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I documenti raccontano
Dossier:
L’educatore Morelli
e la tragedia del laghetto Redecesio
Progetto i documenti raccontano
Progetto della Regione Lombardia
Direttore progetto: Roberto Grassi
U. O. Portale del patrimonio culturale
e valorizzazione degli archivi storici
Soggetto partner
Azienda di servizi alla persona
Istituti milanesi Martinitt e Stelline
e Pio Albergo Trivulzio
Archivio Storico e Iniziative Culturali
Con il finanziamento di
Soggetto realizzatore
Cooperativa CAeB, Milano
Ricerca e redazione di: Gabriele Locatelli
L’educatore Morelli e la tragedia del laghetto Redecesio
Cronologia
1935 - 1937
Luoghi
Milano – Lago Redecesio
Vicenda
È il 23 settembre 1935 quando l’educatore Oreste Morelli condusse la
compagnia a lui affidata per una gita verso la zona agricola che si trova
a est dell’istituto, a Segrate, ricca di verde e di laghetti artificiali.
Alla scampagnata non erano presenti gli orfani che devono sostenere gli
esami di riparazione. Morelli ha con sé 36 ragazzi, che porta verso il
laghetto Redecesio, considerato il più attraente della zona.
Oreste Morelli non gode fama di buon educatore: figlio del noto Giovanni
Achille Morelli (censore del Collegio convitto Calchi Taeggi ed esponente
di spicco dell’Opera nazionale Balilla ) entrò trentottenne, nel giugno
del 1932, nell’Orfanotrofio grazie alle buone garanzie poste dal padre,
amico del direttore Vanzelli.
I primi anni da istitutore non furono molto semplici per il Morelli, che
fu più volte ripreso per inadempienze e distrazioni, oltre che costretto
a giustificarsi (anche con l’ausilio tecnico del più abile fratello
avvocato) per la separazione dalla moglie su cui aveva taciuto al momento
dell’assunzione.
Più di una volta le note di demerito vengono opportunamente “alleggerite”
o addirittura annullate.
È il caso di quella del dicembre 1932, quando dopo soli sei mesi di
lavoro, i rapporti con la Direzione sembrano già essere arrivati ai ferri
corti “da me constatato stamani alle 7,50 l’abbandono di un gruppo di
orfani e udito quanto ella rispondeva in proposito all’egr. sig. vice
direttore che giustamente La richiamava, visti i precedenti “rilievi” e
considerata, soprattutto, la infondatezza, la inopportunità e la gravità
dell’atteggiamento da Lei assunto […] mi spiace comunicarle che Ella è,
da questo momento, sospeso dal servizio”.
La mattina del 23 settembre 1935 Morelli era però sereno: le notizie
raccolte in seguito lo immortalano intento a raccontare della propria
vita e delle imprese abissine a un gruppo di martinitt (“stavo ascoltando
il sig. Morelli che raccontava delle cose riguardanti la sua vita
passata”, raccontò il tredicenne Elio Vegetti, il quattordicenne Achille
Ancona specificherà “stavo ascoltando il sig. Morelli che parlava
dell’Abissinia”); le testimonianze successive all’accaduto delineano
abbastanza chiaramente le attività in cui erano impiegati gli altri
orfani: alcuni comprano uva da un ragazzo (come Gini e Villa. Il quale
scrisse “stavo appena fuori dall’osteria con altri miei compagni a
mangiare dell’uva comperata da un ragazzo che la vendeva in una cesta”),
altri ancora si trovano in riva al lago a prendere rane (“ero in riva al
lago che prendevo le rane insieme a qualche altro compagno (Sisti, Riva,
Marinoni, Bagnolo)”, raccontò Luigi Brambilla) o a giocare e fare altro
(come Cesare Carrera “propriamente sulla riva io non ero però stavo
cercando qualche canna per pescare lì vicino”).
Qualcuno probabilmente fornì, verosimilmente per timore, una descrizione
imprecisa collocandosi nei pressi dell’educatore il quale risulterebbe in
una zona più vicina al Redecesio (come il dodicenne Leopoldo Rossi “Ero
vicino alle barche, presso il signor Morelli e stavo guardando il
barcaiolo”),
Le varie testimonianze degli orfani raccolte dalla Direzione ci offrono
dunque una visione molto personale degli eventi avvenuti, mostrando anche
modalità sconcertanti di vivere la tragedia appena avvenuta; Angelo Gini
dichiarò “Sono andato a comperare l’uva su un carrettino vicino
all’osteria ed è venuto lì Colombo Angelo a dirmi che due compagni erano
morti”. Imperturbabile alla drammatica notizia poc’anzi ricevuta l’orfano
continuò a raccontare, dimostrandosi più interessato all’uva che ai due
compagni morti “io ò [sic] preso l’uva, ò raggiunto gli altri e ò dato
l’uva a Volpi”.
Mentre i vari martinitt giocano, ascoltano, mangiano e si rilassano Dino
Patrono, Luigi Morlandi, Giordano Russo e Giovanni Chiesa sono però
lontani più di trecento metri dalla maggioranza del gruppo, due con la
scusa si doversi appartare per ragioni fisiologiche, due forse eludendo
la vigilanza del Morelli.
Il loro piano è chiaro: allontanarsi dalla maggioranza dei compagni e,
approfittando della sosta, fare un bagno nel lago Redecesio.
Dei quattro, solo Patrono e Morlandi si avventurano nell’impresa, visto
che la temperatura dell’acqua e la stagione non rendevano semplice
l’entrata in acqua.
Poco dopo essere entrato in acqua Morlandi fu colto da un malore,
Patrono, che si trovava a poca distanza, cercò di aiutarlo ma poi dovette
soccombere anche lui; Giovanni Chiesa, vista la difficoltà dei compagni
tentò invano di salvarli (“Io, visto il pericolo, mi sono spogliato e
lanciato nel lago per tentare di salvare i miei compagni. Sono sceso sin
dove l’acqua mi arrivava al torace e ò [sic] cercato di ghermire una
delle braccia che sporgevano dibattendosi. Difatti riuscii ad afferrarne
una, ma fui trascinato con loro dove l’acqua è più profonda. Mi sono
sentito stringere gambe, torace e poi anche le mani e io cercavo di
alzarmi più che potevo e andare verso riva, ma la terra mi mancava sotto
i piedi e dopo vari sforzi in cui fui a più riprese trascinato
sott’acqua, mi sentii mollare e tornai a stento a riva”).
Morlandi e Patrono non ce la fecero e Chiesa riuscì a salvarsi a stento.
Morelli fu avvisato tempestivamente ma giunse sul luogo a cose ormai
avvenute e fu costretto a constatare l’esito della tragedia appena
avvenuta senza poter intervenire.
La vicende ebbe un’eco notevole sulla stampa dell’epoca e immediatamente
la Direzione dell’Orfanotrofio si mosse per chiarire la dinamica degli
avvenimenti, chiedendo agli orfani testimonianze scritte degli
avvenimenti (che costituiscono un interessante spaccato dei comportamenti
dei martinitt in queste gite, soprattutto per la parte che concerne le
notizie collaterali all’annegamento) e mettendo immediatamente sotto
accusa il Morelli, ormai indifendibile anche dal padre.
La sua testimonianza tende a minimizzare le proprie responsabilità,
imputando il tutto a una tragica fatalità (“Da circa tre mesi tutte le
mattine accompagnavo gli Orfani, alti e piccoli, a tale meta ove
giungevano incolonnati, dando poi a loro il permesso di giuocare nelle
adiacenze al punto in cui io mi fermavo non tollerando che nessuno mi
oltrepassasse. Per chi conosce la cava risulta evidente che tutti gli
orfani non possono trattenersi a giocare in pochi metri quadrati attrono
al loro istitutore, ma si estendessero come in fila indiana, ed è
spiegato come, da me all’ultimo orfano che formava il capo-fila,
esistesse una relativa distanza, di conseguenza non è esatto che un terzo
orfano si fosse allontanato senza chiedermi il permesso e senza che io me
ne fossi accorto trattandosi invece proprio di quegli che costituiva,
come ho detto, il capo-fila e che perciò venne a trovarsi fra me e le
vittime”) e negando anche la presenza nei pressi del laghetto Redecesio
di un terzo orfano.
La presenza sul luogo di più orfani viene imputata al Morelli il quale, a
norma di regolamento, “avrebbe dovuto dare il permesso di allontanarsi ad
un solo orfano alla volta e attendere che questi si ripresentasse, prima
di concedere lo stesso permesso ad altro orfano, e così via; ciò
soprattutto, a salvaguardia della moralità”.
Le indagini sui fatti portarono tra l’altro alla luce un episodio che
coinvolse lo stesso Morelli: nel giugno 1934 l’orfano Antonio Campus
avrebbe corso il rischio di annegare nello stesso punto del Redecesio se
l’orfano Carlo Pezzera non lo avesse salvato; la vicenda fu comunque
“insabbiata” per non creare guai al Morelli; di fronte a tale accusa il
Morelli negò con indignazione ma la Direzione, dopo aver aperto un
fascicolo anche sul caso Campus, ne imputò la responsabilità a Morelli
(“già nel giugno del 1934, come dall’allegato 1° ottobre a firma dell’ex
allievo Ennio Bianchi, altro orfano, e precisamente Campus Antonio (III
sezione – operaio) avrebbe corso il rischio di annegare nello stesso
punto della cava di Redecesio se l’ex allievo Carlo Pezzera (capace di
nuotare) sopraggiunto alla riva dopo un giro in barca collo stesso
istitutore sig. Oreste Morelli e con altri orfani, non si fosse immerso,
riuscendo a mettere il Campus fuori pericolo. Il Campus, rivestitosi,
potè ritornare all’Istituto a piedi, cogli altri orfani e, naturalmente,
collo stesso sig. Istitutore Morelli”).
Le responsabilità di Morelli portarono a un’immediata sospensione e
all’apertura di un procedimento disciplinare con deliberazione consiliare
del 14 ottobre 1935.
Nel fascicolo aperto dalla Direzione sull’episodio dell’annegamento si
trovano due lettere del padre del Morelli (datate 12 ottobre 1935 e 18
ottobre 1935) in cui si informò che il padre avrebbe eventualmente già
trovato lavoro al figlio presso il Collegio Cazzulani (aggiungendo
motivazioni ed argomentazione atte a suscitare la pena del Varzelli nei
confronti di un padre malato e preoccupato per il figlio), avendo il
Morelli rifiutato di partire volontario per l’Africa, preferendo
evidentemente parlare delle imprese abissine piuttosto che parteciparvi.
Elenco di documenti
1 - Scheda personale di assunzione dell’educatore Oreste Morelli (1932)
2 - Nota disciplinare emessa nei confronti dell’educatore Oreste Morelli
(10 dicembre 1932)
3 - Nota disciplinare emessa nei confronti dell’educatore Oreste Morelli
(20 febbraio 1932)
4 - Cartina IGM raffigurante la zona del lago Redecesio ove avvennero i
fatti
5 - Foto di Dino Patrono
6 - Foto di Luigi Morlandi
7 - Ritaglio di giornale tratto dal Corriere della sera del 24 settembre
1935 (articolo “Due ragazzi annegati”)
8 - Verbale dell’ inchiesta promossa dalla Direzione dell’orfanotrofio
sui fatti del 23 settembre (10 ottobre 1935)
9 - Testimonianza di Remo Ancelotti
10 - Testimonianza di Achille Ancona
11 - Testimonianza di Luigi Brambilla
12 - Testimonianza di Cesare Carrara
13 - Testimonianza di Giovanni Chiesa
14 - Testimonianza di Angelo Gini
15 - Testimonianza di Angelo Pini
16 - Testimonianza di Pasquale Riva
17 - Testimonianza di Leopoldo Rossi
18 - Testimonianza di Elio Vegetti
19 - Testimonianza di Giuseppe Villa
20 - Autodifesa di Oreste Morelli in riferimento ai fatti avvenuti in
data 23 settembre 1935 (28 settembre 1935)
21 - Autodifesa di Oreste Morelli in riferimento al mancato annegamento
di Attilio Campus (1° ottobre 1935)
Scansione dei documenti
Documento 1
Documento 2
Documento 3
Documento 4
Documento 5
Documento 6
Documento 7
Documento 8
Documento 9
Documento 10
Documento 11
Documento 12
Documento 13
Documento 14
Documento 15
Documento 16
Documento 17
Documento 18
Documento 19
Documento 20
Documento 21
Contesto archivistico
La ricerca è stata effettuata negli archivi della Direzione e
dell’Amministrazione dell’Orfanotrofio maschile conservati presso la sede
dell’Azienda di servizi alla persona degli Istituti milanesi Martinitt e
Stelline e Pio albergo Trivulzio.
Dell’archivio di Amministrazione dell’Orfanotrofio è dotata di inventario
la serie del Patrimonio attivo (2001), dell’archivio della Direzione è
inventariata la serie dei fascicoli personali (2004), entrambi realizzati
da CAeB – Cooperativa archivistica e bibliotecaria.
Per il presente dossier sono state consultate le seguenti serie
archivistiche:
- Archivio della direzione, Orfani, In genere, Annegamento 1935
- Archivio della direzione, Orfani, Decessi e Funerali, Patrono Dino e
Morlandi Luigi
- Archivio della direzione, Orfani, Fascicolo personale di Giovanni
Chiesa, b. 156, fasc. 7
- Archivio della direzione, Orfani, Fascicolo personale di Luigi
Morlandi, b. 202, fasc. 15
- Archivio della direzione, Orfani, Fascicolo personale di Dino Patrono,
b. 209, fasc. 12
- Fascicolo personale di Oreste Morelli conservato presso l’archivio di
via Pitteri
- Fascicolo personale di Oreste Morelli conservato presso l’archivio del
Pio albergo Trivulzio
- Verbali del consiglio, volume del 1935 (sedute del 14 ottobre 1935 e 21
novembre 1935)
Sono state utilizzate anche le seguenti pubblicazioni a stampa:
- “L’Orfano”, ottobre 1935
Il contesto specifico
L’orfanotrofio maschile
Al crepuscolo del ducato sforzesco, tra il 1532 e il 1533, risale
la fondazione dell’orfanotrofio maschile dei Martinitt. Le
occupazioni, le invasioni e le guerre succedutesi sotto l’ultimo
duca milanese, avevano creato povertà e miseria nelle classi
subalterne, facendo lievitare la piaga endemica della mendicità.
In questo contesto sociale la creazione di un nuovo ricovero
intese provvedere alle elementari necessità dei tanti fanciulli in
stato di abbandono. L’iniziativa fu di un nobile veneziano,
Gerolamo Emiliani, che nelle città della terraferma veneta aveva
già fondato diversi luoghi di ricovero: a Brescia, a Bergamo, a
Somasca.
Nella città ambrosiana il primo ricovero sorse rapidamente, nei
pressi dell’odierna via Morone, dove, per la vicinanza con la
chiesa di San Martino, i ragazzi ebbero da allora il nome di
Martinitt.
Il luogo pio era amministrato da 18 deputati, esponenti della
nobiltà cittadina, mentre la direzione interna era affidata ai
padri della Congregazione Somasca.
Gli istitutori posero sempre grande attenzione all’educazione: fin
dal Cinquecento si impartiva un’istruzione, sia pur elementare, e
si insegnavano quei fondamenti di arti manuali che avrebbero
permesso ai fanciulli di entrare attivamente nel mondo del lavoro.
Nel 1772 Maria Teresa d’Austria, nell’ambito della politica di
riforme assistenziali condotta dai sovrani nella seconda metà del
secolo, destinò ai Martinitt una sede più ampia: i locali del
soppresso monastero di San Pietro in Gessate, di fronte
all’odierno tribunale, dopo averne trasferito i monaci.
Nel 1778 il capitolo dei deputati approvò un nuovo regolamento
organico, in applicazione dei decreti teresiani e giuseppini in
materia assistenziale, in cui ogni aspetto della gestione
amministrativa sembrava sottoposto all’immediato controllo del
governo, attraverso procuratori, mentre l’insegnamento e la
direzione spirituale erano sempre affidate ai padri somaschi.
Vennero in questo periodo aboliti una serie di doveri
tradizionali, quali l’accompagnamento ai funerali e la questua, la
tonaca, sostituita da una divisa laica; venne dato forte impulso
all’istruzione tecnica e pratica, caratteristica che rimase per
tutto il secolo successivo, qualificando l’orfanotrofio per le
molte “officine interne”.
Nell’orfanotrofio venivano accolti ragazzi di almeno 7 anni,
tramite segnalazioni al Capitolo dei Deputati, orfani di uno solo
o di entrambi i genitori, dimessi al compimento dei 18 anni.
In questo periodo il luogo pio venne dotato di cospicue donazioni,
per garantirne i redditi necessari alla sua amministrazione: nel
1772 vennero destinati i beni della soppressa Inquisizione di
Milano e di Como, nel 1776 quelli dell’ospedale di San Giacomo dei
Pellegrini e quelli dei santi Pietro e Paolo dei Pellegrini, e
infine quelli dell’orfanotrofio di Santa Caterina e San Martino.
Grande eco ha sempre suscitato il ricordo dei Martinitt durante le
insurrezioni del 1848, quando i ragazzi vennero utilizzati dagli
insorti come staffette portaordini tra le barricate.
Lo stato italiano, all’indomani dell’Unità, intervenne con
apposite legislazioni per disciplinare il complesso mondo dei
luoghi pii e degli istituti di assistenza. Dal 1863 l’orfanotrofio
dei Martinitt ricevette un unico consiglio di amministrazione,
unitamente all’orfanotrofio delle Stelline e al Pio Albergo
Trivulzio. Vennero rivisti statuti e regolamenti del luogo pio:
l’educazione degli orfani diventò il punto centrale “affinché
fatti saggi, intelligenti e laboriosi riescano utili a sé e alla
società, alla quale vanno restituiti”.
Per il ricovero nell’orfanotrofio, oltre alla dichiarazione di
povertà, occorreva essere orfani dei genitori (o almeno del
padre), essere cittadini italiani e residenti nel comune di
Milano. L’età per l’ammissione doveva essere tra i 7 e i 10 anni,
occorreva superare la visita medica e un semestre di prova, al
termine del quale il ricovero in istituto diventava definitivo.
L’istituto ebbe allora due sezioni: in una gli alunni della scuola
elementare, nell’altra gli apprendisti operai e gli alunni delle
scuole professionali (attivate dapprima con laboratori interni e
in un secondo momento esterni).
Con il processo di industrializzazione, che andava trasformando
l’aspetto urbanistico e le strutture della società, che vedeva
impegnati entrambi i genitori con lunghissimi orari di lavoro
nelle fabbriche a condizioni precarie e di scarsa sicurezza,
cresceva il numero di richieste di accoglienza per ragazzi rimasti
orfani; in taluni momenti l’istituto ospitò oltre 400 Martinitt.
Con il nuovo secolo l’orfanotrofio passò tra due guerre e il
fascismo.
Durante la Grande Guerra i Martinitt, in seguito alla
trasformazione del Trivulzio in ospedale militare e al
trasferimento dei suoi ospiti nello stabile di S. Pietro in
Gessate, vennero alloggiati a Canzo e a Maresso, dove possedevano
due ville per le vacanze estive.
Il regime fascista fece della preparazione tecnica dei ragazzi una
delle sue bandiere per la “rinnovazione del popolo”; l’istituto
venne dotato di mezzi cospicui e perfino di una nuova enorme e
attrezzata sede (inaugurata nel 1932), nella periferia Est di
Milano, nel quartiere dell’Ortica, dove tuttora si trova.
La posizione dell’orfanotrofio durante la guerra del ’40-’45 fu
pericolosissima: vicina allo smistamento merci ferroviarie di
Lambrate, accanto a ditte di produzione bellica, poteva essere
facilmente colpito durante i bombardamenti. I Martinitt con le
Stelline venero sfollati in parte a Canzo e in parte a Fano.
A questo oscuro periodo seguirono gli anni della ricostruzione, il
boom dell’immigrazione e quello economico, che videro, all’interno
delle mura dell’istituto, non solo l’avvicendamento di
numerosissimi ragazzini, ma anche il dibattito sulle nuove forme
pedagogiche da attuare.
Nacquero così, negli anni Settanta, le “comunità alloggio”,
tuttora funzionanti, nelle quali ristretti gruppi di ragazzi,
seguiti da vicino da più istitutori, vivevano e vivono una sorta
di “vita familiare allargata.”
(nota storica a cura di Cristina Cenedella e tratta
dall’inventario Archivio della direzione dell’Orfanotrofio
maschile – Fascicoli personali)
Sull’Orfanotrofio maschile si può consultare la seguente
bibliografia:
Le varie sedi dell´Orfanotrofio maschile di Milano dalla sua
fondazione (1532) al tempo presente (1933), a cura di Aurelio
Angeleri,
Milano, Vallardi, s.d.
Monografia dell´Orfanotrofio maschile di Milano. Omaggio di
onoranza di benefattori defunti e viventi, Milano, stab. tip.
Enrico Reggiani, 1910.
Enzo Catania, I Martinitt. Milano tra cuore e storia, Milano 1988.
Maria Angela Previtera, Martinitt e Stelline, istruzione e lavoro
attraverso le esposizioni tra ‘800 e ‘900 in 200 anni di
solidarietà milanese nei 100 quadri restaurati da Trivulzio,
Martinitt e Stelline, a cura di Paolo Biscottini, Milano, Motta,
1990.
Luisa Dodi, L’Orfanotrofio dei Martinitt nell’età delle riforme,
in Dalla carità all’assistenza. Orfani, vecchi e poveri a Milano
tra Settecento e Ottocento, a cura di Cristina Cenedella, atti del
convegno, Milano, Electa, 1992.
Antonio Barbato, Vincenzo Guastafierro, Martinitt. Trovarsi –
ritrovarsi, Milano, Greco & Greco editori, 1993.
Associazione “ex Martinitt” Ordine e Lavoro, 120 anniversario,
1884-2004 Milano, Milano, Associazione “ex Martinitt”, s.d.
Trivulzio, Martinitt e Stelline. Due secoli dedicati ai poveri,
Catalogo della mostra, Milano, 2004.
La vita fragile. Dipinti, ambienti, immagini dei Martinitt,
Stelline e Pio Albergo Trivulzio nella Milano del lungo Ottocento
1815-1915, a cura di Maria Canella e Cristina Cenedella, Milano,
2007.
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Educazione ai martinitt nel ventennio

  • 1. I documenti raccontano Dossier: L’educatore Morelli e la tragedia del laghetto Redecesio
  • 2. Progetto i documenti raccontano Progetto della Regione Lombardia Direttore progetto: Roberto Grassi U. O. Portale del patrimonio culturale e valorizzazione degli archivi storici Soggetto partner Azienda di servizi alla persona Istituti milanesi Martinitt e Stelline e Pio Albergo Trivulzio Archivio Storico e Iniziative Culturali Con il finanziamento di Soggetto realizzatore Cooperativa CAeB, Milano Ricerca e redazione di: Gabriele Locatelli
  • 3. L’educatore Morelli e la tragedia del laghetto Redecesio Cronologia 1935 - 1937 Luoghi Milano – Lago Redecesio Vicenda È il 23 settembre 1935 quando l’educatore Oreste Morelli condusse la compagnia a lui affidata per una gita verso la zona agricola che si trova a est dell’istituto, a Segrate, ricca di verde e di laghetti artificiali. Alla scampagnata non erano presenti gli orfani che devono sostenere gli esami di riparazione. Morelli ha con sé 36 ragazzi, che porta verso il laghetto Redecesio, considerato il più attraente della zona. Oreste Morelli non gode fama di buon educatore: figlio del noto Giovanni Achille Morelli (censore del Collegio convitto Calchi Taeggi ed esponente di spicco dell’Opera nazionale Balilla ) entrò trentottenne, nel giugno del 1932, nell’Orfanotrofio grazie alle buone garanzie poste dal padre, amico del direttore Vanzelli. I primi anni da istitutore non furono molto semplici per il Morelli, che fu più volte ripreso per inadempienze e distrazioni, oltre che costretto a giustificarsi (anche con l’ausilio tecnico del più abile fratello avvocato) per la separazione dalla moglie su cui aveva taciuto al momento dell’assunzione. Più di una volta le note di demerito vengono opportunamente “alleggerite” o addirittura annullate. È il caso di quella del dicembre 1932, quando dopo soli sei mesi di lavoro, i rapporti con la Direzione sembrano già essere arrivati ai ferri corti “da me constatato stamani alle 7,50 l’abbandono di un gruppo di orfani e udito quanto ella rispondeva in proposito all’egr. sig. vice direttore che giustamente La richiamava, visti i precedenti “rilievi” e considerata, soprattutto, la infondatezza, la inopportunità e la gravità dell’atteggiamento da Lei assunto […] mi spiace comunicarle che Ella è, da questo momento, sospeso dal servizio”. La mattina del 23 settembre 1935 Morelli era però sereno: le notizie raccolte in seguito lo immortalano intento a raccontare della propria vita e delle imprese abissine a un gruppo di martinitt (“stavo ascoltando il sig. Morelli che raccontava delle cose riguardanti la sua vita passata”, raccontò il tredicenne Elio Vegetti, il quattordicenne Achille Ancona specificherà “stavo ascoltando il sig. Morelli che parlava dell’Abissinia”); le testimonianze successive all’accaduto delineano abbastanza chiaramente le attività in cui erano impiegati gli altri orfani: alcuni comprano uva da un ragazzo (come Gini e Villa. Il quale scrisse “stavo appena fuori dall’osteria con altri miei compagni a mangiare dell’uva comperata da un ragazzo che la vendeva in una cesta”), altri ancora si trovano in riva al lago a prendere rane (“ero in riva al lago che prendevo le rane insieme a qualche altro compagno (Sisti, Riva, Marinoni, Bagnolo)”, raccontò Luigi Brambilla) o a giocare e fare altro (come Cesare Carrera “propriamente sulla riva io non ero però stavo cercando qualche canna per pescare lì vicino”). Qualcuno probabilmente fornì, verosimilmente per timore, una descrizione imprecisa collocandosi nei pressi dell’educatore il quale risulterebbe in una zona più vicina al Redecesio (come il dodicenne Leopoldo Rossi “Ero vicino alle barche, presso il signor Morelli e stavo guardando il barcaiolo”), Le varie testimonianze degli orfani raccolte dalla Direzione ci offrono dunque una visione molto personale degli eventi avvenuti, mostrando anche
  • 4. modalità sconcertanti di vivere la tragedia appena avvenuta; Angelo Gini dichiarò “Sono andato a comperare l’uva su un carrettino vicino all’osteria ed è venuto lì Colombo Angelo a dirmi che due compagni erano morti”. Imperturbabile alla drammatica notizia poc’anzi ricevuta l’orfano continuò a raccontare, dimostrandosi più interessato all’uva che ai due compagni morti “io ò [sic] preso l’uva, ò raggiunto gli altri e ò dato l’uva a Volpi”. Mentre i vari martinitt giocano, ascoltano, mangiano e si rilassano Dino Patrono, Luigi Morlandi, Giordano Russo e Giovanni Chiesa sono però lontani più di trecento metri dalla maggioranza del gruppo, due con la scusa si doversi appartare per ragioni fisiologiche, due forse eludendo la vigilanza del Morelli. Il loro piano è chiaro: allontanarsi dalla maggioranza dei compagni e, approfittando della sosta, fare un bagno nel lago Redecesio. Dei quattro, solo Patrono e Morlandi si avventurano nell’impresa, visto che la temperatura dell’acqua e la stagione non rendevano semplice l’entrata in acqua. Poco dopo essere entrato in acqua Morlandi fu colto da un malore, Patrono, che si trovava a poca distanza, cercò di aiutarlo ma poi dovette soccombere anche lui; Giovanni Chiesa, vista la difficoltà dei compagni tentò invano di salvarli (“Io, visto il pericolo, mi sono spogliato e lanciato nel lago per tentare di salvare i miei compagni. Sono sceso sin dove l’acqua mi arrivava al torace e ò [sic] cercato di ghermire una delle braccia che sporgevano dibattendosi. Difatti riuscii ad afferrarne una, ma fui trascinato con loro dove l’acqua è più profonda. Mi sono sentito stringere gambe, torace e poi anche le mani e io cercavo di alzarmi più che potevo e andare verso riva, ma la terra mi mancava sotto i piedi e dopo vari sforzi in cui fui a più riprese trascinato sott’acqua, mi sentii mollare e tornai a stento a riva”). Morlandi e Patrono non ce la fecero e Chiesa riuscì a salvarsi a stento. Morelli fu avvisato tempestivamente ma giunse sul luogo a cose ormai avvenute e fu costretto a constatare l’esito della tragedia appena avvenuta senza poter intervenire. La vicende ebbe un’eco notevole sulla stampa dell’epoca e immediatamente la Direzione dell’Orfanotrofio si mosse per chiarire la dinamica degli avvenimenti, chiedendo agli orfani testimonianze scritte degli avvenimenti (che costituiscono un interessante spaccato dei comportamenti dei martinitt in queste gite, soprattutto per la parte che concerne le notizie collaterali all’annegamento) e mettendo immediatamente sotto accusa il Morelli, ormai indifendibile anche dal padre. La sua testimonianza tende a minimizzare le proprie responsabilità, imputando il tutto a una tragica fatalità (“Da circa tre mesi tutte le mattine accompagnavo gli Orfani, alti e piccoli, a tale meta ove giungevano incolonnati, dando poi a loro il permesso di giuocare nelle adiacenze al punto in cui io mi fermavo non tollerando che nessuno mi oltrepassasse. Per chi conosce la cava risulta evidente che tutti gli orfani non possono trattenersi a giocare in pochi metri quadrati attrono al loro istitutore, ma si estendessero come in fila indiana, ed è spiegato come, da me all’ultimo orfano che formava il capo-fila, esistesse una relativa distanza, di conseguenza non è esatto che un terzo orfano si fosse allontanato senza chiedermi il permesso e senza che io me ne fossi accorto trattandosi invece proprio di quegli che costituiva, come ho detto, il capo-fila e che perciò venne a trovarsi fra me e le vittime”) e negando anche la presenza nei pressi del laghetto Redecesio di un terzo orfano. La presenza sul luogo di più orfani viene imputata al Morelli il quale, a norma di regolamento, “avrebbe dovuto dare il permesso di allontanarsi ad
  • 5. un solo orfano alla volta e attendere che questi si ripresentasse, prima di concedere lo stesso permesso ad altro orfano, e così via; ciò soprattutto, a salvaguardia della moralità”. Le indagini sui fatti portarono tra l’altro alla luce un episodio che coinvolse lo stesso Morelli: nel giugno 1934 l’orfano Antonio Campus avrebbe corso il rischio di annegare nello stesso punto del Redecesio se l’orfano Carlo Pezzera non lo avesse salvato; la vicenda fu comunque “insabbiata” per non creare guai al Morelli; di fronte a tale accusa il Morelli negò con indignazione ma la Direzione, dopo aver aperto un fascicolo anche sul caso Campus, ne imputò la responsabilità a Morelli (“già nel giugno del 1934, come dall’allegato 1° ottobre a firma dell’ex allievo Ennio Bianchi, altro orfano, e precisamente Campus Antonio (III sezione – operaio) avrebbe corso il rischio di annegare nello stesso punto della cava di Redecesio se l’ex allievo Carlo Pezzera (capace di nuotare) sopraggiunto alla riva dopo un giro in barca collo stesso istitutore sig. Oreste Morelli e con altri orfani, non si fosse immerso, riuscendo a mettere il Campus fuori pericolo. Il Campus, rivestitosi, potè ritornare all’Istituto a piedi, cogli altri orfani e, naturalmente, collo stesso sig. Istitutore Morelli”). Le responsabilità di Morelli portarono a un’immediata sospensione e all’apertura di un procedimento disciplinare con deliberazione consiliare del 14 ottobre 1935. Nel fascicolo aperto dalla Direzione sull’episodio dell’annegamento si trovano due lettere del padre del Morelli (datate 12 ottobre 1935 e 18 ottobre 1935) in cui si informò che il padre avrebbe eventualmente già trovato lavoro al figlio presso il Collegio Cazzulani (aggiungendo motivazioni ed argomentazione atte a suscitare la pena del Varzelli nei confronti di un padre malato e preoccupato per il figlio), avendo il Morelli rifiutato di partire volontario per l’Africa, preferendo evidentemente parlare delle imprese abissine piuttosto che parteciparvi.
  • 6. Elenco di documenti 1 - Scheda personale di assunzione dell’educatore Oreste Morelli (1932) 2 - Nota disciplinare emessa nei confronti dell’educatore Oreste Morelli (10 dicembre 1932) 3 - Nota disciplinare emessa nei confronti dell’educatore Oreste Morelli (20 febbraio 1932) 4 - Cartina IGM raffigurante la zona del lago Redecesio ove avvennero i fatti 5 - Foto di Dino Patrono 6 - Foto di Luigi Morlandi 7 - Ritaglio di giornale tratto dal Corriere della sera del 24 settembre 1935 (articolo “Due ragazzi annegati”) 8 - Verbale dell’ inchiesta promossa dalla Direzione dell’orfanotrofio sui fatti del 23 settembre (10 ottobre 1935) 9 - Testimonianza di Remo Ancelotti 10 - Testimonianza di Achille Ancona 11 - Testimonianza di Luigi Brambilla 12 - Testimonianza di Cesare Carrara 13 - Testimonianza di Giovanni Chiesa 14 - Testimonianza di Angelo Gini 15 - Testimonianza di Angelo Pini 16 - Testimonianza di Pasquale Riva 17 - Testimonianza di Leopoldo Rossi 18 - Testimonianza di Elio Vegetti 19 - Testimonianza di Giuseppe Villa 20 - Autodifesa di Oreste Morelli in riferimento ai fatti avvenuti in data 23 settembre 1935 (28 settembre 1935) 21 - Autodifesa di Oreste Morelli in riferimento al mancato annegamento di Attilio Campus (1° ottobre 1935)
  • 14.
  • 15.
  • 16.
  • 17.
  • 31. Contesto archivistico La ricerca è stata effettuata negli archivi della Direzione e dell’Amministrazione dell’Orfanotrofio maschile conservati presso la sede dell’Azienda di servizi alla persona degli Istituti milanesi Martinitt e Stelline e Pio albergo Trivulzio. Dell’archivio di Amministrazione dell’Orfanotrofio è dotata di inventario la serie del Patrimonio attivo (2001), dell’archivio della Direzione è inventariata la serie dei fascicoli personali (2004), entrambi realizzati da CAeB – Cooperativa archivistica e bibliotecaria. Per il presente dossier sono state consultate le seguenti serie archivistiche: - Archivio della direzione, Orfani, In genere, Annegamento 1935 - Archivio della direzione, Orfani, Decessi e Funerali, Patrono Dino e Morlandi Luigi - Archivio della direzione, Orfani, Fascicolo personale di Giovanni Chiesa, b. 156, fasc. 7 - Archivio della direzione, Orfani, Fascicolo personale di Luigi Morlandi, b. 202, fasc. 15 - Archivio della direzione, Orfani, Fascicolo personale di Dino Patrono, b. 209, fasc. 12 - Fascicolo personale di Oreste Morelli conservato presso l’archivio di via Pitteri - Fascicolo personale di Oreste Morelli conservato presso l’archivio del Pio albergo Trivulzio - Verbali del consiglio, volume del 1935 (sedute del 14 ottobre 1935 e 21 novembre 1935) Sono state utilizzate anche le seguenti pubblicazioni a stampa: - “L’Orfano”, ottobre 1935
  • 32. Il contesto specifico L’orfanotrofio maschile Al crepuscolo del ducato sforzesco, tra il 1532 e il 1533, risale la fondazione dell’orfanotrofio maschile dei Martinitt. Le occupazioni, le invasioni e le guerre succedutesi sotto l’ultimo duca milanese, avevano creato povertà e miseria nelle classi subalterne, facendo lievitare la piaga endemica della mendicità. In questo contesto sociale la creazione di un nuovo ricovero intese provvedere alle elementari necessità dei tanti fanciulli in stato di abbandono. L’iniziativa fu di un nobile veneziano, Gerolamo Emiliani, che nelle città della terraferma veneta aveva già fondato diversi luoghi di ricovero: a Brescia, a Bergamo, a Somasca. Nella città ambrosiana il primo ricovero sorse rapidamente, nei pressi dell’odierna via Morone, dove, per la vicinanza con la chiesa di San Martino, i ragazzi ebbero da allora il nome di Martinitt. Il luogo pio era amministrato da 18 deputati, esponenti della nobiltà cittadina, mentre la direzione interna era affidata ai padri della Congregazione Somasca. Gli istitutori posero sempre grande attenzione all’educazione: fin dal Cinquecento si impartiva un’istruzione, sia pur elementare, e si insegnavano quei fondamenti di arti manuali che avrebbero permesso ai fanciulli di entrare attivamente nel mondo del lavoro. Nel 1772 Maria Teresa d’Austria, nell’ambito della politica di riforme assistenziali condotta dai sovrani nella seconda metà del secolo, destinò ai Martinitt una sede più ampia: i locali del soppresso monastero di San Pietro in Gessate, di fronte all’odierno tribunale, dopo averne trasferito i monaci. Nel 1778 il capitolo dei deputati approvò un nuovo regolamento organico, in applicazione dei decreti teresiani e giuseppini in materia assistenziale, in cui ogni aspetto della gestione amministrativa sembrava sottoposto all’immediato controllo del governo, attraverso procuratori, mentre l’insegnamento e la direzione spirituale erano sempre affidate ai padri somaschi. Vennero in questo periodo aboliti una serie di doveri tradizionali, quali l’accompagnamento ai funerali e la questua, la tonaca, sostituita da una divisa laica; venne dato forte impulso all’istruzione tecnica e pratica, caratteristica che rimase per tutto il secolo successivo, qualificando l’orfanotrofio per le molte “officine interne”. Nell’orfanotrofio venivano accolti ragazzi di almeno 7 anni, tramite segnalazioni al Capitolo dei Deputati, orfani di uno solo o di entrambi i genitori, dimessi al compimento dei 18 anni. In questo periodo il luogo pio venne dotato di cospicue donazioni, per garantirne i redditi necessari alla sua amministrazione: nel 1772 vennero destinati i beni della soppressa Inquisizione di Milano e di Como, nel 1776 quelli dell’ospedale di San Giacomo dei Pellegrini e quelli dei santi Pietro e Paolo dei Pellegrini, e infine quelli dell’orfanotrofio di Santa Caterina e San Martino. Grande eco ha sempre suscitato il ricordo dei Martinitt durante le insurrezioni del 1848, quando i ragazzi vennero utilizzati dagli insorti come staffette portaordini tra le barricate.
  • 33. Lo stato italiano, all’indomani dell’Unità, intervenne con apposite legislazioni per disciplinare il complesso mondo dei luoghi pii e degli istituti di assistenza. Dal 1863 l’orfanotrofio dei Martinitt ricevette un unico consiglio di amministrazione, unitamente all’orfanotrofio delle Stelline e al Pio Albergo Trivulzio. Vennero rivisti statuti e regolamenti del luogo pio: l’educazione degli orfani diventò il punto centrale “affinché fatti saggi, intelligenti e laboriosi riescano utili a sé e alla società, alla quale vanno restituiti”. Per il ricovero nell’orfanotrofio, oltre alla dichiarazione di povertà, occorreva essere orfani dei genitori (o almeno del padre), essere cittadini italiani e residenti nel comune di Milano. L’età per l’ammissione doveva essere tra i 7 e i 10 anni, occorreva superare la visita medica e un semestre di prova, al termine del quale il ricovero in istituto diventava definitivo. L’istituto ebbe allora due sezioni: in una gli alunni della scuola elementare, nell’altra gli apprendisti operai e gli alunni delle scuole professionali (attivate dapprima con laboratori interni e in un secondo momento esterni). Con il processo di industrializzazione, che andava trasformando l’aspetto urbanistico e le strutture della società, che vedeva impegnati entrambi i genitori con lunghissimi orari di lavoro nelle fabbriche a condizioni precarie e di scarsa sicurezza, cresceva il numero di richieste di accoglienza per ragazzi rimasti orfani; in taluni momenti l’istituto ospitò oltre 400 Martinitt. Con il nuovo secolo l’orfanotrofio passò tra due guerre e il fascismo. Durante la Grande Guerra i Martinitt, in seguito alla trasformazione del Trivulzio in ospedale militare e al trasferimento dei suoi ospiti nello stabile di S. Pietro in Gessate, vennero alloggiati a Canzo e a Maresso, dove possedevano due ville per le vacanze estive. Il regime fascista fece della preparazione tecnica dei ragazzi una delle sue bandiere per la “rinnovazione del popolo”; l’istituto venne dotato di mezzi cospicui e perfino di una nuova enorme e attrezzata sede (inaugurata nel 1932), nella periferia Est di Milano, nel quartiere dell’Ortica, dove tuttora si trova. La posizione dell’orfanotrofio durante la guerra del ’40-’45 fu pericolosissima: vicina allo smistamento merci ferroviarie di Lambrate, accanto a ditte di produzione bellica, poteva essere facilmente colpito durante i bombardamenti. I Martinitt con le Stelline venero sfollati in parte a Canzo e in parte a Fano. A questo oscuro periodo seguirono gli anni della ricostruzione, il boom dell’immigrazione e quello economico, che videro, all’interno delle mura dell’istituto, non solo l’avvicendamento di numerosissimi ragazzini, ma anche il dibattito sulle nuove forme pedagogiche da attuare. Nacquero così, negli anni Settanta, le “comunità alloggio”, tuttora funzionanti, nelle quali ristretti gruppi di ragazzi, seguiti da vicino da più istitutori, vivevano e vivono una sorta di “vita familiare allargata.”
  • 34. (nota storica a cura di Cristina Cenedella e tratta dall’inventario Archivio della direzione dell’Orfanotrofio maschile – Fascicoli personali) Sull’Orfanotrofio maschile si può consultare la seguente bibliografia: Le varie sedi dell´Orfanotrofio maschile di Milano dalla sua fondazione (1532) al tempo presente (1933), a cura di Aurelio Angeleri, Milano, Vallardi, s.d. Monografia dell´Orfanotrofio maschile di Milano. Omaggio di onoranza di benefattori defunti e viventi, Milano, stab. tip. Enrico Reggiani, 1910. Enzo Catania, I Martinitt. Milano tra cuore e storia, Milano 1988. Maria Angela Previtera, Martinitt e Stelline, istruzione e lavoro attraverso le esposizioni tra ‘800 e ‘900 in 200 anni di solidarietà milanese nei 100 quadri restaurati da Trivulzio, Martinitt e Stelline, a cura di Paolo Biscottini, Milano, Motta, 1990. Luisa Dodi, L’Orfanotrofio dei Martinitt nell’età delle riforme, in Dalla carità all’assistenza. Orfani, vecchi e poveri a Milano tra Settecento e Ottocento, a cura di Cristina Cenedella, atti del convegno, Milano, Electa, 1992. Antonio Barbato, Vincenzo Guastafierro, Martinitt. Trovarsi – ritrovarsi, Milano, Greco & Greco editori, 1993. Associazione “ex Martinitt” Ordine e Lavoro, 120 anniversario, 1884-2004 Milano, Milano, Associazione “ex Martinitt”, s.d. Trivulzio, Martinitt e Stelline. Due secoli dedicati ai poveri, Catalogo della mostra, Milano, 2004. La vita fragile. Dipinti, ambienti, immagini dei Martinitt, Stelline e Pio Albergo Trivulzio nella Milano del lungo Ottocento 1815-1915, a cura di Maria Canella e Cristina Cenedella, Milano, 2007.