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Tesi elaborata da Tiziano Ostigoni – Classe VD
Anno scolastico 2002/2003 – Liceo Scientifico Statale “G. Marconi”
Sommario




Introduzione – Uomo e Natura nel Romanticismo       pag. 3


Schopenhauer - Natura, Wille e Dolore              pag. 4


Leopardi - Natura, Dolore dell’uomo                pag. 6


Lucrezio – L’uomo non è superiore alla Natura      pag. 9


Rousseau - Il Sentimento della Natura              pag. 12


Wordsworth – Nature                                pag. 14


Romagnosi - Le basi dell’Elettromagnetismo         pag. 16




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Introduzione



    Il lavoro preparato,“Uomo e Natura nel Romanticismo”, vuol mostrare come sia
importante la relazione tra gli esseri umani e il mondo che li circonda, relazione che ebbe
un ruolo notevole nel periodo preso in considerazione, cioè dalla fine del XVIII secolo alla
prima metà del XIX secolo.

     Da sempre, è stato fondamentale per l’uomo scoprire di che natura sia tutto ciò che
esiste sulla terra, ma nel periodo Romantico, cercando di rappresentare tutto secondo la
logica degli stati d’animo, dei sentimenti e delle passioni, gli intellettuali furono coinvolti
maggiormente dai fenomeni naturali. Interessamento dovuto al progresso tecnologico per
il quale l’uomo iniziò a servirsi molto meno di ciò che gli era offerto dalla Natura e da
questa si stava distaccando.

    Il progresso tecnologico venne influenzato notevolmente dal desiderio dell’uomo di
vivere la propria vita più comodamente e, di conseguenza, dalla stessa concorrenza, da
sempre esistita, tra tutti gli uomini. Essere più ricchi, più potenti, più felici.

     Secondo la logica umana, la felicità non si potrà mai raggiungere, poiché rispetto a
qualunque stile di vita possa ogni uomo ottenere, ci sarà sempre qualcuno che ha di più e
questo lo riporta nuovamente in concorrenza con se stesso. Questa continua corsa è
destinata a terminare con la morte e solo in quel momento l’uomo si renderà conto di aver
lottato per nulla.

     La causa di questa continua sofferenza si può individuare nella Natura, entità perfetta
con la quale l’uomo è in contrasto, gli provoca solo difficoltà e lo costringe a combattere
tutta la vita. Solo accettando la superiorità della Natura e non avendo più paura della
morte, gli uomini possono raggiungere la vera felicità.

    Nel periodo Romantico, oltre che critiche, alla Natura vennero rivolte anche lodi,
principalmente per la sua bellezza e, come già detto, per la sua perfezione, venne analizzata
sotto vari aspetti. Avvennero nuove scoperte che rivoluzionarono tutto ciò che era stato
considerato valido fino alla fine del XVIII secolo.

    Una Natura ch’egli uomini vogliono portare ad una dimensione più umana,
conoscendola ed imparando che nella vita, ogni giorno, ci sono novità, invenzioni e
scoperte che saranno smentite con il passare del tempo.




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Schopenhauer - Natura, Wille e Dolore



     Schopenhauer professa il suo Pessimismo Cosmico affermando che il Dolore non si
trova solo alla base del mondo, ma anche nel principio stesso da cui esso dipende, che al di
là delle tanto celebrate meraviglie del creato si celano la lotta e la sofferenza di tutte le cose
e che ogni uomo rappresenta solo un’unità per la propria specie, fuori della quale non ha
nessun valore. L’unico fine della Natura è quindi quello di perpetuare la Vita e con essa il
Dolore di chi vive. La manifestazione inconfondibile dell’impegno che la Natura impiega
per far sopravvivere la specie si trova nell’Amore: si impadronisce della metà delle forze dei
giovani e costituisce uno dei più forti stimoli dell’esistenza. L’Amore rappresenta in realtà
solo uno strumento per perpetuare la vita della specie per mezzo dell’accoppiamento; la
Natura si prende gioco dell’uomo che quando ottiene l’Amore crede di aver raggiunto il
massimo piacere, mentre in realtà sta creando altro Dolore. [1]

    “Schopenhauer fece sortire un’idea della Natura dominata da una cieca ed
irrazionale volontà di Vita che si esprime in ogni vivente, e che proietta sulla sorte del
singolo, un destino di dipendenza dal cieco volere. Da qui la visione della Vita
comunemente accettata come del ‘sogno felice del mendicante’ nelle cui trame l’uomo
comune si trova ad essere coinvolto con ogni suo impegno, nel mentre prosegue, nella
assoluta indifferenza dell’eterno presente della Natura, il suo reale ‘veleggiare verso il
naufragio, verso la morte’. […]
    La felicità interviene solo nel momento dell’appagamento, come pura assenza di
Dolore. E quando l’appagamento degli scopi acquieta la volontà, subentra il sentimento
della Noia dell’esistenza, ancora più distruttivo della volontà. La Vita è questo naufragio
dove gli individui si incontrano in una futile gara di sopraffazioni. […]
    Solo la reciproca compassione, la pratica di atteggiamenti non violenti potrebbe
costituire una comunanza umana che sfugge al destino metafisico.” [2]

    Essendo l’essere la manifestazione di una Volontà, la Vita è Dolore per essenza: volere
significa desiderare ciò che non si possiede e desiderare vuol dire trovarsi in uno stato di
tensione; il desiderio risulta quindi mancanza, cioè Dolore. Dato che nell’uomo la volontà è
pienamente consapevole egli è il più bisognoso e mancante degli esseri, destinato a non
appagare mai a pieno i suoi desideri. Il piacere in quest’ottica si configura dunque come
cessazione del dolore, lo scarico da uno stato preesistente di tensione, il quale altro non
rappresenta che la condizione necessaria affinché si possa raggiungere il piacere stesso.
Accanto al piacere, stadio momentaneo, e al dolore, realtà durevole, vi è la noia che si
instaura quando viene meno l’aculeo del desiderio. Il dolore non riguarda solamente
l’uomo, è proprio di ogni creatura poiché la volontà si manifesta nelle cose sotto forma di
Sehnsucht, cioè di desiderio insoddisfatto. [1]
    Nel 1858 il critico letterario De Sanctis ha scritto un saggio, “Schopenhauer e
Leopardi”, in cui, sotto forma di dialogo fra due personaggi, uno dei quali, D, che
rappresenta lo stesso autore, si confrontano il pensiero del poeta e quello del filosofo, e se
ne mostrano…le affinità di fondo. [3]




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D:  …il Wille come infinito non può appagare se stesso sotto questa o quella forma,
dove trova sempre un limite. Prendere dunque una forma è la sua infelicità; il suo
peccato, la sua miseria è nel dire: ‘Io voglio vivere.’
    A: Farebbe dunque meglio dire: ‘Io voglio morire.’
    D: Certamente. La morte è la fine del male e del Dolore, è il Wille che ritorna se stesso,
eternamente libero e felice. Vivere e soffrire è la più grande delle asinità. […] La vita è un
fenomeno…dove non c’è altro di reale che il dolore; e se togli il dolore, rimane la Noia.
    A: …da Schopenhauer sii caduto in Leopardi.
    D: Leopardi e Schopenhauer sono una cosa: […] ‘Arcano è tutto fuorché il nostro
dolor.’ Il perché l’ha trovato Schopenhauer con la scoperta de Wille. [4]

     Per Schopenhauer il Wille, la voluntas, cioè la volontà, è la cosa in sé, puro stimolo che
preesiste all’essere, e che poi si oggettiva, quindi si incarna nel mondo: si fa individuo e di
qui scaturisce il male, perché il Wille s’imprigiona nello spazio e nel tempo, entra nella
catena delle cause e degli effetti, si condanna al dolore e alla miseria; prendere forma e
quindi vivere è la sua infelicità; viceversa, la morte è la fine del male e del dolore: è il Wille
che ritorna se stesso, libero e felice.
     Per Leopardi all’origine c’è la materia, con il suo eterno ciclo di creazione e
dissoluzione; ma, si chiami materia, natura o Wille, è sempre lo stesso potere cieco e
maligno. E quella "simpatia universale" che si accende nel cuore degli uomini alla
comprensione che un unico Wille è in tutti.
     Le riflessioni di Leopardi sulla noia e sul piacere ricordano il modo in cui è inteso il
Wille da Schopenhauer: inesauribile aspirazione, per cui, soddisfatto un bisogno, o meglio
un desiderio, si crea un vuoto che può essere colmato solo da un nuovo desiderio, ma è
un’astuzia del Wille che vuole semplicemente affermarsi; ed in questa cieca, ed egoista,
volontà di vivere…è da vedere l’origine di ogni guerra: nella storia quindi non c’è
progressivo affermarsi di valori, ma ripetizione di un’eterna logica.
     Il saggio non si limita al riscontro delle affinità fra i due autori, ma è in opposizione
alle idee di Schopenhauer per quel che vengono a significare in politica: nel 1848 non c’è
per lui alcuna differenza fra le idee dei liberali e quelle dei reazionari, visto che tutte sono
manifestazioni del Wille, rispetto al quale l’unico comportamento degno è quello non di
assecondarlo facendosi portatore di idee politiche, ma di soffocarlo rinunciando ai falsi
valori della vita (affermando la noluntas).
     Leopardi invece sarebbe positivo perché "non crede al progresso e te lo fa desiderare;
non crede alla libertà, e te la fa amare; […]". [3]




    Bibliografia:

    [1] Abbagnano - Fornero, Protagonisti e Testi della Filosofia, vol. C, Paravia, 1999,
Schopenhauer.
    [2] Vegetti - Fabietti, Filosofie e società, Zanichelli, 1982, pp. 228-236.
    [3] De Sanctis, Saggi critici, vol. II, Laterza, 1965, pp. 136-186.
    [4] De Sanctis, Leopardi e Schopenhauer, Rivista contemporanea, 1858.




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Leopardi – Natura, Dolore dell’uomo



      La rappresentazione di quel lento e progressivo cambiamento dell’ideologia
leopardiana è l’Ultimo canto di Saffo, la canzone sull’infelicità umana e protesta contro la
Natura che ha privato Saffo della bellezza. Egli comincia ad avvertire il senso di una
infelicità universale comune sia agli antichi che ai moderni e per questo sceglie come
protagonista della sua opera la poetessa greca Saffo, rappresentante del mondo antico ed
espressione della più grande infelicità. Leopardi sottolinea il conflitto impari fra uomo e
Natura.
      L‘opera può essere divisa in due parti: la prima in cui Saffo delinea la condizione di
sofferenza individuale, la seconda in cui si esprime la condizione di infelicità universale. Le
prime due strofe sono tutte incentrate sulla contemplazione estetica ed innamorata della
natura, le cui fattezze sono espresse in toni idilliaci e richiamano sensazioni pienamente
romantiche, benché espresse secondo la tradizione classica con l’utilizzo di latinismi ed
immagini mitologiche che, tuttavia, rappresentano personaggi romantici. […]
      Importante è analizzare le strofe dal punto di vista sintattico: si nota la presenza di
molti enjambements, ma anche un grande uso della punteggiatura, usata, a volte, anche
rispettando simmetrie precise: la maggior parte dei versi viene spezzata dal segno di
interpunzione, soprattutto nelle ultime strofe, e ciò ad indicare un discorso lapidario, un
susseguirsi di proposizioni solenni alle quali nulla si può obiettare.
      Compare la parola ‘fato’ posta alla fine del quinto verso e seguita da una virgola, ad
indicare pienamente il passaggio leopardiano dal primo al secondo pessimismo: il poeta
non vuole ancora attribuire la colpa delle sofferenze umane alla Natura, e per questo
l’attribuisce al Fato, il destino crudele che funge da capro espiatorio, ultimo stadio prima di
giungere alla risoluzione finale.
      Nella seconda strofa viene presentata la condizione di Saffo che, parlando la poetessa
in prima persona, è ricca d’intenso autobiografismo: il lamento di Saffo è il lamento di
Leopardi, che soffre per la sua misera condizione e per le deformazioni del suo corpo, per il
‘velo indegno’, il ‘disadorno ammanto’ da cui è avvolto. Saffo non è un vero e proprio
personaggio, ma è un motivo poetico attraverso il quale il Leopardi esprime i suoi
sentimenti, desiderio di comprendere il perché della sofferenza e di un corso della vita così
crudele. Ad introdurre il tema della sofferenza della poetessa è l’interiezione ‘ahi’ che
esprime il dolore concretizzatosi in un gemito.
      Anche in questa strofa compare il termine ‘sorte’, primo richiamo a quel ‘fato’ della
prima strofa. Il disdegno con cui la natura tratta il corpo deforme è rappresentato dalle
numerose anastrofi e dalle anafore che ribadiscono il rifiuto totale da parte della bellezza.
      Il dolore interiore si risolve in atteggiamento di disperazione e di pretesa,
caratterizzato dalle interrogative della terza strofa potenziate dall’anafora. […] Ritorna
nuovamente il richiamo al fato, rappresentato dal termina ‘fortuna’.
      ‘Arcano è tutto fuor che il nostro dolor’ introduce la seconda parte del canto in cui la
sofferenza individuale del poeta si allarga a tutta l’umanità e il pessimismo passa da
soggettivo a cosmico. […]
      Emblematico della nuova condizione sono il verbo ‘nascemmo’, posto all’inizio del
verso 48 e il ‘morremo’, all’inizio del verso 55, bloccato dal punto fermo per indicare
l’ineluttabilità dell’affermazione. I due verbi sono espressi l’uno al passato remoto e l’altro

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al futuro e rappresentano il cielo dell’esistenza dalla nascita già avvenuta alla vita presente
fino alla morte ventura, descritta con un linguaggio metaforico e mitologico e con
immagini che rimandano sempre più all’oscurità del sonno eterno. […] [1]

     “Placida notte, e verecondo raggio
della cadente luna; e tu che spunti
fra la tacita selva in su la rupe,
nunzio del giorno; oh dilettose e care
mentre ignote mi fur l'erinni e il fato,
sembianze agli occhi miei; già non arride
spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l'insueto allor gaudio ravviva
quando per l'etra liquido si volve
e per li campi trepidanti il flutto            10
polveroso de' Noti, e quando il carro,
grave carro di Giove a noi sul capo,
tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
natar giova tra' nembi, e noi la vasta
fuga de' greggi sbigottiti, o d'alto
fiume alla dubbia sponda
il suono e la vittrice ira dell'onda.”

     “Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta            20
infinita beltà parte nessuna
alla misera Saffo i numi e l'empia
sorte non fenno. A' tuoi superbi regni
vile, o natura, e grave ospite addetta,
e dispregiata amante, alle vezzose
tue forme il core e le pupille invano
supplichevole intendo. A me non ride
l'aprico margo, e dall'eterea porta
il mattutino albor; a me non il canto
de' colorati augelli, e non de' faggi           30
il murmure saluta: e dove all'ombra
degl'inchinati salici dispiega
candido rivo il puro seno, al mio
lubrico piè le flessuose linfe
disdegnando sottragge,
e preme in fuga l'odorate spiagge.”

      “Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara        40
di misfatto è la vita, onde poi scemo

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di giovanezza, e disfiorato, al fuso
dell'indomita Parca si volvesse
il ferrigno mio stame? Incaute voci
spande il tuo labbro: i destinati eventi
move arcano consiglio. Arcano è tutto,
fuor che il nostro dolor. Negletta prole
nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
de' celesti si posa. Oh cure, oh speme
de' più verd'anni! Alle sembianze il Padre, 50
alle amene sembianze eterno regno
diè nelle genti; e per virili imprese,
per dotta lira o canto,
virtù non luce in disadorno ammanto.”

      “Morremo. Il velo indegno a terra sparto,
rifuggirà l'ignudo animo a Dite,
e il crudo fallo emenderà del cieco
dispensator de' casi. E tu cui lungo
amore indarno, e lunga fede, e vano
d'implacato desio furor mi strinse,            60
vivi felice, se felice in terra
visse nato mortal. Me non asperse
del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perìr gl'inganni e il sogno
della mia fanciullezza. Ogni più lieto
giorno di nostra età primo s'invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra
della gelida morte. Ecco di tante
sperate palme e dilettosi errori,
il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno        70
han la tenaria Diva
e l'atra notte, e la silente riva.” [2]




    Bibliografia:

    [1] Parolisi, www.freeskuola.net/html/link_analisi_testuali/leopardi/ultcantsaffo.htm
    [2] Luperini – Castaldi - Marchiani, La Scrittura e l’Interpretazione, Palumbo, 1998,
Leopardi.


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Lucrezio – L’uomo non è superiore alla Natura



     Lucrezio, ben conoscendo le ostilità portate dai Romani verso la filosofia epicurea, alla
quale è legato, decide di scrivere un’opera, il De rerum natura, che sia al massimo livello
sia per i ragionamenti posti, sia per i contenuti che lo stile usato. Un’opera diretta al
pubblico con un linguaggio semplice, ma con un messaggio rivoluzionario. La continuità
con il passato che emerge dalla sua opera è quella con la tradizione del poeta filosofo,
profeta di verità e maestro, come i filosofi greci. L’intera opera, sebbene rivolta ad un solo
lettore, Gaio Memmio, è destinata a tutta l’alta società romana. Lucrezio non fa però una
critica alla società a lui contemporanea, ma vuole eliminare le false credenze degli uomini
nei beni materiali.

     L’opera è composta da sei libri, completamente scritti in versi, e ognuno di essi è
un’unità a se stante. È evidente la simmetria della struttura globale, grazie al proemio
iniziale e all’epilogo finale, la divisione in coppie dei sei libri, dove in ognuna di esse c’è un
parte introduttiva ed esplicativa della seconda. I primi due libri si basano sulla descrizione
fisica del mondo: la materia e il vuoto sono entrambe in uno spazio cosmico dove si
sussegue il movimento degli atomi. La seconda coppia di libri tratta invece i fenomeni del
mondo umano: la dissoluzione dell’anima, intesa come un’aggregazione di atomi, e i
presupposti materiali dei sentimenti e della conoscenza. Negli ultimi due libri l’argomento
illustrato è la cosmologia: la mortalità del mondo e la spiegazione razionale di molti
fenomeni naturali, per spiegare che il loro avvenire non è correlato con le azioni degli
uomini.

     La peste di Atene è il brano posto a conclusione dell’opera, nella quale le immagini di
morte sono frequenti, sembra essere in opposizione al primo libro, nel quale è invece
evidente la visione luminosa della vita. L’importanza di questo passo viene motivata in
diversi modi: sia come annunciazione della fine tragica del luogo in cui risiedono gli Dei,
sia come risoluzione alla quale tende l’uomo che diffida dagli insegnamenti di Epicuro. Da
una sua opera se ne ricava il suo pensiero base: il vivere con una pacata accettazione della
vita e la negazione della pretesa dell’uomo di essere superiore alla Natura e che questa sia
stata costruita solo sua funzione. Il saggio non rifiuta ne la vita ne la morte, al contrario
l’uomo rifiuta la morte come il male più grande. Lucrezio pone una soluzione al problema,
spiegando che con la morte l’uomo non prova nessuna sensazione o Dolore, l’anima si
scinde dal corpo e gli atomi si disgregano.
     Tematiche analoghe si individuano anche nelle Operette morali di Leopardi dove nel
Dialogo della Natura e di un Islandese mette in scena una conversazione tra la natura,
intesa come mostro, e un islandese, che ha cercato per tutta la vita la felicità senza mai
trovarla. La conclusione che se ne trae è che il mondo non è nato per la felicità dell’uomo e
quasi in segno ironico l’Islandese muore trasformato in una statua e mangiato da due
leoni.

    La Peste è un topos letterario molto frequente, nel quale compare sia il resoconto
scientifico, sia la sfida umana alla paura della morte e la fragilità metafora del male di
vivere. Tucide fu il primo scrittore a descrivere la peste sotto l’aspetto scientifico: nell’anno

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dello svilupparsi del morbo, il 430 a.C,. o lui era ad Atene ed aveva le conoscenze mediche
necessarie per farne un a descrizione corretta. L’Atene di Tucidide è sconvolta, nessuno
crede in rimedi naturali che portino alla salvezza e ciò provoca un totale disprezzo verso le
leggi umane e divine, inizio del completo degrado morale.

    “Haec ratio quondam morborum et mortifer aestus
finibus in Cecropis funestos reddidit agros
vastavitque vias, exhausit civibus urbem.                   1140
     Nam penitus veniens Aegypti finibus ortus,
aera permensus multum camposque natantis,
incubuit tandem populo Pandionis omni.
     Inde catervatim morbo mortique dabantur.
     Principio caput incensum fervore gerebant              1145
et duplicis oculos suffusa luce rubentis.
     Sudabant etiam fauces intrinsecus atrae
sanguine et ulceribus vocis via saepta coibat
atque animi interpres manabat lingua cruore
delibitata malis, motu gravis, aspera tactu.                1150
     Inde ubi per fauces pectus complerat et ipsum
morbida vis in cor maestum confluxerat aegris,
omnia tum vero vitai claustra labant.
     Spiritus ore foras taetrum volvebat odorem,
rancida quo perolent proiecta cadavera ritu.                1155
     Atque animi prorsum vires totius <et> omne
languebat corpus leti iam limine in ipso.
     Intolerabilisbusque malis erat anxius angor
adsidue comes et gemitu commixta querella.
     Singulusque frequens noctem per saepe diemque          1160
corripere adsidue nervos et membra coactans
dissolvebat eos, defessos ante, fatigans.” [1]

     “Tale causa di malattie e mortifera emanazione, un tempo, nel paese di Cecrope, rese
funerei i campi e spopolò le strade, svuotò di cittadini la città.
     Venendo infatti dal fondo della terra d'Egitto, ove era nato, dopo aver percorso
molta aria e distese fluttuanti, piombò alfine su tutto il popolo di Pandione.
     Allora, a torme eran preda della malattia e della morte.
     Dapprima avevano il capo in fiamme per il calore e soffusi di un luccichìo rossastro
ambedue gli occhi.
     La gola, inoltre, nell'interno nera, sudava sangue, e occluso dalle ulcere il passaggio
della voce si serrava, e l'interprete dell'animo, la lingua, stillava gocce di sangue,
infiacchita dal male, pesante al movimento, scabra al tatto.
     Poi, quando attraverso la gola la forza della malattia aveva invaso il petto ed era
affluita fin dentro il cuore afflitto dei malati, allora davvero vacillavano tutte le barriere
della vita.
     Il fiato che usciva dalla bocca spargeva un puzzo ributtante, simile al fetore che
mandano i putridi cadaveri abbandonati.


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Poi le forze dell'animo intero ‹e› tutto il corpo languivano, già sul limitare stesso
della morte.
    E agli intollerabili mali erano assidui compagni un'ansiosa angoscia e un lamentarsi
commisto con sospiri.
    E un singhiozzo frequente, che spesso li costringeva notte e giorno a contrarre
assiduamente i nervi e le membra, li struggeva aggiungendo travaglio a quello che già
prima li aveva spossati.” [2]

     Fine del poeta non è tanto quello di chiarire come stanno, in sé e per sé, le cose
dell'universo, ma come, mediante la conoscenza razionale della realtà, si possa raggiungere
la liberazione dai timori e dalle angosce che rendono ancor più dolorosa e drammatica la
condizione umana. La conoscenza scientifica non è intesa da Lucrezio come fine a se
stessa, come diletto della mente che contempla la verità, ma come mezzo convincente per
riscattare l'uomo dalle storture delle false opinioni.

     Nel libro VI il poeta spiega la genesi dei fenomeni celesti e tellurici non tanto per dare
la spiegazione di quei fenomeni e del loro divenire, ma solo per togliere il timore che tali
fenomeni siano determinati dal volere o dall'ira degli dei. Quando è stato dimostrato che
un certo fenomeno dipende da cause naturali, non importa più a Lucrezio il precisare da
quale delle cause possibili esso derivi: l'importante è aver dimostrato che l'intervento
divino resta escluso. Così la scienza, non procedendo in una ricerca sua propria, si fa
ancella del fine ultimo della filosofia. […][3]




    Bibliografia:

    [1] Menghi – Gori, Voces Seneca, Mondadori, 2000, La peste di Atene.
    [2] www.la-poesia.it/antichi/latini/lucrezio/lucrezio-libro-VI-2.htm
    [3] Fonti varie da testo.


                                                                                            11
Rousseau - Il Sentimento della Natura



     In Francia si sviluppa, in età romantica, la pittura di paesaggio. In modo particolare va
ricordato il movimento noto come "Scuola di Barbizon". Barbizon è un piccolo paese ai
margini della foresta di Fontainebleau, Qui si riunivano alcuni pittori; diversi per
temperamento, erano però animati dallo stesso desiderio di riscoprire la purezza della
natura, immergendosi in essa, vivendo anzi in uno dei luoghi più incontaminati, lontano
dalla città.
     La natura dipinta dalla "Scuola di Barbizon" non è quella idealizzata della tradizione
francese, ma quella che si presenta davanti ai nostri occhi, osservata e studiata con umiltà
d’intenti, come una cosa nuova, dimenticando gli insegnamenti artificiali della scuola.
Questo, tuttavia, non significa realismo: l’esecuzione dei quadri avviene non direttamente
in presenza dell’oggetto naturale, ma, successivamente, nel chiuso dell’atelier, i pittori di
Barbizon non rendono oggettivamente la natura, ma, romanticamente, il sentimento, ora
patetico, ora grandioso, che la vista di un albero, di un bosco, di una pianura ha suscitato
in essi.
     Capo della "Scuola di Barbizon" unanimemente riconosciuto T Rousseau, cui devono
essere affiancati J Dupré, N Diaz, C Troyon, F Millet e C Daubigny.
     Nato a Parigi nel 1812, Rousseau comincia molto giovane a disegnare e a dipingere
paesaggi: già dal 1821 nel bosco vicino alla scuola, nella periferia parigina. Dal 1826
Rousseau entrò nell’atelier del pittore paesaggista Remond e sarà poi allievo di Guillon -
Lethiere, ma confesserà più tardi di aver imparato il mestiere soprattutto dipingendo
paesaggi direttamente dal vero o andando a copiare i grandi maestri fiamminghi del
Seicento al Louvre. Dal 1830 viaggiò in Alvernia, dove ammirò i grandiosi paesaggi di
montagna e mise a punto la tecnica e la concezione estetica che lo avrebbero caratterizzato:
pittura eseguita direttamente sul posto, e non più in atelier, che gli permette un realismo
                               fedele nella resa dei temi scelti e una ricerca dell’espressione
                               perfetta del sentimento provato davanti al paesaggio da
                               rappresentare.
                                    Nel corso dell’ estate 1830, Rousseau, qui a sinistra [1],
                               lavorò in Auvergne e ne riportò delle superbe vedute. Il pittore
                               infonde la sua visione romantica dell’ arte nel realismo dello
                               sguardo che egli getta sulla natura. La comunione della sua
                               anima, dell’ spressione del suo sentimento con la natura, tema
                               idealmente romantico, passava attraverso un approccio
                               realista e fondato sull’osservazione del sito prescelto per il suo
                               quadro. Nel 1831 una delle sue opere fu accettata dalla giuria
                               del Salon, ma il seguito della sua carriera lo vide in contrasto
                               con gli ambienti artistici ufficiali, che rifiutavano il suo
realismo troppo sistematico e l’assenza di soggetti o di aneddoti nelle sue composizioni.
     Nel 1842 Rousseau si reca alcuni giorni nel Berry. In questa regione trovò motivi di
paesaggio che lo interessarono moltissimo. Uno dei soggetti che più lo colpirono furono gli
acquitrini, di cui l’ artista eseguì con tecnica rapida e sintetica numerosi studi, fra cui
quello corrispondente al dipinto esposto, ‘Edge of the Forest of Chestnut Trees Near
Fountainebleau’.

                                                                                              12
‘Edge of the Forest of Chestnut Trees Near Fountainebleau’ [1]


     Questa è certamente una delle opere di Rousseau in cui si può meglio comprendere il
concetto di "studio dal vero", tanto legato alle concezioni estetiche dei pittori di Barbizon e
a quel "nuovo sentimento della natura" affermato con forza dal movimento romantico
negli anni intorno al 1830. Il realismo quasi fotografico è evidente in modo innegabile.
Tutti gli elementi del paesaggio sono imitati pittoricamente in modo perfetto: l’acqua della
palude, le nuvole, le fronde degli alberi, l’effetto di luce. L’impressione di profondo
realismo voluta da Rousseau è resa ancor più viva dall’effetto di nebbiolina leggera, di
trasparenza delle forme, di atmosfera umida resa alla perfezione. Procedendo per mezzo di
allusioni visive e grazie a una tecnica nervosa, sicura e rapida, Rousseau ci offre qui un
capolavoro di efficacia e di sintesi.
     Nel 1852 è cavaliere della Legione Fontainebleau, all’Esposizione universale del 1855
gli viene riservata una sala assieme a Decamps e nel 1867 riceve una medaglia d’onore
all’Esposizione Universale, appena della morte avvenuta a Barbizon. [2]




    Bibliografia:

    [1] Fonti varie dalla rete.
    [2] http://members.xoom.virgilio.it/cartunia80/anteprime/natura/weghernatura/scuola_di_barbizon.htm


                                                                                                     13
Wordsworth – Nature



     All the Romantic poets turned to nature and devoted themselves to recording its
beauty as a counterpart to the sordid ugliness of the industrial towns. Much of Romantic
poetry is in fact Nature poetry and, far from the pastoral conventions of the Augustan Age
it conveyed a new sense of intimate communion between nature and man, two different
but inseparable parts of the same universe.

The Romantic conception of nature was influenced by three philosophical theories:
     - Platonism, or rather Renaissance Neoplatonism, which saw this world as the image
of an ideal metaphysical world;
     - Pantheism, according to which nature, like the rest of the universe, was moved by a
Mighty Power, an immanent God, whose presence is manifest in every stone and tree;
     - German idealism; with the three great philosophers Fichte, Schelling and Hegel;
     - Schelling in particular, with his philosophy of art and his conception of nature had a
deep impact on the development of Romantic ideas.

      Wordsworth’s faculty for drawing inspiration from everyday life and objects led him to
a sort of mystic belief, whereby man and nature were different but inseparable parts of a
whole universe, a total scheme created by God, or rather by a Mighty Power.
      He maintained that Nature, far from being a decorative background or simply the
mirror of a particular mood, was endowed with a spirit and a life of her own, present not
only in plants and animals, but in inanimate objects as well, such as stones and mountains.
She was therefore a living presence speaking to all those who were able to enter into
intimate relationship with her and understand her language.
      It was then through a fusion with nature, and through a quiet contemplation of her
beauty, that man could rediscover the image of God and become aware of his own inner
life, since Man and Nature fitted together perfectly as parts of one Mighty Mind.
      Nature, in fact, was a friend and comforter to man, the only great teacher from which,
by penetrating into her divine essence, man could learn virtue and wisdom. The mission of
the poet, like that of a prophet or a priest, was therefore to open men ‘s souls to the inner
reality of Nature and to the calm, meditative joy she can offer us.

    One of the poems which best illustrates Wordsworth’s particular way of "feeling"
Nature is Daffodils:

“ I WANDERED lonely as a cloud
     That floats on high o'er vales and hills,
     When all at once I saw a crowd,
     A host, of golden daffodils;
     Beside the lake, beneath the trees,
     Fluttering and dancing in the breeze.

     Continuous as the stars that shine
     And twinkle on the milky way,

                                                                                          14
They stretched in never-ending line
     Along the margin of a bay:                     10
     Ten thousand saw I at a glance,
     Tossing their heads in sprightly dance.

     The waves beside them danced; but they
     Out-did the sparkling waves in glee:
     A poet could not but be gay,
     In such a jocund company:
     I gazed--and gazed--but little thought
     What wealth the show to me had brought:

     For oft, when on my couch I lie
     In vacant or in pensive mood,                  20
     They flash upon that inward eye
     Which is the bliss of solitude;
     And then my heart with pleasure fills,
     And dances with the daffodils.” [1]

    In this poem he took inspiration from a beautiful sight of multitude of these millions
flowers which he admired during one of his usual walks in the countryside. After coming
home, in the quietness of his room, he recreated the joyful atmosphere they gave him. In
other poems he celebrates the beauty of Nature considering it the mother of man and
thinking that only children with their spontaneous ness and their innocence were nearer
Nature than more. So the child is the father of man society takes man far from his natural
harmony; so living in cities in for Wordsworth sad and when he comes back to his loved
countryside he’s happy to recover a condition of complete bliss.




    Bibliografia:

    [1] Spiazzi – Tavella, Only Connect…, vol. D, Zanichelli, 2000, Wordsworth, The daffodils.


                                                                                            15
Romagnosi - Le basi dell’Elettromagnetismo



     L'elettromagnetismo è una delle scoperte scientifiche più importanti degli ultimi due
secoli, punto di partenza dello sviluppo delle tecnologie più avanzate che utilizziamo
quotidianamente, inclusi il computer e i più sofisticati sistemi di telecomunicazione. Alla
base dell'elettromagnetismo c'è il fatto fondamentale che i fenomeni elettrici e magnetici
non sono indipendenti e separati uno dall'altro, ma sono invece intrinsecamente
accoppiati.
     La dimostrazione della connessione esistente tra i fenomeni magnetici…e quelli
elettrici, la cui scoperta è databile intorno al 1770 per quanto concerne l’elettrostatica ed
intorno al 1800, epoca dell’invenzione della pila, per quanto riguarda i primi studi sulla
corrente elettrica, è datata al 1820, anno di pubblicazione della celebre memoria di H C
Oersted, allora professore ordinario di Fisica all’Università di Copenhagen [1].
     Certo è che l’interrogativo sull’esistenza o meno del legame fra quegli enti vagamente
noti e che allora venivano chiamati forza elettrica e forza magnetica è presente ancor prima
che Coulomb enunci la sua legge nel 1784; e già verso la fine del 1700 Franklin e Beccaria
notarono che, mandando cariche elettrostatiche, precedentemente accumulate in una bot-
tiglia di Leyda, attraverso una sbarra di acciaio, questa si magnetizzava. Generalmente
però le opinioni dei fisici dell’epoca al riguardo erano, in mancanza di fatti sperimentali
chiaramente decifrabili, piuttosto contrastanti [2].




                                  ‘Oersted durante il suo esperimento’


     L’esperimento di Oersted, che mostrò appunto chiaramente ed univocamente l’azione
provocata da una corrente su di un ago magnetico, fu seguito da un rapido sviluppo che,
attraverso gli esperimenti di Ampère [3], si concluse con la formulazione rigorosa, nel
1865, dell’elettromagnetismo da parte di J C Maxwell [4].

                                                                                          16
È meno noto forse come negli anni intercorsi tra l’invenzione della pila da parte di
Volta nel 1800 e la pubblicazione dell’esperimento di Oersted furono realizzati o tentati
esperimenti, anche da persone al di fuori della stretta cerchia degli scienziati ufficiali,
concepiti per trovare o dimostrare l’assenza di una connessione fra fenomeni elettrici e
magnetici allora noti.
     Gian Domenico Romagnosi è noto principalmente per i suoi studi giuridici e politico -
sociali. Pochi sanno invece che fu protagonista, nel 1802, di un esperimento di fisica che
avrebbe potuto influenzare in maniera profonda lo sviluppo della scienza, anticipando di
parecchi anni la scoperta dell'elettro-magnetismo. Romagnosi era stato attratto dagli studi
sperimentali fin dagli anni giovanili quando era studente del collegio Alberoni di Piacenza.
     Ma fu durante il soggiorno trentino che concepì l'idea di un esperimento rivoluzionario
per l'epoca: l'esperimento puntava a dimostrare che una corrente elettrica produce la
deviazione dell'ago magnetico.. Nell’edizione del 3 agosto del 1802 del “Ristretto
de’foglietti universali” Romagnosi pubblicò a Trento i risultati dei suoi esperimenti
sull’effetto del galvanismo su un ago magnetico descrivendo in dettaglio la procedura
sperimentale sviluppata allo scopo [5].
     Questo articolo rappresenta un risultato clamoroso, in quanto anticipa di vent’anni
l’esperimento di Oersted. Purtroppo Romagnosi non andò a fondo nel suo esperimento,
elaborandolo come sarebbe stato necessario o quanto meno sviluppandolo nei dettagli
sperimentali e nemmeno ne dedusse chiare conclusioni di base.
     Un riassunto dei suoi risultati venne riportato nel 1804 nei circoli scientifici di Parigi
[6], ove a quel tempo lavoravano scienziati come Laplace, Biot e Ampère e dove inoltre
spesso si trovavano i più noti scienziati europei, tra cui lo stesso Oersted nel 1813. Sta di
fatto che Romagnosi, morto nel 1835, non rivendicò mai nei 15 anni che seguirono la
                                           pubblicazione di Oersted alcuna priorità sulla
                                           scoperta dell’elettromagnetismo.
                                                C’è inoltre da precisare che Oersted stesso, a
                                           cui era noto il lavoro di Romagnosi,
                                           nell’immagine accanto, in un articolo preparato
                                           nel 1830 per L’Enciclopedia di Edimburgo, nota
                                           come tale lavoro sia stato chiaramente
                                           sottovalutato all’atto della sua presentazione a
                                           Parigi nel 1804 e commenta che si sarebbe
                                           potuta accelerare di 16 anni la scoperta
                                           dell’elettromagnetismo. Nell’articolo inoltre egli
                                           osserva come Romagnosi, negli anni seguenti il
                                           1802, sembri avere completamente abbandonato
                                           le sue osservazioni sperimentali.
                                                La risposta a questa domanda non è
                                           certamente quella a cui pensava Oersted:
Romagnosi infatti, sempre più impelagato nella politica, visse anni assai difficili, e, dopo
un periodo passato in carcere a Venezia sotto l’accusa di alto tradimento, fu privato della
cattedra e morì povero e dimenticato [7].
     È comunque chiaro il fatto che Romagnosi non sia riuscito né ad intuire l’enorme
importanza delle sue osservazioni sperimentali né ad elaborarle compiutamente è dovuto
alla sua formazione culturale, eccezionale dal punto di vista umanistico giuridico, ma
lacunosa da quello scientifico: ma è anche chiaro che la stessa classe scientifica, in quei

                                                                                            17
primissimi anni dopo la scoperta della pila, non era sufficientemente preparata per
concretizzare, partendo dalle osservazioni sperimentali disponibili, un experimentum
crucis, cosa che accadde solo nel 1820 grazie ad Oersted.
     D’altra parte, in quello stesso periodo, scienziati del calibro di Laplace e Biot non
prestarono alcuna attenzione al fatto sperimentale, peraltro anche pubblicato, che fili
percorsi da corrente, connessi cioè a quei tempi a batterie diverse di pile voltaiche,
tendevano ad aderire tra loro quando erano posti vicini. Si direbbe dunque che la Società
Scientifica, l’unica che poteva farlo data la complessità dei fenomeni elettrici e magnetici
che si manifestavano, abbia necessitato di alcuni anni di riflessione ed organizzazione dei
vari concetti, per essere pronta a recepire il messaggio convogliato dalle varie osservazioni
e ripresentare poi i dati in completa chiarezza.
     È comunque un onore per la comunità trentina annoverare Romagnosi tra i suoi
cittadini illustri e per la loro Università farne simbolo di impegno intellettuale e
riferimento per le nuove generazioni di ricercatori.

      “Il sig. Consigliere Gian Domenico de Romagnosi abitante in questa Città, noto alla
Repubblica Letteraria per altre sue profonde produzioni, si affretta di comunicare ai
Fisici dell’Europa uno sperimento relativo al fluido galvanico applicato al Magnetismo.
     Preparata la pila del sig. Volta composta di piastrelle rotonde di rame, e zinco
alternate con un frapposto interstizio di flanella umettata con acqua impregnata di una
soluzione di Sale Ammoniaco, attaccò alla pila medesima un filo di argento snodato a
diversi intervalli a modo di catena.
     L’ultima articolazione di detta catena passava per un tubo di vetro, dall’estremità
esteriore del quale sporgeva un bottone pure d’argento, unito dalla detta catena. Ciò fatto
prese un ago calamitato ordinario fatto a modo di bussola nautica incastrato in mezzo
d’una asse di legno quadrato, e levatone il cristallo che lo copriva, lo pose sopra d’un
isolatore di vetro, in vicinanza della pila suddetta.
     Dato indi di piglio alla catena di argento, e presala pel tubo di vetro suddetto ne
applicò la estremità o bottone all’ago magnetico, e tenutala a contatto per lo spazio di
pochi secondi, fece divergere l’ago dalla direzione polare per alcuni gradi. Levata la
catena di argento l’ago rimase fermo nella direzione divergente a lui data.
     Di nuovo applicò la medesima catena, facendo divergere vieppiù il detto ago dalla
direzione polare, ed ottenne sempre, che l’ago rimanesse nel luogo, in cui lo aveva
lasciato, di modo che la polarità rimaneva interamente ammortizzata.
     Per ripristinare poi la polarità ecco come il Signor Romagnosi operò. Con ambo le
mani strinse fra il pollice e l’indice l’estremità della cassetta di legno isolata senza
scuoterla, e la ritenne cosi per alcuni secondi.
     Allora si vide l’ago calamitato muoversi lentamente, e ripigliare la polarità non tutto
ad un tratto, ma per successive pulsazioni a somiglianza d’una sfera da Orologio de-
stinata a segnare i minuti secondi.
     Questa esperienza fu fatta nel mese di maggio, e fu ripetuta alla presenza di alcuni
spettatori. In tale circostanza ottenne pure senza fatica l’attrazione elettrica ad una
sensibilissima distanza. Egli fece uso d’un sottile filo di refe bagnato nell’acqua pregna di
sale ammoniaco e lo raccomandò a una cannetta di vetro, approssimò indi la catena
d’argento suddetto al filo a distanza d’una linea circa, e vide il filo volare a combaciarsi
col bottone della catena, ed a volgersi in su sempre attaccato come nelle esperienze
elettriche.

                                                                                          18
Il sig. Romagnosi crede di suo dovere di pubblicare questa esperienza, che deve
formar corpo con altre in una Memoria ch’egli stesso sta componendo su Galvanismo e la
Elettricità, nella quale si riserva di dar la relazione d’un fenomeno atmosferico, che ogni
tanto accade in un luogo del Tirolo vicino al Prenner, e che affetta fortemente un intiera
popolazione e le fa provare tutti gli effetti del galvanismo. ” [8]




    Bibliografia:

     [1] H C Oersted: Experimenta circa effectum conflictus electrici in acum magneticam
(stampato in proprio, Copenhagen, 21 luglio 1820).
     [2] Si veda, ad esempio, il libro di B Dibner: Oersted and the Discovery of
Electromagnetism (Blaisdell Publishing Company, New York, London, 1962), p. 42.
     [3] A M Ampére: Memoire sur l'action mutuelle de deux courants electriques, presentata il
18 ottobre 1820 all'Academie des Sciences di Parigi.
     [4] J C Maxwell: Treatise of Electricity and Magnetism (Oxford University Press, Oxford,
1891).
     [5] G D Romagnosi: Articolo sul Galvanismo, Ristretto de'foglietti universali, Trento, 3
agosto 1802.
     [6] J Aldini: Essai theorique et experimental sur le galvanisme (Paris, 1804).
     [7] Si veda, ad esempio, la voce Gian Domenico Romagnosi nell' Enciclopedia Italiana;
oppure, per maggior dettagli, L G Cusani Confalonieri: Gian Domenico Romagnosi. Notizie
storiche e bibliografiche. Bibliografia e documenti (Tipografia G Moscatelli e figli, Carate
Brianza, 1928).
     [8] G D Romagnosi, Estratto dal “Ristretto de’foglietti universali”, Numero LXIL, Trento,
3 Agosto 1804, Articolo sul Galvanismo.




                                                                                           19

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Uomo Natura Romanticismo XIX secolo

  • 1. Tesi elaborata da Tiziano Ostigoni – Classe VD Anno scolastico 2002/2003 – Liceo Scientifico Statale “G. Marconi”
  • 2. Sommario Introduzione – Uomo e Natura nel Romanticismo pag. 3 Schopenhauer - Natura, Wille e Dolore pag. 4 Leopardi - Natura, Dolore dell’uomo pag. 6 Lucrezio – L’uomo non è superiore alla Natura pag. 9 Rousseau - Il Sentimento della Natura pag. 12 Wordsworth – Nature pag. 14 Romagnosi - Le basi dell’Elettromagnetismo pag. 16 2
  • 3. Introduzione Il lavoro preparato,“Uomo e Natura nel Romanticismo”, vuol mostrare come sia importante la relazione tra gli esseri umani e il mondo che li circonda, relazione che ebbe un ruolo notevole nel periodo preso in considerazione, cioè dalla fine del XVIII secolo alla prima metà del XIX secolo. Da sempre, è stato fondamentale per l’uomo scoprire di che natura sia tutto ciò che esiste sulla terra, ma nel periodo Romantico, cercando di rappresentare tutto secondo la logica degli stati d’animo, dei sentimenti e delle passioni, gli intellettuali furono coinvolti maggiormente dai fenomeni naturali. Interessamento dovuto al progresso tecnologico per il quale l’uomo iniziò a servirsi molto meno di ciò che gli era offerto dalla Natura e da questa si stava distaccando. Il progresso tecnologico venne influenzato notevolmente dal desiderio dell’uomo di vivere la propria vita più comodamente e, di conseguenza, dalla stessa concorrenza, da sempre esistita, tra tutti gli uomini. Essere più ricchi, più potenti, più felici. Secondo la logica umana, la felicità non si potrà mai raggiungere, poiché rispetto a qualunque stile di vita possa ogni uomo ottenere, ci sarà sempre qualcuno che ha di più e questo lo riporta nuovamente in concorrenza con se stesso. Questa continua corsa è destinata a terminare con la morte e solo in quel momento l’uomo si renderà conto di aver lottato per nulla. La causa di questa continua sofferenza si può individuare nella Natura, entità perfetta con la quale l’uomo è in contrasto, gli provoca solo difficoltà e lo costringe a combattere tutta la vita. Solo accettando la superiorità della Natura e non avendo più paura della morte, gli uomini possono raggiungere la vera felicità. Nel periodo Romantico, oltre che critiche, alla Natura vennero rivolte anche lodi, principalmente per la sua bellezza e, come già detto, per la sua perfezione, venne analizzata sotto vari aspetti. Avvennero nuove scoperte che rivoluzionarono tutto ciò che era stato considerato valido fino alla fine del XVIII secolo. Una Natura ch’egli uomini vogliono portare ad una dimensione più umana, conoscendola ed imparando che nella vita, ogni giorno, ci sono novità, invenzioni e scoperte che saranno smentite con il passare del tempo. 3
  • 4. Schopenhauer - Natura, Wille e Dolore Schopenhauer professa il suo Pessimismo Cosmico affermando che il Dolore non si trova solo alla base del mondo, ma anche nel principio stesso da cui esso dipende, che al di là delle tanto celebrate meraviglie del creato si celano la lotta e la sofferenza di tutte le cose e che ogni uomo rappresenta solo un’unità per la propria specie, fuori della quale non ha nessun valore. L’unico fine della Natura è quindi quello di perpetuare la Vita e con essa il Dolore di chi vive. La manifestazione inconfondibile dell’impegno che la Natura impiega per far sopravvivere la specie si trova nell’Amore: si impadronisce della metà delle forze dei giovani e costituisce uno dei più forti stimoli dell’esistenza. L’Amore rappresenta in realtà solo uno strumento per perpetuare la vita della specie per mezzo dell’accoppiamento; la Natura si prende gioco dell’uomo che quando ottiene l’Amore crede di aver raggiunto il massimo piacere, mentre in realtà sta creando altro Dolore. [1] “Schopenhauer fece sortire un’idea della Natura dominata da una cieca ed irrazionale volontà di Vita che si esprime in ogni vivente, e che proietta sulla sorte del singolo, un destino di dipendenza dal cieco volere. Da qui la visione della Vita comunemente accettata come del ‘sogno felice del mendicante’ nelle cui trame l’uomo comune si trova ad essere coinvolto con ogni suo impegno, nel mentre prosegue, nella assoluta indifferenza dell’eterno presente della Natura, il suo reale ‘veleggiare verso il naufragio, verso la morte’. […] La felicità interviene solo nel momento dell’appagamento, come pura assenza di Dolore. E quando l’appagamento degli scopi acquieta la volontà, subentra il sentimento della Noia dell’esistenza, ancora più distruttivo della volontà. La Vita è questo naufragio dove gli individui si incontrano in una futile gara di sopraffazioni. […] Solo la reciproca compassione, la pratica di atteggiamenti non violenti potrebbe costituire una comunanza umana che sfugge al destino metafisico.” [2] Essendo l’essere la manifestazione di una Volontà, la Vita è Dolore per essenza: volere significa desiderare ciò che non si possiede e desiderare vuol dire trovarsi in uno stato di tensione; il desiderio risulta quindi mancanza, cioè Dolore. Dato che nell’uomo la volontà è pienamente consapevole egli è il più bisognoso e mancante degli esseri, destinato a non appagare mai a pieno i suoi desideri. Il piacere in quest’ottica si configura dunque come cessazione del dolore, lo scarico da uno stato preesistente di tensione, il quale altro non rappresenta che la condizione necessaria affinché si possa raggiungere il piacere stesso. Accanto al piacere, stadio momentaneo, e al dolore, realtà durevole, vi è la noia che si instaura quando viene meno l’aculeo del desiderio. Il dolore non riguarda solamente l’uomo, è proprio di ogni creatura poiché la volontà si manifesta nelle cose sotto forma di Sehnsucht, cioè di desiderio insoddisfatto. [1] Nel 1858 il critico letterario De Sanctis ha scritto un saggio, “Schopenhauer e Leopardi”, in cui, sotto forma di dialogo fra due personaggi, uno dei quali, D, che rappresenta lo stesso autore, si confrontano il pensiero del poeta e quello del filosofo, e se ne mostrano…le affinità di fondo. [3] 4
  • 5. D: …il Wille come infinito non può appagare se stesso sotto questa o quella forma, dove trova sempre un limite. Prendere dunque una forma è la sua infelicità; il suo peccato, la sua miseria è nel dire: ‘Io voglio vivere.’ A: Farebbe dunque meglio dire: ‘Io voglio morire.’ D: Certamente. La morte è la fine del male e del Dolore, è il Wille che ritorna se stesso, eternamente libero e felice. Vivere e soffrire è la più grande delle asinità. […] La vita è un fenomeno…dove non c’è altro di reale che il dolore; e se togli il dolore, rimane la Noia. A: …da Schopenhauer sii caduto in Leopardi. D: Leopardi e Schopenhauer sono una cosa: […] ‘Arcano è tutto fuorché il nostro dolor.’ Il perché l’ha trovato Schopenhauer con la scoperta de Wille. [4] Per Schopenhauer il Wille, la voluntas, cioè la volontà, è la cosa in sé, puro stimolo che preesiste all’essere, e che poi si oggettiva, quindi si incarna nel mondo: si fa individuo e di qui scaturisce il male, perché il Wille s’imprigiona nello spazio e nel tempo, entra nella catena delle cause e degli effetti, si condanna al dolore e alla miseria; prendere forma e quindi vivere è la sua infelicità; viceversa, la morte è la fine del male e del dolore: è il Wille che ritorna se stesso, libero e felice. Per Leopardi all’origine c’è la materia, con il suo eterno ciclo di creazione e dissoluzione; ma, si chiami materia, natura o Wille, è sempre lo stesso potere cieco e maligno. E quella "simpatia universale" che si accende nel cuore degli uomini alla comprensione che un unico Wille è in tutti. Le riflessioni di Leopardi sulla noia e sul piacere ricordano il modo in cui è inteso il Wille da Schopenhauer: inesauribile aspirazione, per cui, soddisfatto un bisogno, o meglio un desiderio, si crea un vuoto che può essere colmato solo da un nuovo desiderio, ma è un’astuzia del Wille che vuole semplicemente affermarsi; ed in questa cieca, ed egoista, volontà di vivere…è da vedere l’origine di ogni guerra: nella storia quindi non c’è progressivo affermarsi di valori, ma ripetizione di un’eterna logica. Il saggio non si limita al riscontro delle affinità fra i due autori, ma è in opposizione alle idee di Schopenhauer per quel che vengono a significare in politica: nel 1848 non c’è per lui alcuna differenza fra le idee dei liberali e quelle dei reazionari, visto che tutte sono manifestazioni del Wille, rispetto al quale l’unico comportamento degno è quello non di assecondarlo facendosi portatore di idee politiche, ma di soffocarlo rinunciando ai falsi valori della vita (affermando la noluntas). Leopardi invece sarebbe positivo perché "non crede al progresso e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare; […]". [3] Bibliografia: [1] Abbagnano - Fornero, Protagonisti e Testi della Filosofia, vol. C, Paravia, 1999, Schopenhauer. [2] Vegetti - Fabietti, Filosofie e società, Zanichelli, 1982, pp. 228-236. [3] De Sanctis, Saggi critici, vol. II, Laterza, 1965, pp. 136-186. [4] De Sanctis, Leopardi e Schopenhauer, Rivista contemporanea, 1858. 5
  • 6. Leopardi – Natura, Dolore dell’uomo La rappresentazione di quel lento e progressivo cambiamento dell’ideologia leopardiana è l’Ultimo canto di Saffo, la canzone sull’infelicità umana e protesta contro la Natura che ha privato Saffo della bellezza. Egli comincia ad avvertire il senso di una infelicità universale comune sia agli antichi che ai moderni e per questo sceglie come protagonista della sua opera la poetessa greca Saffo, rappresentante del mondo antico ed espressione della più grande infelicità. Leopardi sottolinea il conflitto impari fra uomo e Natura. L‘opera può essere divisa in due parti: la prima in cui Saffo delinea la condizione di sofferenza individuale, la seconda in cui si esprime la condizione di infelicità universale. Le prime due strofe sono tutte incentrate sulla contemplazione estetica ed innamorata della natura, le cui fattezze sono espresse in toni idilliaci e richiamano sensazioni pienamente romantiche, benché espresse secondo la tradizione classica con l’utilizzo di latinismi ed immagini mitologiche che, tuttavia, rappresentano personaggi romantici. […] Importante è analizzare le strofe dal punto di vista sintattico: si nota la presenza di molti enjambements, ma anche un grande uso della punteggiatura, usata, a volte, anche rispettando simmetrie precise: la maggior parte dei versi viene spezzata dal segno di interpunzione, soprattutto nelle ultime strofe, e ciò ad indicare un discorso lapidario, un susseguirsi di proposizioni solenni alle quali nulla si può obiettare. Compare la parola ‘fato’ posta alla fine del quinto verso e seguita da una virgola, ad indicare pienamente il passaggio leopardiano dal primo al secondo pessimismo: il poeta non vuole ancora attribuire la colpa delle sofferenze umane alla Natura, e per questo l’attribuisce al Fato, il destino crudele che funge da capro espiatorio, ultimo stadio prima di giungere alla risoluzione finale. Nella seconda strofa viene presentata la condizione di Saffo che, parlando la poetessa in prima persona, è ricca d’intenso autobiografismo: il lamento di Saffo è il lamento di Leopardi, che soffre per la sua misera condizione e per le deformazioni del suo corpo, per il ‘velo indegno’, il ‘disadorno ammanto’ da cui è avvolto. Saffo non è un vero e proprio personaggio, ma è un motivo poetico attraverso il quale il Leopardi esprime i suoi sentimenti, desiderio di comprendere il perché della sofferenza e di un corso della vita così crudele. Ad introdurre il tema della sofferenza della poetessa è l’interiezione ‘ahi’ che esprime il dolore concretizzatosi in un gemito. Anche in questa strofa compare il termine ‘sorte’, primo richiamo a quel ‘fato’ della prima strofa. Il disdegno con cui la natura tratta il corpo deforme è rappresentato dalle numerose anastrofi e dalle anafore che ribadiscono il rifiuto totale da parte della bellezza. Il dolore interiore si risolve in atteggiamento di disperazione e di pretesa, caratterizzato dalle interrogative della terza strofa potenziate dall’anafora. […] Ritorna nuovamente il richiamo al fato, rappresentato dal termina ‘fortuna’. ‘Arcano è tutto fuor che il nostro dolor’ introduce la seconda parte del canto in cui la sofferenza individuale del poeta si allarga a tutta l’umanità e il pessimismo passa da soggettivo a cosmico. […] Emblematico della nuova condizione sono il verbo ‘nascemmo’, posto all’inizio del verso 48 e il ‘morremo’, all’inizio del verso 55, bloccato dal punto fermo per indicare l’ineluttabilità dell’affermazione. I due verbi sono espressi l’uno al passato remoto e l’altro 6
  • 7. al futuro e rappresentano il cielo dell’esistenza dalla nascita già avvenuta alla vita presente fino alla morte ventura, descritta con un linguaggio metaforico e mitologico e con immagini che rimandano sempre più all’oscurità del sonno eterno. […] [1] “Placida notte, e verecondo raggio della cadente luna; e tu che spunti fra la tacita selva in su la rupe, nunzio del giorno; oh dilettose e care mentre ignote mi fur l'erinni e il fato, sembianze agli occhi miei; già non arride spettacol molle ai disperati affetti. Noi l'insueto allor gaudio ravviva quando per l'etra liquido si volve e per li campi trepidanti il flutto 10 polveroso de' Noti, e quando il carro, grave carro di Giove a noi sul capo, tonando, il tenebroso aere divide. Noi per le balze e le profonde valli natar giova tra' nembi, e noi la vasta fuga de' greggi sbigottiti, o d'alto fiume alla dubbia sponda il suono e la vittrice ira dell'onda.” “Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta 20 infinita beltà parte nessuna alla misera Saffo i numi e l'empia sorte non fenno. A' tuoi superbi regni vile, o natura, e grave ospite addetta, e dispregiata amante, alle vezzose tue forme il core e le pupille invano supplichevole intendo. A me non ride l'aprico margo, e dall'eterea porta il mattutino albor; a me non il canto de' colorati augelli, e non de' faggi 30 il murmure saluta: e dove all'ombra degl'inchinati salici dispiega candido rivo il puro seno, al mio lubrico piè le flessuose linfe disdegnando sottragge, e preme in fuga l'odorate spiagge.” “Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso macchiommi anzi il natale, onde sì torvo il ciel mi fosse e di fortuna il volto? In che peccai bambina, allor che ignara 40 di misfatto è la vita, onde poi scemo 7
  • 8. di giovanezza, e disfiorato, al fuso dell'indomita Parca si volvesse il ferrigno mio stame? Incaute voci spande il tuo labbro: i destinati eventi move arcano consiglio. Arcano è tutto, fuor che il nostro dolor. Negletta prole nascemmo al pianto, e la ragione in grembo de' celesti si posa. Oh cure, oh speme de' più verd'anni! Alle sembianze il Padre, 50 alle amene sembianze eterno regno diè nelle genti; e per virili imprese, per dotta lira o canto, virtù non luce in disadorno ammanto.” “Morremo. Il velo indegno a terra sparto, rifuggirà l'ignudo animo a Dite, e il crudo fallo emenderà del cieco dispensator de' casi. E tu cui lungo amore indarno, e lunga fede, e vano d'implacato desio furor mi strinse, 60 vivi felice, se felice in terra visse nato mortal. Me non asperse del soave licor del doglio avaro Giove, poi che perìr gl'inganni e il sogno della mia fanciullezza. Ogni più lieto giorno di nostra età primo s'invola. Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra della gelida morte. Ecco di tante sperate palme e dilettosi errori, il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno 70 han la tenaria Diva e l'atra notte, e la silente riva.” [2] Bibliografia: [1] Parolisi, www.freeskuola.net/html/link_analisi_testuali/leopardi/ultcantsaffo.htm [2] Luperini – Castaldi - Marchiani, La Scrittura e l’Interpretazione, Palumbo, 1998, Leopardi. 8
  • 9. Lucrezio – L’uomo non è superiore alla Natura Lucrezio, ben conoscendo le ostilità portate dai Romani verso la filosofia epicurea, alla quale è legato, decide di scrivere un’opera, il De rerum natura, che sia al massimo livello sia per i ragionamenti posti, sia per i contenuti che lo stile usato. Un’opera diretta al pubblico con un linguaggio semplice, ma con un messaggio rivoluzionario. La continuità con il passato che emerge dalla sua opera è quella con la tradizione del poeta filosofo, profeta di verità e maestro, come i filosofi greci. L’intera opera, sebbene rivolta ad un solo lettore, Gaio Memmio, è destinata a tutta l’alta società romana. Lucrezio non fa però una critica alla società a lui contemporanea, ma vuole eliminare le false credenze degli uomini nei beni materiali. L’opera è composta da sei libri, completamente scritti in versi, e ognuno di essi è un’unità a se stante. È evidente la simmetria della struttura globale, grazie al proemio iniziale e all’epilogo finale, la divisione in coppie dei sei libri, dove in ognuna di esse c’è un parte introduttiva ed esplicativa della seconda. I primi due libri si basano sulla descrizione fisica del mondo: la materia e il vuoto sono entrambe in uno spazio cosmico dove si sussegue il movimento degli atomi. La seconda coppia di libri tratta invece i fenomeni del mondo umano: la dissoluzione dell’anima, intesa come un’aggregazione di atomi, e i presupposti materiali dei sentimenti e della conoscenza. Negli ultimi due libri l’argomento illustrato è la cosmologia: la mortalità del mondo e la spiegazione razionale di molti fenomeni naturali, per spiegare che il loro avvenire non è correlato con le azioni degli uomini. La peste di Atene è il brano posto a conclusione dell’opera, nella quale le immagini di morte sono frequenti, sembra essere in opposizione al primo libro, nel quale è invece evidente la visione luminosa della vita. L’importanza di questo passo viene motivata in diversi modi: sia come annunciazione della fine tragica del luogo in cui risiedono gli Dei, sia come risoluzione alla quale tende l’uomo che diffida dagli insegnamenti di Epicuro. Da una sua opera se ne ricava il suo pensiero base: il vivere con una pacata accettazione della vita e la negazione della pretesa dell’uomo di essere superiore alla Natura e che questa sia stata costruita solo sua funzione. Il saggio non rifiuta ne la vita ne la morte, al contrario l’uomo rifiuta la morte come il male più grande. Lucrezio pone una soluzione al problema, spiegando che con la morte l’uomo non prova nessuna sensazione o Dolore, l’anima si scinde dal corpo e gli atomi si disgregano. Tematiche analoghe si individuano anche nelle Operette morali di Leopardi dove nel Dialogo della Natura e di un Islandese mette in scena una conversazione tra la natura, intesa come mostro, e un islandese, che ha cercato per tutta la vita la felicità senza mai trovarla. La conclusione che se ne trae è che il mondo non è nato per la felicità dell’uomo e quasi in segno ironico l’Islandese muore trasformato in una statua e mangiato da due leoni. La Peste è un topos letterario molto frequente, nel quale compare sia il resoconto scientifico, sia la sfida umana alla paura della morte e la fragilità metafora del male di vivere. Tucide fu il primo scrittore a descrivere la peste sotto l’aspetto scientifico: nell’anno 9
  • 10. dello svilupparsi del morbo, il 430 a.C,. o lui era ad Atene ed aveva le conoscenze mediche necessarie per farne un a descrizione corretta. L’Atene di Tucidide è sconvolta, nessuno crede in rimedi naturali che portino alla salvezza e ciò provoca un totale disprezzo verso le leggi umane e divine, inizio del completo degrado morale. “Haec ratio quondam morborum et mortifer aestus finibus in Cecropis funestos reddidit agros vastavitque vias, exhausit civibus urbem. 1140 Nam penitus veniens Aegypti finibus ortus, aera permensus multum camposque natantis, incubuit tandem populo Pandionis omni. Inde catervatim morbo mortique dabantur. Principio caput incensum fervore gerebant 1145 et duplicis oculos suffusa luce rubentis. Sudabant etiam fauces intrinsecus atrae sanguine et ulceribus vocis via saepta coibat atque animi interpres manabat lingua cruore delibitata malis, motu gravis, aspera tactu. 1150 Inde ubi per fauces pectus complerat et ipsum morbida vis in cor maestum confluxerat aegris, omnia tum vero vitai claustra labant. Spiritus ore foras taetrum volvebat odorem, rancida quo perolent proiecta cadavera ritu. 1155 Atque animi prorsum vires totius <et> omne languebat corpus leti iam limine in ipso. Intolerabilisbusque malis erat anxius angor adsidue comes et gemitu commixta querella. Singulusque frequens noctem per saepe diemque 1160 corripere adsidue nervos et membra coactans dissolvebat eos, defessos ante, fatigans.” [1] “Tale causa di malattie e mortifera emanazione, un tempo, nel paese di Cecrope, rese funerei i campi e spopolò le strade, svuotò di cittadini la città. Venendo infatti dal fondo della terra d'Egitto, ove era nato, dopo aver percorso molta aria e distese fluttuanti, piombò alfine su tutto il popolo di Pandione. Allora, a torme eran preda della malattia e della morte. Dapprima avevano il capo in fiamme per il calore e soffusi di un luccichìo rossastro ambedue gli occhi. La gola, inoltre, nell'interno nera, sudava sangue, e occluso dalle ulcere il passaggio della voce si serrava, e l'interprete dell'animo, la lingua, stillava gocce di sangue, infiacchita dal male, pesante al movimento, scabra al tatto. Poi, quando attraverso la gola la forza della malattia aveva invaso il petto ed era affluita fin dentro il cuore afflitto dei malati, allora davvero vacillavano tutte le barriere della vita. Il fiato che usciva dalla bocca spargeva un puzzo ributtante, simile al fetore che mandano i putridi cadaveri abbandonati. 10
  • 11. Poi le forze dell'animo intero ‹e› tutto il corpo languivano, già sul limitare stesso della morte. E agli intollerabili mali erano assidui compagni un'ansiosa angoscia e un lamentarsi commisto con sospiri. E un singhiozzo frequente, che spesso li costringeva notte e giorno a contrarre assiduamente i nervi e le membra, li struggeva aggiungendo travaglio a quello che già prima li aveva spossati.” [2] Fine del poeta non è tanto quello di chiarire come stanno, in sé e per sé, le cose dell'universo, ma come, mediante la conoscenza razionale della realtà, si possa raggiungere la liberazione dai timori e dalle angosce che rendono ancor più dolorosa e drammatica la condizione umana. La conoscenza scientifica non è intesa da Lucrezio come fine a se stessa, come diletto della mente che contempla la verità, ma come mezzo convincente per riscattare l'uomo dalle storture delle false opinioni. Nel libro VI il poeta spiega la genesi dei fenomeni celesti e tellurici non tanto per dare la spiegazione di quei fenomeni e del loro divenire, ma solo per togliere il timore che tali fenomeni siano determinati dal volere o dall'ira degli dei. Quando è stato dimostrato che un certo fenomeno dipende da cause naturali, non importa più a Lucrezio il precisare da quale delle cause possibili esso derivi: l'importante è aver dimostrato che l'intervento divino resta escluso. Così la scienza, non procedendo in una ricerca sua propria, si fa ancella del fine ultimo della filosofia. […][3] Bibliografia: [1] Menghi – Gori, Voces Seneca, Mondadori, 2000, La peste di Atene. [2] www.la-poesia.it/antichi/latini/lucrezio/lucrezio-libro-VI-2.htm [3] Fonti varie da testo. 11
  • 12. Rousseau - Il Sentimento della Natura In Francia si sviluppa, in età romantica, la pittura di paesaggio. In modo particolare va ricordato il movimento noto come "Scuola di Barbizon". Barbizon è un piccolo paese ai margini della foresta di Fontainebleau, Qui si riunivano alcuni pittori; diversi per temperamento, erano però animati dallo stesso desiderio di riscoprire la purezza della natura, immergendosi in essa, vivendo anzi in uno dei luoghi più incontaminati, lontano dalla città. La natura dipinta dalla "Scuola di Barbizon" non è quella idealizzata della tradizione francese, ma quella che si presenta davanti ai nostri occhi, osservata e studiata con umiltà d’intenti, come una cosa nuova, dimenticando gli insegnamenti artificiali della scuola. Questo, tuttavia, non significa realismo: l’esecuzione dei quadri avviene non direttamente in presenza dell’oggetto naturale, ma, successivamente, nel chiuso dell’atelier, i pittori di Barbizon non rendono oggettivamente la natura, ma, romanticamente, il sentimento, ora patetico, ora grandioso, che la vista di un albero, di un bosco, di una pianura ha suscitato in essi. Capo della "Scuola di Barbizon" unanimemente riconosciuto T Rousseau, cui devono essere affiancati J Dupré, N Diaz, C Troyon, F Millet e C Daubigny. Nato a Parigi nel 1812, Rousseau comincia molto giovane a disegnare e a dipingere paesaggi: già dal 1821 nel bosco vicino alla scuola, nella periferia parigina. Dal 1826 Rousseau entrò nell’atelier del pittore paesaggista Remond e sarà poi allievo di Guillon - Lethiere, ma confesserà più tardi di aver imparato il mestiere soprattutto dipingendo paesaggi direttamente dal vero o andando a copiare i grandi maestri fiamminghi del Seicento al Louvre. Dal 1830 viaggiò in Alvernia, dove ammirò i grandiosi paesaggi di montagna e mise a punto la tecnica e la concezione estetica che lo avrebbero caratterizzato: pittura eseguita direttamente sul posto, e non più in atelier, che gli permette un realismo fedele nella resa dei temi scelti e una ricerca dell’espressione perfetta del sentimento provato davanti al paesaggio da rappresentare. Nel corso dell’ estate 1830, Rousseau, qui a sinistra [1], lavorò in Auvergne e ne riportò delle superbe vedute. Il pittore infonde la sua visione romantica dell’ arte nel realismo dello sguardo che egli getta sulla natura. La comunione della sua anima, dell’ spressione del suo sentimento con la natura, tema idealmente romantico, passava attraverso un approccio realista e fondato sull’osservazione del sito prescelto per il suo quadro. Nel 1831 una delle sue opere fu accettata dalla giuria del Salon, ma il seguito della sua carriera lo vide in contrasto con gli ambienti artistici ufficiali, che rifiutavano il suo realismo troppo sistematico e l’assenza di soggetti o di aneddoti nelle sue composizioni. Nel 1842 Rousseau si reca alcuni giorni nel Berry. In questa regione trovò motivi di paesaggio che lo interessarono moltissimo. Uno dei soggetti che più lo colpirono furono gli acquitrini, di cui l’ artista eseguì con tecnica rapida e sintetica numerosi studi, fra cui quello corrispondente al dipinto esposto, ‘Edge of the Forest of Chestnut Trees Near Fountainebleau’. 12
  • 13. ‘Edge of the Forest of Chestnut Trees Near Fountainebleau’ [1] Questa è certamente una delle opere di Rousseau in cui si può meglio comprendere il concetto di "studio dal vero", tanto legato alle concezioni estetiche dei pittori di Barbizon e a quel "nuovo sentimento della natura" affermato con forza dal movimento romantico negli anni intorno al 1830. Il realismo quasi fotografico è evidente in modo innegabile. Tutti gli elementi del paesaggio sono imitati pittoricamente in modo perfetto: l’acqua della palude, le nuvole, le fronde degli alberi, l’effetto di luce. L’impressione di profondo realismo voluta da Rousseau è resa ancor più viva dall’effetto di nebbiolina leggera, di trasparenza delle forme, di atmosfera umida resa alla perfezione. Procedendo per mezzo di allusioni visive e grazie a una tecnica nervosa, sicura e rapida, Rousseau ci offre qui un capolavoro di efficacia e di sintesi. Nel 1852 è cavaliere della Legione Fontainebleau, all’Esposizione universale del 1855 gli viene riservata una sala assieme a Decamps e nel 1867 riceve una medaglia d’onore all’Esposizione Universale, appena della morte avvenuta a Barbizon. [2] Bibliografia: [1] Fonti varie dalla rete. [2] http://members.xoom.virgilio.it/cartunia80/anteprime/natura/weghernatura/scuola_di_barbizon.htm 13
  • 14. Wordsworth – Nature All the Romantic poets turned to nature and devoted themselves to recording its beauty as a counterpart to the sordid ugliness of the industrial towns. Much of Romantic poetry is in fact Nature poetry and, far from the pastoral conventions of the Augustan Age it conveyed a new sense of intimate communion between nature and man, two different but inseparable parts of the same universe. The Romantic conception of nature was influenced by three philosophical theories: - Platonism, or rather Renaissance Neoplatonism, which saw this world as the image of an ideal metaphysical world; - Pantheism, according to which nature, like the rest of the universe, was moved by a Mighty Power, an immanent God, whose presence is manifest in every stone and tree; - German idealism; with the three great philosophers Fichte, Schelling and Hegel; - Schelling in particular, with his philosophy of art and his conception of nature had a deep impact on the development of Romantic ideas. Wordsworth’s faculty for drawing inspiration from everyday life and objects led him to a sort of mystic belief, whereby man and nature were different but inseparable parts of a whole universe, a total scheme created by God, or rather by a Mighty Power. He maintained that Nature, far from being a decorative background or simply the mirror of a particular mood, was endowed with a spirit and a life of her own, present not only in plants and animals, but in inanimate objects as well, such as stones and mountains. She was therefore a living presence speaking to all those who were able to enter into intimate relationship with her and understand her language. It was then through a fusion with nature, and through a quiet contemplation of her beauty, that man could rediscover the image of God and become aware of his own inner life, since Man and Nature fitted together perfectly as parts of one Mighty Mind. Nature, in fact, was a friend and comforter to man, the only great teacher from which, by penetrating into her divine essence, man could learn virtue and wisdom. The mission of the poet, like that of a prophet or a priest, was therefore to open men ‘s souls to the inner reality of Nature and to the calm, meditative joy she can offer us. One of the poems which best illustrates Wordsworth’s particular way of "feeling" Nature is Daffodils: “ I WANDERED lonely as a cloud That floats on high o'er vales and hills, When all at once I saw a crowd, A host, of golden daffodils; Beside the lake, beneath the trees, Fluttering and dancing in the breeze. Continuous as the stars that shine And twinkle on the milky way, 14
  • 15. They stretched in never-ending line Along the margin of a bay: 10 Ten thousand saw I at a glance, Tossing their heads in sprightly dance. The waves beside them danced; but they Out-did the sparkling waves in glee: A poet could not but be gay, In such a jocund company: I gazed--and gazed--but little thought What wealth the show to me had brought: For oft, when on my couch I lie In vacant or in pensive mood, 20 They flash upon that inward eye Which is the bliss of solitude; And then my heart with pleasure fills, And dances with the daffodils.” [1] In this poem he took inspiration from a beautiful sight of multitude of these millions flowers which he admired during one of his usual walks in the countryside. After coming home, in the quietness of his room, he recreated the joyful atmosphere they gave him. In other poems he celebrates the beauty of Nature considering it the mother of man and thinking that only children with their spontaneous ness and their innocence were nearer Nature than more. So the child is the father of man society takes man far from his natural harmony; so living in cities in for Wordsworth sad and when he comes back to his loved countryside he’s happy to recover a condition of complete bliss. Bibliografia: [1] Spiazzi – Tavella, Only Connect…, vol. D, Zanichelli, 2000, Wordsworth, The daffodils. 15
  • 16. Romagnosi - Le basi dell’Elettromagnetismo L'elettromagnetismo è una delle scoperte scientifiche più importanti degli ultimi due secoli, punto di partenza dello sviluppo delle tecnologie più avanzate che utilizziamo quotidianamente, inclusi il computer e i più sofisticati sistemi di telecomunicazione. Alla base dell'elettromagnetismo c'è il fatto fondamentale che i fenomeni elettrici e magnetici non sono indipendenti e separati uno dall'altro, ma sono invece intrinsecamente accoppiati. La dimostrazione della connessione esistente tra i fenomeni magnetici…e quelli elettrici, la cui scoperta è databile intorno al 1770 per quanto concerne l’elettrostatica ed intorno al 1800, epoca dell’invenzione della pila, per quanto riguarda i primi studi sulla corrente elettrica, è datata al 1820, anno di pubblicazione della celebre memoria di H C Oersted, allora professore ordinario di Fisica all’Università di Copenhagen [1]. Certo è che l’interrogativo sull’esistenza o meno del legame fra quegli enti vagamente noti e che allora venivano chiamati forza elettrica e forza magnetica è presente ancor prima che Coulomb enunci la sua legge nel 1784; e già verso la fine del 1700 Franklin e Beccaria notarono che, mandando cariche elettrostatiche, precedentemente accumulate in una bot- tiglia di Leyda, attraverso una sbarra di acciaio, questa si magnetizzava. Generalmente però le opinioni dei fisici dell’epoca al riguardo erano, in mancanza di fatti sperimentali chiaramente decifrabili, piuttosto contrastanti [2]. ‘Oersted durante il suo esperimento’ L’esperimento di Oersted, che mostrò appunto chiaramente ed univocamente l’azione provocata da una corrente su di un ago magnetico, fu seguito da un rapido sviluppo che, attraverso gli esperimenti di Ampère [3], si concluse con la formulazione rigorosa, nel 1865, dell’elettromagnetismo da parte di J C Maxwell [4]. 16
  • 17. È meno noto forse come negli anni intercorsi tra l’invenzione della pila da parte di Volta nel 1800 e la pubblicazione dell’esperimento di Oersted furono realizzati o tentati esperimenti, anche da persone al di fuori della stretta cerchia degli scienziati ufficiali, concepiti per trovare o dimostrare l’assenza di una connessione fra fenomeni elettrici e magnetici allora noti. Gian Domenico Romagnosi è noto principalmente per i suoi studi giuridici e politico - sociali. Pochi sanno invece che fu protagonista, nel 1802, di un esperimento di fisica che avrebbe potuto influenzare in maniera profonda lo sviluppo della scienza, anticipando di parecchi anni la scoperta dell'elettro-magnetismo. Romagnosi era stato attratto dagli studi sperimentali fin dagli anni giovanili quando era studente del collegio Alberoni di Piacenza. Ma fu durante il soggiorno trentino che concepì l'idea di un esperimento rivoluzionario per l'epoca: l'esperimento puntava a dimostrare che una corrente elettrica produce la deviazione dell'ago magnetico.. Nell’edizione del 3 agosto del 1802 del “Ristretto de’foglietti universali” Romagnosi pubblicò a Trento i risultati dei suoi esperimenti sull’effetto del galvanismo su un ago magnetico descrivendo in dettaglio la procedura sperimentale sviluppata allo scopo [5]. Questo articolo rappresenta un risultato clamoroso, in quanto anticipa di vent’anni l’esperimento di Oersted. Purtroppo Romagnosi non andò a fondo nel suo esperimento, elaborandolo come sarebbe stato necessario o quanto meno sviluppandolo nei dettagli sperimentali e nemmeno ne dedusse chiare conclusioni di base. Un riassunto dei suoi risultati venne riportato nel 1804 nei circoli scientifici di Parigi [6], ove a quel tempo lavoravano scienziati come Laplace, Biot e Ampère e dove inoltre spesso si trovavano i più noti scienziati europei, tra cui lo stesso Oersted nel 1813. Sta di fatto che Romagnosi, morto nel 1835, non rivendicò mai nei 15 anni che seguirono la pubblicazione di Oersted alcuna priorità sulla scoperta dell’elettromagnetismo. C’è inoltre da precisare che Oersted stesso, a cui era noto il lavoro di Romagnosi, nell’immagine accanto, in un articolo preparato nel 1830 per L’Enciclopedia di Edimburgo, nota come tale lavoro sia stato chiaramente sottovalutato all’atto della sua presentazione a Parigi nel 1804 e commenta che si sarebbe potuta accelerare di 16 anni la scoperta dell’elettromagnetismo. Nell’articolo inoltre egli osserva come Romagnosi, negli anni seguenti il 1802, sembri avere completamente abbandonato le sue osservazioni sperimentali. La risposta a questa domanda non è certamente quella a cui pensava Oersted: Romagnosi infatti, sempre più impelagato nella politica, visse anni assai difficili, e, dopo un periodo passato in carcere a Venezia sotto l’accusa di alto tradimento, fu privato della cattedra e morì povero e dimenticato [7]. È comunque chiaro il fatto che Romagnosi non sia riuscito né ad intuire l’enorme importanza delle sue osservazioni sperimentali né ad elaborarle compiutamente è dovuto alla sua formazione culturale, eccezionale dal punto di vista umanistico giuridico, ma lacunosa da quello scientifico: ma è anche chiaro che la stessa classe scientifica, in quei 17
  • 18. primissimi anni dopo la scoperta della pila, non era sufficientemente preparata per concretizzare, partendo dalle osservazioni sperimentali disponibili, un experimentum crucis, cosa che accadde solo nel 1820 grazie ad Oersted. D’altra parte, in quello stesso periodo, scienziati del calibro di Laplace e Biot non prestarono alcuna attenzione al fatto sperimentale, peraltro anche pubblicato, che fili percorsi da corrente, connessi cioè a quei tempi a batterie diverse di pile voltaiche, tendevano ad aderire tra loro quando erano posti vicini. Si direbbe dunque che la Società Scientifica, l’unica che poteva farlo data la complessità dei fenomeni elettrici e magnetici che si manifestavano, abbia necessitato di alcuni anni di riflessione ed organizzazione dei vari concetti, per essere pronta a recepire il messaggio convogliato dalle varie osservazioni e ripresentare poi i dati in completa chiarezza. È comunque un onore per la comunità trentina annoverare Romagnosi tra i suoi cittadini illustri e per la loro Università farne simbolo di impegno intellettuale e riferimento per le nuove generazioni di ricercatori. “Il sig. Consigliere Gian Domenico de Romagnosi abitante in questa Città, noto alla Repubblica Letteraria per altre sue profonde produzioni, si affretta di comunicare ai Fisici dell’Europa uno sperimento relativo al fluido galvanico applicato al Magnetismo. Preparata la pila del sig. Volta composta di piastrelle rotonde di rame, e zinco alternate con un frapposto interstizio di flanella umettata con acqua impregnata di una soluzione di Sale Ammoniaco, attaccò alla pila medesima un filo di argento snodato a diversi intervalli a modo di catena. L’ultima articolazione di detta catena passava per un tubo di vetro, dall’estremità esteriore del quale sporgeva un bottone pure d’argento, unito dalla detta catena. Ciò fatto prese un ago calamitato ordinario fatto a modo di bussola nautica incastrato in mezzo d’una asse di legno quadrato, e levatone il cristallo che lo copriva, lo pose sopra d’un isolatore di vetro, in vicinanza della pila suddetta. Dato indi di piglio alla catena di argento, e presala pel tubo di vetro suddetto ne applicò la estremità o bottone all’ago magnetico, e tenutala a contatto per lo spazio di pochi secondi, fece divergere l’ago dalla direzione polare per alcuni gradi. Levata la catena di argento l’ago rimase fermo nella direzione divergente a lui data. Di nuovo applicò la medesima catena, facendo divergere vieppiù il detto ago dalla direzione polare, ed ottenne sempre, che l’ago rimanesse nel luogo, in cui lo aveva lasciato, di modo che la polarità rimaneva interamente ammortizzata. Per ripristinare poi la polarità ecco come il Signor Romagnosi operò. Con ambo le mani strinse fra il pollice e l’indice l’estremità della cassetta di legno isolata senza scuoterla, e la ritenne cosi per alcuni secondi. Allora si vide l’ago calamitato muoversi lentamente, e ripigliare la polarità non tutto ad un tratto, ma per successive pulsazioni a somiglianza d’una sfera da Orologio de- stinata a segnare i minuti secondi. Questa esperienza fu fatta nel mese di maggio, e fu ripetuta alla presenza di alcuni spettatori. In tale circostanza ottenne pure senza fatica l’attrazione elettrica ad una sensibilissima distanza. Egli fece uso d’un sottile filo di refe bagnato nell’acqua pregna di sale ammoniaco e lo raccomandò a una cannetta di vetro, approssimò indi la catena d’argento suddetto al filo a distanza d’una linea circa, e vide il filo volare a combaciarsi col bottone della catena, ed a volgersi in su sempre attaccato come nelle esperienze elettriche. 18
  • 19. Il sig. Romagnosi crede di suo dovere di pubblicare questa esperienza, che deve formar corpo con altre in una Memoria ch’egli stesso sta componendo su Galvanismo e la Elettricità, nella quale si riserva di dar la relazione d’un fenomeno atmosferico, che ogni tanto accade in un luogo del Tirolo vicino al Prenner, e che affetta fortemente un intiera popolazione e le fa provare tutti gli effetti del galvanismo. ” [8] Bibliografia: [1] H C Oersted: Experimenta circa effectum conflictus electrici in acum magneticam (stampato in proprio, Copenhagen, 21 luglio 1820). [2] Si veda, ad esempio, il libro di B Dibner: Oersted and the Discovery of Electromagnetism (Blaisdell Publishing Company, New York, London, 1962), p. 42. [3] A M Ampére: Memoire sur l'action mutuelle de deux courants electriques, presentata il 18 ottobre 1820 all'Academie des Sciences di Parigi. [4] J C Maxwell: Treatise of Electricity and Magnetism (Oxford University Press, Oxford, 1891). [5] G D Romagnosi: Articolo sul Galvanismo, Ristretto de'foglietti universali, Trento, 3 agosto 1802. [6] J Aldini: Essai theorique et experimental sur le galvanisme (Paris, 1804). [7] Si veda, ad esempio, la voce Gian Domenico Romagnosi nell' Enciclopedia Italiana; oppure, per maggior dettagli, L G Cusani Confalonieri: Gian Domenico Romagnosi. Notizie storiche e bibliografiche. Bibliografia e documenti (Tipografia G Moscatelli e figli, Carate Brianza, 1928). [8] G D Romagnosi, Estratto dal “Ristretto de’foglietti universali”, Numero LXIL, Trento, 3 Agosto 1804, Articolo sul Galvanismo. 19