti (rotondo, triangolare, esagonale e rettangolare),
che rientrano nella classe degli aggettivi non scalari.
Le domande poste ai soggetti venivano mostrate su forme e
oggetti che differivano per essere forme geometriche astratte e
forme riferite ad oggetti reali. In entrambi i casi l’oggetto però,
testato non possedeva “appieno” le caratteristiche richieste, ad
esempio né la forma geometrica astratta, né l’oggetto reale,
erano cioè perfettamente triangolari, rotondi, quadrati o
esagonali.
È quindi possibile sostenere che il contesto influenzi
l’interpretazione di aggettivi non-scalari, come quelli delle
forme, allentando quei criteri precisi per determinare se una
figura possiede o meno le caratteristiche denotate dagli aggettivi
stessi? Esiste una differenza nel valutare una determinata figura
astratta (che può essere disegnata, e quindi alla quale si
applicano precise proprietà formali) ad esempio triangolare, da
una realmente esistente che si avvicini alla definizione di
triangolare (visto che è noto che in natura non esistono oggetti
che soddisfano appieno i criteri richiesti dalle proprietà
formali)? Il contesto può modulare l’ampiezza dell’alone
pragmatico di aggettivi non-scalari come quelli di forma?
14
Panzeri, F., Foppolo, F., “Straight Bananas. Shifting standards for absolute gradable adjectives” presso Università degli
studi Milano-Bicocca, discussione presentata a Psycholinguistics across the borders, Rovereto 24-25/06/2010.
31
La previsione, basata su quanto prevedessero le teorie formali,
era quella di trovare risultati che mostrassero che un aggettivo
non-scalare non fosse “modificabile”, e che quindi indicasse una
caratteristica precisa di un oggetto: un oggetto o è triangolare o
non lo è, non esistono vie di mezzo. Non esiste una “scala della
triangolarità” dove ordinare gli oggetti in base alla loro
“vicinanza al concetto di triangolarità”. “Essere rotondo
(quadrato, triangolare o esagonale)” ha delle caratteristiche ben
precise, definite da regole geometriche, che si dovrebbero
applicare a tutti gli oggetti sia reali che astratti.
Quindi alla visione di queste immagini ai soggetti veniva detto:
A. Questa/o Forma/Buco è rotonda/o
e dovevano esprimere appunto il loro giudizio, barrando la
casella con “Sì”, “No” o “Boh”. Quello che ci si aspettava era
che in entrambe le immagini la maggior parte delle risposte
fosse “no”. In realtà la distribuzione delle risposte ottenute dai
soggetti per questi item, come mostra la tabella seguente,
sono state sorprendenti, poiché se nei confronti della prima
immagine è stata confermata l’ipotesi sperimentale, con la
seconda no. Infatti con un analisi statistica più approfondita
mostra:
Boh No Si
Forma astratta 8 166 94
Oggetto concreto 6 10 252
0%
10%
20%
30%
40%
50%
60%
70%
80%
90%
100%
rot ondo rot ondo
f orma buco
36 100
yes
no
boh
32
Pearson's Chi-squared test X-squared = 210.7087, df = 2, p-value <
2.2e-16  test del chi-quadrato di Pearson: confronto significativo:
2
(2)=210.71, p<.0001
Analogamente per le altre figure:
B. Questa Forma/Isola è triangolare
Le relative risposte sono state:
Boh No Si
Forma astratta 8 166 94
Oggetto concreto 6 10 252
Pearson's Chi-squared test X-squared = 210.7087, df = 2, p-value <
2.2e-16  test del chi-quadrato di Pearson: confronto significativo:
2
(2)=210.71, p<.0001
C. Questa/o Forma/Piatto è quadrata/o
Le relative risposte sono state:
0%
10%
20%
30%
40%
50%
60%
70%
80%
90%
100%
t riangolare t riangolare
f orma isola
11 81
yes
no
boh
33
Boh No Si
Forma astratta 8 166 94
Oggetto concreto 6 10 252
Pearson's Chi-squared test X-squared = 210.7087, df = 2, p-value <
2.2e-16  test del chi-quadrato di Pearson: confronto significativo:
2
(2)=210.71, p<.0001
D. Questa Forma/Nazione è esagonale
Le relative risposte sono state:
Boh No Si
Forma astratta 8 166 94
Oggetto concreto 6 10 252
Pearson's Chi-squared test X-squared = 210.7087, df = 2, p-value <
2.2e-16  test del chi-quadrato di Pearson: confronto significativo:
2
(2)=210.71, p<.0001
0%
10%
20%
30%
40%
50%
60%
70%
80%
90%
100%
quadrat o quadrat o
f orma piat t o
yes
no
boh
0%
10%
20%
30%
40%
50%
60%
70%
80%
90%
100%
esagonale esagonale
f orma nazione
106 67
yes
no
boh
34
In generale riassumendo, dai risultati emerge che in quasi tutti
questi confronti, c’è una tendenza a interpretare in modo diverso
quando ci si riferisce ad oggetti reali e ad oggetti astratti. Inoltre
riferendosi ad oggetti reali non si rispetta il fatto per cui un
aggettivo o è scalare o non lo è. Infatti i dati raccolti in totale lo
mostrano:
Boh No Si
Forma astratta 8 166 94
Oggetto concreto 6 10 252
Pearson's Chi-squared test X-squared = 210.7087, df = 2, p-value <
2.2e-16  test del chi-quadrato di Pearson: confronto significativo:
2
(2)=210.71, p<.0001
3.5 Discussione Dei Risultati Ottenuti
Abbiamo visto che all’interno del dominio degli aggettivi la
vaghezza è un fenomeno attribuito fondamentalmente agli
aggettivi scalari relativi, mentre si supponeva che gli aggettivi
scalari assoluti e quelli non scalari non esibissero “casi limite”.
Dai risultati ottenuti però emerge che il contesto influenza
l’interpretazione degli aggettivi allentando quei criteri precisi
per determinare se una figura possiede o meno le caratteristiche
denotate dagli aggettivi stessi.
Quindi per rispondere alle domande poste in precedenza
possiamo dire che gli individui interpretano gli aggettivi non
scalari non considerando il loro significato “intrinseco” ed
“unico”, ma lo pongono comunque in relazione ai riferimenti
che il contesto offre. In questi casi ad esempio il significato di
triangolare non è netto come dovrebbe essere, e quindi denotare
l’insieme degli oggetti che hanno la caratteristica di essere
0
200
400
600
800
1000
1200
1400
1600
forma concreta forma astratta
boh
no
si
35
triangolari, e tutto ciò che non è triangolare sta al di fuori
dell’insieme, ma ammette una scala, un grado di triangolarità.
Questo può essere spiegato con la presenza dell’alone
pragmatico che ci permette di considerare vere, frasi che
letteralmente non lo sono, ma sono abbastanza vicine alla verità
da esserlo. Infatti il contesto ha un ruolo fondamentale nel
regolare l’alone pragmatico: parole astratte sono meno
“modificabili” rispetto a parole concrete.
Un'altra via per spiegare il fenomeno è quello di assumere un
approccio supervalutazionale e considerare le frasi nei singoli
contesti.
I risultati quindi dimostrano che Parlare in modo iper-preciso, o
aspettarsi precisione da chi parla non serve.
36
Conclusioni
Come abbiamo visto, comunicare è un atto naturale e avviene
senza riporre eccessive attese di precisione nelle persone che ci
troviamo davanti. La comunicazione è un processo di
attribuzione di intenzioni: è un atto cooperativo. Le persone
perciò parlano molto “liberamente”, dando molte cose per
scontate e addirittura omettendo delle parti: vengono dette cose
che non sono puramente vere, ma sono abbastanza vicine alla
verità da essere considerate come tali.
Nel linguaggio comune quindi, siamo tolleranti: non ci
aspettiamo che in un discorso ogni cosa che viene detta sia
assolutamente precisa. Non ci interessa sapere esattamente se
Gerry Scotti ha 1.567.876.332 capelli in testa: alcuni individui
lo riterranno calvo altri meno, ma comunque non verrà mai
preso ad esempio come una persona con una “folta chioma” in
testa. Non sentiremo mai nessuno dire “Maria è arrivata alle
3:00 minuti, 02 secondi, 04 millesimi…” perché ci apparirebbe
strano. Nel linguaggio comune un’estrema precisione possiamo
sostenere che non sia richiesta. Le persone accettano quindi frasi
che deviano, in modo maggiore o minore, dalla verità, grazie
all’esistenza di un “alone pragmatico”.
Ed in questi termini è ammissibile parlare di vaghezza. La
vaghezza è uno strumento che ci permette di accettare frasi di
questo tipo, pur non sapendo con precisione in che modo
1) Gerry Scotti sia effettivamente calvo
2) Se effettivamente Maria sia arrivata alle 3 in punto, o alle
3:02 minuti, o alle 2:57 minuti …
L’uso della vaghezza è utile quando il parlante è indeciso
riguardo a cosa può capire l’ascoltatore e ci fa usare il
linguaggio in modo flessibile, perché ogni parola può assumere
un significato preciso in ogni contesto. Si può dire quindi che se
da un lato la vaghezza porta con se diversi problemi, ci aiuta
soprattutto ad accettare frasi, che se dovessero essere spiegate,
creerebbero più problemi. Per questo è un fenomeno così
pervasivo nel nostro linguaggio.
37
38
Bibliografia
Casalegno P., Frascolla P., Iacona A., Paganini E., Santambrogio M.,
Filosofia del linguaggio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2003
Guasti, M.T., L’acquisizione del linguaggio: un’introduzione, Raffaello
Cortina Editore, Milano, 2007.
Lalumera, E., Coliva, A., Pensare. Leggi ed errori del ragionamento,
Carocci Editore, Roma, 2006.
Lasersohn, P., Pragmatic Halos, in “Language”, Vol. 75, No. 3. (Sep.,
1999), pp. 522 -551.
Nespor, M., Napoli, D.J., L’animale parlante. Introduzione allo studio del
linguaggio, Carocci Editore, Roma, 2004.
Panzeri, F., Foppolo, F., “Straight Bananas. Shifting standards for absolute
gradable adjectives” presso Università degli studi Milano-Bicocca,
discussione presentata a Psycholinguistics across the borders, Rovereto 24-
25/06/2010.
Rooji, R. van, Vagueness and Linguistics, in Giuseppina Ronzitti (ed.)
“Vagueness: a guide.”, Heidelberg: Springer.
Sorensen, R., Vagueness, in ”Standford Enciclopedia of Philosophy”, 2006.
http://plato.stanfordedu/entries/vageness/.
Varzi, A., Unsharpenable Vagueness, in “Philosophical Topics”, 28:1,
2000, pp. 1-10.
Varzi, A., I confini del Cervino [The Boundaries of Cervino], in V. Fano, G.
Tarozzi, and M. Stanzione (eds.), “Prospettive della logica e della filosofia”
della scienza”, Cosenza, Rubbettino, pp. 431-445, 2001.
Varzi, A., Vagueness, Logic, and Ontology, in “The Dialogue”, Yearbooks
for Philosophical Hermeneutics, 1 (2001), pp 135-154.
Varzi, A., Vagueness, in L. Nadel (editor in chief) “Encyclopedia of
Cognitive Science”, London, Macmillan and Nature, 2003, pp. 459-464.
Varzi, A., The Vagueness of “Vague”: Rejoiner to Hull, in “Mind”,
114:445, 2005, pp. 695-702.

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L'Importanza di essere vaghi

  • 1. UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO – BICOCCA Facoltà di Psicologia Corso di Laurea in Comunicazione e Psicologia “L’Importanza di Essere Vaghi” Relatore: Prof. Francesca Panzeri Tesi di Laurea Triennale di Annalisa Mazzola matricola 728871 Anno Accademico 2011-2012
  • 2. 1 Ringraziamenti Il primo ringraziamento va alla dott.ssa Francesca Panzeri che mi ha aiutata, sostenuta, stimolata, supportata e corretta nel corso della realizzazione di questo elaborato, senza di lei non avrei mai avuto né la forza né la capacità di avventurarmi in questo mondo e scoprire cose nuove ed interessanti. Il secondo ringraziamento va ai miei genitori e parenti, che hanno finanziato i miei studi, e che hanno creduto in me lasciandomi avventurare in questo percorso. Il terzo ringraziamento va ai miei amici Jasmine, Melissa, Alessandra e Andrea che hanno ascoltato nel corso di questi tre anni racconti sulle cose imparate e sui vissuti universitari, che non hanno migliorato le loro vite, ma nonostante questo ci sono sempre stati a sostenermi ed a incoraggiarmi nelle mie scelte, come solo i veri amici fanno. Il quarto, e non perché di minor importanza, va alle mie amiche e compagne di corso Alice, Marisol e Viviana che sono riuscite a non abbandonare gli studi nonostante la mia presenza, che mi hanno aiutata a passare diversi esami con uno studio di gruppo sempre efficace e risolutivo, che hanno reso le mie giornate universitarie più divertenti e stimolanti, e che mi hanno sempre supportata e sopportata, condividendo insieme a me questa bella esperienza.
  • 3. 2 “L’importanza di essere vaghi” Introduzione 3 Capitolo 1 1.1 Il Linguaggio Umano e La Comunicazione Animale 5 1.2 Le Caratteristiche Fondamentali Del Linguaggio Umano 6 1.3 Il Principio Di Composizionalità 8 1.4 Il Significato Delle Parole 9 1.5 I Casi Limite e Il Concetto Di Vaghezza 12 1.6 La Vaghezza In Rapporto Con Ambiguità, Deissi e Frasi Generiche 15 Capitolo 2 2.1 Un’ Analisi Della Vaghezza 19 2.2 L’Approccio di Lasersohn 20 2.3 L’Approccio Supervalutazione 23 Capitolo 3 3.1 Introduzione Al Capitolo 26 3.2 Gli Aggettivi 26 3.3 Aggettivi e Vaghezza 28 3.4 Un’Analisi Sperimentale 30 3.5 Discussione Dei Risultati Ottenuti 34 Conclusioni 36 Bibliografia 38
  • 4. 3 Introduzione La vaghezza è un fenomeno pervasivo nel nostro linguaggio. Ho deciso di affrontare quest’argomento perché mi sono accorta che il più delle volte, quando comunichiamo non prestiamo attenzione a quello che diciamo, ma nonostante le nostre distrazioni ed i nostri errori riusciamo a comprenderci. Il nostro modo di comunicare per tanto è vago, cioè poco preciso. Ma perché ? Se fossimo sempre precisi il nostro linguaggio sarebbe caratterizzato da una prolissità inaudita. Infatti ad esempio una conversazione banale, sarebbe trasformata in una senza via d’uscita, come: a) Scusi, mi può dire che ore sono? b) Certo! Sono le 2, 13 minuti, 26 secondi, 18 decimi, 23 centesimi… e così all’infinito, fino a che uno dei due interlocutori non decida di porre fine allo scambio di informazioni. Dall’altra però parlare in modo poco preciso lascia troppa libertà di interpretazione, e può portare dei problemi, se ad esempio si da un significato diverso da quello che la persona con la quale stiamo parlando intendeva. Consideriamo una conversazione che può avvenire tutti i giorni come a) Paolo non è poi così giovane, ha 53 anni! b) Beh per me è vecchio per fare quel lavoro. contiene due parole, “giovane” e “vecchio”, che non hanno confini ben delimitati e possono assumere un significato diverso da persona a persona e generare così problemi di interpretazione. Infatti cosa segna il confine da “giovane” a “vecchio”? C’è un momento preciso in cui uno smette di essere “giovane”? Le domande sono chiare, ma i nostri mezzi per rispondere sono incompleti, e l’incompletezza sta nelle domande stesse: é di fatto il nostro linguaggio a non offrire una spiegazione chiara. Quando si cerca di attribuire un significato ad un temine vago, ci rendiamo conto che i nostri mezzi non bastano, perché ci accorgiamo che il risultato resiste comunque ai nostri tentativi di attribuire un valore di verità alla frase. Riusciamo però a comprendere il significato di queste frasi, perché siamo in grado di attribuire un singolo significato ad ogni parola, in base proprio alla nostra conoscenza, e di correlarlo con quello di tutte le altre che compongono la frase intera.
  • 5. 4 L’ideale sarebbe comunicare con estrema brevità e precisione, per evitare ogni genere di errore, ma di fatto è molto difficile attuarle contemporaneamente. Un individuo è in grado di comunicare con brevità, ma non sempre lo fa con precisione. Nel corso di questa trattazione infatti, vedremo che un’assoluta precisione, come appena accennato, non è richiesta: gli individui sotto un certo punto di vista si accontentano di non essere totalmente precisi. L’obiettivo di questo lavoro è quello di capire perché nonostante i diversi problemi che porta con sé, parlare in modo vago è utile per scopi comunicativi e perché gli individui si comportano in questo modo.
  • 6. 5 Capitolo 1 1.1 Il Linguaggio Umano e La Comunicazione Animale In quanto animali comunichiamo. Il verbo “comunicare” racchiude in sé diversi aspetti che possono essere il condividere, il mettere o avere in comune, lo scambiare, il rendere partecipe e molti altri. Questi aspetti possono essere usati per diversi scopi che vanno dallo scambio di informazioni, al puro mantenimento di relazioni sociali. Infatti, la comunicazione comprende diverse azioni dalle più rudimentali e naturali come l’espressione del volto, gli atteggiamenti o i gesti, a quelle più articolate che si sono evolute nel corso della storia come la stampa, la radio o il cinema. Possiamo sostenere dunque che non tutti gli eventi attraverso cui comunichiamo sono però eventi linguistici. Un evento linguistico è determinato da caratteristiche distintive che sono proprie solo del nostro linguaggio. Il vocabolario Zanichelli1 infatti, definisce il linguaggio come la “capacità peculiare della specie umana di comunicare per mezzo di un sistema di segni vocali […] la quale presuppone l’esistenza di una funzione simbolica”. Studi attraverso metodo comparativo2 hanno dimostrato che anche diversi animali comunicano per risolvere problemi di varia natura, sfruttando codici di comunicazione specifici della loro specie. Infatti, le api hanno sviluppato una “danza” che permette di comunicare fra loro dove si trova una determinata fonte di cibo; gli uccelli hanno diversi tipi di “canto” che veicolano messaggi diversi, e così per molte specie diverse, dai mammiferi marini fino ad arrivare quelli più vicini a noi: i primati. I primati sono gli animali verso i quali si è concentrata maggiormente la ricerca sul linguaggio animale: sono animali molto comunicativi, hanno diversi tipi di richiamo (da grugniti ai fischi), ma hanno anche un sistema di espressioni facciali e posture che hanno un ruolo ancora più importante. Difficilmente però possiamo affermare che queste forme di comunicazione sono paragonabili al linguaggio umano. Infatti nessuna delle evidenze riscontrate negli esperimenti 1 Edizione consultata del 2006 2 M.D Hauser, N. Chomsky e W.T. Fitch, The Faculty of Language: What is it, Who has it, and How did it evolve?, in “Science”, 22, 298, pp. 1569-79, citato in Nespor, M., Napoli, D.J., L’animale parlante. Introduzione allo studio del linguaggio, Carocci Editore, Roma, 2004; E in Guasti, M.T., L’acquisizione del linguaggio: un’introduzione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007.
  • 7. 6 condotti dimostra che gli animali usino un linguaggio naturale paragonabile a quello umano. Gli animali sono in grado di associare una parola ad un evento nel mondo, se insegnato loro sottoforma di apprendimento stimolo-risposta, ma non possiamo assumere che apprendano il significato delle parole nello stesso modo della specie umana: non sono in grado di creare delle parole, non le producono spontaneamente. Possiamo quindi dire che il tratto che ci distingue dagli animali è proprio il nostro linguaggio: è infatti l’abilità che permette agli uomini di comunicare tramite messaggi di qualsiasi tipo. Si può ritenere che questa abilità sia naturale negli individui, perché si sviluppa a partire dalla nascita: si può assumere che sia una caratteristica biologica della nostra specie, infatti impariamo a parlare come impariamo a camminare o vedere, senza essere consapevoli dei meccanismi che governano le varie competenze che acquisiamo3 . La comunicazione avviene perché attraverso il linguaggio riflettiamo, ragioniamo e pensiamo, traduciamo cioè in un codice le nostre idee e poi le possiamo trasmettere ad altri. È appunto la nostra modalità di comunicare che ci distingue dagli altri esseri del creato. 1.2 Le Caratteristiche Fondamentali Del Linguaggio Come accennato prima, il linguaggio umano è quindi caratterizzato da alcune proprietà che lo contraddistinguono. Charles F. Hockett (1959) individua 16 tratti distintivi per caratterizzare il linguaggio orale e tra le principali4 troviamo: - L’arbitrarietà: la relazione tra forma e significato di una parola è arbitraria, se fosse vero il contrario esisterebbe una solo lingua umana nel mondo ad esempio. - Una grammatica: il linguaggio è governato da una grammatica intesa come strutturazione dei segni (e quindi le parole). Secondo la tradizione “Chomskyana” include la formulazione di un insieme di principi e parametri, i quali riflettono le regolarità che si trovano. 3 Sulla base della teoria della grammatica generativa formulata da Noam Chomsky (1957) il linguaggio sarebbe infatti una capacità determinata biologicamente: gli individui dispongono di una dotazione genetica che consente loro di acquisire il linguaggio (grammatica universale). La grammatica universale è un sistema cognitivo che permette di acquisire, comprendere e produrre un numero infinito di elementi a partire da un insieme finito e associare una certa forma a un determinato significato. 4 Hockett, C.F., in The Origin of Speech in “Scientific American”, 203, pp. 89–97, 1960, citato in Guasti. M.T., L’acquisizione del linguaggio: un’introduzione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007.
  • 8. 7 - Il riferimento a distanza: la capacità di riferirsi a qualcosa che non è fisicamente presente. - L’abilità di potersi riferire a delle astrazioni: la capacità di riferirsi ad idee astratte. - La creatività: la possibilità di creare e comprendere frasi nuove, mai dette o sentite prima. - La ricorsività: la possibilità di creare frasi indefinitamente lunghe. Sebbene sia stato dimostrato che alcune specie animali abbiano tipi di comunicazione che condividono alcune di queste caratteristiche, ce ne sono due tra queste che sono esclusive della specie umana: la ricorsività e la creatività. La ricorsività e la creatività investono ogni aspetto della lingua parlata. Consideriamo la frase 1) Ieri Carlo abbaiava tranquillamente nel laghetto giallo. Com’è possibile che un individuo riesca a comprendere il significato dell’enunciato in 1) che non ha mai sentito prima? Cosa vuol dire comprendere il significato di questo enunciato? Noi siamo in grado di comprendere il significato di un numero potenzialmente infinito di enunciati della nostra lingua poiché fondamentalmente in quanto individui siamo in grado di compiere due azioni che ci permettono di veicolare messaggi: - Imparare e memorizzare i significati delle parole. - Applicare le regole che permettono di combinarle. La prima azione è legata al’arbitrarietà: il rapporto tra segno e significato deve essere appreso, perché il lessico cambia da lingua a lingua e non esistono connessioni prevedibili tra espressioni linguistiche e significati denotati (infatti non esiste nessun indicatore nella parola “gatto” che ci aiuti ad associare questa parola proprio a quel determinato animale). La seconda azione invece, si ricollega proprio alla creatività. Il significato delle frasi è ottenuto infatti in maniera composizionale a partire dal significato delle singole espressioni componenti e delle regole in base a cui queste vengono combinate. Infatti a differenza di enunciati come 2) * Un sotto morde il gatto cane la sedia 3) # La sedia morde il gatto sotto un cane
  • 9. 8 che sono rispettivamente il primo non-grammaticale5 e il secondo portatore di una violazione semantica6 , a enunciati come quello espresso in 1), che rispetta le regole che caratterizzano la nostra lingua, è possibile attribuire un significato. La comprensione di un enunciato quindi non può basarsi su una preliminare esposizione in cui quello stesso enunciato è stato proferito e al successivo ricordo. 1.3 Il Principio Di Composizionalità Il significato di un’espressione linguistica, come abbiamo appena detto, implica quindi una serie di azioni. Riusciamo ad attribuire un significato alla frase espressa in 1) poiché attribuiamo un significato alle singole espressioni che la compongono: abbiamo cioè appreso il significato di un determinato numero di parole (che varia da individuo ad individuo) e una serie di regole per combinarle tra loro. Infatti : - Ieri = identifica un momento nel tempo. - Carlo = identifica un individuo specifico. - Abbaiava = esprime una particolare azione, fatta in un determinato momento del tempo. - Tranquillamente = esprime un modo di compiere un’azione. Relazionando tra loro questi significati, che nonostante tutto possono apparire strani posti assieme, arriviamo a comprendere la frase intera. In questo caso avremo identificato in un determinato istante di tempo nel passato, un individuo di nome Carlo che compiva l’azione di abbaiare, in modo tranquillo, in un determinato luogo: vicino ad un lago che era giallo. Non possiamo dire se la frase sia vera o meno, ma possiamo assumere che abbia un senso. Perché tale relazione possa funzionare dobbiamo credere che ogni singola parola porti un contributo semantico e combinandosi con le altre, e faccia arrivare in maniera “automatica” al significato complessivo. Ecco perché comprendiamo e produciamo frasi mai sentite prima. Questo meccanismo prende il nome di principio di 5 Una frase non-grammaticale è una frase che non rispetta la relazione formale che intercorre tra i segni posta dalla sintassi della lingua di appartenenza della frase. 6 Una frase che porta una violazione semantica è una frase che viola la relazione tra i segni linguistici e gli oggetti del mondo che sono da questi designati
  • 10. 9 composizionalità e venne espresso per primo da Gottlob Frege7 (1892). Prendiamo ad esempio la frase 4) Paolo bacia Maria sulla guancia. Il significato di tale enunciato è un insieme di condizioni di verità, ed è ottenuto a partire dal significato delle singole espressioni e dal modo in cui queste si relazionano. Infatti: - Paolo = denota un particolare individuo che è portatore di quel nome (come Maria). - Bacia = è un verbo transitivo, e in quanto tale denota l’insieme di coppie ordinate che stanno tra loro nella relazione indicata dal verbo. - Sulla = è un sintagma preposizionale che denota un insieme di “posizioni” . - Guancia = denota un nome comune. Sappiamo cioè che nella lingua italiana, secondo la sintassi, il verbo transitivo si combina prima con il suo complemento (in questo caso Maria), mentre la semantica ci ricorda quale regola di significato dobbiamo applicare quando combiniamo il verbo transitivo con il complemento. Le espressioni semplici corrispondono a un insieme di condizioni di applicazione, cioè a condizioni che un oggetto deve soddisfare perché una parola gli si possa applicare. Quindi comprendere il significato di un enunciato equivale a sapere quali situazioni rendono vero l’enunciato, non se un enunciato è di fatto vero o falso. Ciò vuol dire che comprendere il significato significa comprendere le sue condizioni di verità: bisogna essere in grado di discriminare quali situazioni lo rendono vero da quali lo rendono falso. Ma vediamo più nel dettaglio. 1.4 Il Significato Delle Parole Come sopra accennato il significato di un’espressione semplice corrisponde a un insieme di condizioni di applicazione, 7 Gottlob Frege (1848-1925) è stato un matematico, logico e filosofo tedesco. È considerato il padre del pensiero formale del Novecento. Egli considerava l'aritmetica, costituita da proposizioni analitiche, riducibile alla sola logica. Avrebbe dimostrato che i giudizi dell'aritmetica sono analitici, e pertanto dimostrabili in modo esclusivamente logico, cioè facendo ricorso soltanto alle regole del pensiero razionale. L’articolo di riferimento per gli studiosi del linguaggio è Über Sinn und Bedeutung ("Senso e significato") del 1892.
  • 11. 10 condizioni che devono essere soddisfatte affinché una parola gli si possa applicare. Perciò, la frase: 5) Il gatto dorme risulterà vera se e solo se è vero che il gatto dorme, cioè se si verificano le corrispondenti condizioni di verità. Si può quindi assumere che nomi propri denotino individui, mentre nomi comuni si riferiscano a insiemi di individui, e che una frase come 6) Barack Obama è presidente degli Stati Uniti oppure come 7) Valentino Rossi guida siano vere se e solo se l’individuo denotato dal nome proprio gode effettivamente della proprietà connessa al nome comune oppure al verbo. Nel nostro caso la 6) risulterà vera se e solo se Barack Obama sia effettivamente presidente degli Stati Uniti, mentre la frase in 7) è vera se e solo se è vero che Valentino Rossi guidi, nel momento in cui si sta parlando. Infatti : - Mammifero => { x : x è un mammifero} . Denota cioè l’insieme di individui che sono mammiferi (e include ad esempio l’uomo, i primati, i mammiferi marini ….). - Uomo => { x : x è un uomo}. Denota cioè l’insieme di tutti gli individui che sono uomini. Per Frege esistono solo due valori di verità il Vero e il Falso, rifacendosi alla pura logica Aristotelica. Lo scopo di Frege infatti, era quello di formalizzare linguaggi matematici: cercava cioè di formalizzare le verità aritmetiche e derivarle da assiomi logici, non mirava a sostituire il linguaggio naturale con uno più preciso e logico. Infatti egli non concepì in questi termini i nomi comuni. Per lui il significato di “uomo”, ad esempio, è un
  • 12. 11 concetto. Sostiene infatti che il significato di “uomo” sia “una funzione da individui a valori di verità”: cioè, data una serie di individui di cui posso voler parlare, sarà attribuito il significato di “uomo” quando risulta “vero” che quell’individuo soddisfa la funzione (cioè è un uomo), e sarà “falso” altrimenti. Si può poi però arrivare ad identificare come significato di “uomo” l’insieme di individui del dominio che la funzione-concetto abbia individuato come uomini. E proprio in quest’ottica comprendere un enunciato equivale a riconoscere quale situazione lo renderebbe vero e quale falso, non significa sapere se di fatto sia vero o falso. Seguendo quindi il suo obiettivo, per Frege era chiaro che i concetti dovessero avere confini precisi, cioè le funzioni dovevano essere totali. Infatti, affermava: “ A definition of a concept (of a possible predicate) must […] unambiguously determine, as regards any object, whether or not it falls under the concept […]. Thus there must not be any object as regards to which the definition leaves in doubt whether it falls under the concept […]. We may express this metaphorically as follows: the concept must have a sharp boundary.”8 cioè ogni concetto deve avere un confine ben definito. Parlando di un linguaggio matematico, se una definizione comprendesse ad esempio “Considerare un numero grande”, il significato di “Numero grande” sarebbe poco preciso, ci si chiederebbe “Grande quanto?” e questo per un linguaggio matematico sarebbe un problema. Il problema di espressioni che non hanno confini ben delimitati, si ripresenta anche nel linguaggio quotidiano ed è il prossimo problema che affronteremo. 8 Frege, G., Grundgesetze der Arithmetik, begriffsschriftlich abgeleitet, Band II, Jena, Pohle; traduzione inglese parziale in “Translation from the Philosophical Writings of Gottlob Frege”, ed. P.T Geach e M. Black, Oxford, Blackwell, 1952, pp. 21- 41, citato in Varzi, A., Vagueness, Logic, and Ontology, in “The Dialogue”, Yearbooks for Philosophical Hermeneutics, 1 (2001), pp 135-154.
  • 13. 12 1.5 I Casi Limite e Il Concetto Di Vaghezza Abbiamo detto che per comprendere un significato sarebbe opportuno attribuire un valore di verità all’oggetto preso in considerazione. Questo non risulta essere particolarmente problematico quando parliamo di Barack Obama, di un gatto o di tagliare con il coltello. Infatti con questi tre diversi esempi subito ci torna alla mente ciò di cui stiamo parlando: nel primo caso faremo riferimento alla figura concreta del presidente americano, nel secondo del tipico gatto che magari gioca con una pallina e nel terzo caso ci immaginiamo l’azione ad esempio del tagliare la carne o il pane. Queste rappresentazioni non sono sempre ovvie e facili. Consideriamo ad esempio due personaggi noti come Gerry Scotti e il presidente della repubblica Giorgio Napolitano. Possiamo dire che questi due personaggi siano “calvi”? O ancora, consideriamo Dumbo, il noto elefantino della Disney: possiamo affermare che sia “grosso”? Diversamente consideriamo un uomo con due teste: tagliandone una possiamo dire di averlo decapitato? Perché ci viene difficile rispondere a queste semplici domande? Nei termini di Frege parole come “calvo” e “grosso” sono un problema, perché non si riesce ad assegnare con sicurezza un valore di verità univoco (“Vero” o “Falso”) agli individui presi in considerazione. Non c’è modo di denotarli in modo univoco. In termini “insiemistici”, analogamente, il concetto di “calvo” non ha confini netti, cioè possiamo dire che non appartiene ad un insieme unico (o in altre parole non sapremmo in che insieme farlo rientrare – in quello dei “calvi” o in quello dei “non calvi”?). Allo stesso modo non sempre è facile dire se una persona sia “giovane”, “puntuale” o “ricca” ad esempio. Si tratta di concetti che non hanno limiti ben precisi, sono flessibili ed applicabili a oggetti simili che possono però essere totalmente estranei uno all’altro. Questi concetti per i quali appunto non esiste un insieme di appartenenza univoco esibiscono i cosiddetti “casi limite” (borderline case) ossia, esistono degli individui per i quali non si è sicuri se il concetto si applica o meno e ai quali, quindi, non si sa se la funzione-concetto avrà come output il valore vero o falso. La vaghezza si fonda sui “casi limite”. Come siamo in grado di comprendere ciò che diciamo, di comunicare, se esistono termini vaghi ai quali non possiamo attribuire un significato univoco? Non dovremmo essere immersi nella più totale confusione quando ci si presentano
  • 14. 13 termini di questo tipo in un dialogo o in una comunicazione scritta? Il problema di questi casi si presenta in tutte le diverse categorie grammaticali di uso quotidiano. Infatti se analizziamo i nomi comuni, come “tazza” o “bicchiere”, ritroviamo il nostro problema. Se noi pensiamo a questi due oggetti ci si figurerà nella nostra mente un immagine prototipica di questi oggetti. Per cui oggetti somiglianti a questo 1) saranno fatti rientrare nella categoria (o insieme) “tazza”, mentre oggetti che hanno le stesse caratteristiche della figura 2) 2) rientreranno nell’insieme “bicchiere”. Esistono però “tazze” (o “bicchieri) che non rientrano in nessuno dei due insieme come le seguenti immagini Quindi se noi ci immaginiamo un continuum che va da “tazza” a “bicchiere”, questi oggetti saranno posti a metà o più vicini all’uno o all’altro estremo.
  • 15. 14 Questo fenomeno si presenta anche con i nomi propri. Infatti uno studioso in particolare, Achille Varzi9 , si concentra su quei nomi e descrizioni definite di cui ci serviamo per riferirci a oggetti anziché a concetti, classi o relazioni. Nomi o descrizioni come “Everest” o “Cervino” non hanno referenti così determinati come si pensa. Se noi considerassimo ad esempio il Cervino, sappiamo che certe zolle di terra fanno parte della montagna, ed altre non fanno parte di essa. Ma che dire di tutte le zolle di terra intermedie, il cui rapporto col Cervino è indeterminato? Sotto la prospettiva dei verbi e degli avverbi il problema è analogo. Se noi consideriamo l’azione di “camminare” e quella del “correre”, dove si pone il confine tra una e l’altra? Esiste una velocità espressa in Km/H che determina il passaggio specifico dal “camminare” al “correre”? La maggior parte della questione problematica però, è rappresentata dagli aggettivi. Riconsideriamo quanto detto in precedenza. Il punto problematico, e sottolineato da Frege, è che per molti aggettivi non si può attribuire una “funzione-concetto” univoca all’oggetto considerato, non esiste quindi un unico insieme di riferimento. Gli aggettivi possiamo raggrupparli in due grandi gruppi: quelli che si comportano come “alto” o “grosso”, e quelli che si comportano come “calvo”. La vaghezza degli aggettivi del primo tipo si differenzia in due punti. Se noi affermiamo 8) Marco è alto posta ad esempio l’altezza di Marco a 1,84 m, abbiamo due possibili interpretazioni: i) Marco può essere alto rispetto ad uno standard x. ii) Marco può essere alto rispetto ad un contesto a cui mi sto riferendo. Nel primo caso, se consideriamo come standard x quello della media italiana di altezza posta ad esempio a 1,78 m e considerata la reale altezza di Marco, possiamo affermare che Marco sia alto. Ma se, come nel secondo caso, mi sto riferendo alla nazionale italiana di basket, Marco nonostante la sua altezza 9 Achille Varzi (1958) è un filosofo italiano, Esponente della filosofia analitica, in Italia è noto principalmente per le sue ricerche di logica. Varzi, A., I confini del Cervino, in V. Fano, G. Tarozzi, and M. Stanzione (eds.), “Prospettive della logica e della filosofia della scienza”, Cosenza, Rubbettino, pp. 431-445, 2001.
  • 16. 15 rispetto alla media, è basso per far parte di una squadra di basket. Lo stesso vale per aggettivi come “grande”: infatti tornando all’esempio citato prima, Dumbo è “grande” rispetto agli altri elefanti o rispetto agli altri animali? Il problema che si affronta con gli aggettivi del secondo tipo, come “calvo”, è diverso. Questi aggettivi non vanno rapportati a standard o a contesti percettivi, questi aggettivi non dovrebbero essere modificabili da avverbi: una cosa è in un modo o non lo è, una persona è “calva” o non lo è, non dovrebbero esistere casi intermedi. Ma non è cosi. Dov’è posto il confine tra Gerry Scotti, Giorgio Napolitano e l’arbitro Collina? In che insieme vanno fatti rientrare? Si può parlare di vaghezza ogni volta che un concetto o un’espressione linguistica ammette “casi limite” di applicazione: cioè concetti per cui non sappiamo se applicare o no la regola. 1.6 La Vaghezza In Rapporto Con Ambiguità, Deissi e Frasi Generiche Come accennato sopra la vaghezza dipende in gran parte dai casi limite e non ha una definizione univoca. Possiamo però sostenere che parlare in modo vago significhi parlare in modo poco preciso: infatti la vaghezza è generalmente contrapposta alla precisione ed esprime quella proprietà appartenente ai concetti di non essere definiti in modo chiaro e netto. Quindi se un termine, o un concetto, è vago di per sé, posto in una frase, o in un periodo più complesso, renderà anche tale espressione vaga, se appunto applichiamo il principio di composizionalità per giungere al significato dell’enunciato complesso. Proprio perché non siamo in grado di applicare sempre questa definizione, il concetto di vaghezza può essere confuso con quello di ambiguità. Ambiguità e vaghezza in realtà indicano due cose diverse, anche se sono molto simili. Prendiamo ad esempio la frase:
  • 17. 16 8) Bea ha una vecchia credenza. La parola “credenza” può essere interpretata in due modi diversi: può voler indicare un’opinione, una convinzione, che Bea ha da tempo, ma può voler anche indicare un vecchio armadio per sala da pranzo dove Bea ripone le stoviglie. Questa interpretazione è legata all’ambiguità. Infatti, se considerassimo il fatto che il patrimonio linguistico di ciascun parlante, sia diverso da individuo a individuo, ogni testo, messaggio o informazione, potrebbe potenzialmente essere fonte di ambiguità, cioè il significato che dà il mittente, o la sorgente del messaggio, potrebbe essere diverso da quello interpretato dal destinatario. Quando leggiamo una frase ambigua facciamo molto fatica a capire quale significato attribuire all’espressione all’istante: noi leggiamo la frase in base a una certa interpretazione poi, se avvisati, cerchiamo la seconda o la terza interpretazione, e solo alla fine sceglieremo tra le interpretazioni date quella più appropriata. Se tutto ciò che basterebbe per la determinazione del significato di un enunciato fosse la composizione dei singoli significati che noi attribuiamo alle parole, tutte le volte che ascolteremmo un enunciato ambiguo, dovremmo comprendere tutti i suoi possibili significati. Ma questo non avviene. L’ambiguità quindi deve essere il parlante a risolverla, cioè a riferire il termine ambiguo a uno specifico significato. Ambiguità e vaghezza per ciò si differenziano rispetto alla discrezione del parlante: se una parola è ambigua, il parlante può risolvere l’ambiguità specificando il significato. Ma se una parola è vaga, il parlante non può risolvere il problema: i “casi limite” non sono risolvibili con la specificazione letterale del termine. Quando si cerca di attribuire un significato ad un temine vago, ci rendiamo conto che i nostri mezzi non bastano, perché ci accorgiamo che il risultato resiste comunque ai nostri tentativi di attribuire un valore di verità alla frase. Inoltre questo contrasto tra ambiguità e vaghezza è oscurato dal fatto che molte parole possono essere allo stesso tempo sia vaghe che ambigue. Però non esistono solo queste due “categorie” di frasi: esistono anche frasi “generiche” (o “generali”). Un termine matematico come “angolo retto” offre un esempio di come un termine può essere “generico” senza essere vago, perché è riferito a uno specifico significato conosciuto da tutti,
  • 18. 17 senza possibilità di confonderlo con un altro. Infatti se si considera la frase 9) Paolo non è uno scapolo. è una frase “generica”10 : può essere anch’essa accostata alla vaghezza, ma ha un significato ancora diverso, sia dall’ambiguità che dalla vaghezza stessa. Considerando che essere un “scapolo” significa avere delle caratteristiche come essere un umano, un uomo, adulto e non sposato… la nostra frase può essere vera, per quattro diverse ragioni appunto, e potrebbe per ciò essere interpretata in quattro modi diversi, ma non viene specificata cioè la ragione per cui Paolo non è uno scapolo. Perciò in contrasto con le frasi vaghe, le frasi “generiche” hanno determinate condizioni di verità, non pongono una minaccia alle condizioni semantiche di verità e possono essere anch’esse risolte dal parlante specificando appunto ciò di cui si sta parlando. Un altro fenomeno che si può accostare alla vaghezza è la deissi, cioè una funzione linguistica che serve a collocare un enunciato in una situazione nello spazio e nel tempo. La deissi fa riferimento a espressioni linguistiche la cui interpretazione è legata al contesto in cui vengono profferite. Infatti espressioni come 10) Gira a destra! 11) Vieni qua! assumono un significato diverso da situazione a situazione, e se sentite così, senza tenere in considerazione chi parla e a chi è rivolta, possono non avere senso. Perciò bisogna essere a conoscenza di informazioni sullo spazio di riferimento del parlante. O in altre parole possono essere risolte con gesti del parlante, che specifica, anche in questo caso, a cosa si sta riferendo. Riassumendo quindi, abbiamo visto che questi altri problemi linguistici sono risolvibili grazie al contributo del contesto e del parlante. La vaghezza differentemente è irrisolvibile, perché 10 In Rooji, R. van, Vagueness and Linguistics, in Giuseppina Ronzitti (ed.) “Vagueness: a guide.”, Heidelberg: Springer, pp. 3-6; Sorensen, R., Vagueness, in ”Standford Enciclopedia of Philosophy”, pp. 2-6, 2006.
  • 19. 18 anche tentando di risolverla i termini che la generano restano comunque vaghi. Non c’è modo di specificare in che modo una persona sia “calva”: lo è o non lo è. Dipende appunto dal significato che un individuo possiede di quel termine e se applicare o meno la regola per cui un individuo ha o meno quella determinata caratteristica individuata dall’aggettivo (come “essere calvo”). Infatti anche cercando di eliminare la vaghezza imponendo confini ben precisi alle espressioni del linguaggio umano, quindi cercando di dare dei confini alle espressioni che non ne hanno, i nostri nuovi confini posti, sarebbero soggetti anch’essi a una certa vaghezza nella riformulazione. Il risultato di una eventuale specificazione di un termine vago resiste ai nostri tentativi di attribuire un valore di verità alla frase.
  • 20. 19 Capitolo 2 2.1 Un’Analisi Della Vaghezza Come abbiamo visto nel capitolo precedente la vaghezza è un fenomeno altamente pervasivo: si presenta in ogni ambito del nostro linguaggio e non è propriamente risolvibile. Come siamo in grado allora di comprendere i significati, nonostante questo problema? Se considerassimo la comunicazione come un processo di attribuzione di intenzioni, se non riuscissimo ad attribuire un’intenzione, poiché non sappiamo attribuire un significato ad un’espressione, come può la comunicazione avvenire? Ma è davvero un problema quello della vaghezza o ci aiuta nel nostro linguaggio quotidiano? Consideriamo la frase 12) Maria è arrivata alle 3 Immaginiamoci che Maria sia arrivata alle 3:02. In quali condizioni la considereremo vera ? Se e solo se Maria sia arrivata effettivamente alle 3 in punto, o accetteremo anche un suo eventuale ritardo (o anticipo) ? In condizioni particolari l’esatta ora del suo arrivo potrebbe essere importante, ma la maggior parte delle volte questo livello di precisione non è richiesto. Infatti sarebbe strano considerare che ad esempio Maria venisse accusata di ritardo per essere arrivata solo 15 secondi, o due minuti, dopo le 3. Se prestassimo attenzione al modo in cui gli individui parlano ci accorgeremmo che lo fanno molto liberamente, dicono cioè cose che è riconosciuto essere false, ma sono abbastanza vicine alla verità da essere accettate. Per capire come interpretare enunciati come quello in 12) sono state proposte due famiglie di teorie. La prima prevede che fasi come quella in 12) siano letteralmente false in una situazione in cui Maria sia arrivata di fatto alle 3:02, perché “alle 3” individua un particolare istante di tempo. Una frase come quella in 12) verrebbe però considerata pragmaticamente accettabile, interpretata cioè come “le 3 in punto”. Il secondo approccio, diversamente, considera frasi come quella in 12) vere o false in relazione alla situazione in cui è proferita. Ma vediamoli più nel dettaglio.
  • 21. 20 2.2 L’Approccio di Lasersohn La prima posizione che prendiamo in considerazione è quella sostenuta da Peter Lasersohn11 . Come accennato sopra prendiamo in considerazione la frase 12) Maria è arrivata alle 3 e il fatto che Maria sia arrivata alle 3:02. Nel linguaggio quotidiano non diremo che Maria sia arrivata in ritardo, ma la accetteremo, anche se di fatto Maria è arrivata alle 3:02. Quando parliamo diciamo cose che non sono sempre letteralmente vere, ma sono abbastanza vicine alla verità da essere considerate tali. Perciò per Lasersohn questa frase è letteralmente falsa, perché “alle 3” indica un preciso istante di tempo (significa “alle 3 in punto”). Infatti secondo Lasersohn non esistono vie di mezzo in senso letterale: quello che è detto non corrisponde a quello che realmente è accaduto e quindi la frase risulta letteralmente falsa. Ma viene ritenuta pragmaticamente accettabile, perché abbastanza vicina alla verità da essere considerata vera. Il senso di vicinanza alla verità non è facile da definire perché una frase può “deviare” dalla verità in una miriade di modi, e alcuni non misurabili. Siccome non esiste un metodo generale per valutare quanto abbastanza vicino alla verità sia, possiamo solo verificare l’ora dell’effettivo arrivo di Maria per stabilire se la frase sia vera o meno. Quindi non possiamo dare una definizione della verità della frase, ma possiamo valutare la “precisione” valutandone, appunto, l’accuratezza. Esiste perciò, secondo Lasersohn, un “alone pragmatico” nel nostro linguaggio che permette di comprenderci parlando liberamente. Possono esserci, diverse strategie per regolare l’alone e la distanza dalla verità. Ad esempio, ci si può accordare implicitamente sul fatto che la deviazione dalla verità sia autorizzata perché nel discorso i partecipanti trovano conveniente ignorare irrilevanti distinzioni e dettagli. Infatti parlare in un modo iper-preciso non porterebbe vantaggi all’atto comunicativo, anzi creerebbe un carico cognitivo che l’individuo non riuscirebbe a sopportare. Non sarebbe ammissibile parlare e accettare frasi “iper-precise” come 13) Paolo ha 1.567.876.332 capelli in testa. 11 Peter Lasersohn è professore di linguistica all’“University of Illinois”. Troviamo i riferimenti in Lasersohn, P., Pragmatic Halos, in “Language”, Vol. 75, No. 3. (Sep., 1999), pp. 522 -551.
  • 22. 21 14) Maria è arrivata alle 3, 02 minuti, e 3 secondi, 2 decimi... poiché apparirebbero strane e rimarremmo perplessi di fronte ad una persona che ci parla in questo modo. “L’alone pragmatico” quindi permette di considerare veri enunciati come quello in 12) quando in realtà sono letteralmente falsi, per ragioni che possono diverse. Possiamo raffigurarci l’alone pragmatico in questo modo: cioè considerando un’espressione data z che denota un oggetto x (posta al centro), si può definire alone l’insieme dei contesti associati ad x, posti attorno ad x come un grappolo o in modo circolare, con la sua relazione di ordine, chiamandolo alone pragmatico di x e più in generale, alone pragmatico di z. Si può dire che l’alone sia un fenomeno cumulativo: se un’espressione complessa è costituita da più concetti, da più elementi, ognuno col suo alone pragmatico, saranno tutti addizionati per formare un alone più grande, cioè l’alone dell’espressione complessa. Al centro abbiamo quindi il momento preciso in cui accade l’evento, attorno cerchi che formano appunto un “alone” che include il momento preciso, rendendoli veri fino a una determinata ampiezza. Infatti se Maria fosse arrivata alle 3:15, la frase in 12) sarebbe stata falsa sotto ogni punto di vista. Possiamo dire che “l’alone pragmatico” permette di comprenderci parlando liberamente. Per Lasersohn perciò frasi di questo tipo sono sempre letteralmente false, ma vengono accettate per una questione di praticità. In aggiunta egli sostiene
  • 23. 22 che esistano delle parole in grado di modificare questo “alone”. Prendiamo ad esempio la frase 15) Maria è arrivata esattamente alle 3 non significa la stessa cosa della frase espressa in 12). La frase in 15) non permette di parlare così liberamente come la frase in 12). In maniera diversa, la frase enunciata in 12) porta un maggiore “allentamento” della frase rispetto a quella in 15) nel determinare quanto è abbastanza vicino alla verità. Si può quindi sostenere che parole come “esattamente” aiutino a regolare l’alone: ci aiutano cioè a determinare quanto sia abbastanza “abbastanza vicino alla verità”. I regolatori dell’alone informano su quanti dettagli possono essere ignorati e determinano l’ampiezza dell’alone stesso: un’espressione avrà un alone più ampio o più ristretto a seconda del regolatore usato. I regolatori sono appunto parole che si comportano come “esattamente” e sono parole che limitano la libertà delle espressioni. Analizziamo alcuni casi in particolare. Esattamente e tutti Un esempio citato poco fa è quello di “esattamente”. Con la parola “esattamente”, considerando la frase in 15) in rapporto alla frase in 12) ci viene più difficile accettare il ritardo di Maria, o un eventuale anticipo. A paragone “esattamente alle 3” non ha la stessa denotazione di “alle 3”. Il reale effetto di “esattamente” sull’alone pragmatico è che restringe l’alone attorno “alle 3”, eliminando l’insieme di quelle eventualità che si pongono al di fuori della delimitazione. Se pensiamo all’immagine, il centro rimane lo stesso, mentre i cerchi attorno si restringono. In modo analogo ad “esattamente”, anche “tutti” restringe l’alone pragmatico. Consideriamo la differenza tra le frasi 16) I bambini costruirono una zattera 17) Tutti i bambini costruirono una zattera Frasi come queste, che contengono nomi plurali collegati con “i” o “tutti i” sono di solito ambigue e possono essere interpretate collettivamente o distributivamente. Su una lettura collettiva le frasi in 16) e in 17) attribuiscono l’azione di “costruire” ai “bambini” come gruppo. Ma è diverso da frasi come
  • 24. 23 18) Ogni bambino dorme 19) Ognuno dei bambini dorme che attribuisce l’azione di “dormire” ad ogni individuo, come individualità in rapporto al gruppo totale appunto. Quest’effetto non è dovuto all’ambiguità nel nome, ma alla semantica del predicato coinvolto. Se si considera “bambini” come blocco, come gruppo unico, non come insieme di individui, non si arriva a pensare che possono essercene alcuni che non hanno contribuito alla costruzione della zattera, perché si considera appunto implicitamente che tutti abbiano contribuito. Con l’aggiunta di “tutti”, la possibilità che ce ne sia qualcuno che non abbia contribuito, viene esplicitamente esclusa. Liberamente e approssimativamente parlando Diversamente dai regolatori appena citati, espressioni come “Liberamente parlando” e “approssimativamente parlando”, o “circa”, cambiano l’alone in modo diverso. Queste espressioni hanno un chiaro effetto sul valore di verità dell’espressione con cui si combinano. Infatti, una frase come 20) Liberamente parlando, Gianni è un Re! indica che la persona di “Gianni” ha le capacità di comando tipiche di un re, non avendo tecnicamente il titolo di re. Il fatto che Gianni non sia un re non rende la frase in 20) falsa. Al contrario, non si sa nemmeno se può essere vero che Gianni sia un re. Quindi “liberamente parlando” è un segnale che ci avvisa della necessità di un “range” più ampio per il nostro alone. In realtà queste espressioni non espandono l’alone dell’espressione modificandolo, ma espandono l’insieme degli oggetti dentro l’alone. Pensando all’immagine ancora una volta, è come se il centro si allargasse verso l’alone. Anch’essi forzano la denotazione e l’alone a coincidere più strettamente. “Esattamente” e simili, lo fanno stringendo l’alone più vicino alla denotazione, “Liberamente” espande la denotazione per allargarla all’ampiezza dell’alone. 2.3 L’approccio Supervalutazionale In anni recenti è stato proposto il secondo approccio che prendiamo in considerazione: il metodo supervalutazionale. Secondo questo approccio ogni enunciato viene valutato in una
  • 25. 24 situazione. Al variare della situazione, può variare il significato (inteso come valore di verità): una stessa frase può essere “vera” o “falsa” a seconda della situazione. Questa prospettiva è totalmente diversa dalla precedente: per Lasersohn infatti una frase non ha la possibilità di assumere un valore di verità in relazione alla situazione, è letteralmente vera o letteralmente falsa a prescindere. Questo metodo non è una posizione nuova e tenta di risolvere il problema portato dalla vaghezza basandosi su una concezione semantica della vaghezza: è indeterminato se o meno un oggetto cade dentro i confini dell’estensione del termine vago, cioè pone la vaghezza nel sistema di rappresentazione. In questa prospettiva, il valore di verità di un enunciato che contiene espressioni vaghe è determinato dai valori di verità che esso può ricevere a seconda di come si consideri precisare il significato di quelle espressioni. In altre parole un enunciato è composto da diverse espressioni, ognuna delle quale tenta di precisare il significato dell’enunciato stesso. In un certo senso, in quest’ottica, ci rifacciamo al principio di composizionalità proposto da Frege e quindi, il valore di verità di un’affermazione vaga sarà una funzione del valore di verità delle sue “precisificazioni”: presuppone che l’insieme di queste precisificazioni sia esso stesso preciso. Se ogni “precisificazione” determina il valore “vero”, allora diremo che l’enunciato stesso è vero: i diversi significati che potremmo attribuire a quelle espressioni non fanno alcuna differenza e l’enunciato sarebbe vero in ogni caso (o super-vero). Analogamente, se l’enunciato risulta falso in ogni “precisificazione” allora diremo che è falso (o super-falso), nonostante la presenza di espressioni vaghe. La vera questione problematica, anche in questa visione, si pone con i “casi limite”: infatti quando l’enunciato risulta vero in alcune “precisificazioni” e false in altre, c’è un problema. In questi casi la vaghezza fa sentire il suo peso e il valore complessivo dell’enunciato risulta indeterminato. Possiamo dire che i “casi limite” non hanno un valore di verità, per questo ci è difficile dire se un enunciato di questo tipo sia vero o falso. Ad esempio se riconsideriamo la frase in 12) e un contesto in cui Maria deve prendere il treno alle 3:00, asseriremo che Maria è arrivata di fatto in ritardo arrivando alle 3:02 e perdendo il treno. Quindi è falso sostenere che Maria sia arrivata alle 3:00. Differentemente se, considerando sempre la frase in 12), Maria fosse arrivata alle 3:02 ma per un appuntamento con una sua
  • 26. 25 amica alle 3:02 il ritardo non viene preso in considerazione, e quindi si può affermare che Maria sia arrivata alle 3:00. Quindi una stessa frase , come quella in 12) ad esempio, può assumere significati diversi a seconda della situazione e quindi un valore di verità diverso.
  • 27. 26 Capitolo 3 3.1 Introduzione al capitolo Come abbiamo visto fino ad ora la vaghezza è un fenomeno che comprende ogni ambito del nostro linguaggio dai verbi agli aggettivi, dai nomi comuni ai nomi propri: non esiste categoria linguistica che non sia toccata da questo fenomeno. Inoltre, va ricordato che questo fenomeno si riscontra anche in altre lingue: non è una prerogativa unica dell’italiano. In queste pagine, abbiamo anche mostrato che la vaghezza dipende in gran parte dai “casi limite” ed esistono parole che generano un “alone” che permette di accettare la poca precisione degli individui nei loro atti comunicativi. Gli autori però, si sono concentrati maggiormente sul dominio degli aggettivi. Perciò, in questo capitolo, faremo una breve rassegna sugli aggettivi ed affronteremo un caso sperimentale volto ad indagare l’interpretazione dei vari tipi di aggettivi. Infine discuteremo i risultati ottenuti. 3.2 Gli Aggettivi L'aggettivo è una parte del discorso che ne modifica semanticamente un'altra, che può essere ad esempio un sostantivo, con cui si rapporta sintatticamente e con cui ha una concordanza grammaticale. Gli aggettivi non son tutti uguali tra loro, ed oltre alla distinzione più generale tra aggettivi qualificativi ed indicativi12 , possono essere distinti in due grandi classi: gli aggettivi scalari e gli aggettivi non-scalari. Gli aggettivi scalari sono quegli aggettivi che possono entrare in costruzioni comparative e che possono essere modificati da espressioni che indicano “gradi” diversi: individuano un livello in cui un individuo possiede la proprietà posta dall’aggettivo13 . 12 In italiano gli aggettivi vengono tradizionalmente divisi in due classi: la prima è quella degli aggettivi qualificativi che specificano la qualità di un nome, pronome o un intero sintagma, e sono aggettivi come forte, giovane, bello, rettangolare, blu (…). La seconda classe è quella degli indicativi che specificano il nome su piani diversi da quello qualitativo e sono divisibili a loro volta in diverse classi: possono essere possessivi, numerali, dimostrativi o indefiniti. (da http://www.treccani.it/enciclopedia/aggettivo/) 13 Bartsch & Vennemann (1973); Seuren (1973); Cresswell (1977); Von Stechow (1984); Heim (1985, 2000); Kennedy (1999); Kennedy & McNally (2005), citati in Panzeri, F., Foppolo, F., “Straight Bananas. Shifting standards for absolute gradable adjectives” presso Università degli studi Milano-Bicocca, discussione presentata a Psycholinguistics across the borders, Rovereto 24-25/06/2010.
  • 28. 27 Si può dire che gli aggettivi evochino una “scala” che va da un minore ad un maggiore grado in cui l’individuo possiede la caratteristica denotata dall’aggettivo. Al contrario, gli aggettivi non-scalari sono quelli che non possiedono queste caratteristiche: non possono cioè essere ordinati su una “scala” e non è possibile effettuare costruzioni comparative. Aggettivi quindi come “incinta”, “morto” o “disoccupato” sono aggettivi non-scalari. Infatti frasi come: a. Simona è abbastanza incinta b. Napoleone è estremamente morto c. Leonardo è più disoccupato di Stefania sono anomale, perché non ha senso considerarli in rapporto a qualcos’altro, o porli in un ordine: una persona non può essere abbastanza morta, abbastanza incinta o abbastanza disoccupato. Sono proprietà che gli individui hanno o non hanno. Non esistono casi intermedi. Diversamente è possibile costruire frasi semanticamente corrette come: a. Luca è più intelligente di Riccardo b. Simone è estremamente grasso c. Paolo è più alto di Maria perché appunto aggettivi come “intelligente”, “grasso” o “alto” sono aggettivi scalari, ed ha quindi senso porli in costruzioni comparative. Va sottolineato che non sempre, tutti gli aggettivi scalari sono interpretati allo stesso modo. Esistono infatti due classi di aggettivi scalari: gli aggettivi scalari relativi e gli aggettivi scalari assoluti. La prima classe comprende aggettivi per i quali lo standard di riferimento varia a seconda del contesto, perciò non è possibile interpretare un aggettivo scalare relativo senza conoscere quale sia lo standard inteso. Quindi come accennato prima con frasi come 23) Dumbo è grande possiamo avere due possibili interpretazioni:
  • 29. 28 i) Dumbo può essere grande rispetto ad uno standard (se prendo ad esempio in considerazione la grandezza media degli elefanti). ii) Dumbo può essere grande rispetto ad un contesto a cui mi sto riferendo (se ad esempio mi riferisco all’insieme composto dagli animali domestici). Nel primo caso, considerando queste due interpretazioni la frase risulterà falsa, mentre nel secondo vera. Per questi aggettivi (come “grande/piccolo”, “alto/basso”, “veloce/lento”) vanno sempre considerate le considerazioni contestuali, per poter attribuire un valore di verità alla frase. La seconda classe di aggettivi scalari comprende aggettivi che si comportano diversamente, cioè che non ricercano lo standard di riferimento nel contesto, ma sembra che siano indipendenti da considerazioni percettive o da classi di comparazione: sono cioè indipendenti dal contesto, e lo standard sembra essere una caratteristica “intrinseca” agli aggettivi stessi ed indica un grado massimo o minimo. Aggettivi che si comportano in questo modo sono aggettivi come “aperto/chiuso”, “pieno/vuoto” o “liscio/ruvido”, e sono chiamati aggettivi scalari assoluti. Sono sempre aggettivi scalari, ma la loro interpretazione non varia a seconda del contesto. Se noi consideriamo la frase 24) La strada che porta a casa di Laura è dritta sappiamo che “dritta” ha un significato che “ha in sé” un massimo grado di “drittezza” e un minimo grado di “stortezza” (così come “storto” ha almeno un minimo grado di “stortezza”): una “strada dritta”, non avrà alcun elemento che rimanda al concetto di storto, perché se una cosa è dritta non può essere, in linea teorica, storta. In base a queste differenze, gli aggettivi dovrebbero appartenere ad una o all’altra categoria e quindi essere non-scalari, scalari relativi o scalari assoluti. Questa demarcazione non viene però rispettata in modo netto, e abbiamo così aggettivi che si comportano in modo diverso, semplicemente in base al contesto. 3.3 Aggettivi e Vaghezza Come abbiamo appena visto, gli aggettivi scalari relativi sono quelli che portano i maggiori problemi: hanno variabilità
  • 30. 29 contestuale, ed è quindi necessario specificare i referenti contestuali quando entrano in gioco. Questi aggettivi però, esibiscono anche i cosiddetti “casi limite” (“borderline cases”). Infatti se consideriamo l’altezza media italiana posta a 1,78 m e il fatto che un individuo come Luca sia alto 1,79 m, una frase come 25) Luca è alto non risulta essere nè vera nè falsa, perché è difficile attribuire un valore di verità alla frase. Perciò, in linea teorica, solo gli aggettivi scalari relativi dovrebbero essere soggetti al tipo di vaghezza connesso con l’esistenza dei “casi limite”, mentre gli aggettivi non scalari e gli aggettivi scalari assoluti dovrebbero invece essere in grado di dividere il dominio degli individui in due insiemi distinti: quello degli individui che posseggono la proprietà in questione (ad esempio gli individui che sono italiani), e quelli che non la posseggono. Infatti se “dritto” vuol dire “completamente dritto” una cosa che ha anche un solo minimo grado di “stortezza” non è “dritta”. Ma è davvero così netta questa demarcazione? Aggettivi come “incinta” e “disoccupato” non dovrebbero esibire questo tipo di vaghezza né di dipendenza contestuale, e non dovrebbero dar luogo ai cosiddetti “casi limite”. Aggettivi di questo tipo hanno significati ben precisi e non è quindi pensabile che assumano un significato diverso in base al contesto. Un aggettivo quindi come “incinta” si comporta come i nomi comuni e dovrebbe denotare l’insieme di individui che sono “incinta”. Ma è davvero così?
  • 31. 30 3.4 Un’Analisi Sperimentale Per rispondere alla domanda posta alla fine del paragrafo precedente e capire “di che cosa” sia responsabile la vaghezza, è stato condotto uno studio14 . Lo scopo è quello di verificare se, in particolare, l’aggiunta di fattori contestuali può “modulare” l’interpretazione di questi aggettivi. Lo studio è stato effettuato su più di 130 soggetti, a cui veniva sottoposta una presentazione su formato power point di 177 items in totale. Per ognuna delle diapositive, contenente un item (un’immagine), veniva posta l’affermazione : “Quest’ [oggetto raffigurato] è [aggettivo]” ai partecipanti veniva poi chiesto di giudicare se l’affermazione potesse essere applicata all’immagine rappresentata o meno, usando una delle tre opzioni: “Sì”, “No” o “Non posso dirlo/Dipende”. Tale studio è stato condotto per scopi diversi, ma all’interno degli item sperimentali c’erano 4 aggettivi che si riferiscono alla forma di oggetti (rotondo, triangolare, esagonale e rettangolare), che rientrano nella classe degli aggettivi non scalari. Le domande poste ai soggetti venivano mostrate su forme e oggetti che differivano per essere forme geometriche astratte e forme riferite ad oggetti reali. In entrambi i casi l’oggetto però, testato non possedeva “appieno” le caratteristiche richieste, ad esempio né la forma geometrica astratta, né l’oggetto reale, erano cioè perfettamente triangolari, rotondi, quadrati o esagonali. È quindi possibile sostenere che il contesto influenzi l’interpretazione di aggettivi non-scalari, come quelli delle forme, allentando quei criteri precisi per determinare se una figura possiede o meno le caratteristiche denotate dagli aggettivi stessi? Esiste una differenza nel valutare una determinata figura astratta (che può essere disegnata, e quindi alla quale si applicano precise proprietà formali) ad esempio triangolare, da una realmente esistente che si avvicini alla definizione di triangolare (visto che è noto che in natura non esistono oggetti che soddisfano appieno i criteri richiesti dalle proprietà formali)? Il contesto può modulare l’ampiezza dell’alone pragmatico di aggettivi non-scalari come quelli di forma? 14 Panzeri, F., Foppolo, F., “Straight Bananas. Shifting standards for absolute gradable adjectives” presso Università degli studi Milano-Bicocca, discussione presentata a Psycholinguistics across the borders, Rovereto 24-25/06/2010.
  • 32. 31 La previsione, basata su quanto prevedessero le teorie formali, era quella di trovare risultati che mostrassero che un aggettivo non-scalare non fosse “modificabile”, e che quindi indicasse una caratteristica precisa di un oggetto: un oggetto o è triangolare o non lo è, non esistono vie di mezzo. Non esiste una “scala della triangolarità” dove ordinare gli oggetti in base alla loro “vicinanza al concetto di triangolarità”. “Essere rotondo (quadrato, triangolare o esagonale)” ha delle caratteristiche ben precise, definite da regole geometriche, che si dovrebbero applicare a tutti gli oggetti sia reali che astratti. Quindi alla visione di queste immagini ai soggetti veniva detto: A. Questa/o Forma/Buco è rotonda/o e dovevano esprimere appunto il loro giudizio, barrando la casella con “Sì”, “No” o “Boh”. Quello che ci si aspettava era che in entrambe le immagini la maggior parte delle risposte fosse “no”. In realtà la distribuzione delle risposte ottenute dai soggetti per questi item, come mostra la tabella seguente, sono state sorprendenti, poiché se nei confronti della prima immagine è stata confermata l’ipotesi sperimentale, con la seconda no. Infatti con un analisi statistica più approfondita mostra: Boh No Si Forma astratta 8 166 94 Oggetto concreto 6 10 252 0% 10% 20% 30% 40% 50% 60% 70% 80% 90% 100% rot ondo rot ondo f orma buco 36 100 yes no boh
  • 33. 32 Pearson's Chi-squared test X-squared = 210.7087, df = 2, p-value < 2.2e-16  test del chi-quadrato di Pearson: confronto significativo: 2 (2)=210.71, p<.0001 Analogamente per le altre figure: B. Questa Forma/Isola è triangolare Le relative risposte sono state: Boh No Si Forma astratta 8 166 94 Oggetto concreto 6 10 252 Pearson's Chi-squared test X-squared = 210.7087, df = 2, p-value < 2.2e-16  test del chi-quadrato di Pearson: confronto significativo: 2 (2)=210.71, p<.0001 C. Questa/o Forma/Piatto è quadrata/o Le relative risposte sono state: 0% 10% 20% 30% 40% 50% 60% 70% 80% 90% 100% t riangolare t riangolare f orma isola 11 81 yes no boh
  • 34. 33 Boh No Si Forma astratta 8 166 94 Oggetto concreto 6 10 252 Pearson's Chi-squared test X-squared = 210.7087, df = 2, p-value < 2.2e-16  test del chi-quadrato di Pearson: confronto significativo: 2 (2)=210.71, p<.0001 D. Questa Forma/Nazione è esagonale Le relative risposte sono state: Boh No Si Forma astratta 8 166 94 Oggetto concreto 6 10 252 Pearson's Chi-squared test X-squared = 210.7087, df = 2, p-value < 2.2e-16  test del chi-quadrato di Pearson: confronto significativo: 2 (2)=210.71, p<.0001 0% 10% 20% 30% 40% 50% 60% 70% 80% 90% 100% quadrat o quadrat o f orma piat t o yes no boh 0% 10% 20% 30% 40% 50% 60% 70% 80% 90% 100% esagonale esagonale f orma nazione 106 67 yes no boh
  • 35. 34 In generale riassumendo, dai risultati emerge che in quasi tutti questi confronti, c’è una tendenza a interpretare in modo diverso quando ci si riferisce ad oggetti reali e ad oggetti astratti. Inoltre riferendosi ad oggetti reali non si rispetta il fatto per cui un aggettivo o è scalare o non lo è. Infatti i dati raccolti in totale lo mostrano: Boh No Si Forma astratta 8 166 94 Oggetto concreto 6 10 252 Pearson's Chi-squared test X-squared = 210.7087, df = 2, p-value < 2.2e-16  test del chi-quadrato di Pearson: confronto significativo: 2 (2)=210.71, p<.0001 3.5 Discussione Dei Risultati Ottenuti Abbiamo visto che all’interno del dominio degli aggettivi la vaghezza è un fenomeno attribuito fondamentalmente agli aggettivi scalari relativi, mentre si supponeva che gli aggettivi scalari assoluti e quelli non scalari non esibissero “casi limite”. Dai risultati ottenuti però emerge che il contesto influenza l’interpretazione degli aggettivi allentando quei criteri precisi per determinare se una figura possiede o meno le caratteristiche denotate dagli aggettivi stessi. Quindi per rispondere alle domande poste in precedenza possiamo dire che gli individui interpretano gli aggettivi non scalari non considerando il loro significato “intrinseco” ed “unico”, ma lo pongono comunque in relazione ai riferimenti che il contesto offre. In questi casi ad esempio il significato di triangolare non è netto come dovrebbe essere, e quindi denotare l’insieme degli oggetti che hanno la caratteristica di essere 0 200 400 600 800 1000 1200 1400 1600 forma concreta forma astratta boh no si
  • 36. 35 triangolari, e tutto ciò che non è triangolare sta al di fuori dell’insieme, ma ammette una scala, un grado di triangolarità. Questo può essere spiegato con la presenza dell’alone pragmatico che ci permette di considerare vere, frasi che letteralmente non lo sono, ma sono abbastanza vicine alla verità da esserlo. Infatti il contesto ha un ruolo fondamentale nel regolare l’alone pragmatico: parole astratte sono meno “modificabili” rispetto a parole concrete. Un'altra via per spiegare il fenomeno è quello di assumere un approccio supervalutazionale e considerare le frasi nei singoli contesti. I risultati quindi dimostrano che Parlare in modo iper-preciso, o aspettarsi precisione da chi parla non serve.
  • 37. 36 Conclusioni Come abbiamo visto, comunicare è un atto naturale e avviene senza riporre eccessive attese di precisione nelle persone che ci troviamo davanti. La comunicazione è un processo di attribuzione di intenzioni: è un atto cooperativo. Le persone perciò parlano molto “liberamente”, dando molte cose per scontate e addirittura omettendo delle parti: vengono dette cose che non sono puramente vere, ma sono abbastanza vicine alla verità da essere considerate come tali. Nel linguaggio comune quindi, siamo tolleranti: non ci aspettiamo che in un discorso ogni cosa che viene detta sia assolutamente precisa. Non ci interessa sapere esattamente se Gerry Scotti ha 1.567.876.332 capelli in testa: alcuni individui lo riterranno calvo altri meno, ma comunque non verrà mai preso ad esempio come una persona con una “folta chioma” in testa. Non sentiremo mai nessuno dire “Maria è arrivata alle 3:00 minuti, 02 secondi, 04 millesimi…” perché ci apparirebbe strano. Nel linguaggio comune un’estrema precisione possiamo sostenere che non sia richiesta. Le persone accettano quindi frasi che deviano, in modo maggiore o minore, dalla verità, grazie all’esistenza di un “alone pragmatico”. Ed in questi termini è ammissibile parlare di vaghezza. La vaghezza è uno strumento che ci permette di accettare frasi di questo tipo, pur non sapendo con precisione in che modo 1) Gerry Scotti sia effettivamente calvo 2) Se effettivamente Maria sia arrivata alle 3 in punto, o alle 3:02 minuti, o alle 2:57 minuti … L’uso della vaghezza è utile quando il parlante è indeciso riguardo a cosa può capire l’ascoltatore e ci fa usare il linguaggio in modo flessibile, perché ogni parola può assumere un significato preciso in ogni contesto. Si può dire quindi che se da un lato la vaghezza porta con se diversi problemi, ci aiuta soprattutto ad accettare frasi, che se dovessero essere spiegate, creerebbero più problemi. Per questo è un fenomeno così pervasivo nel nostro linguaggio.
  • 38. 37
  • 39. 38 Bibliografia Casalegno P., Frascolla P., Iacona A., Paganini E., Santambrogio M., Filosofia del linguaggio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2003 Guasti, M.T., L’acquisizione del linguaggio: un’introduzione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007. Lalumera, E., Coliva, A., Pensare. Leggi ed errori del ragionamento, Carocci Editore, Roma, 2006. Lasersohn, P., Pragmatic Halos, in “Language”, Vol. 75, No. 3. (Sep., 1999), pp. 522 -551. Nespor, M., Napoli, D.J., L’animale parlante. Introduzione allo studio del linguaggio, Carocci Editore, Roma, 2004. Panzeri, F., Foppolo, F., “Straight Bananas. Shifting standards for absolute gradable adjectives” presso Università degli studi Milano-Bicocca, discussione presentata a Psycholinguistics across the borders, Rovereto 24- 25/06/2010. Rooji, R. van, Vagueness and Linguistics, in Giuseppina Ronzitti (ed.) “Vagueness: a guide.”, Heidelberg: Springer. Sorensen, R., Vagueness, in ”Standford Enciclopedia of Philosophy”, 2006. http://plato.stanfordedu/entries/vageness/. Varzi, A., Unsharpenable Vagueness, in “Philosophical Topics”, 28:1, 2000, pp. 1-10. Varzi, A., I confini del Cervino [The Boundaries of Cervino], in V. Fano, G. Tarozzi, and M. Stanzione (eds.), “Prospettive della logica e della filosofia” della scienza”, Cosenza, Rubbettino, pp. 431-445, 2001. Varzi, A., Vagueness, Logic, and Ontology, in “The Dialogue”, Yearbooks for Philosophical Hermeneutics, 1 (2001), pp 135-154. Varzi, A., Vagueness, in L. Nadel (editor in chief) “Encyclopedia of Cognitive Science”, London, Macmillan and Nature, 2003, pp. 459-464. Varzi, A., The Vagueness of “Vague”: Rejoiner to Hull, in “Mind”, 114:445, 2005, pp. 695-702.