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Università per Stranieri di Perugia
Facoltà di lingua e cultura italiana
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN
PROMOZIONE DELL’ITALIA ALL’ESTERO
Percezione e promozione del Made in Italy in Cina
Laureando
Enrico Rosi
Relatore Correlatore
Prof.ssa Donatella Radicchi Prof.ssa Shelly Chen
A.A. 2010-2011
3
Indice
INTRODUZIONE...................................................................................5
1. IL MARKETING DEL MADE IN ITALY......................................................9
1.1 Definizione, composizione e competitività del Made in Italy.....................9
1.2 Il paradosso del Made in Italy e la valenza dei distretti industriali...........14
1.3 Immagine, qualità e Sistema Paese..................................................... 21
2. LO SVILUPPO DELL’ECONOMIA CINESE: OPPORTUNITÀ PER IL
MADE IN ITALY..................................................................................29
2.1 Dall’apertura al libero mercato al secondo posto nell’economia
mondiale............................................................................................29
2.2 Il mercato e il consumatore cinese...................................................... 34
2.3 L’export italiano in Cina.......................................................................44
3. L’IMPORTANZA DELLA COUNTRY IMAGE NELLA PROPOSIZIONE
DEL MADE IN ITALY...........................................................................50
3.1 Country image: un asset vincente per il Made in Italy........................... 50
3.2 Il country of origin effect e le implicazioni per le imprese...................... 53
3.3 Lifestyle e valore intangibile in Cina.....................................................67
4. LA PERCEZIONE DEI CONSUMATORI CINESI VERSO IL MADE IN
ITALY................................................................................................71
4.1 Percezione del Made in Italy in Cina.....................................................71
4.2 La country reputation italiana in Cina...................................................82
5. LA PROMOZIONE DEL MADE IN ITALY IN CINA....................................86
5.1 Creare relazioni: guanxi e mianzi.........................................................86
5.2 Ruolo e attori delle istituzioni italiane e di altre organizzazioni................89
5.3 Altri canali della promozione del Made in Italy in Cina........................... 94
4
6. SONDAGGIO SULLA PERCEZIONE DEL MADE IN ITALY IN CINA E
CONSIDERAZIONI FINALI.................................................................101
6.1 Sondaggio........................................................................................101
6.2 Considerazioni conclusive..................................................................117
APPENDICE – Questionario in lingua cinese........................................120
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI...........................................................122
5
Introduzione
L’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio ha
sancito l’emersione di questa nuova potenza economica mondiale. Oggi, a
distanza di 11 anni, proprio mentre l’Occidente sperimenta una prolungata
fase di stagnazione economica, la Cina vede rimanere pressoché inalterati
i propri tassi di crescita e continua a guadagnare quote di mercato sulle
esportazioni mondiali. La politica cinese di attrazione degli IDE e la forte
propensione all’export sono considerate nei paesi economicamente
avanzati due cause paradigmatiche della disoccupazione della propria
forza lavoro e della perdita di competitività delle proprie aziende.
In Italia, più che altrove, il dibattito in merito è acceso: la
specializzazione settoriale dei due paesi è infatti molto simile e la
concorrenza proveniente dal Paese asiatico alimenta le ragioni di chi
considera la Cina una minaccia per le produzioni Made in Italy. Il punto di
vista da cui nasce questa tesi è invece speculare al precedente; lo sviluppo
economico e la conseguente crescita del reddito della popolazione cinese
stanno configurando uno dei mercati potenziali più attrattivi del mondo e
le opportunità per le imprese italiane sono altrettanto considerevoli. In
questo lavoro, per ‘opportunità’ si vuole intendere esclusivamente
l’incremento dell’attività commerciale delle aziende che producono beni di
consumo, generalmente realizzata in Italia tramite esportazione.
Il tema centrale di questa tesi ruota attorno al concetto di country of
origin effect, ovvero l’effetto che l’origine geografica del prodotto esercita
nell’alterare la valutazione e il comportamento d’acquisto di un
consumatore estero circa il prodotto stesso. Affinché la Cina possa
effettivamente rappresentare un’opportunità per le aziende italiane, le
produzioni Made in Italy devono necessariamente operare un
riposizionamento competitivo che esalti la qualità e la componente
intangibile di quanto offerto. Il mercato cinese di riferimento attuale è
infatti costituito da consumatori che ricercano (prevalentemente) nel
6
prodotto estero esclusività e conferimento di uno status sociale. Si ritiene
dunque importante per le imprese, al fine di elaborare efficaci strategie di
marketing, conoscere la percezione che i consumatori cinesi hanno
dell’Italia e della sua offerta produttiva. Oltre che per le imprese, la stessa
conoscenza risulta utile inoltre al Sistema Paese italiano, relativamente
all’ideazione e all’attuazione di politiche di sostegno
all’internazionalizzazione commerciale delle imprese del Made in Italy.
L’obiettivo di questa tesi è pertanto quello di capire qual è
l’immagine dell’Italia in Cina, sia sotto il profilo produttivo sia considerando
un quadro storico-culturale-istituzionale d’insieme. Scopo secondario è
indagare come e attraverso quali canali il Made in Italy viene promosso in
questo medesimo mercato, cercando in entrambi i casi di cogliere
particolari valenze che possano suggerire in conclusione degli accorgimenti
efficaci per le imprese e delle indicazioni altrettanto utili per la promozione
del Made in Italy a livello di Sistema.
La tesi si compone di sei capitoli: il primo è dedicato interamente al
Made in Italy, che come composizione settoriale e apparato produttivo di
riferimento costituisce un esempio unico fra i paesi economicamente
sviluppati.
Il secondo capitolo è riferito invece allo sviluppo dell’economia
cinese. Oltre alle tappe storiche che hanno costituito un progressivo
processo di apertura verso l’estero, viene affrontata anche l’attuale
effettiva accessibilità del mercato, la sua potenziale ricettività nei confronti
del Made in Italy e la sua segmentazione (particolare importanza è
attribuita al comportamento d’acquisto del consumatore cinese). È inoltre
dedicato un paragrafo specifico all’export italiano in Cina, le cui quote
sono state suddivise per comparti merceologici.
Nel terzo capitolo si trova il nucleo teorico della tesi, composto come
detto dai concetti di country image e country of origin effect. In questa
parte si cerca dunque di capire cosa li determina e quali sono le
implicazioni per le imprese, anche alla luce dei comportamenti adottati
7
dalle aziende italiane e sulla base del valore che i cinesi attribuiscono
all’aspetto intangibile delle produzioni.
Con il quarto e il quinto capitolo si entra nel merito della percezione
e della promozione del Made in Italy in Cina. Per quanto riguarda la
percezione, vengono citate tre indagini esplorative preesistenti che hanno
come oggetto di indagine un campione cinese a cui è stato chiesto di
esprimere giudizi su alcune caratteristiche di natura produttiva e socio-
culturale riguardanti l’Italia; grazie al contributo di queste ricerche,
realizzate da due diversi istituti di ricerca e da un altro team di ricercatrici,
è possibile delineare sommariamente l’immagine che i consumatori cinesi
hanno nei confronti dell’Italia e del Made in Italy e, di conseguenza, si
individuano i settori e le produzioni italiane che possono contare in Cina su
un effetto paese positivo. Relativamente alla promozione, il primo
paragrafo affronta due aspetti culturali caratteristici cinesi, guanxi e mianzi,
determinanti ai fini di efficienti comunicazioni e trattative nel mondo degli
affari; nel capitolo si individuano i soggetti che promuovono il Made in
Italy in Cina (sia a livello pubblico sia a livello privato) e si indicano le
azioni e gli strumenti principali di cui tali soggetti si servono.
La tesi si conclude con un’inedita indagine esplorativa su un
campione cinese che integra i contributi esistenti e attraverso cui vengono
affrontati àmbiti percettivi specifici della country image italiana. Nel sesto
capitolo, sulla base dei risultati emersi dal nuovo sondaggio, vengono
tratte le conclusioni e le considerazioni finali.
8
Desidero porgere un ringraziamento speciale agli amici cinesi che mi hanno aiutato nella
traduzione del questionario e nella sua diffusione in Cina.
Una dedica e un augurio di cuore per il futuro a tutti i miei colleghi del corso in
Promozione dell’Italia all’estero, unici e sempre presenti durante due anni bellissimi.
Un altro grazie, sempre e comunque, alla mia famiglia e agli affetti più cari.
Enrico Rosi,
Aprile 2012
9
1. Il marketing del Made in Italy
1.1 Definizione, composizione e competitività del Made in Italy
Se si potesse classificare sinteticamente l’economia italiana, non ci
sarebbero obiezioni nel definirla ‘reale’. Sulla base dei dati Eurostat e del
Fondo Monetario Internazionale si può sostenere, a supporto di questo
aggettivo, che l’Italia è il secondo Paese industriale manifatturiero
d’Europa dopo la Germania, che la propria economia è relativamente poco
finanziarizzata e si basa su un vasto e solido reticolo di piccole-medie
imprese e che la bilancia commerciale è decisamente positiva per quanto
riguarda i manufatti. Uniti al fatto di essere inseriti nel quadro
macroeconomico di una delle prime otto Economie mondiali in termini di
Pil, questi fattori denotano fortemente l’Italia come un Paese avente
un’offerta produttiva notevole e, nella fattispecie, competitiva e prestigiosa.
Assume dunque senso parlare di made in e nel caso dell’Italia è
ancor più opportuno selezionare alcuni comparti merceologici che
rappresentano per antonomasia (sia per volumi sia per valore) la
produzione nazionale. Tali settori accrescono il loro peso relativo
nell’ambito dell’export, presentano un saldo attivo e permanente della
bilancia dei pagamenti, dando appunto dimostrazione di un’evidente
specializzazione produttiva ed esportativa dell’economia italiana rispetto al
resto del mondo (Guerini 2004:17).
In ragione della presenza dei prodotti d’eccellenza italiani nella
scena commerciale mondiale fin dagli anni Ottanta, l’espressione Made in
Italy porta con sé un alone di autorevolezza marcato. Ciò è oltretutto
determinante per l’economia italiana ai fini del mantenimento dei propri
vantaggi comparati: questi ultimi non dipendono soltanto dalla dotazione
di specifici fattori o dal possesso di quelle determinanti del vantaggio
competitivo delle nazioni che Porter pone ai vertici del suo ‘diamante’,1
1
Viene citato a titolo esemplificativo uno dei paradigmi più significativi e recenti nell’ambito
10
bensì anche da una serie di caratteristiche (quali ad esempio la creatività e
il design) che connotano ormai esclusivamente il Made in Italy.
Per quanto riguarda la composizione settoriale, il Made in Italy
riflette bene nelle sue diverse componenti e manifestazioni la cultura ed i
caratteri dell’italianità, ed i suoi prodotti finiscono per rappresentare
simboli significativi dell’immagine che il Paese vanta a livello mondiale
(Pratesi 2001:26).
I due grandi raggruppamenti di settori che fanno capo alle
cosiddette ‘4 A’ dell’eccellenza manifatturiera italiana sono quelli
tradizionali e ad offerta specializzata. I primi comprendono i beni di
consumo tradizionali legati alla persona e alla casa e valgono i ¾ della
suddetta offerta: Abbigliamento (si intendono anche calzature, pelletterie,
occhiali, oreficeria e gioielleria), Arredamento (mobili, elettrodomestici,
ceramiche, marmi, casalinghi) e Alimentazione (pasta, olio, vino e prodotti
tipici della cucina mediterranea). I settori ad offerta specializzata si
riferiscono invece all’Automazione: si tratta di meccanica strumentale (che
copre una estesa tipologia di impianti) e di componentistica specializzata
(elementi meccanici, elementi di trasmissione, membrane, utensili ecc.)
funzionali alla produzione dei beni di consumo sopra elencati (Valdani -
Bertoli 2007:44).
La non esclusiva specializzazione in settori tradizionali dimostra
come l’imprenditoria italiana sia stata in grado di evolvere la propria
produzione dalla manifattura di beni di consumo semplici alle produzioni
ad intensità tecnologica medio-alta (benché, come si vedrà, sussiste una
netta despecializzazione nei settori ad elevato contenuto tecnologico), sia
stata in grado altresì di creare un circolo produttivo virtuoso e di acquisire
competenze e conoscenze che consentono oggi di differenziare ed
adattare al meglio il prodotto ai bisogni della domanda.
È anche opportuno ribadire che la differenziazione produttiva
delle teorie sul commercio internazionale. Le altre determinanti sono: strategia d’impresa, struttura
di mercato e concorrenza; natura della domanda interna; industrie collegate o di supporto. Cfr.
C.W.L. Hill, International Business, Hoepli, 2008.
11
dipende, in questa fase di raggiunta maturazione imprenditoriale, da
un’innovatività di tipo soft, legata cioè a caratteristiche creative ed
originali molto apprezzate tral’altro all’estero. La base immateriale del
Made in Italy (lo stile appunto) permette alle aziende italiane di svincolarsi
da un’ampia concorrenza emergente che basa sulla variabile ‘prezzo’ il
proprio vantaggio competitivo e di attenuare l’effetto dell’inevitabile
trasferimento manifatturiero fuori dai confini nazionali.
Fra i tanti a disposizione, 2
sono stati scelti due indicatori per
quantificare a livello economico le virtù del Made in Italy: il valore
aggiunto generato dalle ‘4 A’ e il surplus commerciale con l’estero. Sono
due indici che esprimono soltanto il valore qualitativo della produzione e
dello scambio commerciale; volutamente, si vuole posticipare l’analisi
dell’aspetto quantitativo del fenomeno e lo stato di salute dell’economia
nazionale, che influisce naturalmente sulla competitività del Made in Italy.
“Le ‘4 A’ hanno generato nel 2006 un valore aggiunto di circa 142
miliardi di euro e rappresentano grosso modo il 65% del valore aggiunto
complessivo manifatturiero dell’Italia al costo dei fattori” (Fortis -
Carminati 2009:9). In particolare, 3
l’industria italiana degli Alimentari-
bevande ha espresso nel 2006 un valore aggiunto di 19 miliardi di euro,
quella dell’Abbigliamento-moda è stato di 26 miliardi di euro, Arredo-casa
oltre 16 miliardi e l’industria dell’Automazione-meccanica-gomma-plastica
ha originato un valore aggiunto di quasi 81 miliardi di euro.
Il surplus commerciale delle ‘4 A’ con l’estero ha raggiunto nel 2008 i
116 miliardi di euro: 4
anche in questo caso l’attivo commerciale è
preponderante nel comparto della meccanica (surplus commerciale di 78
miliardi di euro).
Se questi dati dimostrano un sostegno vigoroso del Made in Italy al
commercio estero (tanto da sostenere che se non fosse per la cronica
2
Fatturato, numero di occupati, quote di mercato, valore della produzione, numero di imprese ecc.
3
Elaborazione dati Fondazione Edison su dati Eurostat, Istat, Mediobanca. Cfr. Fortis – Carminati
2009.
4
Ivi, p. 10.
12
dipendenza energetica, la bilancia commerciale italiana sarebbe in attivo),5
è pur vero che a dei valori economici sorprendenti occorre contrapporre
dei volumi aggregati dell’export per lunghi tratti stagnanti o recessivi, una
performance della produttività nazionale altalenante, una capacità
dell’Italia di rispondere alle sfide competitive tutta da dimostrare e
l’avanzata inesorabile della concorrenza proveniente specialmente dalle
economie emergenti.
Competitività nazionale e concorrenza internazionale sono due
variabili che influiscono inesorabilmente sulle sorti del Made in Italy.
L’interpretazione dei dati a riguardo da parte degli operatori economici è
spesso ambivalente. Così come l’apparizione sulla scena economica
mondiale di nuovi competitor è vista sia come possibilità sia come
minaccia per le economie avanzate, anche la performance economica
italiana del recente passato lascia spazio a considerazioni discordanti per il
futuro. Questo poiché, anche a livello mondiale, l’economia ha conosciuto
una serie di continui e repentini cambiamenti che hanno messo in
discussione il ruolo di leadership dei paesi avanzati.
I dati macroeconomici degli ultimi anni dimostrano comunque che
l’Italia ha accumulato una significativa perdita di competitività. Dal 2008 le
variazioni percentuali rispetto agli anni precedenti dei principali valori
macroeconomici sono negativi; il saldo di Conto corrente della Bilancia dei
pagamenti è peggiorato sensibilmente dal 2002 (-10 miliardi di euro) al
2008 (-53 miliardi di euro); la quota sulle esportazioni mondiali di merci
italiane ha subìto un calo di 1,2 punti percentuali in 13 anni, dal 4,5% del
1995 al 3,3% del 2008.6
Apparentemente discordanti, le due serie di dati che dimostrano le
potenzialità del Made in Italy e le difficoltà dell’economia nazionale e delle
esportazioni sono però conciliabili. La riduzione della quota dell’Italia sulle
esportazioni mondiali riguarda infatti i volumi: negli ultimi anni le perdite
5
Rapporto ICE 2010-2011. L’Italia nella competizione internazionale, p. 329.
6
Rielaborazione su dati Ice e Bollettino Economico della Banca d’Italia. Cfr. Valdani – Bertoli
2007: 41,43.
13
maggiori si osservano per la quota in quantità, mentre, ad esempio, la
variazione percentuale dell’export in euro dal 2000 al 2006 è molto
positiva (+27,4%), un tasso inferiore fra i paesi industrializzati solo a
quello di Spagna e Germania (Masi 2007:14,15). In altre parole, i volumi
esportati sono minori ma il fatturato delle aziende, grazie a prezzi più alti,
rimane invariato o addirittura migliora.
“In presenza di volumi stagnanti, la buona performance dei valori
dell’export è interamente riconducibile alla sostenuta dinamica dei prezzi”
(Masi 2007:14). Come si vedrà, sarà proprio in funzione del valore
(tangibile e intangibile) del prodotto che il Made in Italy dovrà operare un
riposizionamento competitivo. Se ciò non dovesse accadere, le imprese
italiane sarebbero esposte ad una concorrenza di prezzo insostenibile con
le imprese dei paesi emergenti. Nei settori tradizionali infatti,
“l’Italia si trova oggi a doversi misurare con una concorrenza vieppiù
agguerrita, proveniente in particolare dalla Cina e da diversi paesi del sud-
est asiatico, i quali si distinguono per: costi del lavoro incomparabilmente
inferiori a quelli occidentali; macchinari aggiornati importati dall’estero (in
primis dal nostro7
Paese); capacità di imitazione (e addirittura, in non
pochi casi, di contraffazione vera e propria); miglioramento progressivo
della qualità dei prodotti; evoluzione in senso manageriale della gestione
aziendale. […] In questi settori, è dunque essenziale che le imprese
innalzino sempre più la capacità di innovare la propria offerta in termini di
stile-design-creatività-moda-qualità” (Valdani – Bertoli 2007:44).
Le quote di mercato provenienti dai settori ad offerta specializzata
soffrono invece meno (per il momento) la competizione della nascente
offerta estera, ancora ‘acerba’ e deficitaria di esperienza, flessibilità e
versatilità tecnologica.
È opinione diffusa8
che altre due cause riconducibili alla flessione del
volume dell’export italiano sono la distribuzione geografica dei mercati di
7
Italia, Nda
8
Cfr. Valdani – Bertoli 2007:43.
14
sbocco (prevalentemente concentrata sui soli mercati maturi europei) e la
struttura dimensionale delle imprese (questo aspetto verrà trattato più
approfonditamente nel prossimo paragrafo).
1.2 Il paradosso del Made in Italy e la valenza dei distretti industriali
Il successo del Made in Italy, più o meno contrastato negli anni dalle
dinamiche economiche nazionali e dalle insidie concorrenziali internazionali,
non è facilmente spiegabile secondo le teorie economiche ortodosse del
commercio internazionale e dall’economia industriale. Come argomenta
Riccardo Varaldo,9
per molti aspetti il Made in Italy appare una sorta di
paradosso. I motivi di questo paradigmatico controsenso sono stati già in
parte accennati nel primo paragrafo: innanzitutto, le produzioni tipiche del
Made in Italy dei settori tradizionali ad alta intesità di lavoro unskilled sono
giudicate più consone a paesi di nuova industrializzazione che non ad
economie sviluppate come l’Italia; successivamente, l’eccezionalità del
Made in Italy è data dagli ottimi risultati ottenuti da un insieme di imprese
di dimensioni ridotte.
La despecializzazione italiana nelle produzioni high-tech è imputata
effettivamente di aver contribuito alla flessione delle quote di mercato
possedute dall’Italia. Indubbiamente questo fattore strutturale ha
penalizzato la presenza italiana all’estero perché ha lasciato le imprese
impreparate e manchevoli verso la domanda mondiale di prodotti ad alto
contenuto tecnologico. Anche in questo caso il dibattito fra gli studiosi a
proposito di questa caratteristica imprenditoriale italiana è acceso: ci si
domanda 10
se, per l’industria manifatturiera italiana, una supremazia
limitata ai settori tradizionali offra sufficienti garanzie per il futuro e se una
situazione d’arretratezza nei settori ad elevate economie di scala (chimica
industriale, metallurgia) e nei settori ad alta tecnologia (elettronica,
9
Cfr. Pratesi 2001:24.
10
Cfr. Pratesi 2001:9.
15
farmaci, aerospaziale) non rappresenti uno squilibrio fortemente
penalizzante con gli altri paesi sviluppati, paesi che hanno dimostrato di
poter trarre ingenti vantaggi dalla commercializzazione di beni
appartenenti a questi settori.
In ogni caso, almeno ai fini di questo lavoro, si intende tralasciare
questo attributo imprenditoriale in quanto l’oggetto in questione è il Made
in Italy che si è già affermato nei mercati internazionali e che è stato
precedentemente delineato. Si cercherà pertanto di indagare quali sono le
strategie per valorizzarlo, senza cercare a tutti i costi un’alternativa ad
un’offerta già di per sé potenzialmente redditizia e a dei procedimenti
industriali efficienti. A tal proposito, sottolinea in maniera illuminante
Valdano:
“tutto considerato sembra quindi opportuno pensare ad una valorizzazione
intelligente del ‘paradosso del Made in Italy’ piuttosto che ad un suo
superamento. Questo servirebbe a far tramontare l’idea che il nostro
Paese possa (debba) essere ricondotto nell’alveo di una presunta, teorica
normalità, ovvero allineato ai modelli di industrializzazione delle altre
economie avanzate […] A questo punto della sua storia industriale l’Italia
non può ragionevolmente pensare di cambiare treno, quello del Made in
Italy e delle piccole imprese, per salire su un altro treno o addirittura
pensare di cambiare tipo di mezzo” (Pratesi 2001:10).
Molto c’è da ragionare invece circa il modo di ottimizzare la
produttività e la competitività delle PMI italiane. Il primo problema da
affrontare è la scarsa propensione all’internazionalizzazione e, per quanto
più riguarda questa ricerca, all’esportazione delle piccole imprese.
In Italia c’è un numero di imprese manifatturiere superiore a quello
di Francia, Germania e Olanda considerate insieme.11
Secondo dati Istat,
in Italia nel 2007 risultano 474.202 attività manifatturiere: fra queste, le
imprese con meno di 10 occupati sono 387.907; le imprese che hanno fra
11
Dati Eurostat 2006. Cfr. Italia – Geografie del nuovo Made in Italy, p. 13.
16
i 10 e i 49 occupati sono 75.050; quelle tra i 50 e i 249 occupati sono
9.860; le imprese con più di 250 sono 1.385. Questa suddivisione non può
essere considerata una classificazione canonica per dimensione (micro,
piccola, media, grande) poiché per esserlo sarebbe necessario considerare
anche il fatturato. Sono numeri che rendono però immediatamente idea di
quale sia la realtà della strutturazione fisica del tessuto imprenditoriale.
Mediobanca – Unioncamere stimano12
che a quell’aggregato di circa
4.900 imprese medie e medio-grandi definite ‘Quarto capitalismo’ 13
(o
‘Multinazionali tascabili’ 14
) fa capo circa il 25% del valore aggiunto
complessivo dell’industria manifatturiera italiana (che sale al 40%
considerando l’indotto) e il 34% circa dell’export manifatturiero.
Percentuali rilevanti se si considera che i gruppi con fatturato superiore ai
3 miliardi di euro generano circa il 5% e l’11% del valore aggiunto e
dell’export manifatturiero, a dimostrazione della maggiore propensione
all’internazionalizzazione delle imprese medie, medio-grandi e dei grandi
gruppi industriali rispetto alle imprese più piccole.
Una testimonianza aggiornata in proposito è fornita dal rapporto Ice
2010-2011: dopo un calo vertiginoso nel 2009, l’export italiano si è
risollevato nel 2010 ottenendo una variazione percentuale positiva del
16% (+ 9,4% di valore medio). La ripresa ha sì interessato tutte le classi
dimensionali delle imprese, ma in maniera disomogenea: “la crescita più
sostenuta ha riguardato le imprese più grandi, quelle con fatturato estero
superiore ai 50 milioni di euro, che hanno esportato il 21,2% in più
rispetto al 2009”. 15
L’aspetto determinante è stato la provenienza
geografica della domanda, in quanto i mercati più lontani sono stati
raggiunti più facilmente dalle imprese di dimensioni maggiori.
12
Ibidem
13
Si intende l’aggregato (categorizzato da Mediobanca, che da tempo lo analizza) di 4.345
imprese medie e circa 600 medio-grandi manifatturiere che si colloca come cuscinetto tra i grandi
gruppi e le piccole imprese. Per crescita e redditività hanno surclassato le altre grandi imprese
italiane.
14
Repubblica, 10 gennaio 2009, p.18. www.repubblica.it
15
Rapporto Ice 2010 – 2011, p.285
17
Generalmente, le imprese più piccole presenti in un numero limitato di
mercati sono fortemente dipendenti dalle sorti politico-economiche di
pochi paesi e rischiano di subirne le relative eventuali complicazioni: “il
contributo più vistoso alla crescita delle importazioni mondiali è da
attribuire ai mercati dell’Asia Orientale e latino-americano, mentre alcune
aree geografiche di specializzazione dell’Italia, quali l’intero mercato Ue e
tutto il bacino Mediterraneo, con alcuni paesi coinvolti in una serie di
sommovimenti politici, sono cresciuti meno della media”.16
La considerazione positiva verso la piccola dimensione, reputata in
grado fin’ora di garantire flessibilità e adattamento rapido ai mutamenti
della domanda, sta lasciando il passo al convincimento diffuso che la
piccola dimensione costituisce un vincolo alla crescita e un rischio per le
posizioni acquisite sui mercati internazionali.17
“L’ampliamento del bacino
potenziale di consumatori cui le imprese dovrebbero rivolgere la loro
attenzione richiede una struttura organizzativa più complessa e sofisticata,
che si avvalga di reparti specializzati in marketing, promozione e pubblicità,
servizi post vendita”.18
Una governance familiare rappresenta inoltre un
ostacolo all’elaborazione di soluzioni manageriali avanzate, che
permetterebbero di adottare soluzioni a volte indispensabili come ad
esempio la diversificazione dei mercati di sbocco, l’instaurazione di
collaborazioni industriali, l’investimento in ricerca e sviluppo.
A far fronte a questa condizione strutturale di per sé penalizzante c’è,
in Italia, l’esperienza positiva dei distretti industriali. L’Istat definisce il
distretto industriale ‘entità socio-territoriale in cui una comunità di persone
e una popolazione di imprese industriali si integrano reciprocamente’;19
i
distretti discendono dai ‘sistemi locali del lavoro’, unità territoriali costituite
da più comuni contigui fra loro che rappresentano i luoghi della vita
quotidiana della popolazione che vi risiede e lavora.
16
Ibidem
17
Cfr. Masi 2007:12.
18
Ibidem
19
8° Censimento generale dell’Industria e dei Servizi 2001. www.istat.it
18
La piccola impresa inscritta nell’alveo di un efficiente distretto
industriale trae da esso benefici in termini di competenze, innovazione e
procedimenti operativi che le consentono di sopperire alle difficoltà sopra
elencate. L’agglomerato, per tutti i nuclei di cui si compone, funge da
catalizzatore di interrelazioni economico-sociali che originano un sub-
sistema industriale locale. Infatti, una caratteristica essenziale del distretto
industriale è la divisione del lavoro tra imprese e la generazione di
interdipendenze produttive di natura intra- e intersettoriale.
Il distretto è tipicamente costituito da piccole-medie imprese che si
specializzano a loro volta in una specifica fase lavorativa di produzione: la
divisione del lavoro consente di sviluppare economie di scala e
apprendimento e di servire, indipendentemente, le imprese committenti
che si trovano a valle nella filiera industriale. La flessibilità della piccola
impresa è così asservita alle necessità che si presentano dapprima proprio
all’interno del distretto: nel reticolo nascono e crescono nuove imprese, si
ramificano dinamicamente conoscenze e scambi di natura economica e
sociale.
La performance economica del distretto dipenderebbe,20
pertanto,
da un elevato livello di efficienza collettiva, innovazione, coesione sociale
ed economie esterne interrelate (esterne all’impresa, ma interne all’area).
La fitta rete di relazioni tessute all’interno del distretto potrebbe
favorire altresì il miglioramento di quella formazione definita ‘on the job’;
specialmente nei settori tipici del Made in Italy, dove contano le abilità
artigianali, la creatività e le tendenze, il capitale umano dovrebbe
ragionavolmente trovare nel distretto terreno fertile per la crescita del
proprio valore.
Sulla base dell’8° Censimento generale dell’Industria e dei Servizi
(Istat) del 2001, si individuano in Italia 156 distretti industriali (81 al Nord,
49 al Centro e 26 nel Mezzogiorno).21
È significativo notare che le tipologie
20
Cfr. Guerini 2004:70.
21
Per i criteri e le procedure adottate per l’individuazione dei distretti industriali si rimanda alla
19
di industria principale utilizzate per classificare i distretti industriali (Tavola
1) corrispondono pienamente (con la sola eccezione dell’industria
cartotecnica e poligrafica) ai settori caratterizzanti l’offerta Made in Italy.
Tavola 1
INDUSTRIA PRINCIPALE Distretti industriali % Addetti manifatturieri
dei distretti
%
Tessile e abbigliamento
Meccanica
Beni per la casa
Pelli, cuoio e calzature
Alimentari
Oreficeria e strumenti musicali
Cartotecniche e poligrafiche
Prodotti in gomma e plastica
Totale
45
38
32
20
7
6
4
4
156
28,8
24,4
20,5
12,8
4,5
3,8
2,6
2,6
100
537.435
587.320
382.332
186.680
33.304
116.950
35.996
48.585
1.928.602
27,9
30,5
19,8
9,7
1,7
6,1
1,9
2,5
100
Elaborazione su dati Istat
Nel 2010 anche i distretti industriali hanno reagito positivamente
dopo la congiuntura particolarmente negativa che nel 2009 ha interessato
la domanda delle produzioni tipiche del Made in Italy. Nel Secondo
Rapporto dell’Osservatorio nazionale dei Distretti Industriali22
si precisa
tuttavia che “i distretti non sembrano aver sofferto gli effetti della crisi più
gravemente rispetto al complesso dell’economia manifatturiera”. È stata
ancora una volta la propensione all’export a determinare il successo di
questo modello produttivo e organizzativo: rispetto al crollo (di livello
internazionale) del 2009, le esportazioni dei distretti sono aumentate nel
2010 del 10,5%. Ciò che è più significativo in un’ottica di medio-lungo
periodo è che, per la prima volta dopo diversi anni, nel 2010 i distretti
industriali hanno mostrato tassi di crescita superiori a quelli di aree non
distrettuali (la quota dei distretti sulle esportazioni dell’Italia è già di per sé
copia elettronica del Censimento consultabile nel sito web www.istat.it. Basti sapere,
sommariamente, che per l’identificazione dei distretti è necessario prima individuare gli SLL
(sistemi locali del lavoro) prevalentemente manifatturieri di piccola-media impresa per poi operare
una classificazione per tipologia di industria principale.
22
L’Osservatorio fornisce dati riferiti ai 101 principali distretti industriali italiani.
20
ottima: per i manufatti, nel 2007, è del 30,8%).23
“Spicca, in particolare, il
boom dell’export in Cina, dove i distretti hanno ottenuto performance di
gran lunga migliori rispetto ai già buoni risultati del manifatturiero italiano
(+81,6% vs +48,8%)”.24
Se i dati del 2010 propendono per l’uscita dal tunnel della recessione,
quel che è difficile affermare è che sia evidente una ripresa diffusa. Il fatto
che alcuni settori rivelano segnali di affaticamento,25
che la capacità di
recupero del tasso occupazionale appare ancora improbabile 26
e che
sembrano accentuarsi le differenze tra il Centro-Nord e il Sud,27
dimostra
l’occorrenza di misure di intervento mirate.
La turbolenza economica provocata dalla Crisi ha inoltre imposto alle
imprese, e a chi a livello governativo nazionale e locale si occupa del loro
sviluppo, di aggiornare e irrobustire una formula sinergica territoriale
(quella dei distretti industriali appunto) in una più vasta rete che possa
comprendere tutti gli agglomerati produttivi nazionali. In questo senso,
oltre alle proposte teoriche, si è già avuto un riscontro normativo e
giuridico con l’approvazione 28
del ‘contratto di rete’, uno strumento
utilizzabile per rilanciare forme nuove e più efficaci di aggregazione. In
particolare, due o più imprese operano in comune per accrescere
principalmente la capacità innovativa e la competitività sul mercato.
L’obiettivo è, spiega il Ministro Paolo Romani nel Secondo Rapporto
dell’Osservatorio Nazionale dei Distretti Italiani, aiutare le piccole imprese
di ‘fascia alta’ a crescere e favorire la trasformazione di piccole aziende
‘tradizionali’ (basate cioè su una conduzione familiare non
managerializzata) in una massa critica in grado di incidere maggiormente
sul piano macroeconomico. Ciò che viene auspicato è dunque l’evoluzione
23
Ice – Osservatorio sull’internazionalizzazione dei distretti industriali, maggio 2008.
24
2° Rapporto dell’Osservatorio Nazionale dei Distretti industriali, p.32.
25
Ivi, p.51.
26
Ivi, p.54.
27
Ivi, p.34.
28
Nell’ambito del Decreto incentivi 2009, Legge 99/2009; G.U. 31 luglio 2009.
www.parlamento.it
21
di forme organizzative più articolate, sia intra- sia interdistrettuali. Dallo
stesso Rapporto, Ferruccio Dardanello (Presidente Unioncamere):
“l’esperienza recente ribadisce la necessità che i distretti riorganizzino
l’insieme dei propri legami, aprendosi all’esterno e, soprattutto, allargando
la visuale ben oltre i confini locali, cercando nuove alleanze finalizzate non
più solo a raggiungere economie di scala produttive ma soprattutto ad
avviare attività di ricerca, innovazione, di distribuzione e
internazionalizzazione sempre più sofisticate e in linea con le mutevoli
esigenze di nuovi mercati e nuovi consumatori”.
La chance per il Made in Italy è grande: se gli sforzi e la
ristrutturazione dell’imprenditoria verrà assecondata dall’intero Sistema, a
competere non saranno più soltanto le imprese, bensì anche i territori: le
risorse sociali, culturali, economiche ed istituzionali di questi ultimi
offriranno ulteriori opportunità di relazionarsi nei mercati internazionali.
1.3 Immagine, qualità e Sistema Paese
Si è già accennato nel primo paragrafo che la valorizzazione
dell’aspetto immateriale dei prodotti Made in Italy è stata per certi versi
una mossa obbligata per impattare meno la concorrenza di prezzo dei
nuovi competitor. Questa politica di up-grading è però perseguibile solo da
parte di imprese che siano effettivamente in grado di poterla attuare. Non
a caso, accanto a quello che è stato definito ‘upgrading strategico’ (quello
di cui si è data menzione poco sopra), un processo di ‘distruzione creativa’
determinato proprio dalla crescente numerosità di concorrenti globali ha
prodotto una selezione naturale delle imprese tramite l’espulsione dal
mercato di quelle relativamente meno efficienti (‘upgrading indotto’).29
Le
imprese italiane hanno dimostrato, tutto sommato, di rispondere
alacremente ai cambiamenti dello scenario competitivo mondiale. L’offerta
29
Cfr. Masi 2007:22.
22
Made in Italy ha immediatamente fatto leva sul valore tangibile e
intangibile del prodotto per attuare nei mercati internazionali un
riposizionamento competitivo. I due elementi della funzione ‘valore’
rivestono un peso specifico più o meno alto a seconda dei mercati
riceventi: in un mercato maturo, l’attribuzione della qualità da parte del
consumatore avviene considerando attentamente la componente
tangibile 30
del prodotto; al contrario, in un mercato emergente, la
percezione della qualità è data non solo dall’elemento tangibile ma anche
e soprattutto dal prezzo e dall’immagine che parallelamente viene
costruita e affiancata al prodotto durante la fase di commercializzazione.
In ogni caso, specialmente durante le fasi di ripresa ed espansione
economica, immagine e qualità sono fattori interdipendenti e inscindibili
che influiscono sull’atteggiamento di valutazione e scelta del consumatore
di qualsiasi paese. L’immagine positiva di cui il Made in Italy beneficia
all’estero supporta la riqualificazione del paniere dei beni offerto, così
come la qualità dei beni proposti contribuisce a rafforzare nel tempo
l’immagine della produzione manifatturiera italiana.
Tangibile ed intangibile sono perciò le facce della stessa medaglia e
ad ognuna di esse andrebbe rivolta eguale attenzione. Specialmente per
molte delle produzioni tipicamente italiane, il miglioramento qualitativo
non deve riguardare esclusivamente la tecnologia o i materiali, ma anche
la valorizzazione di quanto già prodotto. Ovviamente, così come le due
componenti pesano in maniera diversa a seconda della tipologia dei
mercati, anche le singole leve del marketing mix vanno utilizzate
relativamente al target prescelto.
Per quanto riguarda il miglioramento dell’elemento tangibile, i nuovi
modelli di consumo sono contraddistinti da fattori di natura tecnica,
funzionale ed estetica (Masi 2007:16). La domanda dei consumatori più
30
In questo specifico caso si vuole riversare lo stile nella componente tangibile del prodotto, nel
senso che il design e la progettazione determinano l’aspetto e la forma percepibile tramite
l’apparato sensoriale; la componente intangibile è invece intesa come un attributo latente del
prodotto, rilevante ma immaginario.
23
sofisticati, oltre ad essere più variegata ed attenta ai dettagli, esige inoltre
l’affidabilità del prodotto. Il raggiungimento di standard qualitativi elavati
può essere raggiunto dall’impresa con investimenti in R&S,
l’ammodernamento dei processi produttivi, il rafforzamento dei sistemi di
controllo della qualità (Masi 2007:16). Storicamente, le produzioni Made in
Italy hanno giovato di una continua innovazione di prodotto, piuttosto che
di processo: è questo, probabilmente,31
il tipo di innovazione più adatto a
cogliere il miglioramento qualitativo dell’export, in quanto, rispetto
all’innovazione di processo, è meno ripetibile dalla concorrenza. Il
consumatore attratto e soddisfatto dell’innovatività può iniziare ad
identificare il prodotto con l’impresa stessa, attribuendo al marchio un
privilegio di esclusività che può durare anche dopo che i concorrenti hanno
iniziato l’imitazione.
Il valore intangibile del prodotto è invece migliorabile agendo sul mix
promozionale, sul prezzo, la distribuzione e sullo sviluppo dei servizi post-
vendita. Tanto per fare un esempio, la facoltosa domanda che sta
emergendo negli ultimi anni dalle aree a forte incremento economico
mostra di apprezzare particolarmente i beni di lusso di origine italiana,
soprattutto se contraddistinti da brand famosi. Per alcuni consumatori, in
assenza di altre informazioni, è proprio il prezzo alto a suggerire la qualità
di un prodotto.
Accanto all’indispensabile innovazione di prodotto, un impegno
concreto è stato profuso dalle imprese anche per ridisegnare il processo
distributivo e, in genarale, per cercare di comprendere come collocare al
meglio i prodotti sui mercati esteri. Un’indagine del Centro Studi
Unioncamere sulle PMI manifatturiere32
(2010) rivela che tra le azioni su
cui si sarebbero concentrate le policy degli imprenditori nel 2011, dopo il
miglioramento del prodotto e del processo attraverso nuove tecnologie
31
Cfr. Masi 2007:32.
32
Cfr. 2° Rapporto dell’Osservatorio Nazionale dei Distretti industriali, p.57.
24
(rispettivamente il 62,8% e 43% del totale),33
figurano proprio interventi
finalizzati ad un più forte radicamento nei mercati di riferimento. Così,
dunque, il 28% circa si sarebbe proposto di investire in comunicazione per
il rafforzamento del marchio; quasi il 24% intendeva spostare il target di
mercato verso una fascia più alta. Per molti, inoltre, era ancora prioritario
l’incremento delle quote di mercato nelle aree di riferimento tradizionali
(Italia, Europa): di conseguenza, la penetrazione di mercati così maturi ha
previsto l’adozione di ulteriori strumenti strategici.
Immagine aziendale e qualità del prodotto sono due variabili cardine
per la ricerca seguita in questo lavoro. Non le uniche, ma indubbiamente
concorrono a determinare la percezione che un gruppo di consumatori
esteri ha nei confronti dell’offerta produttiva di un altro paese. Conoscere
questa percezione significa per il produttore potersi muovere in quel
mercato efficacemente e promuovere i propri prodotti al meglio. Un’altra
variabile che influisce, direttamente e indirettamente, sulla costruzione e il
consolidamento dell’immagine all’estero e sulle capacità di promozione è la
possibilità di fruire, da parte dell’azienda, dell’appoggio multiforme
dell’apparato istituzionale, economico e culturale del proprio paese.
Quando si parla di sostegno extra-aziendale all’attività
imprenditoriale ci si riferisce al cosiddetto Sistema Paese. È questa
un’espressione spesso abusata, impiegata sovente per intendere solo le
funzioni dell’apparato istituzionale a sostegno delle imprese ed in
particolare alla competitività in ambito internazionale. Questo concetto
viene qui impiegato per contemplare invece un insieme eterogeneo di
elementi, non esclusivamente di carattere pubblico/istituzionale, che con
lo stesso peso sono in grado di determinare la percezione e la promozione
del Made in Italy all’estero. A tal proposito, si rimanda al capitolo quinto
l’elencazione delle principali azioni intraprese dai vari soggetti per la
promozione del Made in Italy in Cina. Quel che si vuole ora specificare
sono invece i presupposti e le basi da cui queste iniziative muovono.
33
Risposte multiple.
25
Parlare di Sistema Italia significa identificare innegabilmente un
organismo non del tutto perfettamente funzionante: per quanto riguarda il
contributo dell’apparato istituzionale, potrebbero essere innumerevoli gli
esempi virtuosi provenienti dai tanti enti preposti all’internazionalizzazione
e alla promozione del commercio estero delle imprese italiane; il problema,
semmai, è dovuto alla mancanza di una struttura organica e coordinata
che permetta di elaborare strategie articolate per incrementare la
presenza nei mercati esteri specialmente delle piccole aziende. “Ciò che
sembra penalizzare di più le imprese italiane all’estero è il fatto di non
poter contare su un supporto nazionale analogo a quello degli altri paesi:
sotto vari punti di vista il sostegno pubblico appare frammentario,
eterogeneo, scoordinato e talvolta conflittuale” (Pratesi 2001:15). Le
azioni di Province, Regioni, Ministeri, Università, Camere di Commercio,
Fondazioni, altri Enti statali (senza contare le Organizzazioni
completamente private) necessiterebbero di un coordinamento comune (o
quantomeno della condivisione di linee direttrici comuni) e, come si dirà
fra poco, di un background di credibilità e onorevolezza sociale, culturale e
politica alle spalle.
Per quel che riguarda la concertazione tra agenzie di promozione e
attori istituzionali e privati, l’esempio arriva da alcuni paesi europei
(Germania, Francia, Finlandia, Svezia), asiatici (Australia, Singapore) e
dell’area Ocse (USA e Canada). 34
In questi paesi, la necessità di
fronteggiare la crescente competitività internazionale ha rappresentato
l’occasione per creare una rete di servizi funzionali alla promozione del
commercio estero demandata ad agenzie uniche per
l’internazionalizzazione. Il vantaggio è quello di evitare duplicazioni e
sovrapposizioni inutili delle iniziative, condividendo gli obiettivi e
minimizzando gli sforzi.
Il coordinamento del Germany Trade and Invest, l’ente unico
tedesco che agisce in stretta sinergia con l’amministrazione pubblica e le
34
Cfr. Rapporto Ice 2010-2011, p.332.
26
organizzazioni private nell’attuazione di interventi promozionali e di
supporto alle imprese, è stato realizzato tramite l’informatizzazione di
alcuni processi, consentendo ad ogni impresa l’accesso a servizi informativi
e di assistenza per la penetrazione commerciale e le attività di
investimento; la digitalizzazione dei servizi e l’unicità del riferimento ha
permesso una più rapida ed economica gestione delle risorse disponibili ed
ha assicurato alle imprese una risposta diretta ai propri bisogni.35
La creazione di una piattaforma informatica sotto un’egida comune e
il concetto di interfaccia unica sono stati pensati e caldeggiati dalla
Commissione Europea al fine di creare un ambiente semplice e snello per
favorire il commercio. L’Italia ha recepito la direttiva europea e ha posto,
tramite il Ministero dello Sviluppo Economico, le fondamenta per la
digitalizzazione delle pratiche necessarie ai fini
dell’internazionalizzazione.36
La centralizzazione delle linee guida non deve comunque
soppiantare le preziose attività che nascono a livello locale: al pari della
valenza del distretto industriale, il terriorio circostante l’impresa può
rappresentare per questa il piatto d’argento su cui viene proposta l’offerta
produttiva. Specialmente per il Made in Italy, un’immagine unitaria e ben
definita del territorio conferisce al prodotto manifatturiero unicità e
inimitabilità, rendendolo il risultato del cammino storico-culturale di una
specifica popolazione e rispondendo in maniera efficace a quelle che sono
le istanze del glocalismo.
Scelte più ampie di natura politica, fattori economico-strutturali e
innumerevoli altre cause riconducibili all’inefficienza burocratica
concorrono alla formazione di un habitat non congeniale alle dinamiche
d’impresa. Si possono cogliere alcuni di questi fattori da una rassegna dei
cento divari strutturali fra l’Italia e la media europea ripresa da
35
Ibidem
36
Ivi, p.333.
27
Confartigianato e basata su dati provenienti da numerose fonti ufficiali:37
fra i più significativi, è da segnalare il fatto che l’Italia presenta divari
negativi per quanto riguarda la natalità, la spesa sociale al netto di
pensioni e sanità, la dotazione di infrastrutture, l’uso di rigassificatori e
termovalorizzatori, il trasporto di merci su ferrovia, gli investimenti di
venture capital, l’utilizzo dell’e-commerce, l’uso di internet da parte della
popolazione e l’accesso delle imprese alla banda larga. Sempre dallo
stesso rapporto, spiccano in negativo le giornate perse in scioperi, i prezzi
dell’energia elettrica pagata dalle imprese, la percentuale dei giovani tra i
18 e i 24 anni con la sola licenza media, il tasso di disoccupazione
giovanile, la bassa attrattività delle università italiane, la quota
relativamente contenuta di laureati in materie scientifiche e tecniche e il
basso tasso occupazionale delle donne.
Come già accennato in precedenza inoltre, non si può ricondurre alle
sole costituenti pubbliche/istituzionali il mancato funzionamento a regime
del Sistema. “Dal punto di vista culturale non è difficile notare in Italia la
mancanza di una vera identità nazionale. Il nostro orgoglio, che è sempre
individuale e mai collettivo, non consente la formazione di un senso di
appartenenza e rende poco chiaro agli occhi del mondo il nostro
posizionamento sullo scenario internazionale” (Pratesi 2001:15). Dal punto
di vista sociale e morale l’analisi di vizi e virtù della società italiana
apparirebbe soltanto superficiale se ridotta ad una breve elencazione. È
importante semmai considerare che la reputazione politica, in termini di
credibilità, continuità e coerenza, dovrebbe essere l’amalgama che lega
autorevolmente ogni iniziativa del Paese, di qualsiasi natura essa sia.
L’intervento 38
dell’allora Viceministro Catia Polidori (delega al
Commercio estero del Ministero dello Sviluppo Economico) agli Stati
Generali del Commercio Estero del 28 ottobre 2011 fa da corollario a
quanto fin’ora detto. Dopo aver definito il Made in Italy “marchio di qualità
37
Cfr. 2° Rapporto dell’Osservatorio Nazionale dei Distretti industriali, p.168.
38
www.sviluppoeconomico.gov.it
28
dell’Italia nel mondo” e dopo averne lodato la performance esportativa nel
2010 e l’exploit all’expo di Shangai, l’Onorevole ha tracciato il bilancio della
governance recente del commercio internazionale e ha individuato nella
sinergia Stato-Regioni (divenute nel 2000 co-titolari delle politiche di
export) una formula non sempre funzionante: “dobbiamo pensare assieme
al riassetto del comparto commercio estero per evitare sovrapposizioni di
programmi, eventi e presenze, che dilapidano la credibilità dell’Italia nel
mondo e le risorse dei cittadini”. Il Viceministro ha poi chiarito qual è il
ruolo della politica, “chiamata a predisporre un contesto migliore per
consentire alle imprese di svolgere proficuamente la propria attività e ai
flussi commerciali di svilupparsi e prosperare con il minimo possibile di
intralci” e ne ha precisato gli impegni principali: nell’ambito del negoziato
sui dazi e le barriere tariffarie dell’OMC, riuscire a ridurre i picchi tariffari
per le esportazioni nei mercati emergenti che, pure al netto delle barriere
non tariffarie, rendono “sostanzialmente inaccessibili” certi mercati
specialmente per le PMI; a livello europeo, sempre nell’ambito dei
negoziati OMC, rinnovare l’attenzione alla tutela dell’origine, ideazione,
inventiva e creatività dei prodotti; contrastare tutte le forme sleali di
dumping.
29
2. Lo sviluppo dell’economia cinese: opportunità per
il Made in Italy
2.1 Dall’apertura al libero mercato al secondo posto nell’economia mondiale
È del tutto normale concepire il fatto che il quarto paese del mondo
in termini di grandezza territoriale, nonché primo per popolazione con più
di un miliardo e trecento milioni di cittadini, si posizioni al secondo posto
nella classifica delle migliori economie mondiali in termini di Pil. Quando
però il paese in questione è la Cina, il successo economico desta
nell’opinione pubblica occidentale un po’ di stupore. Forse perché questo
Paese è stato assente, fino al recente passato, dallo scenario economico
contemporaneo a causa di scelte politiche che ne precludevano l’entrata;
forse invece a causa di un retaggio culturale della società occidentale che
reputa ancora un’inconsuetudine primeggiare con un antagonista asiatico.
È, culturalmente, importante sapere che la Cina ha detenuto nei
secoli (specialmente fra il XVI e il XVIII) una posizione di dominio dal
punto di vista scientifico-tecnologico ed economico e ha saputo sviluppare
modelli istituzionali oggetto di studio e ammirazione da parte di tanti
intellettuali europei.39
In quel periodo, l’Europa non era in grado di offrire
prodotti da scambiare con i raffinati beni di consumo cinesi (fra tutti, seta,
porcellane e gioielli venivano scambiati con ingenti quantità di oro e
argento) e la bilancia commerciale vedeva una forte sperequazione a
favore del Paese asiatico. Oltretutto, la Cina, rifiutando qualsiasi trattato
commerciale che prevedesse condizioni meno penalizzanti per le potenze
occidentali e respingendo ogni tentativo di ingresso straniero di natura
economica-politica nel proprio territorio, si è caratterizzata per essere
stato storicamente un paese chiuso e diffidente. Solo tramite il ricorso a
strumenti militari e politici gli europei riuscirono a trasmettere ed instillare
modelli di comportamento e di consumo occidentali e a garantire il ‘libero’
commercio (a loro condizioni favorevoli) e la rappresentanza diplomatica
39
Cfr. Storia dell’Asia Orientale, Enrica Collotti Pischel, Carocci, 1994.
30
in Cina.40
Ancora oggi, pertanto, senza voler forzare un anacronistico
parallelismo, oltre alle consuete incombenze e problematiche che chi vuol
far business in un paese estero deve affrontare, occorre tener presente
che, in Cina, l’operatore economico straniero e i suoi prodotti trovano
successo solo se in grado di interpretare anche aspetti sociali e culturali
del tutto caratteristici. Dopotutto, l’imprenditoria privata cinese è
giovanissima e i rapporti instaurati con i partner stranieri sono altrettanto
recenti.
La prima apertura volontaria cinese verso l’estero si verifica nel 1978,
nell’ambito di un progetto economico-politico che, insieme alla graduale
valorizzazione dell’iniziativa privata, rappresenta la svolta modernizzatrice
per la Cina. Due anni dopo la morte di Mao Zedong, avvenuta nel 1976, si
svolge una lotta interna al Partito per il controllo del potere, risoltasi con la
vittoria di Deng Xiaoping, un politico riformista già dirigente nel Partito
comunista cinese guidato da Mao. Precedentemente, il trentennio iniziato
con la proclamazione della Repubblica Popolare cinese si distinse, dal
punto di vista economico, per l’assoluta chiusura nei confronti di ogni
influenza straniera e per un modello di sviluppo fondato sulla
pianificazione centralizzata di stampo sovietico.
Con l’avvento di Deng Xiaoping, il Comitato centrale del PCC non
solo dà avvio alla ‘demaoizzazione’ dell’economia, ma ribalta anche le
priorità politiche che per anni erano state ispirate soprattutto da ideologie
leniniste: “la modernizzazione socialista rimpiazza la lotta di classe come
parola d’ordine” (Valdani-Bertoli 2007:14). In realtà si parla di “quattro
modernizzazioni”,41
cioè dell’intervento riformatore su agricoltura, industria,
difesa e scienza. L’adozione di un sistema semi-privato di gestione della
terra si estende in pochi anni ai settori industriali urbani e si crea di fatto
un sistema di gestione economica misto che prevede la liberalizzazione dei
40
Il riferimento principale è alle Guerre dell’Oppio, 1839, 1858.
41
Cfr. Globalizzazione dei mercati e sviluppo dell’economia cinese. Giuseppe Bertoli, Impresa
Progetto, 2008.
31
prezzi, l’ampliamento dell’autonomia decisionale delle imprese pubbliche e
collettive e il decentramento del commercio con l’estero (Bertoli 2008:9).
La seconda metà degli anni Ottanta consacra, non senza dolore, la natura
di questo processo di riforma: i tassi di crescita si assestano ogni anno al
di sopra dell’11% ma il carattere autoritario del Partito unico si manifesta
in tutta la sua crudezza nel maggio del 1989 con la repressione in piazza
Tian’anmen della massa popolare manifestante, esasperata dall’alta
inflazione, da speculazione, corruzione e traffici illeciti. L’intero progetto
sembra vacillare, ma a quel punto le trasformazioni sembrano irreversibili:
“il mondo rurale e le autorità locali (specie quelle delle regioni costiere che
hanno acquisito un’importante libertà di manovra economica e finanziaria)
oppongono una forte resistenza al tentativo di ritornare allo status quo
ante” (Bertoli 2008:9) e, in maniera collaterale, il crollo dell’Unione
Sovietica convince l’ala moderata della classe dirigente che l’unica strada
percorribile in Cina è quella dello sviluppo economico e del miglioramento
delle condizioni di vita della popolazione.
Ancora oggi, gli elevati tassi di crescita economica sono usati come
‘merce di scambio’ dal governo cinese: “un rallentamento della crescita o
un’incapacità del governo di diffonderne i benefici a un numero sempre
maggiore di cittadini potrebbe innescare fenomeni di protesta, che
metterebbero in gravi difficoltà la leadership cinese stessa”.42
La garanzia
di prosperità per i cittadini è così scambiata con la rinuncia a mettere in
discussione l’autoritarismo politico e la limitazione dei diritti umani.
Un’altra tappa fondamentale è il convincimento, maturato nei primi
anni Novanta, che il socialismo non è in contraddizione con il libero
mercato, poiché, secondo la Dirigenza governativa cinese, anche nel
capitalismo sussistono forme di pianificazione economica. La formula del
‘socialismo di libero mercato’ (entrata nella Carta costituzionale del 1993)43
prevede il controllo statale sui soli settori strategici dell’economia, fatto
42
L’economia della Cina. Dalla pianificazione al mercato. Amighini-Chiarlone, Carocci, 2007,
p.16. Citato in Valdani-Bertoli 2007:15.
43
Bertoli 2008:10.
32
non estraneo a quanto succede in maniera più o meno marcata in ogni
paese avanzato. Piuttosto, il controllo statale si esplica tramite pratiche
burocratiche cavillose e limitanti (se ne darà conto parlando
dell’accessibilità del Paese).
La valorizzazione dell’iniziativa privata e l’apertura verso l’estero
definiscono il modello di sviluppo della Cina, incentrato appunto
sull’attrazione di investimenti diretti esteri e su una massiccia attività
esportativa. 44
Queste strategie rimangono comunque disciplinate
implicitamente da provvedimenti legislativi funzionali alla massimizzazione
dei propri vantaggi comparati (potendo sfruttare a costi bassissimi
manodopera in attività labour-intensive, la Cina è considerata ‘la fabbrica
del mondo’):45
gli IDE vengono attirati e canalizzati verso particolari aree
geografiche e settori di attività, così come le importazioni destinate alla
trasformazione o assemblaggio vengono esentate dai diritti doganali
(Bertoli 2008:11). Il livello protezionistico cala sensibilmente nel 2001,
quando la Cina entra a far parte dell’Organizzazione mondiale del
commercio; la riduzione dei dazi imposti dall’Organizzazione, insieme
all’accresciuto potere di acquisto della popolazione cinese e alla sua
crescente domanda di beni di consumo esteri, rende oggi il mercato cinese
altamente attrattivo anche per le imprese italiane.
La modifica propedeutica di alcune leggi all’adesione all’OMC
garantisce dal 2001 alle imprese straniere operanti in loco una maggiore
autonomia nel sourcing di materie prime e di non esser più soggette alle
restrizioni sulle vendite nel mercato interno cinese. Secondo la nuova
legge sul commercio estero, in vigore dal luglio 2004, tutte le tipologie di
imprese, comprese quelle private, possono registrarsi secondo il diritto
44
La Cina ha tuttavia da tempo avviato un ripensamento strategico sul proprio modello di sviluppo.
I gruppi dirigenti hanno compreso l’urgente necessità di investire nell’economia della conoscenza
e, quindi, nelle tecnologie ad alto contenuto di innovazione e nelle attività creative.
45
Nel 2010 la Cina, oltre ad aver raggiunto il secondo posto nell’economia mondiale, è anche
diventata il primo paese per produzione manifatturiera: produce il 19,8% della quota globale.
Ricerca Global Insight citata in www.bric.ubibanca.com
33
commerciale.46
Anche i residenti cinesi possono effettuare scambi con
l’estero, anche se poi, ai fini della commercializzazione, è decisivo
distinguere fra diritto di importare e diritto di distribuire, che implica
un’autorizzazione e delle condizioni specifiche.
Tavola 2
1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007
Quota di mercato cinese sulle esportazioni mondiali (composizioni percentuali)
3,4 3,4 3,9 4,3 5,1 5,8 6,5 7,4 8,1 8,9
Saldi di conto corrente della bilancia dei pagamenti cinese (valori in miliardi di dollari)
31,5 15,7 20,5 17,4 35,4 45,9 68,7 160,8 249,9 360,7
Esportazioni mondiali cinesi (valori in miliardi di dollari)
183,7 194,9 249,2 266,7 325,7 438,3 593,3 762,3 969,2 1219,6
Elaborazione su dati del Rapporto Paese congiunti Ambasciate/Uffici Ice estero 2010
Nella tavola 2 sono riportati dati sintetici recenti che dimostrano
l’inarrestabile crescita economica-commerciale cinese. Fa ancora più
effetto considerare che nel 1980 la quota cinese sulle esportazioni
mondiali era pari allo 0,9% del totale. Al 2007 invece, la quota indicata in
tabella è la seconda più alta nel mondo dopo quella tedesca (9,7%) e
prima di quella statunitense (8,5%). La differenza fra le esportazioni e il
saldo positivo della bilancia dei pagamenti inoltre, dà come risultato le
importazioni, anch’esse costantemente in aumento.
Il prodotto interno lordo a prezzi correnti nel 2010 ammonta47
a
5.878 miliardi di dollari, il secondo valore mondiale dopo quello degli Stati
Uniti d’America. Il Pil pro capite è ovviamente ancora molto basso (4.382
dollari pro capite nel 2010) anche se come si vedrà la distribuzione della
ricchezza è tutt’altro che uniforme. La crescita di questi indicatori è stata
in ogni caso esponenziale: soltanto nel 2001, anno dell’entrata nell’OMC,
Pil e Pil pro capite ammontavano rispettivamente a 1324 miliardi e 1038
46
Rapporti Paese congiunti Ambasciate/Uffici Ice estero 2010, p.12.
47
Dati: Fondo Monetario Internazionale.
34
dollari.48
La letteratura sullo sviluppo economico cinese è vastissima, così
come lo è la quantità di dati in merito. Quel che è più significativo ai fini di
questa tesi è ciò che potenzialmente può favorire l’internazionalizzazione
commerciale delle imprese italiane; pertanto, col prossimo paragrafo si
intende ricercare fra i dati a disposizione le opportunità per il Made in Italy
in questo grande mercato. Anche la natura delle importazioni della Cina è
infatti variata negli ultimi anni: con un aumento del reddito pro capite e il
conseguente aumento dei consumi è aumentata anche la domanda e
l’importazione di beni finiti. L’Italia ha beneficiato di questa apertura al
commercio internazionale per la quale la Cina, in quest’ultima fase, si pone
non solo come paese trasformatore ma anche come consumatore.
La politica di aumento dei consumi è uno dei punti rilevanti del 12°
piano quinquennale approvato il 14 marzo 2011 dal Comitato centrale del
Partito comunista cinese: “le linee guida del nuovo piano quinquennale
promettono ulteriori manovre atte a stimolare il consumo interno, per
rendere possibile l’auspicata trasformazione della Cina da fabbrica del
mondo a polo di consumo, e poter così dipendere di meno dalle
esportazioni verso i paesi dell’Ovest”.49
2.2 Il mercato cinese
Una premessa introduttiva è doverosa: con questo paragrafo non si
vuole compiere un’analisi completa dell’attrattività commerciale della Cina.
In mancanza di un prodotto/settore specifico a cui riferire l’analisi, sarebbe
errato fare una stima indistinta del mercato potenziale50
per tutti i prodotti
italiani. Lo scopo è tracciare un quadro d’insieme delle variabili che
48
Fondo monetario internazionale. www.imf.org
49
Bollettino economico Repubblica Popolare Cinese – secondo semestre 2010. Camera di
Commercio Italiana in Cina, 2011.
50
“Il mercato potenziale può essere inteso come la massima capacità del paese di assorbire, in un
definito ambito spazio-temporale, il prodotto considerato e quindi come espressione del suo grado
di attrattività”. (Valdani-Bertoli 2007:116).
35
comunque concorrono a rendere il mercato cinese appetibile per le
imprese del Made in Italy. Vengono considerate alcune variabili
demografiche-economiche, il comportamento d’acquisto del consumatore
cinese e le normative che regolano gli scambi commerciali. Quest’ultimo
aspetto è quantomai rilevante nel determinare il successo o il fallimento di
un seppur eccellente piano di marketing: “la diffusione del Made in Italy in
Cina è legata a fattori che spesso esulano dal prezzo di vendita ed
attengono invece alle restrizioni del mercato. Far arrivare un abito di griffe
in una vetrina di Pechino è più difficile che venderlo”.51
2.2.1 Variabili socio-demografiche ed economiche
La crescita economica cinese ha ovviamente innalzato il potere
d’acquisto della popolazione, ma, come detto, il pil pro capite ancora
basso è solo uno dei tanti elementi che impongono cautela di fronte ad un
numero di abitanti così elevato. Non si può di certo pensare che il miliardo
e 330 milioni di persone che popolano questo paese siano tutti potenziali
consumatori di prodotti Made in Italy, tutt’altro. Innanzitutto, di questi,
coloro che vivono in condizioni di povertà (cioè con meno di un dollaro al
giorno) sono 173 milioni;52
inoltre, 721,35 milioni di abitanti, circa il 54,3%
del totale, vive nelle campagne53
ed è ancora avulso dai bisogni tipici
dell’economia della vita borghese. La distribuzione della popolazione sul
territorio, altro fattore che si correla con la differenza di reddito, è
irregolare: il 56,5% della popolazione vive nella Cina Orientale e
Meridionale, che corrispondono insieme al 18,8% del territorio. 54
Una
qualsiasi analisi non può dunque trascurare la disomogeneità dei
consumatori cinesi; oltre alle disparità geografiche e di reddito, anche in
quella fascia che può acquistare a prezzi tipicamente occidentali occorre
51
La Cina per le aziende italiane: minacce ed opportunità, Romeo Orlandi, in Mondo Cinese n.118,
2004.
52
Bertoli 2008:17.
53
Profilo economico della Cina, Ice Shanghai, 2010, p.7.
54
Ibidem
36
soppesare le incognite legate ad un mercato culturalmente diverso e che
si sta interfacciando per la prima volta al consumismo.
Attualmente il riferimento per le imprese italiane deve essere la
classe benestante cinese, stimata nel 2010 in circa 95 milioni di individui55
(per classe benestante si intende l’insieme di persone con un Pil pro capite
di almeno 30.000 dollari a parità di potere d’acquisto e prezzi del 2005).
Questo numero ammonta per ora al 7,1% dell’intera popolazione ed è
superiore al numero di abitanti residenti in Germania (81 milioni di
individui con un Pil pro capite di 32.138 dollari nel 2010).56
Secondo altre
stime,57
i nuovi benestanti con redditi superiori a 50.000 euro annui sono
circa due milioni, di cui soltanto 300.000 sono i veri nuovi ricchi, ovvero
coloro che possiedono ingenti capitali finanziari e redditi davvero elevati.
In ogni caso, ciò che rende la Cina un inestimabile mercato di sbocco è la
previsione secondo la quale la classe benestante raddoppierà ogni cinque
anni nella decade 2010-2020.58
Nel 2015 i cinesi abbienti ammonteranno
dunque a 201 milioni, per poi raggiungere nel 2020 una cifra paragonabile
a quella di tutta la popolazione dell’Europa Occidentale (421 milioni di
abitanti con Pil medio pro capite di 36.088 dollari).
Già oggi, al raggiungimento di un certo livello di reddito, la ‘voglia di
benessere’ abbassa la propensione al risparmio e fa scattare la domanda
di beni associati a modelli di consumo più sofisticati. Nel 2010 il consumo
55
È stata accettata questa stima di Manuela Marianera (Marianera 2011) benché nella letteratura a
riguardo ce ne siano di discordanti. Ad esempio, Bertoli (in Bertoli 2008) cita una ricerca di Ivana
Casaburi (China as a Market: what is the real market for international brands?, 2008) in cui viene
profilato un segmento definito ‘classe media’, composto da 300 milioni di persone con un reddito
fra i 3.600 e 7.000 euro annui. A questo segmento viene attribuita “un’alta propensione alla spesa
finalizzata alla ricerca di riconoscimento sociale”. Il segmento più alto in termini di reddito (7.200-
18.000 euro) sarebbe composto soltanto da 10 milioni di persone. Relativa concordanza c’è con
Bicchielli (Bicchielli 2010) solo nella stima del microsegmento dei super ricchi: Casaburi indica
dalle 320 mila alle 500 mila persone con reddito sopra i 60.000 euro annui; Bicchielli ne individua
2 milioni con reddito sopra i 50.000 euro annui.
Questa incongruenza di dati testimonia la limitatezza delle informazioni disponibili e la difficoltà
di condurre analisi di mercato in Cina. In questo caso la stima proposta da Marianera è parsa più
selettiva e affidabile, considerando anche che i dati reddituali trascritti da Bertoli (in euro) non si
sa se siano a parità di potere di acquisto o meno.
56
Ibidem
57
Cfr. Bicchielli 2010:108.
58
Marianera 2011:2.
37
privato sul Pil della Cina è stimato a quasi il 36% (calcolato su valori
nominali), pesando a PPA per l’8,7% su quello mondiale. Se le politiche di
stimolo dei consumi avranno successo, l’incidenza sul Pil potrebbe
raggiungere il 45% nel 2015 e il 50% nel 2020.59
Per le imprese diventa anche essenziale localizzare questa classe
benestante, essendo la Cina un paese vasto 9,6 milioni di kmq, più del
doppio dell’UE. La suddivisione amministrativa attuale prevede 22 province,
5 regioni autonome, 4 municipalità e 2 regioni amministrative speciali,
ognuna delle quali si rapporta diversamente con il governo centrale. Da
ogni ricerca in merito, appare evidente che il reddito e il consumo della
popolazione sono più alti nelle aree urbane e aumentano in relazione al
posizionamento geografico e alla dimensione delle città.
Secondo la suddivisione utilizzata anche dal Governo cinese per
predisporre i piani di sviluppo, si individuano 3 macro-aree economiche:
l’Ovest, che copre il 71% del territorio nazionale e conta il 28% della
popolazione; il Centro, che occupa il 18% del territorio e ospita il 32%
della popolazione; l’Est, che comprende soltanto l’11% del territorio ma
accoglie il 40% della popolazione e genera il 58% del Pil e il 60% dei
consumi dell’intera Cina.60
L’Est è costituito dalle province che si affacciano
sul mare: la presenza di infrastrutture, una più solida base produttiva e le
migliori condizioni territoriali sono alla base della maggiore prosperità
dell’area costiera, in cui si stima viva il 73% dei cinesi benestanti.61
Una ricerca di Normandy Madden62
citata da Bertoli (Bertoli 2008:22)
suggerisce la seguente macrosegmentazione geografica dei consumatori
cinesi: consumatori residenti nelle città di medie dimensioni delle regioni
interne; consumatori residenti nelle grandi città delle regioni interne e
costiere; consumatori residenti nelle città di maggiori dimensioni. Nel
primo segmento, il reddito pro capite e la conoscenza dei mercati esteri
59
Ivi, p.3.
60
Marianera 2011:5.
61
Ibidem
62
Tier tale: how marketers classify cities in China, 2007.
38
sono limitati; questi consumatori non evidenziano propensione all’acquisto
di prodotti importati e in ogni caso non considerano la componente ‘moda’
di un bene, per cui i prodotti possono eventualmente riscuotere successo
alla fine del loro ciclo di vita. I consumatori del secondo segmento
dispongono di un reddito più alto ma, anche in questo caso, la funzionalità
del bene continua ad essere l’attributo chiave nei loro acquisti. Nel terzo
segmento si trovano consumatori che dispongono di un reddito pro capite
elevato e vivono nelle aree maggiormente interessate dallo sviluppo
economico; in questo caso, c’è maggior familiarità e ricezione verso i
prodotti importati e la ricerca di comfort, qualità e design portano questi
potenziali acquirenti a corrispondere un premium price per ottenere
quanto desiderato.
Fra le città più ricche si distinguono Shanghai, Pechino, Guangzhou e
Shenzhen, mentre le province con la classe benestante più vasta sono:
Guangdong, Jiangsu, Shandong, Shanghai e Pechino.
Altre caratteristiche socio-demografiche dei consumatori cinesi sono
interessanti ai fini della commercializzazione dei prodotti Made in Italy.
L’età media in Cina è 34,1 anni, nettamente inferiore a quella dei paesi
occidentali più giovani; nel 2009 c’erano 460 milioni di persone di età
compresa tra i 20 e i 44 anni, la fascia di età che spende di più (Marianera
2011:12) ed è più scolarizzata. I giovani in particolare mostrano interesse
verso le nuove tecnologie, i modelli di comportamento e consumo
occidentali e sono avvezzi all’uso di internet. Il numero di internauti
nell’intera Cina ha raggiunto i 420 milioni nel giugno 2010 e l’e-commerce
sta crescendo più che in qualunque altra parte del mondo: da gennaio a
giugno 2010 il numero di persone che ha utilizzato la rete per fare
shopping ha raggiunto i 142 milioni (Marianera 2011:11).
Determinante è anche l’ascesa delle donne nella società cinese:63
oltre a costituire un target a sé stante portatore di relativi bisogni,
63
Nelle università cinesi sono iscritte 104 studentesse ogni 100 studenti maschi; ogni 100 tecnici
52 sono donne e in Parlamento il rapporto è 21/100. Il reddito medio delle donne è stimato essere
il 68% di quello maschile, ancora basso ma in costante aumento (Marianera 2011:13).
39
l’impatto di un tale fenomeno contribuirà al cambiamento delle priorità di
spesa anche all’interno del loro nucleo familiare e relazionale.
2.2.2 Comportamento d’acquisto del consumatore cinese
Precedentemente si è accennato in nota alla difficoltà di quantificare
e definire macro e micro segmenti di consumatori in un mercato così
grande e variegato. La stessa difficoltà si riscontra nell’attribuire ad
ognuno di questi segmenti un appropriato atteggiamento di consumo.
Grazie alla corrispondenza fra alcune ricerche e le impressioni personali di
chi in Cina soggiorna e lavora, si è in grado quantomeno di delineare qual
è l’approccio del ceto medio-alto cinese verso i brand internazionali.
Un primo documentato fenomeno 64
dovrebbe essere il punto di
partenza per ogni considerazione successiva: contrariamente ad una
percezione largamente diffusa in Occidente, i consumatori cinesi (anche se
abbienti) preferiscono l’acquisto di prodotti nazionali qualora non
dovessero riscontrare in quelli esteri delle particolari qualità esclusive. Non
è un caso infatti che il riposizionamento competitivo del Made in Italy
venga proprio incontro all’esigenza di accrescere la qualità materiale ed
intangibile dei prodotti. C’è però da dire che, almeno in assenza di
informazioni e nell’impossibilità di paragonare direttamente l’offerta, i
prodotti stranieri godono fra i consumatori cinesi di maggior reputazione
rispetto agli omologhi nazionali.
Prendendo come riferimento l’indagine ‘Check-in Cina’, condotta
dalle società di ricerca GPF e ABG,65
si sostiene che i cinesi reputano i
prodotti stranieri migliori e desiderabili perché attribuiscono loro il primato
della qualità e dello stile. Il prodotto straniero è concepito come un
simulacro moderno da integrare nella propria tradizione culturale, a cui i
cinesi si sentono molto legati. In questo senso, il prodotto consente di
64
Cfr. Orlandi 2004; Cfr. Symbolic value of foreign products in the People’s Republic of China,
Lianzi-Hui, Journal of International Marketing, 2003.
65
Non è stato possibile consultare la fonte primaria; un rapporto dettagliato è presente nella
sezione ‘analisi e ricerche’ del sito www.agichina24.it
40
emulare un modello comportamentale occidentale e il consumatore cinese
che ostenta brand internazionali ottiene riconoscimento e prestigio sociale.
“I cinesi si sentono in cammino verso la modernità che in molti campi è
oggi rappresentata da alcune categorie di prodotti occidentali, ma al
tempo stesso sono orgogliosi della loro tradizione culturale”.66
Il consumatore cinese non è dunque alla ricerca dell’identificazione
valoriale col brand, si serve di esso solo in modo strumentale, sfruttando il
riferimento all’elevato standard di vita che caratterizza il mondo dal quale
il marchio proviene. Da questo punto di vista, oggi tanti prodotti Made in
Italy (in particolare quelli del settore moda) sono innanzitutto dei totem,
miti materiali da possedere e sfoggiare.
Altri beni considerati attualmente indispensabili dalle famiglie
benestanti vanno dalla casa (vero e proprio status symbol ambìto dal ceto
medio) ai prodotti d’arredo che la completano; dalla telefonia,
elettrodomestici, elettronica, mezzi di trasporto fino anche a sconfinare in
modelli consumistici di natura ricreativa come l’happy hour. Il carattere di
questi nuovi consumatori si può definire aspirazionale, cioè di sostanziale
aspirazione allo status (Pietrasanta 2009:121) e l’approccio verso i
consumi è ancora dettato dal possesso materiale, diversamente da quanto
accade ormai in mercati più maturi in cui l’acquisto deve garantire anche
una maggiore qualità della vita.
Queste indicazioni sono fondamentali per le imprese italiane ai fini di
una pianificazione promozionale efficace: una comunicazione referenziale
del prodotto non sarà sufficiente a conquistare un consumatore desideroso
di possedere un ‘simbolo’; ad essa andrà affiancato un immaginario, e
soprattutto un’esperienza, che assecondino le dimensioni del sogno e del
desiderio del fruitore. Ad esemplificare bene il concetto di ‘esperienza’
legata al prodotto è un piccolo esperimento tratto nuovamente dalla
ricerca ‘Check-in Cina’. Sono state scelte tre produzioni tipiche alle quali gli
italiani conferiscono una sorta di esclusiva e alle quali è riconosciuto un
66
Le opportunità per i prodotti italiani in Cina, www.agichina24.it
41
primato di gusto e qualità: la pizza, il caffè, il gelato. È stato poi chiesto ai
cinesi intervistati di pensare a delle associazioni mentali riferite a questi
prodotti. Si poteva supporre che le associazioni riguardassero Napoli, il
Colosseo o per esempio piazza San Marco. Niente di tutto questo. Secondo
i risultati della ricerca, i tre prodotti sono stati associati rispettivamente a
Pizza Hut, Starbucks e Haagen-Dazs.67
Non si consuma solo un prodotto: oggi più che mai in Cina, il
marchio offre al consumatore un’esperienza e lo rende partecipe di uno
stile di vita. Nel caso di prodotti del settore agro-alimentare comunque, la
domanda cinese si è mostrata sensibile anche ad aspetti concreti quali la
genuinità e i contenuti nutrizionali, determinando la richiesta di prodotti
alimentari premium.68
2.2.3 Aspetti normativi e legislativi
L’apertura commerciale della Cina ha ricevuto una sorta di
ufficializzazione con l’ingresso nell’OMC; tuttavia, fenomeni corruttivi e
clientelari ricorrenti, un sistema legislativo ambiguo e la ridotta
trasparenza di alcune pratiche burocratiche costituiscono ostacoli al libero
commercio per le imprese estere. Per di più, i governi locali spesso non
hanno le risorse e la volontà politica di recepire gli atti legislativi che a
livello centrale entrano in vigore per disciplinare l’ambiente economico in
costante evoluzione; quando poi gli atti vengono ratificati, il governo
cinese pubblica degli ‘avvisi di pubblica informazione’ che molto spesso
non vengono nemmeno tradotti in inglese.69
Nella ‘panoramica di rischio paese’ redatta dalla Fondazione Italia
Cina nel 2010 si continua a dare per “certa” l’attività protezionistica cinese
nei confronti della propria industria nazionale, cosicché le difficoltà di
67
Sono tutte e tre famose multinazionali americane che hanno commercializzato i loro prodotti
(pizze, caffetteria, gelati e dolci) in pressoché tutti i paesi sviluppati del mondo. Ovviamente in
Italia non hanno mercato.
68
Rapporti Paese congiunti Ambasciate/Uffici Ice estero, 2010.
69
Cfr. Rapporti Paese congiunti Ambasciate/Uffici Ice estero, 2010. p.32.
42
accesso al mercato in numerosi settori rimarrà inalterata. Il filtro
protezionistico si basa prevalentamente su barriere non tariffarie, in
particolare relative agli standard. La Cina, non adottando spesso standard
internazionali, invalida il principio di parità di trattamento (che dovrebbe
costituire uno dei cardini della partecipazione all’OMC) e richiede requisiti
(di sicurezza, fitosanitari, di qualità ecc.) più alti alle aziende straniere. Fra
i tanti, si segnalano il ‘sistema di certificazione obbligatoria’ (China
Compulsory Certification System) che non appare del tutto conforme con
alcuni princìpi posti dal WTO technical Barriers to Trade Agreement (per
esempio pone ostacoli al settore auto causando costi addizionali di
omologazione) e la regolamentazione in materia di etichettatura per i
prodotti alimentari preconfezionati (General Standard of Labelling) che
implica restrizioni eccessive rispetto agli obiettivi perseguiti.70
L’Italia è
colpita da queste forme di protezionismo del mercato sia nei settori
industriali (parti per auto, apparecchiature domestiche di cottura a gas) sia
nel comparto agroindustriale, dove la Cina impone appunto una serie di
misure sanitarie smisurate e frappone ostacoli tecnici (ispezioni continue,
non-adesione agli standard internazionali quali il Codex Alimentarius,
ritardi alle richieste di autorizzazione ecc.) che di fatto frenano l’apertura
di questo segmento produttivo.
Le barriere tariffarie, in conformità con gli adempimenti assunti nel
protocollo di adesione all’OMC, si stanno progressivamente abbassando: la
tariffa media dei dazi è scesa dal 35% ad valorem del 2001 al 9,8% del
2009 (nel 2008 si registra ancora un 15,3% di media sui prodotti agricoli e
8,8% su quelli industriali). 71
In fase di sdoganamento permangono
tuttavia sia un dazio doganale (ad valorem) sia l’imposta sul valore
aggiunto da versare direttamente alle autorità doganali.72
La scelta di commercializzare i prodotti italiani in Cina prevede anche
la possibilità di investire in territorio cinese per, ad esempio, costituire una
70
Ibidem
71
Ibidem
72
Business Atlas 2011, Assocamerestero.
43
società di trading o un semplice ufficio di rappresentanza. La normativa
cinese sugli investimenti stranieri permette infatti di realizzare diversi tipi
di società, denominate dal diritto locale ‘Foreign invested enterprise’ (FIE).
Le principali tipologie di FIE sono due: le ‘Wholly foreign-owned enterprise’
(WFOE), cioè società a totale capitale straniero e le Joint Venture, società
miste che a loro volta si dividono in ‘Equity joint venture’ e ‘Cooperative
joint venture’. La scelta della forma di investimento dal punto di vista della
proprietà consiste dunque nel decidere se investire autonomamente o
insieme ad un partner locale. Quel che più interessa ai fini di questo lavoro
è l’investimento finalizzato allo svolgimento di un’attività commerciale: il
settore della distribuzione e vendita all’ingrosso e al dettaglio è stato
aperto nel 2004 agli investitori stranieri; a questi ultimi è consentito
costituire società commerciali dette FICE (‘Foreign invested commercial
enterprises’), anche se non sempre è consentita la libera scelta73
fra la
forma WFOE o Joint Venture. La normativa in vigore denominata
‘Measures for the Administration of Foreign Investment in the Commercial
Sector’ disciplina le attività di vendita al dettaglio (si intendono anche
vendite attraverso TV, telefono, posta, internet e distributori automatici),
vendita all’ingrosso, distribuzioni sulla base di contratti di agenzie,
franchising e apertura di punti vendita (per le società straniere di trading
già presenti in Cina). Spesso, la condizione restrittiva a cui sono soggetti
questi settori comporta l’obbligo di avere un partner locale con una
percentuale di quote societarie minima ben definita; in ogni caso, la
distribuzione diretta dei propri prodotti, oltre ad incrementare i profitti,
73
In alcuni casi l’investitore estero è obbligato a scegliere la sola forma della Joint Venture, visto
che in alcuni settori è imposta dallo Stato la compartecipazione di un partner locale. Il Catalogue
for the Guidance of Foreign Investment Industries elenca i settori industriali nei quali gli
investimenti stranieri sono incoraggiati, ristretti o proibiti. Nel Catalogo c’è un capitolo relativo
proprio all’Industria del Commercio all’ingrosso e al dettaglio: fra i più significativi, sono ristretti
gli investimenti per la costituzione di società commerciali di vendita diretta e per
corrispondenza/internet di “commodity” (non si capisce bene se ci sono delle merci specifiche
colpite dalla restrizione), il franchising, la distribuzione e vendita di prodotti audiovisivi (film
esclusi), commercio all’ingrosso e distribuzione al dettaglio di beni fra cui zucchero, medicinali,
tabacchi, automobili e beni strumentali per la produzione agricola. In moltissimi casi oltretutto i
cinesi devono detenere la maggioranza delle azioni. Fonte: www.investment.gov.cn
44
permette una maggiore conoscenza del mercato e una posizione solida
che garantisce una presenza stabile e non basata sulla volontà
discrezionale dell’agente o del distributore.
L’ufficio di rappresentanza è una presenza non dotata di personalità
giuridica e non abilitata a svolgere attività commerciali dirette (non può
importare o vendere prodotti); per alcune esigenze specifiche resta
tuttavia una forma di presenza di veloce avviamento e dai costi
relativamente limitati, che può svolgere funzioni di promozione e raccordo.
La ‘Company Law’ (la normativa che disciplina le società di capitali in Cina)
prevede anche la possibilità di costituire una sede secondaria detta
‘branch’ per la società straniera; come l’ufficio di rappresentaza non è
dotata di personalità giuridica, ma al contrario di esso, previo ottenimento
delle licenze necessarie, può svolgere attività commerciali e produttive.
Un importante provvedimento del Governo cinese è stato adottato in
merito alla tutela dei segreti commerciali: nell’ambito del contratto di
franchising, il franchisee sarebbe passibile di risarcimento danni nel caso
in cui comunicasse o consentisse a terzi l’utilizzo di tali segreti
commerciali.74
2.3 L’export italiano in Cina
L’Italia rappresenta al 2010 il quindicesimo partner commerciale
della Cina per volume complessivo degli scambi commerciali. Questa
posizione non manifesta però la natura dell’interscambio e rappresenta
anzi una sorta di media beffarda nei confronti del Paese europeo; l’Italia è
infatti decima nella classifica dei paesi importatori di prodotti cinesi ma è
soltanto ventunesima nella classifica degli esportatori verso la Cina. Nel
2010 l’Italia ha importato merce cinese per un valore pari a circa 31
miliardi di dollari ed ha esportato al contrario per un valore pari a circa 14
74
Fare affari in Cina. Guida alle normative cinesi sugli affari. Ice, 2010.
45
miliardi di dolllari.75
In Europa comunque l’Italia è terza fra i paesi che
esportano in Cina, alle spalle di Germania e Francia; nel 2009, anno del
crollo economico-commerciale mondiale, proprio dall’export è venuto un
dato incoraggiante per il futuro del Made in Italy in Cina: a fronte di una
contrazione media degli scambi globali del 12%, le esportazioni italiane in
questo mercato si sono ridotte in misura molto meno accentuata (-5,4%).
La serie storica di dati relativi all’interscambio (Tavola 3) mostra un
aumento costante a tassi lievemente decrescenti sia delle importazioni sia
delle esportazioni italiane in Cina. Progressivamente crescenti (se si
eccettua il brusco calo del 2009) sono invece i saldi commerciali positivi
per la Cina: solo nei primi sei mesi del 2011 il saldo provvisorio ha
raggiunto i 9 miliardi di dollari, più della metà del dato annuale 2010; le
esportazioni sono oltre il doppio delle importazioni cinesi dall’Italia.
Tavola 3
2006 2007 2008 2009 2010
Interscambio commerciale Cina-Italia (Mln USD)
24.581,05 31.393,91 38.265,78 31.272,82 45.129,53
Importazioni dall’Italia (Mln USD)
8.605,62 10.216,50 11.657,47 11.026,60 13.993,69
Esportazioni verso l’Italia (Mln USD)
15.975,43 21.177,41 26.608,31 20.246,22 31.135,84
Saldo commerciale italiano (Mln USD)
- 7.369,81 - 10.969,91 - 14.950,84 - 9.219,62 -17.142,15
Rielaborazione da Italian Trade Commission – Shanghai Office
La composizione dell’export italiano in Cina è piuttosto polarizzato: a
pochi settori viene ascritta la maggior parte del valore complessivo.
Approssimando, nel 2011 il 50% dell’export italiano in Cina è composto da
macchinari (elettrici e non), il 21% si riferisce ai semilavorati industriali
(tra cui si distinguono le pelli e i prodotti farmaceutici) e l’abbigliamento e
75
Cfr. Bollettino economico Repubblica Popolare Cinese 2010, Camera di Commercio Italiana in
Cina e Dati Ice.
La quota italiana rappresenta l’1% del totale delle importazioni cinesi.
46
gli accessori rappresentano il 14% del totale. Più staccati in graduatoria
sono i veicoli e mezzi di trasporto (4%) e due settori tradizionali del Made
in Italy: l’agroalimentare (1,3%) e l’arredamento (1,2%). Il restante 10%
circa riguarda essenzialmente materie prime.76
Tutto sommato, la quota
del settore arredamento è ragionevolmente alta, considerando che
attualmente i prodotti italiani sono destinati solo ad una piccola nicchia di
consumatori e che le abitudini abitative della classe media cinese sono in
divenire. È invece decisamente in ritardo il settore agro-alimentare: come
si dirà nei focus dedicati, dall’Europa perfino la Germania esporta in Cina
più prodotti alimentari dell’Italia.
Al di là delle specifiche strategie aziendali e delle politiche
istituzionali di cui si darà conto nei prossimi capitoli, ai fini dell’export
viene reputata importante dagli operatori economici la presenza diretta
delle imprese sul territorio estero.77
Questo vale tanto più per l’Italia, che
a fronte del sistema distributivo cinese estremamente frammentato,
sconta l’ulteriore debolezza di non disporre di operatori nazionali nella
grande distribuzione. In Cina sono circa 2.000 le imprese stabilitesi
attraverso le più varie modalità. I settori italiani più radicati sono quelli
della meccanica e del tessile ma gli investimenti sono comunque
abbastanza diversificati e la presenza italiana è virtualmente estesa in
tutto il territorio cinese.78
In particolar modo, la delocalizzazione produttiva
non permette soltanto il risparmio sui costi di produzione, ma agevola
anche i tempi di consegna sul mercato locale, la gestione dell’assistenza e
dei servizi post-vendita. Inoltre, “la tangibilità assicura una diversa
percezione del prodotto/servizio straniero da parte della controparte
cinese, conferendogli una credibilità che, spesso, anche un’indiscussa
fama internazionale non è in grado di assicurare”.79
Questa teoria va
76
I dati indicativi sono tratti da alcuni rapporti Ice, ma sono forniti originariamente in dettaglio da
Global Trade Informations Services, via internet al sito www.gtis.com
77
Rapporti Paese congiunti Ambasciate/Uffici Ice estero, 2010, p.21.
78
Ibidem
79
Ibidem
47
apparentemente in conflitto con quella di chi sostiene che produrre in Cina
beni a forte caratterizzazione stilistica e qualitativa potrebbe screditare agli
occhi del consumatore cinese il prodotto stesso: viene pertanto reputata
vantaggiosa, per i beni di consumo, la produzione in Cina destinata alla
locale fascia media, mantenendo in Italia la manifattura destinata alla
fascia alta.
2.3.1 Focus comparti merceologici
Lusso – L’Ice stima in una percentuale del 20/30% annuo il saggio
di crescita atteso per il mercato dei beni di lusso; un Rapporto della
Fondazione Italia Cina lo attesta invece al 10% annuo. Quel che è certo è
che nei prossimi anni, con la crescita esponenziale della classe medio-alta,
la Cina sostituirà il Giappone quale secondo mercato mondiale del lusso e
la domanda verso i già rinomati beni di lusso italiani dovrebbe essere
sempre maggiore. Sono già in aumento le importazioni anche da città di
seconda fascia e anche i marchi ‘minori’ che hanno dedicato attenzione e
risorse per adeguarsi al contesto cinese avranno numerose opportunità.80
A livello settoriale, occasioni rilevanti anche per il calzaturiero, pellettiero,
occhialeria e, a dispetto degli elevati dazi, anche di oreficeria e gioielleria.
Il tessile-abbigliamento può vantare sulla prestigiosa reputazione costruita
negli anni dalle Case di moda storiche, Armani su tutte. Questo è il
settore nel quale il consumatore cinese oltre alla semplice qualità cerca
esclusività: per quanto riguarda l’abbigliamento, la distribuzione sul
mercato è prevalentemente nella forma di negozio monomarca per i brand
di lusso e, per i capi casual, in corner all’interno di centri commerciali delle
grandi città. Vetrine importanti sono anche gli hotel di lusso che spesso
ospitano eventi mondani e sfilate di grandi firme (Pietrasanta 2009:97).
Arredamento – Come già anticipato, le notevoli potenzialità di
questo settore possono contare sul cambiamento delle esigenze abitative
della pololazione cinese, desiderosa di riflettere il proprio status su
80
La Cina nel 2010. Scenari e Prospettive per le imprese, Fondazione Italia Cina, 2010.
48
un’abitazione di qualità. L’Italia si colloca al quarto posto tra i paesi
fornitori della Cina nel settore arredamento e le proprie quote sono in
aumento.
Agro-alimentare – L’urbanizzazione, l’influenza internazionale e
l’aumento del reddito hanno contribuito al cambiamento degli stili di vita
dei cinesi, che si aprono a modelli di consumo alimentare occidentali. La
propensione verso prodotti tracciabili e di marca e la preferenza d’acquisto
presso canali commerciali moderni si è accentuata inoltre notevolmente
dopo lo sdegno provocato dal caso melamina del 2008 che ha sconvolto il
settore lattiero-caseario.81
Il mercato delle categorie di prodotti con forte
caratterizzazione locale è saturo e fortemente presidiato; maggiori
possibilità sono concesse a tipologie di prodotti di ispirazione decisamente
più occidentale, come gli alimenti surgelati, il cioccolato, i cereali a
colazione, i succhi di frutta in bottiglia82
e soprattutto il vino. Anche per
questo settore, l’emersione di nuove città in ambienti sociali diversi
richiede un’offerta di prodotti sostenuta da azioni di marketing ad hoc.
Ovviamente, l’apprezzamento in senso più ampio della cucina del Bel
Paese necessita di un’attività propedeutica di educazione al prodotto
italiano che dovrà essere sostenuta anche e soprattutto a livello nazionale.
A livello di preferenza, l’agroalimentare italiano soffre tuttavia
pesantemente la concorrenza di altri paesi europei, Francia in particolare:
secondo la pubblicazione del MAE ‘Diplomazia economica italiana’ del
giugno 2011, nel settore bevande e alcolici la Francia è nettamente al
primo posto come paese fornitore della Cina, con un volume di export pari
a 277,8 milioni di dollari contro i 21,8 milioni dell’Italia.
Automazione – L’Italia potrà presumibilmente contare ancora per
molti anni su una domanda cinese particolarmente sostenuta di macchine
utensili, meccanica di precisione, componenti e semi-lavorati, logistica
81
In Cina melamina nel latte, gelati e yogurt, venerdì 19 settembre 2008, www.ilsole24.com
82
La Cina nel 2010. Scenari e Prospettive per le imprese, Fondazione Italia Cina, 2010.
49
interna e automazione, meccanica strumentale in genere. 83
L’industria
cinese sta innalzando il valore tecnologico delle sue produzioni ma,
tuttavia, di questo up grade potrà beneficiare anche il settore della
componentistica italiana andando a soddisfare l’indotto del settore cinese
automobilistico (la Cina è il terzo principale produttore di automobili), che
può contare oggi sul mercato domestico più grande del mondo.84
Turismo – Si è deciso di annoverare il turismo in questa lista in
quanto il processo di assimilazione culturale che spesso segue la visita di
un paese può fungere da volano per la diffusione di prodotti italiani in Cina.
Non solo: i tour dello shopping, specie della classe benestante,
contribuiscono alla vendita di prodotti di lusso direttamente in Italia. Il
turismo è una fonte di reddito inestimabile per tutta l’economia italiana; il
Consiglio di Stato cinese incentiva la mobilità turistica e prevede che nel
2015 il flusso di turisti cinesi all’estero raggiungerà 83 milioni di persone,
con un tasso di crescita annuo del 9%.85
Nel 2008 le mete europee hanno
assorbito un flusso turistico del 5%: quasi 200.000 tusisti cinesi durante
quel periodo hanno fatto la loro prima tappa in Italia.86
83
Rapporti Paese congiunti Ambasciate/Uffici Ice estero, 2010, p.20.
84
Ferrari ha conquistato la leadership del mercato del suo settore. L’immagine del Made in Italy in
Cina è promossa anche da Maserati, Brembo e Magneti Marelli per la componentistica, Pininfarina
e Icona tra i designer. Fiat dal settembre 2011 commercializza la nuova 500 e ha promosso il
lancio ufficiale con una brillante azione di marketing, presentando al Salone dell’auto di Shanghai
una Limited edition impreziosita da motivi grafici nati dalla creatività di cinque designer cinesi.
Fiat è inoltre in procinto di lanciare un nuovo autoveicolo, prodotto in collaborazione con
Guangzhou Automotive Company. (Fonte: Diplomazia Economica Italiana, Ministero degli Affari
Esteri, n.9, 2011).
85
La Cina nel 2010. Scenari e Prospettive per le imprese, Fondazione Italia Cina, 2010, p.56.
86
Ibidem
50
3. L’importanza della country image nella proposizione
del Made in Italy
3.1 Country image: un asset vincente per il Made in Italy
Il riposizionamento competitivo del Made in Italy ha risposto ad una
logica di miglioramento qualitativo funzionale ad una maggiore
competitività internazionale. Si è detto che, oltre a far leva sulla
componente tangibile del prodotto, la creazione di maggior valore avviene
anche agendo su un insieme di fattori intangibili (prezzo, mix
promozionale, distribuzione, servizi post-vendita) che favoriscono il
consolidamento di un’immagine positiva da affiancare al prodotto. Il
fattore che influisce in maniera più efficace sulla valorizzazione della
componente intangibile resta tuttavia quello emozionale: in questo senso,
il prodotto si avvale dei valori e del carattere dei quali nel tempo la marca
di riferimento si è appropriata. Oltre al brand però, anche l’immagine del
paese di origine contribuisce alla valorizzazione delle proprietà immateriali
di un bene; per di più, la dimensione nazionale è inclusiva, e in alcuni casi
la politica di marca potrebbe risultare inefficace qualora l’immagine del
paese di appartenenza del brand non ne fosse rappresentativa o in
sintonia. Inoltre, una volta individuate le determinanti che concorrono a
definire la country image, anche decisioni manageriali relative alla
configurazione internazionale delle attività andranno attentamente
analizzate: delocalizzare per esempio la produzione di un bene di lusso in
un paese in cui è riconosciuto un basso profilo qualitativo della
manifattura, sicuramente assicura un vantaggio comparato (quello
derivante dallo sfruttamento del costo della manodopera), ma
probabilmente comporta lo svantaggio competitivo dovuto alla perdita
dell’originaria localizzazione della produzione (si prenderanno in
considerazione le implicazioni per le imprese nel prossimo paragrafo).
In molti casi pertanto, nell’impossibilità di effettuare una scelta
razionale basata sulla comparazione di un numero elevato di variabili, il
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Tesi Enrico Rosi. Percezione e promozione del Made in Italy in Cina

  • 1. Università per Stranieri di Perugia Facoltà di lingua e cultura italiana CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN PROMOZIONE DELL’ITALIA ALL’ESTERO Percezione e promozione del Made in Italy in Cina Laureando Enrico Rosi Relatore Correlatore Prof.ssa Donatella Radicchi Prof.ssa Shelly Chen A.A. 2010-2011
  • 2.
  • 3. 3 Indice INTRODUZIONE...................................................................................5 1. IL MARKETING DEL MADE IN ITALY......................................................9 1.1 Definizione, composizione e competitività del Made in Italy.....................9 1.2 Il paradosso del Made in Italy e la valenza dei distretti industriali...........14 1.3 Immagine, qualità e Sistema Paese..................................................... 21 2. LO SVILUPPO DELL’ECONOMIA CINESE: OPPORTUNITÀ PER IL MADE IN ITALY..................................................................................29 2.1 Dall’apertura al libero mercato al secondo posto nell’economia mondiale............................................................................................29 2.2 Il mercato e il consumatore cinese...................................................... 34 2.3 L’export italiano in Cina.......................................................................44 3. L’IMPORTANZA DELLA COUNTRY IMAGE NELLA PROPOSIZIONE DEL MADE IN ITALY...........................................................................50 3.1 Country image: un asset vincente per il Made in Italy........................... 50 3.2 Il country of origin effect e le implicazioni per le imprese...................... 53 3.3 Lifestyle e valore intangibile in Cina.....................................................67 4. LA PERCEZIONE DEI CONSUMATORI CINESI VERSO IL MADE IN ITALY................................................................................................71 4.1 Percezione del Made in Italy in Cina.....................................................71 4.2 La country reputation italiana in Cina...................................................82 5. LA PROMOZIONE DEL MADE IN ITALY IN CINA....................................86 5.1 Creare relazioni: guanxi e mianzi.........................................................86 5.2 Ruolo e attori delle istituzioni italiane e di altre organizzazioni................89 5.3 Altri canali della promozione del Made in Italy in Cina........................... 94
  • 4. 4 6. SONDAGGIO SULLA PERCEZIONE DEL MADE IN ITALY IN CINA E CONSIDERAZIONI FINALI.................................................................101 6.1 Sondaggio........................................................................................101 6.2 Considerazioni conclusive..................................................................117 APPENDICE – Questionario in lingua cinese........................................120 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI...........................................................122
  • 5. 5 Introduzione L’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio ha sancito l’emersione di questa nuova potenza economica mondiale. Oggi, a distanza di 11 anni, proprio mentre l’Occidente sperimenta una prolungata fase di stagnazione economica, la Cina vede rimanere pressoché inalterati i propri tassi di crescita e continua a guadagnare quote di mercato sulle esportazioni mondiali. La politica cinese di attrazione degli IDE e la forte propensione all’export sono considerate nei paesi economicamente avanzati due cause paradigmatiche della disoccupazione della propria forza lavoro e della perdita di competitività delle proprie aziende. In Italia, più che altrove, il dibattito in merito è acceso: la specializzazione settoriale dei due paesi è infatti molto simile e la concorrenza proveniente dal Paese asiatico alimenta le ragioni di chi considera la Cina una minaccia per le produzioni Made in Italy. Il punto di vista da cui nasce questa tesi è invece speculare al precedente; lo sviluppo economico e la conseguente crescita del reddito della popolazione cinese stanno configurando uno dei mercati potenziali più attrattivi del mondo e le opportunità per le imprese italiane sono altrettanto considerevoli. In questo lavoro, per ‘opportunità’ si vuole intendere esclusivamente l’incremento dell’attività commerciale delle aziende che producono beni di consumo, generalmente realizzata in Italia tramite esportazione. Il tema centrale di questa tesi ruota attorno al concetto di country of origin effect, ovvero l’effetto che l’origine geografica del prodotto esercita nell’alterare la valutazione e il comportamento d’acquisto di un consumatore estero circa il prodotto stesso. Affinché la Cina possa effettivamente rappresentare un’opportunità per le aziende italiane, le produzioni Made in Italy devono necessariamente operare un riposizionamento competitivo che esalti la qualità e la componente intangibile di quanto offerto. Il mercato cinese di riferimento attuale è infatti costituito da consumatori che ricercano (prevalentemente) nel
  • 6. 6 prodotto estero esclusività e conferimento di uno status sociale. Si ritiene dunque importante per le imprese, al fine di elaborare efficaci strategie di marketing, conoscere la percezione che i consumatori cinesi hanno dell’Italia e della sua offerta produttiva. Oltre che per le imprese, la stessa conoscenza risulta utile inoltre al Sistema Paese italiano, relativamente all’ideazione e all’attuazione di politiche di sostegno all’internazionalizzazione commerciale delle imprese del Made in Italy. L’obiettivo di questa tesi è pertanto quello di capire qual è l’immagine dell’Italia in Cina, sia sotto il profilo produttivo sia considerando un quadro storico-culturale-istituzionale d’insieme. Scopo secondario è indagare come e attraverso quali canali il Made in Italy viene promosso in questo medesimo mercato, cercando in entrambi i casi di cogliere particolari valenze che possano suggerire in conclusione degli accorgimenti efficaci per le imprese e delle indicazioni altrettanto utili per la promozione del Made in Italy a livello di Sistema. La tesi si compone di sei capitoli: il primo è dedicato interamente al Made in Italy, che come composizione settoriale e apparato produttivo di riferimento costituisce un esempio unico fra i paesi economicamente sviluppati. Il secondo capitolo è riferito invece allo sviluppo dell’economia cinese. Oltre alle tappe storiche che hanno costituito un progressivo processo di apertura verso l’estero, viene affrontata anche l’attuale effettiva accessibilità del mercato, la sua potenziale ricettività nei confronti del Made in Italy e la sua segmentazione (particolare importanza è attribuita al comportamento d’acquisto del consumatore cinese). È inoltre dedicato un paragrafo specifico all’export italiano in Cina, le cui quote sono state suddivise per comparti merceologici. Nel terzo capitolo si trova il nucleo teorico della tesi, composto come detto dai concetti di country image e country of origin effect. In questa parte si cerca dunque di capire cosa li determina e quali sono le implicazioni per le imprese, anche alla luce dei comportamenti adottati
  • 7. 7 dalle aziende italiane e sulla base del valore che i cinesi attribuiscono all’aspetto intangibile delle produzioni. Con il quarto e il quinto capitolo si entra nel merito della percezione e della promozione del Made in Italy in Cina. Per quanto riguarda la percezione, vengono citate tre indagini esplorative preesistenti che hanno come oggetto di indagine un campione cinese a cui è stato chiesto di esprimere giudizi su alcune caratteristiche di natura produttiva e socio- culturale riguardanti l’Italia; grazie al contributo di queste ricerche, realizzate da due diversi istituti di ricerca e da un altro team di ricercatrici, è possibile delineare sommariamente l’immagine che i consumatori cinesi hanno nei confronti dell’Italia e del Made in Italy e, di conseguenza, si individuano i settori e le produzioni italiane che possono contare in Cina su un effetto paese positivo. Relativamente alla promozione, il primo paragrafo affronta due aspetti culturali caratteristici cinesi, guanxi e mianzi, determinanti ai fini di efficienti comunicazioni e trattative nel mondo degli affari; nel capitolo si individuano i soggetti che promuovono il Made in Italy in Cina (sia a livello pubblico sia a livello privato) e si indicano le azioni e gli strumenti principali di cui tali soggetti si servono. La tesi si conclude con un’inedita indagine esplorativa su un campione cinese che integra i contributi esistenti e attraverso cui vengono affrontati àmbiti percettivi specifici della country image italiana. Nel sesto capitolo, sulla base dei risultati emersi dal nuovo sondaggio, vengono tratte le conclusioni e le considerazioni finali.
  • 8. 8 Desidero porgere un ringraziamento speciale agli amici cinesi che mi hanno aiutato nella traduzione del questionario e nella sua diffusione in Cina. Una dedica e un augurio di cuore per il futuro a tutti i miei colleghi del corso in Promozione dell’Italia all’estero, unici e sempre presenti durante due anni bellissimi. Un altro grazie, sempre e comunque, alla mia famiglia e agli affetti più cari. Enrico Rosi, Aprile 2012
  • 9. 9 1. Il marketing del Made in Italy 1.1 Definizione, composizione e competitività del Made in Italy Se si potesse classificare sinteticamente l’economia italiana, non ci sarebbero obiezioni nel definirla ‘reale’. Sulla base dei dati Eurostat e del Fondo Monetario Internazionale si può sostenere, a supporto di questo aggettivo, che l’Italia è il secondo Paese industriale manifatturiero d’Europa dopo la Germania, che la propria economia è relativamente poco finanziarizzata e si basa su un vasto e solido reticolo di piccole-medie imprese e che la bilancia commerciale è decisamente positiva per quanto riguarda i manufatti. Uniti al fatto di essere inseriti nel quadro macroeconomico di una delle prime otto Economie mondiali in termini di Pil, questi fattori denotano fortemente l’Italia come un Paese avente un’offerta produttiva notevole e, nella fattispecie, competitiva e prestigiosa. Assume dunque senso parlare di made in e nel caso dell’Italia è ancor più opportuno selezionare alcuni comparti merceologici che rappresentano per antonomasia (sia per volumi sia per valore) la produzione nazionale. Tali settori accrescono il loro peso relativo nell’ambito dell’export, presentano un saldo attivo e permanente della bilancia dei pagamenti, dando appunto dimostrazione di un’evidente specializzazione produttiva ed esportativa dell’economia italiana rispetto al resto del mondo (Guerini 2004:17). In ragione della presenza dei prodotti d’eccellenza italiani nella scena commerciale mondiale fin dagli anni Ottanta, l’espressione Made in Italy porta con sé un alone di autorevolezza marcato. Ciò è oltretutto determinante per l’economia italiana ai fini del mantenimento dei propri vantaggi comparati: questi ultimi non dipendono soltanto dalla dotazione di specifici fattori o dal possesso di quelle determinanti del vantaggio competitivo delle nazioni che Porter pone ai vertici del suo ‘diamante’,1 1 Viene citato a titolo esemplificativo uno dei paradigmi più significativi e recenti nell’ambito
  • 10. 10 bensì anche da una serie di caratteristiche (quali ad esempio la creatività e il design) che connotano ormai esclusivamente il Made in Italy. Per quanto riguarda la composizione settoriale, il Made in Italy riflette bene nelle sue diverse componenti e manifestazioni la cultura ed i caratteri dell’italianità, ed i suoi prodotti finiscono per rappresentare simboli significativi dell’immagine che il Paese vanta a livello mondiale (Pratesi 2001:26). I due grandi raggruppamenti di settori che fanno capo alle cosiddette ‘4 A’ dell’eccellenza manifatturiera italiana sono quelli tradizionali e ad offerta specializzata. I primi comprendono i beni di consumo tradizionali legati alla persona e alla casa e valgono i ¾ della suddetta offerta: Abbigliamento (si intendono anche calzature, pelletterie, occhiali, oreficeria e gioielleria), Arredamento (mobili, elettrodomestici, ceramiche, marmi, casalinghi) e Alimentazione (pasta, olio, vino e prodotti tipici della cucina mediterranea). I settori ad offerta specializzata si riferiscono invece all’Automazione: si tratta di meccanica strumentale (che copre una estesa tipologia di impianti) e di componentistica specializzata (elementi meccanici, elementi di trasmissione, membrane, utensili ecc.) funzionali alla produzione dei beni di consumo sopra elencati (Valdani - Bertoli 2007:44). La non esclusiva specializzazione in settori tradizionali dimostra come l’imprenditoria italiana sia stata in grado di evolvere la propria produzione dalla manifattura di beni di consumo semplici alle produzioni ad intensità tecnologica medio-alta (benché, come si vedrà, sussiste una netta despecializzazione nei settori ad elevato contenuto tecnologico), sia stata in grado altresì di creare un circolo produttivo virtuoso e di acquisire competenze e conoscenze che consentono oggi di differenziare ed adattare al meglio il prodotto ai bisogni della domanda. È anche opportuno ribadire che la differenziazione produttiva delle teorie sul commercio internazionale. Le altre determinanti sono: strategia d’impresa, struttura di mercato e concorrenza; natura della domanda interna; industrie collegate o di supporto. Cfr. C.W.L. Hill, International Business, Hoepli, 2008.
  • 11. 11 dipende, in questa fase di raggiunta maturazione imprenditoriale, da un’innovatività di tipo soft, legata cioè a caratteristiche creative ed originali molto apprezzate tral’altro all’estero. La base immateriale del Made in Italy (lo stile appunto) permette alle aziende italiane di svincolarsi da un’ampia concorrenza emergente che basa sulla variabile ‘prezzo’ il proprio vantaggio competitivo e di attenuare l’effetto dell’inevitabile trasferimento manifatturiero fuori dai confini nazionali. Fra i tanti a disposizione, 2 sono stati scelti due indicatori per quantificare a livello economico le virtù del Made in Italy: il valore aggiunto generato dalle ‘4 A’ e il surplus commerciale con l’estero. Sono due indici che esprimono soltanto il valore qualitativo della produzione e dello scambio commerciale; volutamente, si vuole posticipare l’analisi dell’aspetto quantitativo del fenomeno e lo stato di salute dell’economia nazionale, che influisce naturalmente sulla competitività del Made in Italy. “Le ‘4 A’ hanno generato nel 2006 un valore aggiunto di circa 142 miliardi di euro e rappresentano grosso modo il 65% del valore aggiunto complessivo manifatturiero dell’Italia al costo dei fattori” (Fortis - Carminati 2009:9). In particolare, 3 l’industria italiana degli Alimentari- bevande ha espresso nel 2006 un valore aggiunto di 19 miliardi di euro, quella dell’Abbigliamento-moda è stato di 26 miliardi di euro, Arredo-casa oltre 16 miliardi e l’industria dell’Automazione-meccanica-gomma-plastica ha originato un valore aggiunto di quasi 81 miliardi di euro. Il surplus commerciale delle ‘4 A’ con l’estero ha raggiunto nel 2008 i 116 miliardi di euro: 4 anche in questo caso l’attivo commerciale è preponderante nel comparto della meccanica (surplus commerciale di 78 miliardi di euro). Se questi dati dimostrano un sostegno vigoroso del Made in Italy al commercio estero (tanto da sostenere che se non fosse per la cronica 2 Fatturato, numero di occupati, quote di mercato, valore della produzione, numero di imprese ecc. 3 Elaborazione dati Fondazione Edison su dati Eurostat, Istat, Mediobanca. Cfr. Fortis – Carminati 2009. 4 Ivi, p. 10.
  • 12. 12 dipendenza energetica, la bilancia commerciale italiana sarebbe in attivo),5 è pur vero che a dei valori economici sorprendenti occorre contrapporre dei volumi aggregati dell’export per lunghi tratti stagnanti o recessivi, una performance della produttività nazionale altalenante, una capacità dell’Italia di rispondere alle sfide competitive tutta da dimostrare e l’avanzata inesorabile della concorrenza proveniente specialmente dalle economie emergenti. Competitività nazionale e concorrenza internazionale sono due variabili che influiscono inesorabilmente sulle sorti del Made in Italy. L’interpretazione dei dati a riguardo da parte degli operatori economici è spesso ambivalente. Così come l’apparizione sulla scena economica mondiale di nuovi competitor è vista sia come possibilità sia come minaccia per le economie avanzate, anche la performance economica italiana del recente passato lascia spazio a considerazioni discordanti per il futuro. Questo poiché, anche a livello mondiale, l’economia ha conosciuto una serie di continui e repentini cambiamenti che hanno messo in discussione il ruolo di leadership dei paesi avanzati. I dati macroeconomici degli ultimi anni dimostrano comunque che l’Italia ha accumulato una significativa perdita di competitività. Dal 2008 le variazioni percentuali rispetto agli anni precedenti dei principali valori macroeconomici sono negativi; il saldo di Conto corrente della Bilancia dei pagamenti è peggiorato sensibilmente dal 2002 (-10 miliardi di euro) al 2008 (-53 miliardi di euro); la quota sulle esportazioni mondiali di merci italiane ha subìto un calo di 1,2 punti percentuali in 13 anni, dal 4,5% del 1995 al 3,3% del 2008.6 Apparentemente discordanti, le due serie di dati che dimostrano le potenzialità del Made in Italy e le difficoltà dell’economia nazionale e delle esportazioni sono però conciliabili. La riduzione della quota dell’Italia sulle esportazioni mondiali riguarda infatti i volumi: negli ultimi anni le perdite 5 Rapporto ICE 2010-2011. L’Italia nella competizione internazionale, p. 329. 6 Rielaborazione su dati Ice e Bollettino Economico della Banca d’Italia. Cfr. Valdani – Bertoli 2007: 41,43.
  • 13. 13 maggiori si osservano per la quota in quantità, mentre, ad esempio, la variazione percentuale dell’export in euro dal 2000 al 2006 è molto positiva (+27,4%), un tasso inferiore fra i paesi industrializzati solo a quello di Spagna e Germania (Masi 2007:14,15). In altre parole, i volumi esportati sono minori ma il fatturato delle aziende, grazie a prezzi più alti, rimane invariato o addirittura migliora. “In presenza di volumi stagnanti, la buona performance dei valori dell’export è interamente riconducibile alla sostenuta dinamica dei prezzi” (Masi 2007:14). Come si vedrà, sarà proprio in funzione del valore (tangibile e intangibile) del prodotto che il Made in Italy dovrà operare un riposizionamento competitivo. Se ciò non dovesse accadere, le imprese italiane sarebbero esposte ad una concorrenza di prezzo insostenibile con le imprese dei paesi emergenti. Nei settori tradizionali infatti, “l’Italia si trova oggi a doversi misurare con una concorrenza vieppiù agguerrita, proveniente in particolare dalla Cina e da diversi paesi del sud- est asiatico, i quali si distinguono per: costi del lavoro incomparabilmente inferiori a quelli occidentali; macchinari aggiornati importati dall’estero (in primis dal nostro7 Paese); capacità di imitazione (e addirittura, in non pochi casi, di contraffazione vera e propria); miglioramento progressivo della qualità dei prodotti; evoluzione in senso manageriale della gestione aziendale. […] In questi settori, è dunque essenziale che le imprese innalzino sempre più la capacità di innovare la propria offerta in termini di stile-design-creatività-moda-qualità” (Valdani – Bertoli 2007:44). Le quote di mercato provenienti dai settori ad offerta specializzata soffrono invece meno (per il momento) la competizione della nascente offerta estera, ancora ‘acerba’ e deficitaria di esperienza, flessibilità e versatilità tecnologica. È opinione diffusa8 che altre due cause riconducibili alla flessione del volume dell’export italiano sono la distribuzione geografica dei mercati di 7 Italia, Nda 8 Cfr. Valdani – Bertoli 2007:43.
  • 14. 14 sbocco (prevalentemente concentrata sui soli mercati maturi europei) e la struttura dimensionale delle imprese (questo aspetto verrà trattato più approfonditamente nel prossimo paragrafo). 1.2 Il paradosso del Made in Italy e la valenza dei distretti industriali Il successo del Made in Italy, più o meno contrastato negli anni dalle dinamiche economiche nazionali e dalle insidie concorrenziali internazionali, non è facilmente spiegabile secondo le teorie economiche ortodosse del commercio internazionale e dall’economia industriale. Come argomenta Riccardo Varaldo,9 per molti aspetti il Made in Italy appare una sorta di paradosso. I motivi di questo paradigmatico controsenso sono stati già in parte accennati nel primo paragrafo: innanzitutto, le produzioni tipiche del Made in Italy dei settori tradizionali ad alta intesità di lavoro unskilled sono giudicate più consone a paesi di nuova industrializzazione che non ad economie sviluppate come l’Italia; successivamente, l’eccezionalità del Made in Italy è data dagli ottimi risultati ottenuti da un insieme di imprese di dimensioni ridotte. La despecializzazione italiana nelle produzioni high-tech è imputata effettivamente di aver contribuito alla flessione delle quote di mercato possedute dall’Italia. Indubbiamente questo fattore strutturale ha penalizzato la presenza italiana all’estero perché ha lasciato le imprese impreparate e manchevoli verso la domanda mondiale di prodotti ad alto contenuto tecnologico. Anche in questo caso il dibattito fra gli studiosi a proposito di questa caratteristica imprenditoriale italiana è acceso: ci si domanda 10 se, per l’industria manifatturiera italiana, una supremazia limitata ai settori tradizionali offra sufficienti garanzie per il futuro e se una situazione d’arretratezza nei settori ad elevate economie di scala (chimica industriale, metallurgia) e nei settori ad alta tecnologia (elettronica, 9 Cfr. Pratesi 2001:24. 10 Cfr. Pratesi 2001:9.
  • 15. 15 farmaci, aerospaziale) non rappresenti uno squilibrio fortemente penalizzante con gli altri paesi sviluppati, paesi che hanno dimostrato di poter trarre ingenti vantaggi dalla commercializzazione di beni appartenenti a questi settori. In ogni caso, almeno ai fini di questo lavoro, si intende tralasciare questo attributo imprenditoriale in quanto l’oggetto in questione è il Made in Italy che si è già affermato nei mercati internazionali e che è stato precedentemente delineato. Si cercherà pertanto di indagare quali sono le strategie per valorizzarlo, senza cercare a tutti i costi un’alternativa ad un’offerta già di per sé potenzialmente redditizia e a dei procedimenti industriali efficienti. A tal proposito, sottolinea in maniera illuminante Valdano: “tutto considerato sembra quindi opportuno pensare ad una valorizzazione intelligente del ‘paradosso del Made in Italy’ piuttosto che ad un suo superamento. Questo servirebbe a far tramontare l’idea che il nostro Paese possa (debba) essere ricondotto nell’alveo di una presunta, teorica normalità, ovvero allineato ai modelli di industrializzazione delle altre economie avanzate […] A questo punto della sua storia industriale l’Italia non può ragionevolmente pensare di cambiare treno, quello del Made in Italy e delle piccole imprese, per salire su un altro treno o addirittura pensare di cambiare tipo di mezzo” (Pratesi 2001:10). Molto c’è da ragionare invece circa il modo di ottimizzare la produttività e la competitività delle PMI italiane. Il primo problema da affrontare è la scarsa propensione all’internazionalizzazione e, per quanto più riguarda questa ricerca, all’esportazione delle piccole imprese. In Italia c’è un numero di imprese manifatturiere superiore a quello di Francia, Germania e Olanda considerate insieme.11 Secondo dati Istat, in Italia nel 2007 risultano 474.202 attività manifatturiere: fra queste, le imprese con meno di 10 occupati sono 387.907; le imprese che hanno fra 11 Dati Eurostat 2006. Cfr. Italia – Geografie del nuovo Made in Italy, p. 13.
  • 16. 16 i 10 e i 49 occupati sono 75.050; quelle tra i 50 e i 249 occupati sono 9.860; le imprese con più di 250 sono 1.385. Questa suddivisione non può essere considerata una classificazione canonica per dimensione (micro, piccola, media, grande) poiché per esserlo sarebbe necessario considerare anche il fatturato. Sono numeri che rendono però immediatamente idea di quale sia la realtà della strutturazione fisica del tessuto imprenditoriale. Mediobanca – Unioncamere stimano12 che a quell’aggregato di circa 4.900 imprese medie e medio-grandi definite ‘Quarto capitalismo’ 13 (o ‘Multinazionali tascabili’ 14 ) fa capo circa il 25% del valore aggiunto complessivo dell’industria manifatturiera italiana (che sale al 40% considerando l’indotto) e il 34% circa dell’export manifatturiero. Percentuali rilevanti se si considera che i gruppi con fatturato superiore ai 3 miliardi di euro generano circa il 5% e l’11% del valore aggiunto e dell’export manifatturiero, a dimostrazione della maggiore propensione all’internazionalizzazione delle imprese medie, medio-grandi e dei grandi gruppi industriali rispetto alle imprese più piccole. Una testimonianza aggiornata in proposito è fornita dal rapporto Ice 2010-2011: dopo un calo vertiginoso nel 2009, l’export italiano si è risollevato nel 2010 ottenendo una variazione percentuale positiva del 16% (+ 9,4% di valore medio). La ripresa ha sì interessato tutte le classi dimensionali delle imprese, ma in maniera disomogenea: “la crescita più sostenuta ha riguardato le imprese più grandi, quelle con fatturato estero superiore ai 50 milioni di euro, che hanno esportato il 21,2% in più rispetto al 2009”. 15 L’aspetto determinante è stato la provenienza geografica della domanda, in quanto i mercati più lontani sono stati raggiunti più facilmente dalle imprese di dimensioni maggiori. 12 Ibidem 13 Si intende l’aggregato (categorizzato da Mediobanca, che da tempo lo analizza) di 4.345 imprese medie e circa 600 medio-grandi manifatturiere che si colloca come cuscinetto tra i grandi gruppi e le piccole imprese. Per crescita e redditività hanno surclassato le altre grandi imprese italiane. 14 Repubblica, 10 gennaio 2009, p.18. www.repubblica.it 15 Rapporto Ice 2010 – 2011, p.285
  • 17. 17 Generalmente, le imprese più piccole presenti in un numero limitato di mercati sono fortemente dipendenti dalle sorti politico-economiche di pochi paesi e rischiano di subirne le relative eventuali complicazioni: “il contributo più vistoso alla crescita delle importazioni mondiali è da attribuire ai mercati dell’Asia Orientale e latino-americano, mentre alcune aree geografiche di specializzazione dell’Italia, quali l’intero mercato Ue e tutto il bacino Mediterraneo, con alcuni paesi coinvolti in una serie di sommovimenti politici, sono cresciuti meno della media”.16 La considerazione positiva verso la piccola dimensione, reputata in grado fin’ora di garantire flessibilità e adattamento rapido ai mutamenti della domanda, sta lasciando il passo al convincimento diffuso che la piccola dimensione costituisce un vincolo alla crescita e un rischio per le posizioni acquisite sui mercati internazionali.17 “L’ampliamento del bacino potenziale di consumatori cui le imprese dovrebbero rivolgere la loro attenzione richiede una struttura organizzativa più complessa e sofisticata, che si avvalga di reparti specializzati in marketing, promozione e pubblicità, servizi post vendita”.18 Una governance familiare rappresenta inoltre un ostacolo all’elaborazione di soluzioni manageriali avanzate, che permetterebbero di adottare soluzioni a volte indispensabili come ad esempio la diversificazione dei mercati di sbocco, l’instaurazione di collaborazioni industriali, l’investimento in ricerca e sviluppo. A far fronte a questa condizione strutturale di per sé penalizzante c’è, in Italia, l’esperienza positiva dei distretti industriali. L’Istat definisce il distretto industriale ‘entità socio-territoriale in cui una comunità di persone e una popolazione di imprese industriali si integrano reciprocamente’;19 i distretti discendono dai ‘sistemi locali del lavoro’, unità territoriali costituite da più comuni contigui fra loro che rappresentano i luoghi della vita quotidiana della popolazione che vi risiede e lavora. 16 Ibidem 17 Cfr. Masi 2007:12. 18 Ibidem 19 8° Censimento generale dell’Industria e dei Servizi 2001. www.istat.it
  • 18. 18 La piccola impresa inscritta nell’alveo di un efficiente distretto industriale trae da esso benefici in termini di competenze, innovazione e procedimenti operativi che le consentono di sopperire alle difficoltà sopra elencate. L’agglomerato, per tutti i nuclei di cui si compone, funge da catalizzatore di interrelazioni economico-sociali che originano un sub- sistema industriale locale. Infatti, una caratteristica essenziale del distretto industriale è la divisione del lavoro tra imprese e la generazione di interdipendenze produttive di natura intra- e intersettoriale. Il distretto è tipicamente costituito da piccole-medie imprese che si specializzano a loro volta in una specifica fase lavorativa di produzione: la divisione del lavoro consente di sviluppare economie di scala e apprendimento e di servire, indipendentemente, le imprese committenti che si trovano a valle nella filiera industriale. La flessibilità della piccola impresa è così asservita alle necessità che si presentano dapprima proprio all’interno del distretto: nel reticolo nascono e crescono nuove imprese, si ramificano dinamicamente conoscenze e scambi di natura economica e sociale. La performance economica del distretto dipenderebbe,20 pertanto, da un elevato livello di efficienza collettiva, innovazione, coesione sociale ed economie esterne interrelate (esterne all’impresa, ma interne all’area). La fitta rete di relazioni tessute all’interno del distretto potrebbe favorire altresì il miglioramento di quella formazione definita ‘on the job’; specialmente nei settori tipici del Made in Italy, dove contano le abilità artigianali, la creatività e le tendenze, il capitale umano dovrebbe ragionavolmente trovare nel distretto terreno fertile per la crescita del proprio valore. Sulla base dell’8° Censimento generale dell’Industria e dei Servizi (Istat) del 2001, si individuano in Italia 156 distretti industriali (81 al Nord, 49 al Centro e 26 nel Mezzogiorno).21 È significativo notare che le tipologie 20 Cfr. Guerini 2004:70. 21 Per i criteri e le procedure adottate per l’individuazione dei distretti industriali si rimanda alla
  • 19. 19 di industria principale utilizzate per classificare i distretti industriali (Tavola 1) corrispondono pienamente (con la sola eccezione dell’industria cartotecnica e poligrafica) ai settori caratterizzanti l’offerta Made in Italy. Tavola 1 INDUSTRIA PRINCIPALE Distretti industriali % Addetti manifatturieri dei distretti % Tessile e abbigliamento Meccanica Beni per la casa Pelli, cuoio e calzature Alimentari Oreficeria e strumenti musicali Cartotecniche e poligrafiche Prodotti in gomma e plastica Totale 45 38 32 20 7 6 4 4 156 28,8 24,4 20,5 12,8 4,5 3,8 2,6 2,6 100 537.435 587.320 382.332 186.680 33.304 116.950 35.996 48.585 1.928.602 27,9 30,5 19,8 9,7 1,7 6,1 1,9 2,5 100 Elaborazione su dati Istat Nel 2010 anche i distretti industriali hanno reagito positivamente dopo la congiuntura particolarmente negativa che nel 2009 ha interessato la domanda delle produzioni tipiche del Made in Italy. Nel Secondo Rapporto dell’Osservatorio nazionale dei Distretti Industriali22 si precisa tuttavia che “i distretti non sembrano aver sofferto gli effetti della crisi più gravemente rispetto al complesso dell’economia manifatturiera”. È stata ancora una volta la propensione all’export a determinare il successo di questo modello produttivo e organizzativo: rispetto al crollo (di livello internazionale) del 2009, le esportazioni dei distretti sono aumentate nel 2010 del 10,5%. Ciò che è più significativo in un’ottica di medio-lungo periodo è che, per la prima volta dopo diversi anni, nel 2010 i distretti industriali hanno mostrato tassi di crescita superiori a quelli di aree non distrettuali (la quota dei distretti sulle esportazioni dell’Italia è già di per sé copia elettronica del Censimento consultabile nel sito web www.istat.it. Basti sapere, sommariamente, che per l’identificazione dei distretti è necessario prima individuare gli SLL (sistemi locali del lavoro) prevalentemente manifatturieri di piccola-media impresa per poi operare una classificazione per tipologia di industria principale. 22 L’Osservatorio fornisce dati riferiti ai 101 principali distretti industriali italiani.
  • 20. 20 ottima: per i manufatti, nel 2007, è del 30,8%).23 “Spicca, in particolare, il boom dell’export in Cina, dove i distretti hanno ottenuto performance di gran lunga migliori rispetto ai già buoni risultati del manifatturiero italiano (+81,6% vs +48,8%)”.24 Se i dati del 2010 propendono per l’uscita dal tunnel della recessione, quel che è difficile affermare è che sia evidente una ripresa diffusa. Il fatto che alcuni settori rivelano segnali di affaticamento,25 che la capacità di recupero del tasso occupazionale appare ancora improbabile 26 e che sembrano accentuarsi le differenze tra il Centro-Nord e il Sud,27 dimostra l’occorrenza di misure di intervento mirate. La turbolenza economica provocata dalla Crisi ha inoltre imposto alle imprese, e a chi a livello governativo nazionale e locale si occupa del loro sviluppo, di aggiornare e irrobustire una formula sinergica territoriale (quella dei distretti industriali appunto) in una più vasta rete che possa comprendere tutti gli agglomerati produttivi nazionali. In questo senso, oltre alle proposte teoriche, si è già avuto un riscontro normativo e giuridico con l’approvazione 28 del ‘contratto di rete’, uno strumento utilizzabile per rilanciare forme nuove e più efficaci di aggregazione. In particolare, due o più imprese operano in comune per accrescere principalmente la capacità innovativa e la competitività sul mercato. L’obiettivo è, spiega il Ministro Paolo Romani nel Secondo Rapporto dell’Osservatorio Nazionale dei Distretti Italiani, aiutare le piccole imprese di ‘fascia alta’ a crescere e favorire la trasformazione di piccole aziende ‘tradizionali’ (basate cioè su una conduzione familiare non managerializzata) in una massa critica in grado di incidere maggiormente sul piano macroeconomico. Ciò che viene auspicato è dunque l’evoluzione 23 Ice – Osservatorio sull’internazionalizzazione dei distretti industriali, maggio 2008. 24 2° Rapporto dell’Osservatorio Nazionale dei Distretti industriali, p.32. 25 Ivi, p.51. 26 Ivi, p.54. 27 Ivi, p.34. 28 Nell’ambito del Decreto incentivi 2009, Legge 99/2009; G.U. 31 luglio 2009. www.parlamento.it
  • 21. 21 di forme organizzative più articolate, sia intra- sia interdistrettuali. Dallo stesso Rapporto, Ferruccio Dardanello (Presidente Unioncamere): “l’esperienza recente ribadisce la necessità che i distretti riorganizzino l’insieme dei propri legami, aprendosi all’esterno e, soprattutto, allargando la visuale ben oltre i confini locali, cercando nuove alleanze finalizzate non più solo a raggiungere economie di scala produttive ma soprattutto ad avviare attività di ricerca, innovazione, di distribuzione e internazionalizzazione sempre più sofisticate e in linea con le mutevoli esigenze di nuovi mercati e nuovi consumatori”. La chance per il Made in Italy è grande: se gli sforzi e la ristrutturazione dell’imprenditoria verrà assecondata dall’intero Sistema, a competere non saranno più soltanto le imprese, bensì anche i territori: le risorse sociali, culturali, economiche ed istituzionali di questi ultimi offriranno ulteriori opportunità di relazionarsi nei mercati internazionali. 1.3 Immagine, qualità e Sistema Paese Si è già accennato nel primo paragrafo che la valorizzazione dell’aspetto immateriale dei prodotti Made in Italy è stata per certi versi una mossa obbligata per impattare meno la concorrenza di prezzo dei nuovi competitor. Questa politica di up-grading è però perseguibile solo da parte di imprese che siano effettivamente in grado di poterla attuare. Non a caso, accanto a quello che è stato definito ‘upgrading strategico’ (quello di cui si è data menzione poco sopra), un processo di ‘distruzione creativa’ determinato proprio dalla crescente numerosità di concorrenti globali ha prodotto una selezione naturale delle imprese tramite l’espulsione dal mercato di quelle relativamente meno efficienti (‘upgrading indotto’).29 Le imprese italiane hanno dimostrato, tutto sommato, di rispondere alacremente ai cambiamenti dello scenario competitivo mondiale. L’offerta 29 Cfr. Masi 2007:22.
  • 22. 22 Made in Italy ha immediatamente fatto leva sul valore tangibile e intangibile del prodotto per attuare nei mercati internazionali un riposizionamento competitivo. I due elementi della funzione ‘valore’ rivestono un peso specifico più o meno alto a seconda dei mercati riceventi: in un mercato maturo, l’attribuzione della qualità da parte del consumatore avviene considerando attentamente la componente tangibile 30 del prodotto; al contrario, in un mercato emergente, la percezione della qualità è data non solo dall’elemento tangibile ma anche e soprattutto dal prezzo e dall’immagine che parallelamente viene costruita e affiancata al prodotto durante la fase di commercializzazione. In ogni caso, specialmente durante le fasi di ripresa ed espansione economica, immagine e qualità sono fattori interdipendenti e inscindibili che influiscono sull’atteggiamento di valutazione e scelta del consumatore di qualsiasi paese. L’immagine positiva di cui il Made in Italy beneficia all’estero supporta la riqualificazione del paniere dei beni offerto, così come la qualità dei beni proposti contribuisce a rafforzare nel tempo l’immagine della produzione manifatturiera italiana. Tangibile ed intangibile sono perciò le facce della stessa medaglia e ad ognuna di esse andrebbe rivolta eguale attenzione. Specialmente per molte delle produzioni tipicamente italiane, il miglioramento qualitativo non deve riguardare esclusivamente la tecnologia o i materiali, ma anche la valorizzazione di quanto già prodotto. Ovviamente, così come le due componenti pesano in maniera diversa a seconda della tipologia dei mercati, anche le singole leve del marketing mix vanno utilizzate relativamente al target prescelto. Per quanto riguarda il miglioramento dell’elemento tangibile, i nuovi modelli di consumo sono contraddistinti da fattori di natura tecnica, funzionale ed estetica (Masi 2007:16). La domanda dei consumatori più 30 In questo specifico caso si vuole riversare lo stile nella componente tangibile del prodotto, nel senso che il design e la progettazione determinano l’aspetto e la forma percepibile tramite l’apparato sensoriale; la componente intangibile è invece intesa come un attributo latente del prodotto, rilevante ma immaginario.
  • 23. 23 sofisticati, oltre ad essere più variegata ed attenta ai dettagli, esige inoltre l’affidabilità del prodotto. Il raggiungimento di standard qualitativi elavati può essere raggiunto dall’impresa con investimenti in R&S, l’ammodernamento dei processi produttivi, il rafforzamento dei sistemi di controllo della qualità (Masi 2007:16). Storicamente, le produzioni Made in Italy hanno giovato di una continua innovazione di prodotto, piuttosto che di processo: è questo, probabilmente,31 il tipo di innovazione più adatto a cogliere il miglioramento qualitativo dell’export, in quanto, rispetto all’innovazione di processo, è meno ripetibile dalla concorrenza. Il consumatore attratto e soddisfatto dell’innovatività può iniziare ad identificare il prodotto con l’impresa stessa, attribuendo al marchio un privilegio di esclusività che può durare anche dopo che i concorrenti hanno iniziato l’imitazione. Il valore intangibile del prodotto è invece migliorabile agendo sul mix promozionale, sul prezzo, la distribuzione e sullo sviluppo dei servizi post- vendita. Tanto per fare un esempio, la facoltosa domanda che sta emergendo negli ultimi anni dalle aree a forte incremento economico mostra di apprezzare particolarmente i beni di lusso di origine italiana, soprattutto se contraddistinti da brand famosi. Per alcuni consumatori, in assenza di altre informazioni, è proprio il prezzo alto a suggerire la qualità di un prodotto. Accanto all’indispensabile innovazione di prodotto, un impegno concreto è stato profuso dalle imprese anche per ridisegnare il processo distributivo e, in genarale, per cercare di comprendere come collocare al meglio i prodotti sui mercati esteri. Un’indagine del Centro Studi Unioncamere sulle PMI manifatturiere32 (2010) rivela che tra le azioni su cui si sarebbero concentrate le policy degli imprenditori nel 2011, dopo il miglioramento del prodotto e del processo attraverso nuove tecnologie 31 Cfr. Masi 2007:32. 32 Cfr. 2° Rapporto dell’Osservatorio Nazionale dei Distretti industriali, p.57.
  • 24. 24 (rispettivamente il 62,8% e 43% del totale),33 figurano proprio interventi finalizzati ad un più forte radicamento nei mercati di riferimento. Così, dunque, il 28% circa si sarebbe proposto di investire in comunicazione per il rafforzamento del marchio; quasi il 24% intendeva spostare il target di mercato verso una fascia più alta. Per molti, inoltre, era ancora prioritario l’incremento delle quote di mercato nelle aree di riferimento tradizionali (Italia, Europa): di conseguenza, la penetrazione di mercati così maturi ha previsto l’adozione di ulteriori strumenti strategici. Immagine aziendale e qualità del prodotto sono due variabili cardine per la ricerca seguita in questo lavoro. Non le uniche, ma indubbiamente concorrono a determinare la percezione che un gruppo di consumatori esteri ha nei confronti dell’offerta produttiva di un altro paese. Conoscere questa percezione significa per il produttore potersi muovere in quel mercato efficacemente e promuovere i propri prodotti al meglio. Un’altra variabile che influisce, direttamente e indirettamente, sulla costruzione e il consolidamento dell’immagine all’estero e sulle capacità di promozione è la possibilità di fruire, da parte dell’azienda, dell’appoggio multiforme dell’apparato istituzionale, economico e culturale del proprio paese. Quando si parla di sostegno extra-aziendale all’attività imprenditoriale ci si riferisce al cosiddetto Sistema Paese. È questa un’espressione spesso abusata, impiegata sovente per intendere solo le funzioni dell’apparato istituzionale a sostegno delle imprese ed in particolare alla competitività in ambito internazionale. Questo concetto viene qui impiegato per contemplare invece un insieme eterogeneo di elementi, non esclusivamente di carattere pubblico/istituzionale, che con lo stesso peso sono in grado di determinare la percezione e la promozione del Made in Italy all’estero. A tal proposito, si rimanda al capitolo quinto l’elencazione delle principali azioni intraprese dai vari soggetti per la promozione del Made in Italy in Cina. Quel che si vuole ora specificare sono invece i presupposti e le basi da cui queste iniziative muovono. 33 Risposte multiple.
  • 25. 25 Parlare di Sistema Italia significa identificare innegabilmente un organismo non del tutto perfettamente funzionante: per quanto riguarda il contributo dell’apparato istituzionale, potrebbero essere innumerevoli gli esempi virtuosi provenienti dai tanti enti preposti all’internazionalizzazione e alla promozione del commercio estero delle imprese italiane; il problema, semmai, è dovuto alla mancanza di una struttura organica e coordinata che permetta di elaborare strategie articolate per incrementare la presenza nei mercati esteri specialmente delle piccole aziende. “Ciò che sembra penalizzare di più le imprese italiane all’estero è il fatto di non poter contare su un supporto nazionale analogo a quello degli altri paesi: sotto vari punti di vista il sostegno pubblico appare frammentario, eterogeneo, scoordinato e talvolta conflittuale” (Pratesi 2001:15). Le azioni di Province, Regioni, Ministeri, Università, Camere di Commercio, Fondazioni, altri Enti statali (senza contare le Organizzazioni completamente private) necessiterebbero di un coordinamento comune (o quantomeno della condivisione di linee direttrici comuni) e, come si dirà fra poco, di un background di credibilità e onorevolezza sociale, culturale e politica alle spalle. Per quel che riguarda la concertazione tra agenzie di promozione e attori istituzionali e privati, l’esempio arriva da alcuni paesi europei (Germania, Francia, Finlandia, Svezia), asiatici (Australia, Singapore) e dell’area Ocse (USA e Canada). 34 In questi paesi, la necessità di fronteggiare la crescente competitività internazionale ha rappresentato l’occasione per creare una rete di servizi funzionali alla promozione del commercio estero demandata ad agenzie uniche per l’internazionalizzazione. Il vantaggio è quello di evitare duplicazioni e sovrapposizioni inutili delle iniziative, condividendo gli obiettivi e minimizzando gli sforzi. Il coordinamento del Germany Trade and Invest, l’ente unico tedesco che agisce in stretta sinergia con l’amministrazione pubblica e le 34 Cfr. Rapporto Ice 2010-2011, p.332.
  • 26. 26 organizzazioni private nell’attuazione di interventi promozionali e di supporto alle imprese, è stato realizzato tramite l’informatizzazione di alcuni processi, consentendo ad ogni impresa l’accesso a servizi informativi e di assistenza per la penetrazione commerciale e le attività di investimento; la digitalizzazione dei servizi e l’unicità del riferimento ha permesso una più rapida ed economica gestione delle risorse disponibili ed ha assicurato alle imprese una risposta diretta ai propri bisogni.35 La creazione di una piattaforma informatica sotto un’egida comune e il concetto di interfaccia unica sono stati pensati e caldeggiati dalla Commissione Europea al fine di creare un ambiente semplice e snello per favorire il commercio. L’Italia ha recepito la direttiva europea e ha posto, tramite il Ministero dello Sviluppo Economico, le fondamenta per la digitalizzazione delle pratiche necessarie ai fini dell’internazionalizzazione.36 La centralizzazione delle linee guida non deve comunque soppiantare le preziose attività che nascono a livello locale: al pari della valenza del distretto industriale, il terriorio circostante l’impresa può rappresentare per questa il piatto d’argento su cui viene proposta l’offerta produttiva. Specialmente per il Made in Italy, un’immagine unitaria e ben definita del territorio conferisce al prodotto manifatturiero unicità e inimitabilità, rendendolo il risultato del cammino storico-culturale di una specifica popolazione e rispondendo in maniera efficace a quelle che sono le istanze del glocalismo. Scelte più ampie di natura politica, fattori economico-strutturali e innumerevoli altre cause riconducibili all’inefficienza burocratica concorrono alla formazione di un habitat non congeniale alle dinamiche d’impresa. Si possono cogliere alcuni di questi fattori da una rassegna dei cento divari strutturali fra l’Italia e la media europea ripresa da 35 Ibidem 36 Ivi, p.333.
  • 27. 27 Confartigianato e basata su dati provenienti da numerose fonti ufficiali:37 fra i più significativi, è da segnalare il fatto che l’Italia presenta divari negativi per quanto riguarda la natalità, la spesa sociale al netto di pensioni e sanità, la dotazione di infrastrutture, l’uso di rigassificatori e termovalorizzatori, il trasporto di merci su ferrovia, gli investimenti di venture capital, l’utilizzo dell’e-commerce, l’uso di internet da parte della popolazione e l’accesso delle imprese alla banda larga. Sempre dallo stesso rapporto, spiccano in negativo le giornate perse in scioperi, i prezzi dell’energia elettrica pagata dalle imprese, la percentuale dei giovani tra i 18 e i 24 anni con la sola licenza media, il tasso di disoccupazione giovanile, la bassa attrattività delle università italiane, la quota relativamente contenuta di laureati in materie scientifiche e tecniche e il basso tasso occupazionale delle donne. Come già accennato in precedenza inoltre, non si può ricondurre alle sole costituenti pubbliche/istituzionali il mancato funzionamento a regime del Sistema. “Dal punto di vista culturale non è difficile notare in Italia la mancanza di una vera identità nazionale. Il nostro orgoglio, che è sempre individuale e mai collettivo, non consente la formazione di un senso di appartenenza e rende poco chiaro agli occhi del mondo il nostro posizionamento sullo scenario internazionale” (Pratesi 2001:15). Dal punto di vista sociale e morale l’analisi di vizi e virtù della società italiana apparirebbe soltanto superficiale se ridotta ad una breve elencazione. È importante semmai considerare che la reputazione politica, in termini di credibilità, continuità e coerenza, dovrebbe essere l’amalgama che lega autorevolmente ogni iniziativa del Paese, di qualsiasi natura essa sia. L’intervento 38 dell’allora Viceministro Catia Polidori (delega al Commercio estero del Ministero dello Sviluppo Economico) agli Stati Generali del Commercio Estero del 28 ottobre 2011 fa da corollario a quanto fin’ora detto. Dopo aver definito il Made in Italy “marchio di qualità 37 Cfr. 2° Rapporto dell’Osservatorio Nazionale dei Distretti industriali, p.168. 38 www.sviluppoeconomico.gov.it
  • 28. 28 dell’Italia nel mondo” e dopo averne lodato la performance esportativa nel 2010 e l’exploit all’expo di Shangai, l’Onorevole ha tracciato il bilancio della governance recente del commercio internazionale e ha individuato nella sinergia Stato-Regioni (divenute nel 2000 co-titolari delle politiche di export) una formula non sempre funzionante: “dobbiamo pensare assieme al riassetto del comparto commercio estero per evitare sovrapposizioni di programmi, eventi e presenze, che dilapidano la credibilità dell’Italia nel mondo e le risorse dei cittadini”. Il Viceministro ha poi chiarito qual è il ruolo della politica, “chiamata a predisporre un contesto migliore per consentire alle imprese di svolgere proficuamente la propria attività e ai flussi commerciali di svilupparsi e prosperare con il minimo possibile di intralci” e ne ha precisato gli impegni principali: nell’ambito del negoziato sui dazi e le barriere tariffarie dell’OMC, riuscire a ridurre i picchi tariffari per le esportazioni nei mercati emergenti che, pure al netto delle barriere non tariffarie, rendono “sostanzialmente inaccessibili” certi mercati specialmente per le PMI; a livello europeo, sempre nell’ambito dei negoziati OMC, rinnovare l’attenzione alla tutela dell’origine, ideazione, inventiva e creatività dei prodotti; contrastare tutte le forme sleali di dumping.
  • 29. 29 2. Lo sviluppo dell’economia cinese: opportunità per il Made in Italy 2.1 Dall’apertura al libero mercato al secondo posto nell’economia mondiale È del tutto normale concepire il fatto che il quarto paese del mondo in termini di grandezza territoriale, nonché primo per popolazione con più di un miliardo e trecento milioni di cittadini, si posizioni al secondo posto nella classifica delle migliori economie mondiali in termini di Pil. Quando però il paese in questione è la Cina, il successo economico desta nell’opinione pubblica occidentale un po’ di stupore. Forse perché questo Paese è stato assente, fino al recente passato, dallo scenario economico contemporaneo a causa di scelte politiche che ne precludevano l’entrata; forse invece a causa di un retaggio culturale della società occidentale che reputa ancora un’inconsuetudine primeggiare con un antagonista asiatico. È, culturalmente, importante sapere che la Cina ha detenuto nei secoli (specialmente fra il XVI e il XVIII) una posizione di dominio dal punto di vista scientifico-tecnologico ed economico e ha saputo sviluppare modelli istituzionali oggetto di studio e ammirazione da parte di tanti intellettuali europei.39 In quel periodo, l’Europa non era in grado di offrire prodotti da scambiare con i raffinati beni di consumo cinesi (fra tutti, seta, porcellane e gioielli venivano scambiati con ingenti quantità di oro e argento) e la bilancia commerciale vedeva una forte sperequazione a favore del Paese asiatico. Oltretutto, la Cina, rifiutando qualsiasi trattato commerciale che prevedesse condizioni meno penalizzanti per le potenze occidentali e respingendo ogni tentativo di ingresso straniero di natura economica-politica nel proprio territorio, si è caratterizzata per essere stato storicamente un paese chiuso e diffidente. Solo tramite il ricorso a strumenti militari e politici gli europei riuscirono a trasmettere ed instillare modelli di comportamento e di consumo occidentali e a garantire il ‘libero’ commercio (a loro condizioni favorevoli) e la rappresentanza diplomatica 39 Cfr. Storia dell’Asia Orientale, Enrica Collotti Pischel, Carocci, 1994.
  • 30. 30 in Cina.40 Ancora oggi, pertanto, senza voler forzare un anacronistico parallelismo, oltre alle consuete incombenze e problematiche che chi vuol far business in un paese estero deve affrontare, occorre tener presente che, in Cina, l’operatore economico straniero e i suoi prodotti trovano successo solo se in grado di interpretare anche aspetti sociali e culturali del tutto caratteristici. Dopotutto, l’imprenditoria privata cinese è giovanissima e i rapporti instaurati con i partner stranieri sono altrettanto recenti. La prima apertura volontaria cinese verso l’estero si verifica nel 1978, nell’ambito di un progetto economico-politico che, insieme alla graduale valorizzazione dell’iniziativa privata, rappresenta la svolta modernizzatrice per la Cina. Due anni dopo la morte di Mao Zedong, avvenuta nel 1976, si svolge una lotta interna al Partito per il controllo del potere, risoltasi con la vittoria di Deng Xiaoping, un politico riformista già dirigente nel Partito comunista cinese guidato da Mao. Precedentemente, il trentennio iniziato con la proclamazione della Repubblica Popolare cinese si distinse, dal punto di vista economico, per l’assoluta chiusura nei confronti di ogni influenza straniera e per un modello di sviluppo fondato sulla pianificazione centralizzata di stampo sovietico. Con l’avvento di Deng Xiaoping, il Comitato centrale del PCC non solo dà avvio alla ‘demaoizzazione’ dell’economia, ma ribalta anche le priorità politiche che per anni erano state ispirate soprattutto da ideologie leniniste: “la modernizzazione socialista rimpiazza la lotta di classe come parola d’ordine” (Valdani-Bertoli 2007:14). In realtà si parla di “quattro modernizzazioni”,41 cioè dell’intervento riformatore su agricoltura, industria, difesa e scienza. L’adozione di un sistema semi-privato di gestione della terra si estende in pochi anni ai settori industriali urbani e si crea di fatto un sistema di gestione economica misto che prevede la liberalizzazione dei 40 Il riferimento principale è alle Guerre dell’Oppio, 1839, 1858. 41 Cfr. Globalizzazione dei mercati e sviluppo dell’economia cinese. Giuseppe Bertoli, Impresa Progetto, 2008.
  • 31. 31 prezzi, l’ampliamento dell’autonomia decisionale delle imprese pubbliche e collettive e il decentramento del commercio con l’estero (Bertoli 2008:9). La seconda metà degli anni Ottanta consacra, non senza dolore, la natura di questo processo di riforma: i tassi di crescita si assestano ogni anno al di sopra dell’11% ma il carattere autoritario del Partito unico si manifesta in tutta la sua crudezza nel maggio del 1989 con la repressione in piazza Tian’anmen della massa popolare manifestante, esasperata dall’alta inflazione, da speculazione, corruzione e traffici illeciti. L’intero progetto sembra vacillare, ma a quel punto le trasformazioni sembrano irreversibili: “il mondo rurale e le autorità locali (specie quelle delle regioni costiere che hanno acquisito un’importante libertà di manovra economica e finanziaria) oppongono una forte resistenza al tentativo di ritornare allo status quo ante” (Bertoli 2008:9) e, in maniera collaterale, il crollo dell’Unione Sovietica convince l’ala moderata della classe dirigente che l’unica strada percorribile in Cina è quella dello sviluppo economico e del miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Ancora oggi, gli elevati tassi di crescita economica sono usati come ‘merce di scambio’ dal governo cinese: “un rallentamento della crescita o un’incapacità del governo di diffonderne i benefici a un numero sempre maggiore di cittadini potrebbe innescare fenomeni di protesta, che metterebbero in gravi difficoltà la leadership cinese stessa”.42 La garanzia di prosperità per i cittadini è così scambiata con la rinuncia a mettere in discussione l’autoritarismo politico e la limitazione dei diritti umani. Un’altra tappa fondamentale è il convincimento, maturato nei primi anni Novanta, che il socialismo non è in contraddizione con il libero mercato, poiché, secondo la Dirigenza governativa cinese, anche nel capitalismo sussistono forme di pianificazione economica. La formula del ‘socialismo di libero mercato’ (entrata nella Carta costituzionale del 1993)43 prevede il controllo statale sui soli settori strategici dell’economia, fatto 42 L’economia della Cina. Dalla pianificazione al mercato. Amighini-Chiarlone, Carocci, 2007, p.16. Citato in Valdani-Bertoli 2007:15. 43 Bertoli 2008:10.
  • 32. 32 non estraneo a quanto succede in maniera più o meno marcata in ogni paese avanzato. Piuttosto, il controllo statale si esplica tramite pratiche burocratiche cavillose e limitanti (se ne darà conto parlando dell’accessibilità del Paese). La valorizzazione dell’iniziativa privata e l’apertura verso l’estero definiscono il modello di sviluppo della Cina, incentrato appunto sull’attrazione di investimenti diretti esteri e su una massiccia attività esportativa. 44 Queste strategie rimangono comunque disciplinate implicitamente da provvedimenti legislativi funzionali alla massimizzazione dei propri vantaggi comparati (potendo sfruttare a costi bassissimi manodopera in attività labour-intensive, la Cina è considerata ‘la fabbrica del mondo’):45 gli IDE vengono attirati e canalizzati verso particolari aree geografiche e settori di attività, così come le importazioni destinate alla trasformazione o assemblaggio vengono esentate dai diritti doganali (Bertoli 2008:11). Il livello protezionistico cala sensibilmente nel 2001, quando la Cina entra a far parte dell’Organizzazione mondiale del commercio; la riduzione dei dazi imposti dall’Organizzazione, insieme all’accresciuto potere di acquisto della popolazione cinese e alla sua crescente domanda di beni di consumo esteri, rende oggi il mercato cinese altamente attrattivo anche per le imprese italiane. La modifica propedeutica di alcune leggi all’adesione all’OMC garantisce dal 2001 alle imprese straniere operanti in loco una maggiore autonomia nel sourcing di materie prime e di non esser più soggette alle restrizioni sulle vendite nel mercato interno cinese. Secondo la nuova legge sul commercio estero, in vigore dal luglio 2004, tutte le tipologie di imprese, comprese quelle private, possono registrarsi secondo il diritto 44 La Cina ha tuttavia da tempo avviato un ripensamento strategico sul proprio modello di sviluppo. I gruppi dirigenti hanno compreso l’urgente necessità di investire nell’economia della conoscenza e, quindi, nelle tecnologie ad alto contenuto di innovazione e nelle attività creative. 45 Nel 2010 la Cina, oltre ad aver raggiunto il secondo posto nell’economia mondiale, è anche diventata il primo paese per produzione manifatturiera: produce il 19,8% della quota globale. Ricerca Global Insight citata in www.bric.ubibanca.com
  • 33. 33 commerciale.46 Anche i residenti cinesi possono effettuare scambi con l’estero, anche se poi, ai fini della commercializzazione, è decisivo distinguere fra diritto di importare e diritto di distribuire, che implica un’autorizzazione e delle condizioni specifiche. Tavola 2 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 Quota di mercato cinese sulle esportazioni mondiali (composizioni percentuali) 3,4 3,4 3,9 4,3 5,1 5,8 6,5 7,4 8,1 8,9 Saldi di conto corrente della bilancia dei pagamenti cinese (valori in miliardi di dollari) 31,5 15,7 20,5 17,4 35,4 45,9 68,7 160,8 249,9 360,7 Esportazioni mondiali cinesi (valori in miliardi di dollari) 183,7 194,9 249,2 266,7 325,7 438,3 593,3 762,3 969,2 1219,6 Elaborazione su dati del Rapporto Paese congiunti Ambasciate/Uffici Ice estero 2010 Nella tavola 2 sono riportati dati sintetici recenti che dimostrano l’inarrestabile crescita economica-commerciale cinese. Fa ancora più effetto considerare che nel 1980 la quota cinese sulle esportazioni mondiali era pari allo 0,9% del totale. Al 2007 invece, la quota indicata in tabella è la seconda più alta nel mondo dopo quella tedesca (9,7%) e prima di quella statunitense (8,5%). La differenza fra le esportazioni e il saldo positivo della bilancia dei pagamenti inoltre, dà come risultato le importazioni, anch’esse costantemente in aumento. Il prodotto interno lordo a prezzi correnti nel 2010 ammonta47 a 5.878 miliardi di dollari, il secondo valore mondiale dopo quello degli Stati Uniti d’America. Il Pil pro capite è ovviamente ancora molto basso (4.382 dollari pro capite nel 2010) anche se come si vedrà la distribuzione della ricchezza è tutt’altro che uniforme. La crescita di questi indicatori è stata in ogni caso esponenziale: soltanto nel 2001, anno dell’entrata nell’OMC, Pil e Pil pro capite ammontavano rispettivamente a 1324 miliardi e 1038 46 Rapporti Paese congiunti Ambasciate/Uffici Ice estero 2010, p.12. 47 Dati: Fondo Monetario Internazionale.
  • 34. 34 dollari.48 La letteratura sullo sviluppo economico cinese è vastissima, così come lo è la quantità di dati in merito. Quel che è più significativo ai fini di questa tesi è ciò che potenzialmente può favorire l’internazionalizzazione commerciale delle imprese italiane; pertanto, col prossimo paragrafo si intende ricercare fra i dati a disposizione le opportunità per il Made in Italy in questo grande mercato. Anche la natura delle importazioni della Cina è infatti variata negli ultimi anni: con un aumento del reddito pro capite e il conseguente aumento dei consumi è aumentata anche la domanda e l’importazione di beni finiti. L’Italia ha beneficiato di questa apertura al commercio internazionale per la quale la Cina, in quest’ultima fase, si pone non solo come paese trasformatore ma anche come consumatore. La politica di aumento dei consumi è uno dei punti rilevanti del 12° piano quinquennale approvato il 14 marzo 2011 dal Comitato centrale del Partito comunista cinese: “le linee guida del nuovo piano quinquennale promettono ulteriori manovre atte a stimolare il consumo interno, per rendere possibile l’auspicata trasformazione della Cina da fabbrica del mondo a polo di consumo, e poter così dipendere di meno dalle esportazioni verso i paesi dell’Ovest”.49 2.2 Il mercato cinese Una premessa introduttiva è doverosa: con questo paragrafo non si vuole compiere un’analisi completa dell’attrattività commerciale della Cina. In mancanza di un prodotto/settore specifico a cui riferire l’analisi, sarebbe errato fare una stima indistinta del mercato potenziale50 per tutti i prodotti italiani. Lo scopo è tracciare un quadro d’insieme delle variabili che 48 Fondo monetario internazionale. www.imf.org 49 Bollettino economico Repubblica Popolare Cinese – secondo semestre 2010. Camera di Commercio Italiana in Cina, 2011. 50 “Il mercato potenziale può essere inteso come la massima capacità del paese di assorbire, in un definito ambito spazio-temporale, il prodotto considerato e quindi come espressione del suo grado di attrattività”. (Valdani-Bertoli 2007:116).
  • 35. 35 comunque concorrono a rendere il mercato cinese appetibile per le imprese del Made in Italy. Vengono considerate alcune variabili demografiche-economiche, il comportamento d’acquisto del consumatore cinese e le normative che regolano gli scambi commerciali. Quest’ultimo aspetto è quantomai rilevante nel determinare il successo o il fallimento di un seppur eccellente piano di marketing: “la diffusione del Made in Italy in Cina è legata a fattori che spesso esulano dal prezzo di vendita ed attengono invece alle restrizioni del mercato. Far arrivare un abito di griffe in una vetrina di Pechino è più difficile che venderlo”.51 2.2.1 Variabili socio-demografiche ed economiche La crescita economica cinese ha ovviamente innalzato il potere d’acquisto della popolazione, ma, come detto, il pil pro capite ancora basso è solo uno dei tanti elementi che impongono cautela di fronte ad un numero di abitanti così elevato. Non si può di certo pensare che il miliardo e 330 milioni di persone che popolano questo paese siano tutti potenziali consumatori di prodotti Made in Italy, tutt’altro. Innanzitutto, di questi, coloro che vivono in condizioni di povertà (cioè con meno di un dollaro al giorno) sono 173 milioni;52 inoltre, 721,35 milioni di abitanti, circa il 54,3% del totale, vive nelle campagne53 ed è ancora avulso dai bisogni tipici dell’economia della vita borghese. La distribuzione della popolazione sul territorio, altro fattore che si correla con la differenza di reddito, è irregolare: il 56,5% della popolazione vive nella Cina Orientale e Meridionale, che corrispondono insieme al 18,8% del territorio. 54 Una qualsiasi analisi non può dunque trascurare la disomogeneità dei consumatori cinesi; oltre alle disparità geografiche e di reddito, anche in quella fascia che può acquistare a prezzi tipicamente occidentali occorre 51 La Cina per le aziende italiane: minacce ed opportunità, Romeo Orlandi, in Mondo Cinese n.118, 2004. 52 Bertoli 2008:17. 53 Profilo economico della Cina, Ice Shanghai, 2010, p.7. 54 Ibidem
  • 36. 36 soppesare le incognite legate ad un mercato culturalmente diverso e che si sta interfacciando per la prima volta al consumismo. Attualmente il riferimento per le imprese italiane deve essere la classe benestante cinese, stimata nel 2010 in circa 95 milioni di individui55 (per classe benestante si intende l’insieme di persone con un Pil pro capite di almeno 30.000 dollari a parità di potere d’acquisto e prezzi del 2005). Questo numero ammonta per ora al 7,1% dell’intera popolazione ed è superiore al numero di abitanti residenti in Germania (81 milioni di individui con un Pil pro capite di 32.138 dollari nel 2010).56 Secondo altre stime,57 i nuovi benestanti con redditi superiori a 50.000 euro annui sono circa due milioni, di cui soltanto 300.000 sono i veri nuovi ricchi, ovvero coloro che possiedono ingenti capitali finanziari e redditi davvero elevati. In ogni caso, ciò che rende la Cina un inestimabile mercato di sbocco è la previsione secondo la quale la classe benestante raddoppierà ogni cinque anni nella decade 2010-2020.58 Nel 2015 i cinesi abbienti ammonteranno dunque a 201 milioni, per poi raggiungere nel 2020 una cifra paragonabile a quella di tutta la popolazione dell’Europa Occidentale (421 milioni di abitanti con Pil medio pro capite di 36.088 dollari). Già oggi, al raggiungimento di un certo livello di reddito, la ‘voglia di benessere’ abbassa la propensione al risparmio e fa scattare la domanda di beni associati a modelli di consumo più sofisticati. Nel 2010 il consumo 55 È stata accettata questa stima di Manuela Marianera (Marianera 2011) benché nella letteratura a riguardo ce ne siano di discordanti. Ad esempio, Bertoli (in Bertoli 2008) cita una ricerca di Ivana Casaburi (China as a Market: what is the real market for international brands?, 2008) in cui viene profilato un segmento definito ‘classe media’, composto da 300 milioni di persone con un reddito fra i 3.600 e 7.000 euro annui. A questo segmento viene attribuita “un’alta propensione alla spesa finalizzata alla ricerca di riconoscimento sociale”. Il segmento più alto in termini di reddito (7.200- 18.000 euro) sarebbe composto soltanto da 10 milioni di persone. Relativa concordanza c’è con Bicchielli (Bicchielli 2010) solo nella stima del microsegmento dei super ricchi: Casaburi indica dalle 320 mila alle 500 mila persone con reddito sopra i 60.000 euro annui; Bicchielli ne individua 2 milioni con reddito sopra i 50.000 euro annui. Questa incongruenza di dati testimonia la limitatezza delle informazioni disponibili e la difficoltà di condurre analisi di mercato in Cina. In questo caso la stima proposta da Marianera è parsa più selettiva e affidabile, considerando anche che i dati reddituali trascritti da Bertoli (in euro) non si sa se siano a parità di potere di acquisto o meno. 56 Ibidem 57 Cfr. Bicchielli 2010:108. 58 Marianera 2011:2.
  • 37. 37 privato sul Pil della Cina è stimato a quasi il 36% (calcolato su valori nominali), pesando a PPA per l’8,7% su quello mondiale. Se le politiche di stimolo dei consumi avranno successo, l’incidenza sul Pil potrebbe raggiungere il 45% nel 2015 e il 50% nel 2020.59 Per le imprese diventa anche essenziale localizzare questa classe benestante, essendo la Cina un paese vasto 9,6 milioni di kmq, più del doppio dell’UE. La suddivisione amministrativa attuale prevede 22 province, 5 regioni autonome, 4 municipalità e 2 regioni amministrative speciali, ognuna delle quali si rapporta diversamente con il governo centrale. Da ogni ricerca in merito, appare evidente che il reddito e il consumo della popolazione sono più alti nelle aree urbane e aumentano in relazione al posizionamento geografico e alla dimensione delle città. Secondo la suddivisione utilizzata anche dal Governo cinese per predisporre i piani di sviluppo, si individuano 3 macro-aree economiche: l’Ovest, che copre il 71% del territorio nazionale e conta il 28% della popolazione; il Centro, che occupa il 18% del territorio e ospita il 32% della popolazione; l’Est, che comprende soltanto l’11% del territorio ma accoglie il 40% della popolazione e genera il 58% del Pil e il 60% dei consumi dell’intera Cina.60 L’Est è costituito dalle province che si affacciano sul mare: la presenza di infrastrutture, una più solida base produttiva e le migliori condizioni territoriali sono alla base della maggiore prosperità dell’area costiera, in cui si stima viva il 73% dei cinesi benestanti.61 Una ricerca di Normandy Madden62 citata da Bertoli (Bertoli 2008:22) suggerisce la seguente macrosegmentazione geografica dei consumatori cinesi: consumatori residenti nelle città di medie dimensioni delle regioni interne; consumatori residenti nelle grandi città delle regioni interne e costiere; consumatori residenti nelle città di maggiori dimensioni. Nel primo segmento, il reddito pro capite e la conoscenza dei mercati esteri 59 Ivi, p.3. 60 Marianera 2011:5. 61 Ibidem 62 Tier tale: how marketers classify cities in China, 2007.
  • 38. 38 sono limitati; questi consumatori non evidenziano propensione all’acquisto di prodotti importati e in ogni caso non considerano la componente ‘moda’ di un bene, per cui i prodotti possono eventualmente riscuotere successo alla fine del loro ciclo di vita. I consumatori del secondo segmento dispongono di un reddito più alto ma, anche in questo caso, la funzionalità del bene continua ad essere l’attributo chiave nei loro acquisti. Nel terzo segmento si trovano consumatori che dispongono di un reddito pro capite elevato e vivono nelle aree maggiormente interessate dallo sviluppo economico; in questo caso, c’è maggior familiarità e ricezione verso i prodotti importati e la ricerca di comfort, qualità e design portano questi potenziali acquirenti a corrispondere un premium price per ottenere quanto desiderato. Fra le città più ricche si distinguono Shanghai, Pechino, Guangzhou e Shenzhen, mentre le province con la classe benestante più vasta sono: Guangdong, Jiangsu, Shandong, Shanghai e Pechino. Altre caratteristiche socio-demografiche dei consumatori cinesi sono interessanti ai fini della commercializzazione dei prodotti Made in Italy. L’età media in Cina è 34,1 anni, nettamente inferiore a quella dei paesi occidentali più giovani; nel 2009 c’erano 460 milioni di persone di età compresa tra i 20 e i 44 anni, la fascia di età che spende di più (Marianera 2011:12) ed è più scolarizzata. I giovani in particolare mostrano interesse verso le nuove tecnologie, i modelli di comportamento e consumo occidentali e sono avvezzi all’uso di internet. Il numero di internauti nell’intera Cina ha raggiunto i 420 milioni nel giugno 2010 e l’e-commerce sta crescendo più che in qualunque altra parte del mondo: da gennaio a giugno 2010 il numero di persone che ha utilizzato la rete per fare shopping ha raggiunto i 142 milioni (Marianera 2011:11). Determinante è anche l’ascesa delle donne nella società cinese:63 oltre a costituire un target a sé stante portatore di relativi bisogni, 63 Nelle università cinesi sono iscritte 104 studentesse ogni 100 studenti maschi; ogni 100 tecnici 52 sono donne e in Parlamento il rapporto è 21/100. Il reddito medio delle donne è stimato essere il 68% di quello maschile, ancora basso ma in costante aumento (Marianera 2011:13).
  • 39. 39 l’impatto di un tale fenomeno contribuirà al cambiamento delle priorità di spesa anche all’interno del loro nucleo familiare e relazionale. 2.2.2 Comportamento d’acquisto del consumatore cinese Precedentemente si è accennato in nota alla difficoltà di quantificare e definire macro e micro segmenti di consumatori in un mercato così grande e variegato. La stessa difficoltà si riscontra nell’attribuire ad ognuno di questi segmenti un appropriato atteggiamento di consumo. Grazie alla corrispondenza fra alcune ricerche e le impressioni personali di chi in Cina soggiorna e lavora, si è in grado quantomeno di delineare qual è l’approccio del ceto medio-alto cinese verso i brand internazionali. Un primo documentato fenomeno 64 dovrebbe essere il punto di partenza per ogni considerazione successiva: contrariamente ad una percezione largamente diffusa in Occidente, i consumatori cinesi (anche se abbienti) preferiscono l’acquisto di prodotti nazionali qualora non dovessero riscontrare in quelli esteri delle particolari qualità esclusive. Non è un caso infatti che il riposizionamento competitivo del Made in Italy venga proprio incontro all’esigenza di accrescere la qualità materiale ed intangibile dei prodotti. C’è però da dire che, almeno in assenza di informazioni e nell’impossibilità di paragonare direttamente l’offerta, i prodotti stranieri godono fra i consumatori cinesi di maggior reputazione rispetto agli omologhi nazionali. Prendendo come riferimento l’indagine ‘Check-in Cina’, condotta dalle società di ricerca GPF e ABG,65 si sostiene che i cinesi reputano i prodotti stranieri migliori e desiderabili perché attribuiscono loro il primato della qualità e dello stile. Il prodotto straniero è concepito come un simulacro moderno da integrare nella propria tradizione culturale, a cui i cinesi si sentono molto legati. In questo senso, il prodotto consente di 64 Cfr. Orlandi 2004; Cfr. Symbolic value of foreign products in the People’s Republic of China, Lianzi-Hui, Journal of International Marketing, 2003. 65 Non è stato possibile consultare la fonte primaria; un rapporto dettagliato è presente nella sezione ‘analisi e ricerche’ del sito www.agichina24.it
  • 40. 40 emulare un modello comportamentale occidentale e il consumatore cinese che ostenta brand internazionali ottiene riconoscimento e prestigio sociale. “I cinesi si sentono in cammino verso la modernità che in molti campi è oggi rappresentata da alcune categorie di prodotti occidentali, ma al tempo stesso sono orgogliosi della loro tradizione culturale”.66 Il consumatore cinese non è dunque alla ricerca dell’identificazione valoriale col brand, si serve di esso solo in modo strumentale, sfruttando il riferimento all’elevato standard di vita che caratterizza il mondo dal quale il marchio proviene. Da questo punto di vista, oggi tanti prodotti Made in Italy (in particolare quelli del settore moda) sono innanzitutto dei totem, miti materiali da possedere e sfoggiare. Altri beni considerati attualmente indispensabili dalle famiglie benestanti vanno dalla casa (vero e proprio status symbol ambìto dal ceto medio) ai prodotti d’arredo che la completano; dalla telefonia, elettrodomestici, elettronica, mezzi di trasporto fino anche a sconfinare in modelli consumistici di natura ricreativa come l’happy hour. Il carattere di questi nuovi consumatori si può definire aspirazionale, cioè di sostanziale aspirazione allo status (Pietrasanta 2009:121) e l’approccio verso i consumi è ancora dettato dal possesso materiale, diversamente da quanto accade ormai in mercati più maturi in cui l’acquisto deve garantire anche una maggiore qualità della vita. Queste indicazioni sono fondamentali per le imprese italiane ai fini di una pianificazione promozionale efficace: una comunicazione referenziale del prodotto non sarà sufficiente a conquistare un consumatore desideroso di possedere un ‘simbolo’; ad essa andrà affiancato un immaginario, e soprattutto un’esperienza, che assecondino le dimensioni del sogno e del desiderio del fruitore. Ad esemplificare bene il concetto di ‘esperienza’ legata al prodotto è un piccolo esperimento tratto nuovamente dalla ricerca ‘Check-in Cina’. Sono state scelte tre produzioni tipiche alle quali gli italiani conferiscono una sorta di esclusiva e alle quali è riconosciuto un 66 Le opportunità per i prodotti italiani in Cina, www.agichina24.it
  • 41. 41 primato di gusto e qualità: la pizza, il caffè, il gelato. È stato poi chiesto ai cinesi intervistati di pensare a delle associazioni mentali riferite a questi prodotti. Si poteva supporre che le associazioni riguardassero Napoli, il Colosseo o per esempio piazza San Marco. Niente di tutto questo. Secondo i risultati della ricerca, i tre prodotti sono stati associati rispettivamente a Pizza Hut, Starbucks e Haagen-Dazs.67 Non si consuma solo un prodotto: oggi più che mai in Cina, il marchio offre al consumatore un’esperienza e lo rende partecipe di uno stile di vita. Nel caso di prodotti del settore agro-alimentare comunque, la domanda cinese si è mostrata sensibile anche ad aspetti concreti quali la genuinità e i contenuti nutrizionali, determinando la richiesta di prodotti alimentari premium.68 2.2.3 Aspetti normativi e legislativi L’apertura commerciale della Cina ha ricevuto una sorta di ufficializzazione con l’ingresso nell’OMC; tuttavia, fenomeni corruttivi e clientelari ricorrenti, un sistema legislativo ambiguo e la ridotta trasparenza di alcune pratiche burocratiche costituiscono ostacoli al libero commercio per le imprese estere. Per di più, i governi locali spesso non hanno le risorse e la volontà politica di recepire gli atti legislativi che a livello centrale entrano in vigore per disciplinare l’ambiente economico in costante evoluzione; quando poi gli atti vengono ratificati, il governo cinese pubblica degli ‘avvisi di pubblica informazione’ che molto spesso non vengono nemmeno tradotti in inglese.69 Nella ‘panoramica di rischio paese’ redatta dalla Fondazione Italia Cina nel 2010 si continua a dare per “certa” l’attività protezionistica cinese nei confronti della propria industria nazionale, cosicché le difficoltà di 67 Sono tutte e tre famose multinazionali americane che hanno commercializzato i loro prodotti (pizze, caffetteria, gelati e dolci) in pressoché tutti i paesi sviluppati del mondo. Ovviamente in Italia non hanno mercato. 68 Rapporti Paese congiunti Ambasciate/Uffici Ice estero, 2010. 69 Cfr. Rapporti Paese congiunti Ambasciate/Uffici Ice estero, 2010. p.32.
  • 42. 42 accesso al mercato in numerosi settori rimarrà inalterata. Il filtro protezionistico si basa prevalentamente su barriere non tariffarie, in particolare relative agli standard. La Cina, non adottando spesso standard internazionali, invalida il principio di parità di trattamento (che dovrebbe costituire uno dei cardini della partecipazione all’OMC) e richiede requisiti (di sicurezza, fitosanitari, di qualità ecc.) più alti alle aziende straniere. Fra i tanti, si segnalano il ‘sistema di certificazione obbligatoria’ (China Compulsory Certification System) che non appare del tutto conforme con alcuni princìpi posti dal WTO technical Barriers to Trade Agreement (per esempio pone ostacoli al settore auto causando costi addizionali di omologazione) e la regolamentazione in materia di etichettatura per i prodotti alimentari preconfezionati (General Standard of Labelling) che implica restrizioni eccessive rispetto agli obiettivi perseguiti.70 L’Italia è colpita da queste forme di protezionismo del mercato sia nei settori industriali (parti per auto, apparecchiature domestiche di cottura a gas) sia nel comparto agroindustriale, dove la Cina impone appunto una serie di misure sanitarie smisurate e frappone ostacoli tecnici (ispezioni continue, non-adesione agli standard internazionali quali il Codex Alimentarius, ritardi alle richieste di autorizzazione ecc.) che di fatto frenano l’apertura di questo segmento produttivo. Le barriere tariffarie, in conformità con gli adempimenti assunti nel protocollo di adesione all’OMC, si stanno progressivamente abbassando: la tariffa media dei dazi è scesa dal 35% ad valorem del 2001 al 9,8% del 2009 (nel 2008 si registra ancora un 15,3% di media sui prodotti agricoli e 8,8% su quelli industriali). 71 In fase di sdoganamento permangono tuttavia sia un dazio doganale (ad valorem) sia l’imposta sul valore aggiunto da versare direttamente alle autorità doganali.72 La scelta di commercializzare i prodotti italiani in Cina prevede anche la possibilità di investire in territorio cinese per, ad esempio, costituire una 70 Ibidem 71 Ibidem 72 Business Atlas 2011, Assocamerestero.
  • 43. 43 società di trading o un semplice ufficio di rappresentanza. La normativa cinese sugli investimenti stranieri permette infatti di realizzare diversi tipi di società, denominate dal diritto locale ‘Foreign invested enterprise’ (FIE). Le principali tipologie di FIE sono due: le ‘Wholly foreign-owned enterprise’ (WFOE), cioè società a totale capitale straniero e le Joint Venture, società miste che a loro volta si dividono in ‘Equity joint venture’ e ‘Cooperative joint venture’. La scelta della forma di investimento dal punto di vista della proprietà consiste dunque nel decidere se investire autonomamente o insieme ad un partner locale. Quel che più interessa ai fini di questo lavoro è l’investimento finalizzato allo svolgimento di un’attività commerciale: il settore della distribuzione e vendita all’ingrosso e al dettaglio è stato aperto nel 2004 agli investitori stranieri; a questi ultimi è consentito costituire società commerciali dette FICE (‘Foreign invested commercial enterprises’), anche se non sempre è consentita la libera scelta73 fra la forma WFOE o Joint Venture. La normativa in vigore denominata ‘Measures for the Administration of Foreign Investment in the Commercial Sector’ disciplina le attività di vendita al dettaglio (si intendono anche vendite attraverso TV, telefono, posta, internet e distributori automatici), vendita all’ingrosso, distribuzioni sulla base di contratti di agenzie, franchising e apertura di punti vendita (per le società straniere di trading già presenti in Cina). Spesso, la condizione restrittiva a cui sono soggetti questi settori comporta l’obbligo di avere un partner locale con una percentuale di quote societarie minima ben definita; in ogni caso, la distribuzione diretta dei propri prodotti, oltre ad incrementare i profitti, 73 In alcuni casi l’investitore estero è obbligato a scegliere la sola forma della Joint Venture, visto che in alcuni settori è imposta dallo Stato la compartecipazione di un partner locale. Il Catalogue for the Guidance of Foreign Investment Industries elenca i settori industriali nei quali gli investimenti stranieri sono incoraggiati, ristretti o proibiti. Nel Catalogo c’è un capitolo relativo proprio all’Industria del Commercio all’ingrosso e al dettaglio: fra i più significativi, sono ristretti gli investimenti per la costituzione di società commerciali di vendita diretta e per corrispondenza/internet di “commodity” (non si capisce bene se ci sono delle merci specifiche colpite dalla restrizione), il franchising, la distribuzione e vendita di prodotti audiovisivi (film esclusi), commercio all’ingrosso e distribuzione al dettaglio di beni fra cui zucchero, medicinali, tabacchi, automobili e beni strumentali per la produzione agricola. In moltissimi casi oltretutto i cinesi devono detenere la maggioranza delle azioni. Fonte: www.investment.gov.cn
  • 44. 44 permette una maggiore conoscenza del mercato e una posizione solida che garantisce una presenza stabile e non basata sulla volontà discrezionale dell’agente o del distributore. L’ufficio di rappresentanza è una presenza non dotata di personalità giuridica e non abilitata a svolgere attività commerciali dirette (non può importare o vendere prodotti); per alcune esigenze specifiche resta tuttavia una forma di presenza di veloce avviamento e dai costi relativamente limitati, che può svolgere funzioni di promozione e raccordo. La ‘Company Law’ (la normativa che disciplina le società di capitali in Cina) prevede anche la possibilità di costituire una sede secondaria detta ‘branch’ per la società straniera; come l’ufficio di rappresentaza non è dotata di personalità giuridica, ma al contrario di esso, previo ottenimento delle licenze necessarie, può svolgere attività commerciali e produttive. Un importante provvedimento del Governo cinese è stato adottato in merito alla tutela dei segreti commerciali: nell’ambito del contratto di franchising, il franchisee sarebbe passibile di risarcimento danni nel caso in cui comunicasse o consentisse a terzi l’utilizzo di tali segreti commerciali.74 2.3 L’export italiano in Cina L’Italia rappresenta al 2010 il quindicesimo partner commerciale della Cina per volume complessivo degli scambi commerciali. Questa posizione non manifesta però la natura dell’interscambio e rappresenta anzi una sorta di media beffarda nei confronti del Paese europeo; l’Italia è infatti decima nella classifica dei paesi importatori di prodotti cinesi ma è soltanto ventunesima nella classifica degli esportatori verso la Cina. Nel 2010 l’Italia ha importato merce cinese per un valore pari a circa 31 miliardi di dollari ed ha esportato al contrario per un valore pari a circa 14 74 Fare affari in Cina. Guida alle normative cinesi sugli affari. Ice, 2010.
  • 45. 45 miliardi di dolllari.75 In Europa comunque l’Italia è terza fra i paesi che esportano in Cina, alle spalle di Germania e Francia; nel 2009, anno del crollo economico-commerciale mondiale, proprio dall’export è venuto un dato incoraggiante per il futuro del Made in Italy in Cina: a fronte di una contrazione media degli scambi globali del 12%, le esportazioni italiane in questo mercato si sono ridotte in misura molto meno accentuata (-5,4%). La serie storica di dati relativi all’interscambio (Tavola 3) mostra un aumento costante a tassi lievemente decrescenti sia delle importazioni sia delle esportazioni italiane in Cina. Progressivamente crescenti (se si eccettua il brusco calo del 2009) sono invece i saldi commerciali positivi per la Cina: solo nei primi sei mesi del 2011 il saldo provvisorio ha raggiunto i 9 miliardi di dollari, più della metà del dato annuale 2010; le esportazioni sono oltre il doppio delle importazioni cinesi dall’Italia. Tavola 3 2006 2007 2008 2009 2010 Interscambio commerciale Cina-Italia (Mln USD) 24.581,05 31.393,91 38.265,78 31.272,82 45.129,53 Importazioni dall’Italia (Mln USD) 8.605,62 10.216,50 11.657,47 11.026,60 13.993,69 Esportazioni verso l’Italia (Mln USD) 15.975,43 21.177,41 26.608,31 20.246,22 31.135,84 Saldo commerciale italiano (Mln USD) - 7.369,81 - 10.969,91 - 14.950,84 - 9.219,62 -17.142,15 Rielaborazione da Italian Trade Commission – Shanghai Office La composizione dell’export italiano in Cina è piuttosto polarizzato: a pochi settori viene ascritta la maggior parte del valore complessivo. Approssimando, nel 2011 il 50% dell’export italiano in Cina è composto da macchinari (elettrici e non), il 21% si riferisce ai semilavorati industriali (tra cui si distinguono le pelli e i prodotti farmaceutici) e l’abbigliamento e 75 Cfr. Bollettino economico Repubblica Popolare Cinese 2010, Camera di Commercio Italiana in Cina e Dati Ice. La quota italiana rappresenta l’1% del totale delle importazioni cinesi.
  • 46. 46 gli accessori rappresentano il 14% del totale. Più staccati in graduatoria sono i veicoli e mezzi di trasporto (4%) e due settori tradizionali del Made in Italy: l’agroalimentare (1,3%) e l’arredamento (1,2%). Il restante 10% circa riguarda essenzialmente materie prime.76 Tutto sommato, la quota del settore arredamento è ragionevolmente alta, considerando che attualmente i prodotti italiani sono destinati solo ad una piccola nicchia di consumatori e che le abitudini abitative della classe media cinese sono in divenire. È invece decisamente in ritardo il settore agro-alimentare: come si dirà nei focus dedicati, dall’Europa perfino la Germania esporta in Cina più prodotti alimentari dell’Italia. Al di là delle specifiche strategie aziendali e delle politiche istituzionali di cui si darà conto nei prossimi capitoli, ai fini dell’export viene reputata importante dagli operatori economici la presenza diretta delle imprese sul territorio estero.77 Questo vale tanto più per l’Italia, che a fronte del sistema distributivo cinese estremamente frammentato, sconta l’ulteriore debolezza di non disporre di operatori nazionali nella grande distribuzione. In Cina sono circa 2.000 le imprese stabilitesi attraverso le più varie modalità. I settori italiani più radicati sono quelli della meccanica e del tessile ma gli investimenti sono comunque abbastanza diversificati e la presenza italiana è virtualmente estesa in tutto il territorio cinese.78 In particolar modo, la delocalizzazione produttiva non permette soltanto il risparmio sui costi di produzione, ma agevola anche i tempi di consegna sul mercato locale, la gestione dell’assistenza e dei servizi post-vendita. Inoltre, “la tangibilità assicura una diversa percezione del prodotto/servizio straniero da parte della controparte cinese, conferendogli una credibilità che, spesso, anche un’indiscussa fama internazionale non è in grado di assicurare”.79 Questa teoria va 76 I dati indicativi sono tratti da alcuni rapporti Ice, ma sono forniti originariamente in dettaglio da Global Trade Informations Services, via internet al sito www.gtis.com 77 Rapporti Paese congiunti Ambasciate/Uffici Ice estero, 2010, p.21. 78 Ibidem 79 Ibidem
  • 47. 47 apparentemente in conflitto con quella di chi sostiene che produrre in Cina beni a forte caratterizzazione stilistica e qualitativa potrebbe screditare agli occhi del consumatore cinese il prodotto stesso: viene pertanto reputata vantaggiosa, per i beni di consumo, la produzione in Cina destinata alla locale fascia media, mantenendo in Italia la manifattura destinata alla fascia alta. 2.3.1 Focus comparti merceologici Lusso – L’Ice stima in una percentuale del 20/30% annuo il saggio di crescita atteso per il mercato dei beni di lusso; un Rapporto della Fondazione Italia Cina lo attesta invece al 10% annuo. Quel che è certo è che nei prossimi anni, con la crescita esponenziale della classe medio-alta, la Cina sostituirà il Giappone quale secondo mercato mondiale del lusso e la domanda verso i già rinomati beni di lusso italiani dovrebbe essere sempre maggiore. Sono già in aumento le importazioni anche da città di seconda fascia e anche i marchi ‘minori’ che hanno dedicato attenzione e risorse per adeguarsi al contesto cinese avranno numerose opportunità.80 A livello settoriale, occasioni rilevanti anche per il calzaturiero, pellettiero, occhialeria e, a dispetto degli elevati dazi, anche di oreficeria e gioielleria. Il tessile-abbigliamento può vantare sulla prestigiosa reputazione costruita negli anni dalle Case di moda storiche, Armani su tutte. Questo è il settore nel quale il consumatore cinese oltre alla semplice qualità cerca esclusività: per quanto riguarda l’abbigliamento, la distribuzione sul mercato è prevalentemente nella forma di negozio monomarca per i brand di lusso e, per i capi casual, in corner all’interno di centri commerciali delle grandi città. Vetrine importanti sono anche gli hotel di lusso che spesso ospitano eventi mondani e sfilate di grandi firme (Pietrasanta 2009:97). Arredamento – Come già anticipato, le notevoli potenzialità di questo settore possono contare sul cambiamento delle esigenze abitative della pololazione cinese, desiderosa di riflettere il proprio status su 80 La Cina nel 2010. Scenari e Prospettive per le imprese, Fondazione Italia Cina, 2010.
  • 48. 48 un’abitazione di qualità. L’Italia si colloca al quarto posto tra i paesi fornitori della Cina nel settore arredamento e le proprie quote sono in aumento. Agro-alimentare – L’urbanizzazione, l’influenza internazionale e l’aumento del reddito hanno contribuito al cambiamento degli stili di vita dei cinesi, che si aprono a modelli di consumo alimentare occidentali. La propensione verso prodotti tracciabili e di marca e la preferenza d’acquisto presso canali commerciali moderni si è accentuata inoltre notevolmente dopo lo sdegno provocato dal caso melamina del 2008 che ha sconvolto il settore lattiero-caseario.81 Il mercato delle categorie di prodotti con forte caratterizzazione locale è saturo e fortemente presidiato; maggiori possibilità sono concesse a tipologie di prodotti di ispirazione decisamente più occidentale, come gli alimenti surgelati, il cioccolato, i cereali a colazione, i succhi di frutta in bottiglia82 e soprattutto il vino. Anche per questo settore, l’emersione di nuove città in ambienti sociali diversi richiede un’offerta di prodotti sostenuta da azioni di marketing ad hoc. Ovviamente, l’apprezzamento in senso più ampio della cucina del Bel Paese necessita di un’attività propedeutica di educazione al prodotto italiano che dovrà essere sostenuta anche e soprattutto a livello nazionale. A livello di preferenza, l’agroalimentare italiano soffre tuttavia pesantemente la concorrenza di altri paesi europei, Francia in particolare: secondo la pubblicazione del MAE ‘Diplomazia economica italiana’ del giugno 2011, nel settore bevande e alcolici la Francia è nettamente al primo posto come paese fornitore della Cina, con un volume di export pari a 277,8 milioni di dollari contro i 21,8 milioni dell’Italia. Automazione – L’Italia potrà presumibilmente contare ancora per molti anni su una domanda cinese particolarmente sostenuta di macchine utensili, meccanica di precisione, componenti e semi-lavorati, logistica 81 In Cina melamina nel latte, gelati e yogurt, venerdì 19 settembre 2008, www.ilsole24.com 82 La Cina nel 2010. Scenari e Prospettive per le imprese, Fondazione Italia Cina, 2010.
  • 49. 49 interna e automazione, meccanica strumentale in genere. 83 L’industria cinese sta innalzando il valore tecnologico delle sue produzioni ma, tuttavia, di questo up grade potrà beneficiare anche il settore della componentistica italiana andando a soddisfare l’indotto del settore cinese automobilistico (la Cina è il terzo principale produttore di automobili), che può contare oggi sul mercato domestico più grande del mondo.84 Turismo – Si è deciso di annoverare il turismo in questa lista in quanto il processo di assimilazione culturale che spesso segue la visita di un paese può fungere da volano per la diffusione di prodotti italiani in Cina. Non solo: i tour dello shopping, specie della classe benestante, contribuiscono alla vendita di prodotti di lusso direttamente in Italia. Il turismo è una fonte di reddito inestimabile per tutta l’economia italiana; il Consiglio di Stato cinese incentiva la mobilità turistica e prevede che nel 2015 il flusso di turisti cinesi all’estero raggiungerà 83 milioni di persone, con un tasso di crescita annuo del 9%.85 Nel 2008 le mete europee hanno assorbito un flusso turistico del 5%: quasi 200.000 tusisti cinesi durante quel periodo hanno fatto la loro prima tappa in Italia.86 83 Rapporti Paese congiunti Ambasciate/Uffici Ice estero, 2010, p.20. 84 Ferrari ha conquistato la leadership del mercato del suo settore. L’immagine del Made in Italy in Cina è promossa anche da Maserati, Brembo e Magneti Marelli per la componentistica, Pininfarina e Icona tra i designer. Fiat dal settembre 2011 commercializza la nuova 500 e ha promosso il lancio ufficiale con una brillante azione di marketing, presentando al Salone dell’auto di Shanghai una Limited edition impreziosita da motivi grafici nati dalla creatività di cinque designer cinesi. Fiat è inoltre in procinto di lanciare un nuovo autoveicolo, prodotto in collaborazione con Guangzhou Automotive Company. (Fonte: Diplomazia Economica Italiana, Ministero degli Affari Esteri, n.9, 2011). 85 La Cina nel 2010. Scenari e Prospettive per le imprese, Fondazione Italia Cina, 2010, p.56. 86 Ibidem
  • 50. 50 3. L’importanza della country image nella proposizione del Made in Italy 3.1 Country image: un asset vincente per il Made in Italy Il riposizionamento competitivo del Made in Italy ha risposto ad una logica di miglioramento qualitativo funzionale ad una maggiore competitività internazionale. Si è detto che, oltre a far leva sulla componente tangibile del prodotto, la creazione di maggior valore avviene anche agendo su un insieme di fattori intangibili (prezzo, mix promozionale, distribuzione, servizi post-vendita) che favoriscono il consolidamento di un’immagine positiva da affiancare al prodotto. Il fattore che influisce in maniera più efficace sulla valorizzazione della componente intangibile resta tuttavia quello emozionale: in questo senso, il prodotto si avvale dei valori e del carattere dei quali nel tempo la marca di riferimento si è appropriata. Oltre al brand però, anche l’immagine del paese di origine contribuisce alla valorizzazione delle proprietà immateriali di un bene; per di più, la dimensione nazionale è inclusiva, e in alcuni casi la politica di marca potrebbe risultare inefficace qualora l’immagine del paese di appartenenza del brand non ne fosse rappresentativa o in sintonia. Inoltre, una volta individuate le determinanti che concorrono a definire la country image, anche decisioni manageriali relative alla configurazione internazionale delle attività andranno attentamente analizzate: delocalizzare per esempio la produzione di un bene di lusso in un paese in cui è riconosciuto un basso profilo qualitativo della manifattura, sicuramente assicura un vantaggio comparato (quello derivante dallo sfruttamento del costo della manodopera), ma probabilmente comporta lo svantaggio competitivo dovuto alla perdita dell’originaria localizzazione della produzione (si prenderanno in considerazione le implicazioni per le imprese nel prossimo paragrafo). In molti casi pertanto, nell’impossibilità di effettuare una scelta razionale basata sulla comparazione di un numero elevato di variabili, il