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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI BOLOGNA
FACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA

Corso di laurea in scienze filosofiche

L'”ALTRO INIZIO”:
I CONTRIBUTI ALLA FILOSOFIA (DALL'EVENTO)
DI MARTIN HEIDEGGER

Tesi di laurea in FILOSOFIA TEORETICA

Relatore

Presentata da

Prof. Maurizio Malaguti

Marcello Gagliardi

Sessione III
Anno accademico 2007-2008

1
INDICE

BREVE E PROVVISORIA FOCALIZZAZIONE DI QUESTO SCRITTO

4

I

I.I L'OPERA: I CONTRIBUTI ALLA FILOSOFIA (DALL'EVENTO)
PORSI DI FRONTE AI CONTRIBUTI

7

I.II LA STRUTTURAZIONE DEI CONTRIBUTI

9

I.III LA STRUTTURA INTRINSECA DEI CONTRIBUTI: UN
INCAMMINARSI. IL PENSARE COME CAMMINO O SENTIERO

11

APPENDICE ERMENEUTICO-INTERPRETATIVA (RIGUARDO LA
KEHRE)

15

II
PREMESSA

17

II.I SU LA RISONANZA

19

II.II SUL GIOCO DI PASSAGGIO

26

II.III SU IL SALTO

34

II.IV SU LA FONDAZIONE

43

-esser-ci

45

-verità

60

-spazio-tempo

76
2
II.V LINEA TRASVERSALE: LA MACCHINAZIONE

89

III

III.I IL PENSARE COME PENSARE ESPERENTE

100

III.II SU I VENTURI

111

IV
IV.I SU L'ULTIMO DIO

118

IV.II IL PENSARE COME TRASFIGURAZIONE

125

V

V.I COMPENDIO “SULL'”ESSERE

142

APPENDICE CONCLUSIVA: SU LA FILOSOFIA

153

NOTA BIBLIOGRAFICA

158

BREVE E PROVVISORIA FOCALIZZAZIONE DI QUESTO SCRITTO

3
“Si è fissato qui per cenni, come traccia da sviluppare in forma compiuta,
ciò che una lunga esitazione mi aveva indotto a tenere da parte”1. Iniziano
così i Contributi alla filosofia (dall'evento) di Heidegger. Cotale inizio
immediatamente ci sussurra una problematicità del testo in questione, testo
che risulta, di primo acchito, enigmatico. L'opera dei Contributi è stata
valutata da alcuni rinomati studiosi del pensiero heideggeriano come “il
più importante di una serie di trattati inediti..., se non come il... “vero
magnum opus” ( O. Pöggeler) o la... “seconda opera capitale” (F.-W. Von
Herrmann)... Nondimeno rimane, a parecchi anni dalla sua comparsa,
ancora tutta da capire e da interpretare”2. Sempre riguardo alla medesima
opera, possiamo leggere: “libro segreto... Raccolta di aforismi... Il grande
abbozzo asistematico”3. D'altronde si può anche trovare qualcuno secondo
cui i Contributi sono un “vero e proprio trattato...-nel quale- Heidegger
sviluppa per la prima volta la parola chiave del suo tardo pensiero:
Ereignis”4. Comunque stiano le cose, codesta opera e l'intrinseche sue
profondità e problematicità saranno poste a tema nel presente scritto. Ciò,
perlomeno, è nostro intento.
Ma nella focalizzazione (nel mettere a fuoco per il vedere) vera e propria
dei Contributi il piano filosofico potrebbe non bastarci. Potrebbe non
essere adeguato a cogliere le profondità e problematicità prima accennate.
Come ciò può essere...? Non è forse il testo dei Contributi un' opera dello
Heidegger? E non è forse egli un grande e riconosciuto pensatore del
novecento? Non è forse il suo pensiero ufficialmente concepito come una
filosofia? Cioè, non troviamo forse questo pensiero nei libri di storia della
filosofia? Non costituisce esso, insieme a tanto altro, quel bagaglio di
conoscenze che forma la scienza e la cultura filosofiche?
Nessuno lo negherebbe. Eppure proprio per questo lo Heidegger, durante
l'intrinseco cammino che gli è appartenuto, ha prima di tutto sempre messo
in guardia da due cose coloro che si approssimavano al suo pensiero: il più
radicale, ma sempre incombente, fraintendimento5, e l'altrettanto
incombente incanalamento del pensare-domandante in dottrina filosofica
(in breve, in una filosofia facente parte delle filosofie della storia della
filosofia)6. Soggiacente alla rilevazione di entrambi questi già-da-sempre
1

Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 29. Ed. Adelphi, Milano 2007.
Ivi. pag 19.
3
Maurizio Ferraris, Cronistoria di una svolta, in Martin Heidegger, La svolta, pag. 92. Ed. il Melangolo,
Genova 1990.
4
Corrado Badocco, Avvertenza all'edizione italiana de Martin Heidegger, Tempo e essere, pag. VI. Ed.
Longanesi, Milano 2007.
5
“Heidegger stesso non poté scorgere, nell'attenzione rivolta alla sua opera...nient'altro che
un'incomprensione delle proprie intenzioni effettive... Ciò che viene pensato non è preso...come
segnavia nella ricerca del cammino, ma come risultato finito, e così viene “compreso” a partire da
ciò che è già noto, quindi “incompreso”, frainteso”. Otto Pöggeler, il cammino di pensiero di Martin
Heidegger, pagg. 7-8. Ed. Guida, Napoli 1991.
6
Ai Contributi soggiace un “nuovo pericolo che ora l'evento -l'essere come evento- si trasformi subito in
un nome ed in un comodo concetto dal quale “dedurre” altro,...astrarlo in una discussione
2

4
incombenti “pericoli” vi è la premurosa necessità di scostarsi da quella
prospettiva detta il dominante o metafisica, in tutte le sue forme. Ciò
significa distaccarsi, o meglio sradicarsi, da una data, e data come già-dasempre (pre-condizione), visione dell'essere e perciò del “mondo”. È da
cotale luogo che scaturisce tutta la questione heideggeriana del linguaggio
e la problematicità della “ricerca” di un dire7 altro rispetto a quello definito
dominante o metafisico (con tutte le sue propaggini).
Di tutta la bibliografia heideggeriana si può affermare che il “rischio
consiste nel parlare con proposizioni assertorie di qualcosa a cui è per
essenza inadeguata questa modalità del dire”8. Non è casuale che in
avanzata età Heidegger ritorni agli inizi del suo cammino filosofico
(esplicitamente ad Essere e tempo, all'interno del testo Tempo e essere).
Egli ritornò a quando, avvicinatosi alla fenomenologia la ri-colse (ripensò), forse più che altro intuitivamente, forse deviandola dai binari a cui
era usa, ma cogliendo quegli impulsi direttivi che avrebbero accompagnato
e guidato il suo pensare da lì in avanti, e forse anche da prima ancora:
“l'essenziale per essa (la fenomenologia) non sta nell'essere reale come
“corrente” filosofica. Più in alto della realtà sta la possibilità. La
comprensione della fenomenologia consiste esclusivamente nell'afferrarla
come possibilità... Essa è la possibilità del pensiero -possibilità che si
trasforma nei tempi, perché solo così può rimanere una possibilità- di
corrispondere all'appello di ciò che è da-pensare. Soltanto se la
fenomenologia è esperita e mantenuta in questo modo, essa può sparire
come denominazione storiografica a favore della cosa del pensiero, la cui
manifestatezza resta un mistero”9.
La tematica che ci approssimiamo ad affrontare, proprio nel suo essere al
di là di una semplice tematica, come si cercherà di mostrare, investe ciò
che è in sé la filosofia in quanto pensare. Sotto una certa prospettiva, quello
che afferma Vattimo nella presentazione della traduzione italiana del testo
Introduzione alla metafisica ha un che di lampante: “Il pensiero non può
essere altro, per noi, che una meditazione e una ripetizione della storia
della metafisica, intesa come il modo proprio e peculiare in cui l'essere si
dà alla nostra epoca”10. La prospettiva in cui queste parole, ed il loro
speculativa”. Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 346. Ed. Adelphi, Milano
2007.
7
Durante l'intero scritto baseremo la significatività propria di questo termine, quando esso sarà posto in
risalto tramite la sua scrittura in corsivo, sulla essenziale diversità tra dire ( Riguardo una tale
diversità, e quindi riguardo alla significatività di cui siamo a porre (la quale concerne anche ciò che
sarà denominato il non-detto o non-espresso), chiarificatori e lampanti sono il terzo, quarto, quinto
capoverso de: Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pag. 198. Ed. Mursia, Milano 1973.
Questa significatività di cui siamo a porre riguarda intimamente il linguaggio (l'essenza del
linguaggio) nel suo essere ri-pensato, heideggerianamente, ed in quanto intrinseco “moto” ed
interezza, come Si veda: Ivi. pag. 197.
8
Martin Heidegger, Tempo e essere, pag. 33. Ed. Longanesi, Milano 2007.
9
Ivi. pag. 105.
10
Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, pag. 9. Ed. Mursia, Azzate (Varese) 1990.
5
tono, vengono detti emergerà di volta in volta durante le pagine che ci
apprestiamo a scrivere.
Però, se ne tenga conto: nulla è stato asserito o avanzato sull'inerzia di
questa nostra epoca11 heideggerianamente definita metafisica; nulla è
ancora detto riguardo quel “noi”, appartenente all'epoca metafisica, al di là
di quest'ultima. Per ora diremo, approssimativamente: nulla è, da un
qualcosa, già decretato riguardo come quel “noi” e la nostra epoca possano
divenire altro. Ed altro qui significa, necessariamente, intrinsecamente, nel
darsi dell'essere medesimo e mai al di fuori di esso.

11

Epoca non è qui intesa banalmente in quanto età storica, ovvero sotto la prospettiva cronologica. Epoca
si riferisce direttamente alla storia dell'essere. L'essere si dà in modo epocale, l'epocale va pensato dal
Tutto questo va a confluire nella significatività dell'escatologia come carattere dell'essere. Per un
sunto ed una chiarificazione di codesto discorso si veda: Gianni Vattimo, Essere storia e linguaggio in
Heidegger, pagg. 23-25. Ed. Marietti, Genova 1989.
6
I
I.I
L'OPERA: I CONTRIBUTI ALLA FILOSOFIA (DALL'EVENTO)
PORSI DI FRONTE AI CONTRIBUTI
Riportiamo ora brevemente la collocazione di tale opera all'interno del
pensiero filosofico-speculativo heideggeriano muovendoci nell'ottica della
storia della filosofia.
Il cosiddetto “fallimento” di Essere e tempo, il quale trova riscontro nella
sua mancata prosecuzione, intraprende un percorso che, portandoci alla
tanto rinomata quanto speculativamente indeterminabile Kehre, e passando
per le vicissitudini politiche e l'isolamento culturale, approda alla
positività1 del pensiero heideggeriano dei Contributi. Il manoscritto di ciò
che è stato successivamente pubblicato in quanto testo filosofico avente per
titolo Contributi alla filosofia (Dall'evento) risale ad un periodo che va dal
1936 al 1938. Anni questi assai rilevanti per lo Heidegger, essendo la
cosiddetta svolta avvenuta intorno al 1935-1936. Dobbiamo tenere conto
dell'epoca di questa prima stesura. Siamo quindi a porci di fronte ad una
opera che, appena successiva ai momenti cui risalgono gli scritti sull'opera
d'arte e sulla poesia di Hölderlin, include obbligatoriamente uno sviluppo
filosofico-speculativo dell'esperienza della svolta. O così per lo meno è
presupposto in tutti coloro i quali, in un modo o nell'altro, intraprendono
un'analisi dei Contributi. Nell'opera in questione infatti si trovano
neologismi e nuove terminologie heideggeriane. Vi si trovano al suo
interno nuove “figure” proposte dallo Heidegger. Talune saranno portate
avanti dal pensiero successivo, tal altre no. Ad ogni modo, in generale, la
struttura speculativa che trova posto nei Contributi è lasciata cadere (in
quanto tale), tanto più che, si rammenti, neanche si volle renderla pubblica
(non lo volle l'autore), se non molto tempo dopo e con forti reticenze. Ma,
più di ogni altra cosa, nei Contributi vi è lo sforzo, adesso presentato in
modo meramente nominale e su un piano a dir poco fraintendibile nonché
tramite un parlare inappropriato, di pensare (meglio sarebbe scrivere:
accogliere) l'essere (l'Essere) in quanto evento e/o Wesung (essenziale
permanenza). Siamo nel punto in cui la filosofia heideggeriana passa
(come e in quali piani è ancora tutto da vedere) dalla tralasciata analitica
esistenziale, tendente ad un'ontologia fondamentale, alla storia dell'essere e
della sua verità. Si apre, quantomeno, un diverso orizzonte teoretico1

Positività da ri-comprendersi qui in senso fondamentale ed essenziale. Quindi non contrapposto ad una
qualche negatività, non valutativo o valoriale, ma come positività di ciò-che-è. Se ne dirà
successivamente. Comunque questa visione della positività richiama esplicitamente la dinamica
medesima della Kehre; ovvero che in quanto svolta, mantiene una “direzione verso...” pur essendo
anche costituita dei precedenti tragitti, la di cui specificità è l'apparire differenziati nella direzione ora
intrapresa nella svolta. Anche ciò si andrà focalizzando in seguito.
7
speculativo. Ma vi sta qui una continuità o una discontinuità? Anche a ciò
cercheremo di dar risposte nel corso del presente scritto.
Concludiamo rilevando quanto facilmente ci si possa genericamente
accorgere di come i contenuti (meglio sarebbe dire la significatività intima)
del testo di cui siamo a trattare non si presentino sotto l'ottica, il “metodo”,
di analisi dell'analitica esistenziale caratteristica invece dell'opera del 1927.
Tutt'altro, Ai Contributi, abbiamo precedentemente affermato, precede
invece quel cambio prospettico (qui torna come un flusso e riflusso il senso
della Kehre) che si avvia ad un pensiero “nuovo”, o meglio, altro, definito
(aprente un nuovo perimetro speculativo) appunto con-forme alla storia
(non storiografia o stroricismo!) dell'essere. L'essere, pensato e pro-posto
nella storia e verità dell'Essere, ovvero come evento, si focalizzerà sempre
più essenzialmente in quanto cardine del cosiddetto “secondo” e tardo
pensiero heideggeriano.

8
I.II
LA STRUTTURAZIONE DEI CONTRIBUTI
Al fine di una migliore comprensione dell'impostazione d'avvio di questo
nostro scritto ci muoveremo momentaneamente, e lo faremo
volontariamente ed esplicitamente, all'interno del linguaggio metafisico
(quindi, con Heidegger, penseremo e diremo metafisicamente, cioè
incarnanti senso d'orientamento metafisico), linguaggio assodatosi nel
corso di tutta la storia della filosofia occidentale cioè dell'Occidente
medesimo, ma di quest'ultimo ce ne occuperemo più oltre. Ciò significa
porre due diversi livelli in rapporto di rimando tra loro. Il rimando
concerne quella relazione che caratterizza forma e contenuto, ma non si
ferma ad essa, né si presenta altrettanto nettamente. Il testo contiene, o
meglio è, struttura e strutturazione. La strutturazione si presenta come un
espletarsi della struttura, ed in quanto si presenta, non è esente dall'essere
guardata in vario modo. La struttura sono le innervature dei contenuti, nella
loro interna dinamica. La struttura può essere vista, più che non guardata,
in diversi modi. Ad essi ci si riferisce quando si nomina l'interpretazione o,
in senso lato, l'ermeneutica di un'opera1.
Ordunque, partendo dal livello formale, per poi comunque approdare al
piano contenutistico, vi sono da fare alcune osservazioni.
Se da Essere e tempo si estrapola una ben delineata struttura dei passaggi
del pensiero heideggeriano contenutovi, una struttura logicamente ferma
riscontrabile per esempio nelle varie divisioni, suddivisioni e appendici del
testo, ed inoltre si percepisce una sistematicità che, in genere, si dice
rinviare ad una definita visione d'insieme e capacità d'analisi, lo stesso non
può certo dirsi riguardo ai Contributi. Al primo impatto quest'ultimo testo
ci appare piuttosto frammentario, quantomeno non sistematico. Ciò non
solo a causa della titolazione dei capitoli e dei molti paragrafi, che in
questo risultano spesso piuttosto oscuri e non nozionisticamente
riassuntivi, e nemmeno solamente a causa della numerazione continua e
non suddivisa (la quale giunge al numero di 281) dei sopraddetti paragrafi.
Quanto piuttosto nella intricata rete di rimandi (denominiamo così, per
adesso, i legami interni dell'opera) che all'interno dello scritto connettono,
in un confronto incessante, da un paragrafo all'altro. La lettura, perlomeno
a livello nozionistico, ne viene drasticamente affaticata. Questo poiché
spesso le spiegazioni contenutistiche si addensano, mutano esplicitamente
di prospettiva o variano nelle proprie sfumature, ad ogni rimando. Infine, la
lettura medesima, e a maggior ragione l'interpretazione, difficilmente
risulta univoca, complice una necessarietà di luci ed ombre sia del pensiero
1

Ma non ci si confonda: chiariamo subito che parlare e dire sono qui essenzialmente altro da,
rispettivamente, strutturazione e struttura. Per quanto, in una certa prospettiva, entrambe queste ultime
dicono del parlare. Il quale non è poi indipendente ed solato dal dire in sé, tutt'altro. Ma non è ora il
momento in cui un tal discorso va approfondito.
9
che nell'esprimersi heideggeriani.
Veniamo così alla conclusione, anche intuitiva, che la filosofia dei
Contributi non è, né può filtrarsi tramite, una sistematicità. O quantomeno
una sistematicità riscontrabile all'interno del testo stesso. Ovvero, il testo in
sé non risulta proposto ed adeguato ai principi della razionalizzazione
sistematica.
Non a caso Heidegger avrebbe poi messo in rilievo questa peculiarità del
suo pensiero (ovvero dell'apparire di tale pensiero ad un dato modo di
vedere). Egli non la nasconde quando, parlando delle domande
fondamentali, usa le seguenti parole: “Forse un giorno sarà possibile
trovare risposta a queste domande proprio in quei tentativi di pensiero che,
come i miei, si presentano come qualcosa di disordinato e arbitrario”2.
Non vi è perciò da stupirsi se qualcuno giudica i Contributi,
“consentaneamente a tutti i testi successivi ad Essere e tempo, -come
un'opera in cui- Heidegger si spiega con un procedere rapsodico molto
discosto dalla tecnicità fenomenologica”3.
Dobbiamo, di conseguenza, concludere che nel suddetto testo non vi siano
né strutturazione né metodo? Né, forse, una intrinseca struttura portante?
Come un bisbiglio ed un invito sottovoce, è lo stesso autore ad accennarci,
nei momenti ultimi del suo cammino, la veduta da cui con il pensiero,
similmente che tramite lo sguardo, poter spaziare sui Contributi.
Nell'ambito del pensiero “non esiste né metodo né tema, ma la contrada
(Gegend) che così appunto si chiama, perché dischiude e offre (gegnet) ciò
che deve essere pensato dal pensiero. Il pensiero si trattiene in quella
contrada percorrendone le vie. Qui la via fa parte della contrada”4. “Il
metodo non segue ciò che è propriamente via”5.

2

Martin Heidegger, Saggi e discorsi, pag. 124. Ed. Mursia, Milano 1976.
Maurizio Ferraris, Cronistoria di una svolta, in Martin Heidegger, La svolta, pag. 78. Ed. il Melangolo,
Genova 1990.
4
Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pag. 141. Ed. Mursia, Milano 1973.
5
Ivi. pag. 155.
3

10
I.III
LA STRUTTURA INTRINSECA DEI CONTRIBUTI1: UN
INCAMMINARSI
IL PENSARE COME CAMMINO O SENTIERO
Più che di struttura interna, vocabolo che richiama fraintendimenti,
dovremmo parlare di intrinseca disposizione. Ad ogni modo, teniamo
presente che il testo, almeno nella sua elaborazione per essere tale
(strutturazione), ci comunica dei “punti di riferimento”2, in cui esso si
articola. Tali, definiti per ora, “punti di riferimento” verrebbero travisati
nella loro significatività se venissero colti, a livello di strutturazione, come
mere divisioni, cioè in quanto nomi di capitoli e titolazioni. Ciò che si
distilla dai rimandi (o meglio, dalla dinamica) interni dei Contributi è la
propria significatività o il proprio senso come percorso e cammino3 di un
pensare (ovvero della direzione e dell'intimità di un tale pensare), che è un
domandare autentico, orientato all'essere ed al suo darsi. Senza una tale
conquista (fondata nell'ascolto del dire echeggiante di ciò che nel testo
sono cioè dicono i vocaboli, andando “oltre” ai contenuti nel loro
presentarsi come nozioni) non si accoglie il come, ovvero l'intimità,
l'essenzialità della direzione dello sguardo, del pensare heideggeriano dei
Contributi; tenuto ben conto che qui, di essi trattiamo.
Il pensare-domandante (o meditativo), in quanto è incamminarsi cioè
sentiero, rimane esplicitamente essenziale al secondo ed al cosiddetto tardo
pensiero heideggeriano. Rammentiamo qui la chiara esemplarità del
tornante4, e più ancora il senso “percepibile” di questa. Il quale tornante,
d'altronde, non è che una possibile traduzione della parola tedesca Kehre.
Infatti, “normalmente la parola indica quelle curve molto strette nelle
strade di montagna...le quali, pur essendo cambiamenti di direzione,
conducono alla medesima meta, la sommità della montagna... Heidegger si
servì di questa metafora per indicare il mutamento di prospettiva
maturato”5. Dunque, per quanto ci concerne, dalle strade di montagna
1

Cfr. la titolazione del par. 1, I “Contributi” domandano in un percorso.
Cfr. Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 39. Ed. Adelphi, Milano 2007.
3
Il rimando, per questo termine e la sua significatività complessiva, è esplicitamente ed analogamente (da
intendersi: come i cerchi concentrici nell'acqua allo gettare di un sasso) indirizzato all'opera Segnavia.
Non a caso opera del “secondo” Heidegger, in cui la “struttura di sentiero” richiama alla
significatività del testo (e in questo caso della significativa successione della significatività dei testi)
medesimo. Cfr. anche la seconda conferenza, incentrata su “il cammino”, de l'essenza del linguaggio
in: Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pag. 141-155. Ed. Mursia, Milano 1973.
4
È probabile che la prima immagine rappresentativa apparsa alla nostra mente sia quella del segnale
stradale o della forma del cosiddetto tornante. Certo è che niente di più lontano dalla
materializzazione oggettivante, funzionale e rap-presentativa del tornante è ciò cui qui Heidegger
richiama.
5
Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 23. Ed. Adelphi, Milano 2007. Si voglia
però evidenziare come la forma metaforico-rappresentativa non si addica al pensare heideggeriano. Il
termine metafora andrebbe perciò ri-pensato nella sua significatività, o sostituito, onde evitare il
fraintendere.
2

11
facilmente giungiamo ai sentieri, tanto famigliari a chi vive ed abita le
folte, verdi e chiaro scure zone boscose come la germanica Foresta Nera.
E proprio come sentiero o via, non nel significato di strada ma come
cammino, Heidegger pone il suo pensare. Egli parla di “cammini di
pensiero”6, parla del pensare come domandare che “lavora a costruire una
via... la via è una via del pensiero... che l'autore ha percorso”7 e che
percorrendola “provoca... una crescita”8. Se dunque i Contributi mancano
di sistematicità non per questo mancano di un proprio “rigore”, di una
propria forza filosofica, di una struttura intima, di una intrinseca
significatività, di un dire essenziale. Tutt'altro. Ma a questo dire non ci
accosteremo senza ingannarci se non come ad un cammino da percorrere,
ad una filosofia che non è solamente contenutistica o meramente
nozionistica ma va accolta come pensare meditativo-domandante. Senza
una prospettiva di cammino o per-corso anche questo pensare
heideggeriano che è i Contributi risulta a noi, per lo più, solamente un
libro, ovvero libro in quanto “raccolta di saggi e discorsi”9.
Da tutto ciò ne viene che, più che una premessa, queste righe sono
l'accenno, l'intravedersi, di una prospettiva che chiameremo meditareinterrogante. Di tutto ciò terremo conto (sarà costitutivo) nel nostro porci
di fronte ai Contributi. E verrà man mano ad emergere, ove lo si potrà
vedere.
Dunque in che consistono questi precedentemente denominati “punti di
riferimento”? Strutturano essi il cammino di un pensare interno ai
Contributi? Come essi riguardano il pensiero altro10 che ri-chiama e si
incardina nella prospettiva della storia dell'Essere? Così, al terzo paragrafo
dei Contributi detto Dall'evento, abbiamo già dispiegata la strutturazione
del testo medesimo: “La risonanza. Il gioco di passaggio. Il salto. La
6

Martin Heidegger, Saggi e discorsi, pag. 1. Ed. Mursia, Milano 1976.
Ivi. pag. 1.
8
Ivi. pag. 5. Così, ad esempio, ed in ciò empaticamente alla direzione del presente scritto,,
l'interpretazione dell'allievo heideggeriano Pöggeler: “La capacità di comprendere il pensiero di
Heidegger si desta solo allorché il lettore...è disposto a comprendere tutto ciò che ha letto di volta in
volta come un passo verso quel “da pensare”, verso cui Heidegger è in cammino... Come avviarsi per
un cammino, come essere in cammino, Heidegger ha sempre compreso il proprio pensiero”. Otto
Pöggeler, il cammino di pensiero di Martin Heidegger, pag. 9. Ed. Guida, Napoli 1991. Riguardo a
quest'ultima citazione (e interpretazione), il senso, da noi assunto, de “il cammino” (o porsi-incammino), ricadendo sul come, ne esce assai più incisivo per lo stesso pensiero percorrente le
vicinanze dell'essere: il pensiero non è qui solamente nel cammino (come direzione), qui il pensare è
come cammino-incamminarsi. Alle successive pagine l'arduo mostrare ciò. Altri riferimenti ad un
pensare o poetare (essendo il legame tra i due è più che intimo) come cammino-incamminarsi,
sentiero, via,si riscontrano in: Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pagg. 45, 48, 68-69,
86, 88, 91, 98, 123, 135, 141, 150, 155, 164 (i passi), 170, 189, 201, 206. Ed. Mursia, Milano 1973. E
questo solamente in un opera, sarebbe inutile stilare un elenco. Non è, d'altronde, Heidegger
medesimo a dire poeticamente, di coloro che compiono la propria essenza, i viandanti? Ivi. pag. 52.
9
Martin Heidegger, Saggi e discorsi, pag. 1. Ed. Mursia, Milano 1976.
10
È fin da ora opportuno chiarire che questo pensiero altro si porterà heideggerianamente a fuoco (anche)
in quanto pensiero rammemorante. Rimando, solo per un esempio, a: Martin Heidegger, Saggi e
discorsi, pag. 175. Ed. Mursia, Milano 1976.
7

12
fondazione. I venturi. L'ultimo Dio”11.
Innanzitutto si noti che il capitolo finale, l'Essere, nel manoscritto risulta
all'inizio, quindi posto successivamente al capitolo Sguardo preliminare12.
Perciò la “conclusione”, se di “conclusione” si può parlare, in quanto
manoscritta essa risiede nel capitolo denominato L'ultimo Dio. Il termine
“conclusione” è qui per l'appunto posto tra virgolette a significare la
valenza non di chiusura ed il non concatenamento logico/causale con cui si
pronuncia tale vocabolo. Ricordiamo che non è né sarà ivi in gioco un
corretto processo assertivo-concettuale, ma un incamminarsi e quindi un
sentiero nel suo percorrerlo; se si vuol tenere fede a ciò che è fin qui stato
riportato, posto all'attenzione, ed affermato, forse detto. Noi, dal canto
nostro, non mancheremo mai di rammentare tale “interna struttura” e
prospettiva.
Addentro la stessa ottica, la strutturazione, sopra nominata appena, non è
un elenco di capitoli, né si basa solamente su interconnessioni concettuali e
causali. La parvente presentazione didascalica dei capitoli è subito dissolta
da Heidegger stesso: “l'abbozzo del piano di questi Contributi ai fini della
preparazione del passaggio è tratto dal piano fondamentale, ancora
incompiuto, della storicità del passaggio stesso... Si tratta di una schizzo
preliminare dello spazio di azione del tempo che solo la storia del
passaggio crea in quanto proprio regno”13. Se nel passaggio cui si
accenna è in gioco l'originarietà di ciò che è iniziale, ovvero ciò che si
delineerà come l'altro inizio, nel suo legame con il primo inizio14, nella
parola storicità è da intra-vedersi il richiamo (quantomeno heideggeriano)
alla storia dell'essere a cui (in cui) il pensiero si deve con-formare. Qui
storicità non ha nulla di storicistico, e men che meno di storiografico,
essendo quest'ultimo, in quanto materia di scienza, scaturito e costituito
dall'orizzonte denominato da Heidegger metafisica, o il dominante.
I sei “punti di riferimento”, o fughe15, o disposizioni16, riconoscono la, ed
echeggiano della, storia dell'Essere come orizzonte del domandare
heideggeriano. Essi accennano all'evento17, dicono del passaggio in
quanto passare posto fra gli inizi (il primo e l'altro). Tale passaggio si dà in
un cammino, si dà come incamminarsi: “i Contributi domandano in un
percorso che si apre solo attraverso il passaggio all'altro inizio”18.
Abbiamo qui rinvenuto: passaggio, altro inizio, primo inizio, evento, storia
dell'Essere. Ecco, per adesso solo nominalmente, l'orizzonte aprentesi a ciò
11

Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 39. Ed. Adelphi, Milano 2007.
Ivi. pag. 21.
13
Ivi. pag. 36.
14
“Il primo inizio resta decisivo in quanto primo, eppure è superato in quanto inizio”. Ivi. pag. 36.
15
Ivi. pag. 20.
16
Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, pag.420. Ed. Morcelliana, Brescia.
17
Dall'evento è il titolo del sopra citato par. 3 dei Contributi, nonché titolo essenziale dell'opera
medesima.
18
Ivi. pag. 34.
12

13
che è la Kehre. Le sei fughe rimangono, però, fin qui da noi non
approfondite. Per farlo ne parleremo singolarmente, pur rammentando il
cammino loro soggiacente e, il che è lo stesso, l'orizzonte in cui esse
affiorano, emergono. L'intima struttura (o disposizione) dei Contributi è
ciò che dev'essere (e deve esserci a noi) posto di fronte guardando codesta
opera medesima.
Concordemente a ciò, la presenza di un (heideggeriano) pensare come incamminarsi o “permanere nella via” (Unterwegs) è rilevato, e forse accolto,
anche nella rielaborazione del pensiero dello Heidegger contenuta nel
saggio di Vattimo19.
In ultimo. Il percorrere non potrà certo essere quello dei Contributi. Non si
vuole ripetere il testo, alla maniera dei pappagalli. Bensì ne si vuole dire
(...ed in tale discrepanza è essenzialmente: linguaggio). Ma l'accento e la
significatività di codesta ultima frase cadono e si pongono nel dire, ed
assolutamente non nel volere (che parrebbe essere, in questo caso, nostro).
Indi per cui il percorrere sarà, nel presente scritto, ben più accidentato
rispetto all'opera a cui siamo posti di fronte; ed innanzitutto lo sarà nei
confronti del pensare come cammino compiutosi in quanto sei “punti di
riferimento”, o altrimenti detti le sei fughe.
Ma il dire che focalizza permane un pensare come cammino che giunge
(con ed in chi si incammina) nel (il complemento “dal” evocherebbe, più
facilmente, altro rispetto ciò cui essenzialmente si va or ora facendo cenno)
primo inizio all'altro inizio.
Primo inizio. Altro inizio. Cosa vi è di più pensare come cammino
dell'incamminarsi che giungendo al primo permane nell'altro. Soprattutto
nell'attimo in cui “noi” ci mostrassimo costitutivamente appartenenti in e
ad esso. E parlo al singolare poiché di “due” non se ne può (più) dire.
Anche se di “due” scriveremo durante tutto il presente scritto, durante tutto
il nostro percorso.
Si è or ora asserito: “soprattutto nell'attimo in cui “noi” ci mostrassimo”.
Ma a noi dunque, ivi nello scrivere codeste pagine, cioè nel percorrere,
molto dev'essere mostrato.

19

Cfr. efficacemente: Gianni Vattimo, Essere storia e linguaggio in Heidegger, pagg. 193, primo
capoverso, e 223, ultimo capoverso. Ed. Marietti, Genova 1989.
14
APPENDICE ERMENEUTICO-INTERPRETATIVA1 (RIGUARDO LA
KEHRE
A noi, l'accordato rango dei Contributi in quanto opera “di mezzo”, magari
di congiunzione, ma anche opera prima e fondante nell'Heidegger
cronologicamente secondo, permette senza forzature di accogliere quelle
assonanze e analogie con i conseguenti o seguenti “sviluppi”, percorsi o
pensieri intrapresi, del medesimo autore. Soprattutto là dove la
terminologia dei Contributi trova riscontro. Sforzandoci in tal modo, senza
però obbligatoriamente limitarci a cotale modo, di permanere all'interno
dell'orizzonte del pensiero heideggeriano e della sua direzione. Qualunque
cosa ciò significhi. Insomma, guarderemo alle cronologicamente
successive opere e scritti con sensibile interesse, occhio acuto ed orecchio
pronto all'ascolto. Ma questo atteggiamento non è affrontabile in chiave
meramente cronologica, cioè tramite un filtro temporale-causale.
L'importanza filosofica (questo, per ora, almeno, è il nostro piano) dei
Contributi risiede infatti nell'esplicazione (anch'essa a livello filosofico)
della Kehre, delle contrade che questa, diciamo, apre al pensare
heideggeriano. Il “fallimento” di Essere e tempo sarebbe decretato dalla
sua non prosecuzione e non conclusione2. Qui, in breve, e necessariamente
in forma riduttiva, diremo che da tale situazione di “stallo” il filosofo di
Meßkirch sa “uscirne” solo dopo alcuni anni trascorsi dalla pubblicazione
della sua opera capitale. Ciò viene testimoniato limpidamente quando,
proprio scrivendo sulla mai trascritta terza sezione della prima parte di
Essere e tempo, egli dice: “Qui tutto si capovolge. La sezione in questione
non fu pubblicata perché il pensiero non riusciva a dire in modo adeguato
questa svolta (Kehre) e non ne veniva a capo con l'aiuto del linguaggio
della metafisica”3. A sostegno della non forzatura della nostra
affermazione sulla essenzialità della Kehre nei Contributi, e per accostarci
alla significatività intima della citazione appena riportata, interviene
innanzitutto ciò che è la svolta stessa. Il significato della Kehre, fondante4
e, come si è intravisto, in quanto tale fin dall'inizio permanente nel
pensiero del cosiddetto secondo Heidegger, ri-chiama un essenziale unico
(da intendere: avente medesima direzione) pensiero-domandante. Che esso
ora possa apparire come carsico non deve stupirci. Anzi, svolta ci indica
anche, infatti, un “moto” di repentino e coinvolgente cambio di direzione e
1

Scriviamo ermeneutico-interpretativa per distinguere e lasciare spazio alla significatività propriamente
heideggeriana del termine ermeneutica. Quest'ultima, trattandosi il presente saggio di uno scritto sullo
Heidegger, verrà per cui evocata con il solo termine ermeneutica, senza alcun'altra precisazione.
2
Come era, invece, negli intenti di partenza. Vedasi, riguardo alla famigerata terza sezione della prima
parte: Martin Heidegger, Essere tempo, pag. 56. Ed. Longanesi, Milano 1971.
3
Martin Heidegger, Lettera sull'”umanismo”, pag 52. Ed. Adelphi, Milano 2002. Si ponga riguardo alle
note, non è difficile coglierne un uso linguaggio prossimo a quello dei Contributi, e più aderente al
dire di quest'opera.
4
Non in accezione causale.
15
tensione. Grazie a ciò possiamo scorgere che l' essenzialità della svolta si
pone già, è, a fondamento di Essere e tempo. Ma ivi non sa forse ancora
parlarsi: in questo testo il suo dire resta non-detto, pur nella tensione che lo
caratterizza. É nei Contributi che il medesimo dire trova forse una voce che
sa parlarne. Ovvero trova, il che è lo stesso, un pensare che tende a vibrare
all'unisono di tale dire (o heideggerianamente: un pensare che è il dire
soggiacente alla svolta in quanto come tale sorge e appare). Ci riferiamo a
quel, cosiddetto, pensare inerente la (da comprendere: che si avvia nella)
storia dell'essere.
Storia dell'essere viene spesso denominato il pensiero del secondo e tardo
Heidegger. Ciò starebbe a segnare il “passaggio dalla prospettiva
ontologica fondamentale a quella della storia dell'essere”5, ritenuta, per
l'appunto, successiva. Dunque, se questa “seconda via risulta da una
trasformazione immanente della via dell'ontologia fondamentale”6, noi
sottolineiamo con vigore che è “evento la parola fondamentale di
Heidegger lungo la seconda via di elaborazione della domanda
fondamentale sull'essenza dell'essere: la via della storia dell'essere”7.
La permanenza e permeanza della Kehre come pensiero appartenente alla
storia dell'essere è testimoniata chiaramente dallo stesso pensatore di
Meßkirch. In una nota, risalente all'edizione del 1949, contenuta nello
scritto Lettera sull'”umanismo”, troviamo le seguenti parole: “ciò che qui
si dice -da notarsi il si dice e non, per esempio, è scritto, oppure, su cui si
parla- non è stato ideato solo al tempo della sua stesura, ma si basa sul
corso di un cammino che fu iniziato nel 1936, nell'”attimo” di un tentativo
di dire in modo semplice la verità dell'essere”8. Tale “attimo” ri-chiama e
testimonia l'esperienza9 di ciò che è qui detto svolta (Kehre).
La appena intravista dis-posizione e configurazione filosofica della Kehre
come un cammino, unita alla comparsa del termine evento10, con la sua
essenzialità11, ci riportano, in uno slancio, ai Contributi.

5

F.-W. Von Hermann, La metafisica nel pensiero di Heidegger, pag.45. Ed. Urbaniana University Press,
Roma 2004.
6
Ivi. pag. 23.
7
Ibidem.
8
Martin Heidegger, Lettera sull'”umanismo”, pag. 29. Ed. Adelphi, Milano 2002.
9
Questo termine, nella significatività datagli da Heidegger, verrà chiarito in seguito.䩃
10
“Il pensiero è dell'essere in quanto, fatto avvenire (ereignet) dall'essere, all'essere appartiene”. Ed in
nota: “...dal 1936 “evento” (Ereignis) è la parola-guida del mio pensiero”. Martin Heidegger, Lettera
sull'”umanismo”, pag 35. Ed. Adelphi, Milano 2002.
11
Essenzialità da subito emergente in chiara luce all'interno dei Contributi, nel primo ed iniziale (e non
numerato) par. Il titolo pubblico: “Contributi alla filosofia” e Il titolo essenziale: “Dall'evento”.
Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 33. Ed. Adelphi, Milano 2007.
16
II
PREMESSA
Non è intento di questo scritto dare un panorama specifico ed esaustivo del
pensiero heideggeriano o del corso della sua filosofia, sia che l'impegno di
dare un tale panorama venga svolto in maniera storicistica sia che il suo
svolgimento richieda ben altro. In una parola, a noi interessa il pensare
heideggeriano. Se poi il pensiero dello Heidegger, nel suo non essere un
sistema o una dottrina, giace interamente nel pensare heideggeriano (nel
suo dire, come noi percepiamo e sosteniamo), ciò è cosa che verrà
intrinsecamente a mostrarsi (non: dimostrare).
Per quanto i punti e le tematiche che verremo ad affrontare, cioè quelle
presenti nei Contributi, contengano impliciti rinvii con i momenti sia
precedenti che successivi del pensiero heideggeriano, non ci impegneremo
nel rischiarare tali momenti ed i loro legami. La dedizione del percorso di
approfondimento che qui viene a trascriversi è data ai Contributi ed al
pensare, tanto emergente quanto al contempo soggiacente, in (e di)
quest'opera.
Ora, più sopra lo si era preventivato, ciò non significa che non ci
dilungheremo in descrizioni o chiarimenti, citazioni o riprese sia del
pensare heideggeriano precedente, e nel pensare heideggeriano precedente,
che successivo. Cioè, ove un qualche bisogno di comprensione o confronto
(più che altro sul piano filosofico-speculativo) ci spinga, illumineremo
taluni dati momenti dell'Heidegger antecedente o susseguente. Anzi, ciò è
in certo qual modo connaturato alla struttura di scritto (tesi) che il presente
insieme di fogli comporta. Ma risulta invece spesso necessario innanzitutto
per il rischiararsi dei Contributi e solo “indirettamente” della filosofia che
lo Heidegger apporta.
Inoltre, il testo a cui ci siamo posti di fronte, leggendolo non si hanno
fondati dubbi a riguardo, ha un ché della monade, di conchiuso in sé, tanto
nel suo linguaggio quanto nella sua significatività, cioè nel suo dire. Tale
caratteristica non significa però non ambiguo, nozionisticamente corretto,
in sé compiuto, concluso1. Anzi! A ben vedere, il senso in cui ora viene
menzionata la parola “conchiuso” si può maggiormente avvicinare alle
caratteristiche inverse. Ciò non di meno, si è qui fermamente “convinti”
che non vi siano cesure nel pensare heideggeriano (nel pensare, non nella
esplicita “costruzione filosofica”). Ribadiamo: non si mancherà di
accennare, risvegliare, e fondare, tal volte nascostamente tal altre no,
codesta nostra convinzione, ove sia necessario e possibile farlo.
Insomma, i rischiaramenti di questo nostro scritto riguardano il pensare dei
1

A tal proposito cfr. Gianni Vattimo, Essere storia e linguaggio in Heidegger, pag. 199 Ed. Marietti,
Genova 1989.
17
Contributi. Ciò, per noi, in un modo o nell'altro ma comunque, significa
che codesti rischiaramenti essenzialmente già ri-guardano l'interezza e
l'unità del pensare heideggeriano (qualsiasi cosa quest'ultimo si riveli
essere).
Dunque, ed al contempo nonostante ciò, sul piano teoretico-speculativo
molti “nessi” tra un cosiddetto primo ed un cosiddetto secondo Heidegger
rimangono ulteriormente non contestualizzati, non vagliati, non
approfonditi, né nella loro possibile disgiunzione né nella loro possibile
unitarietà.
Quest'ultima premessa è generalmente valida per tutto il presente testo.
Infine rammentiamo la prospettiva delineata: il pensare, dei Contributi,
come incamminarsi; un pensiero come sentiero/i o via, uno stare-permanere
(Gang) in tale via (Weg).

18
II.I
SU LA RISONANZA
Risonanza si dice di qualche cosa che ri-suona. La risonanza è eco. Eco di
cosa? Non certo di un qualcosa. Allora, eco come? Eco dell'essere.
L'inizio del capitolo La risonanza ci dà la possibilità, fin da subito, di non
vacillare su ciò che, da noi prima chiamato “punto di riferimento”
all'interno della strutturazione dei Contributi, Heidegger vuole portare alla
parola. La risonanza è “dell'essenziale permanenza dell'Essere”1.
Risonanza è ri-chiamare di questa essenziale permanenza medesima. In un
tale ri-chiamo risuona la chiamata di chi ode. Il ri-chiamare, di cui ora
siamo a tentare di parlare, chiama in quanto risponde e con ciò l'inverso.
Ma con questo cosa si ha da intendere?2
Si osservi: riguardo questa vicendevole inversione del chiamare e del
rispondere, con che significatività essa andrà accolta? Essa avanza e dice il
come di chiamare e rispondere, mai il causale perché. Inoltre, riguardo la
costruzione di questa ultima frase: se il soggetto di essa, di tutto ciò che va
proponendo, rimane non definito e non univoco non è per casualità. Eppur
questo non ci rassicura, difatti la nostra usuale logicità potrebbe rimanerne
turbata. Meglio! Se pensiamo ad un soggetto oggettivante, o comunque ad
una prospettiva ove già-da-sempre emerge un soggetto in quanto tale, non
faremo altro che allontanarci da ciò che in, e con, risonanza si porta a dire.
“ Qui non si deve descrivere né spiegare né disporre in un ordine qualcosa
che sia lì presente”3. Ed ora, proseguendo, lasciamo pure fermentare in noi,
senza scandalo né rimpianti, l'introduttiva conturbante “vaghezza” di
queste ultime righe.
Il chiamare e l'udire richiamante emergono nel ri-chiamo. Ma come può
tale ri-chiamo darsi a comprendere? Addentro o attraverso quali sfumature
esso risuona? Qual'è la sua tonalità, la sua melodia? Come il chiamare e
l'udire richiamante odono il ri-chiamo che è la risonanza? Tali punti
interrogativi or ora trascritti sono il domandare che ci guiderà nelle
prossime pagine.
Come una voce nell'acqua si propaga ovattata, eppur, la medesima, tra alti
monti echeggia limpida, così la risonanza ha un'orizzonte proprio nel e dal
quale emergere per sì ri-chiamare (ri-chiamare. Il che è qui lo stesso di:
nell'udirne l'eco, essendone l'eco, essere così chiamata, tale risonanza,
dall'udente). Ove, quindi, spazia l'essenziale permanenza dell'Essere come
risonanza? “La risonanza... verso dove? La risonanza dell'essenziale
1

Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 127. Ed. Adelphi, Milano 2007.
“La risonanza... che suono ha?” Ivi. pag 128.
3
Ivi. pag.128
2

19
permanenza dell'Essere nell'abbandono dell'essere”4. Con questa frase
Heidegger dove ci introduce ed induce? L'abbandono dell'essere è, in un
certo qual modo, l'oggi5. Meglio, l'odierno dominante. Ma non in senso
storiografico, né sociale, men che meno in accezione metastorica!
Nell'abbandono dell'essere va a confluire, sotto rinnovata luce, il progetto
heideggeriano di una decostruzione della metafisica6. L'abbandono
dell'essere è la storia (non storiograficamente intesa) dell'Occidente. Storia
che l'attuale mondo, noi pienamente compresi, è.
Si noti: ciò sta ad indicare, per adesso solo a titolo informativo, che tutti gli
approfondimenti e gli studi dello Heidegger compiuti sulla storia della
metafisica-filosofia occidentale, da La dottrina platonica della verità al
Nietzsche, trovano nel “movimento” dell'abbandono dell'essere, essendo
quest'ultimo speculativamente portato al pensiero dall'Heidegger secondo,
il proprio rinnovato luogo.
Dunque qui, l'abbandono dell'essere è accolto, possiamo dire, come
l'humus da cui può ergersi la risonanza. Ma per il pensatore che dice della
risonanza, l'avere portato al pensiero l'abbandono dell'essere (e lo stato in
cui quest'ultimo dis-pone) significa l'avere accolto già la risonanza
medesima. L'avere accolto già la risonanza medesima, il che è lo stesso che
dire, l'echeggiare della risonanza. Ma in quale stato l'abbandono dell'essere
dis-pone? Heidegger ce lo indica; purché non si intenda in modalità
oggettivizzante l'appena utilizzato termine: stato. Bisogna dire che
l'abbandono dell'essere dis-pone nella “dimenticanza dell'essere”7. La
dimenticanza è il “modo velato”8 del darsi dell'abbandono dell'essere. Ma,
come altrove, se heideggerianamente intesi, abbandono e velatezza non
apportano un malus, una pura negatività, men che meno incorporano un
giudizio assiologico. Non per nulla a cotale velatezza “corrisponde... una
comprensione dominante”9. Ovvero, quest'ultima, questo comprendere, è
quello dominante nei confronti dell'essere. Come si articola questo
comprendere che, a noi, appare, “in ultima istanza”, come abbandono
dell'essere?
Puntualizziamo: qui ci si riallaccia nuovamente ed intimamente alla storia
4

Ivi. pag.127
“L'”oggi” – non calcolato secondo il calendario, né secondo le vicende della storia mondiale – si
determina in base al tempo più proprio della storia della metafisica: è la determinatezza metafisica
dell'umanità storica”. Martin Heidegger, Il nichilismo europeo, pag. 314. Ed. Adelphi, Milano 2003.
6
In Essere e tempo. Qui la decostruzione metafisica si fa, seppur brevemente, esplicita in quanto progetto
filosofico. A questo riguardo si rimanda a: Martin Heidegger, Essere e tempo, pagg. 13 e 36. Ed.
Longanesi, Milano 1971.
Nei Contributi. Per quel che concerne la tematica della risonanza, riferimenti alla storia della filosofia
(fino, e compresa, la scienza moderna) occidentale ed ai passaggi della, a questa inerente, visione
metafisica spuntano in tutto il capitolo secondo: La risonanza. Essi sono strettamente legati alla
tematica dell'abbandono dell'essere. Nel testo appena citato ne troviamo, a titolo d'esempio: a pagina
130, 131, 135, 144, 157 158.
7
Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 135. Ed. Adelphi, Milano 2007.
8
Ivi. pag.135
9
Ivi. pag.135
5

20
dell'Occidente o metafisica, nel significato di questi a monte brevemente
intravisto.
Se ora nulla ci vieta di affermare che nella comprensione a tutt'ora
dominante dell'essere valgono come intoccabili e oggettivi i caratteri della
generalità e dell'ovvietà10, caratteri che ricordano in modo aderente il
paragrafo primo di Essere e tempo11, e che l'annunciarsi dell'abbandono,
che è dimenticanza, si articola in più modalità (anche estremamente
quotidiane)12, dobbiamo però non lasciar scorrere via dalla vista il nostro
“punto di riferimento”, cioè la risonanza. La domanda riguardo l'articolarsi
su quel comprendere che noi qui richiamiamo con il termine dominante va
posticipata. Comunque sia dobbiamo tenere fermo al nostro pensiero
l'abbandono dell'essere (e sincronicamente la dimenticanza dell'essere) nel
suo legame con la risonanza. Fatto ciò, dobbiamo immergerci nuovamente
nella posizione da cui abbiamo preso le mosse, quindi: dove o in che modo
ci può essere reso più nitido ciò che, con il termine risonanza, Heidegger
porta alla parola? Oppure, almeno, ciò che ostacola una tale comprensione,
ed anche l'ascolto dell'eco?
Nel capitolo di cui trattiamo si evidenzia in altro modo, per “altra strada”,
quel legame con l'abbandono dell'essere che costituisce la risonanza.
Quest'altro modo si fa strada ove si viene a parlare della necessità.
“L'abbandono dell'essere è l'intimo fondamento della necessità
dell'assenza di necessità”13. Quest'imperativa necessità dissimula il suo
svolgersi e radicarsi; nel mentre, così facendo, dissimula sé medesima in
quanto necessità. Ovvero, nell'abbandono dell'essere, la necessità di
concepirsi al-di-fuori di ogni luogo ove regna una necessità si presenta, in
quanto dissimulatrice di necessità, come qualcosa che non ha il carattere
della necessità. In che modo ha da articolarsi un tale presentarsi
dissimulante? Meglio, “dove”, in che luogo, lo si può scorgere?
Premettiamo, ciò viene indicato da Heidegger, purché non si com-prendano
i termini dissimulazione e presentarsi in prospettiva dualistico-metafisica,
cioè come antagonisti rispetto “a ciò che realmente è” (a come stanno
davvero le cose). In ultima analisi: purché non ci prema la correttezza non
contraddittoria delle asserzioni.
“L'abbandono dell'essere si cela -ed in questo celare non è da cogliersi un
qualcosa puramente negativo, ma una pienezza- nella crescente valenza del
calcolo, della velocità e della pretesa di ciò che ha il carattere di massa. In
questo occultamento si nasconde- per le parole occultamento e nasconde
dicasi lo stesso che è stato detto per il celare- l'ostinata malaessenza
10

Cfr.: Ivi. pag.136.
Necessità di una ripetizione esplicita del problema dell'essere, Martin Heidegger, Essere e tempo, pagg.
14 e 15. Ed. Longanesi, Milano 1971.
12
Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pagg 136 e 137. Ed. Adelphi, Milano 2007.
13
Ivi. pag.138.
11

21
dell'abbandono dell'essere e lo rende inattaccabile”14.
Con questi rimandi alla pretesa onnicomprensività e alla valenza
oggettivante del calcolo, nonché alla velocità, Heidegger introduce la
tematica della macchinazione e del gigantesco15. Questa tematica merita
una trattazione a parte, per cui ora non verrà approfondita nelle sue
caratteristiche. Ciò nonostante dobbiamo anticipare che nella
macchinazione e nel gigantesco si ha la fisionomia del dominante
nell'epoca attuale. È l'ultima “trasformazione” della visione metafisica,
attualità dell'Occidente (questo non in senso politico-geografico). Il legame
tra la modernità (Occidente) e le sue diramazioni (scienze, logica-logistica,
tecnica, storicità storiografica, quotidianità, ecc...), e l'oblio dell'abbandono
dell'essere si trova già presentato ne Introduzione alla metafisica16.
Quel che a noi preme è comprendere che nella necessità dell'assenza di
necessità ogni autentico domandare viene meno, e con esso ogni autentico
pensare, ovvero ciò che Heidegger chiama, e soprattutto chiamerà nei suoi
scritti più tardi, pensare meditativo17. Dunque, l'elusione della necessità
dell'assenza di necessità si innerva. Al suo innervarsi, che è l'oggi, viene
dato anche il nome più essenziale di nichilismo18. Termine assai
fraintendibile, tenendo conto del suo uso all'interno della filosofia e della
storia moderne.
Anche la caratterizzazione heideggeriana del nichilismo non potrà ivi,
enucleando, venire approfondita.
Ri-volgiamoci, presto e nuovamente, alla risonanza ed a ciò che tale
termine dice. Abbiamo accennato all'humus da cui può ergersi la risonanza,
abbiamo anche, e solamente, nominato la sua provenienza. Ma ancora non
siamo giunti a parlare di un aspetto essenziale della risonanza. Essa,
diciamo momentaneamente, si “accompagna” ad uno stato d'animo guida:
“sgomento e pudore, che però scaturiscono sempre dallo stato d'animo di
fondo del ritegno”19. Stato d'animo? In che modo accettare queste parole?
“Lo stato d'animo dispone l'esser-ci e dunque il pensiero in quanto
progetto della verità dell'Essere in parola e concetto... Se manca lo stato
d'animo tutto non è che un artificioso strepito di concetti e di parole

14

Ivi. pag.139
Esplicitamente, Ivi. par. 61 e par. 70
16
Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, pagg. 47-49. Ed. Mursia, Azzate (Varese) 1990. Il tono
di codeste pagine può facilmente essere con-fuso nella retorica storicistica.
17
O pensare rammemorante, o interrogante. Il termine meditazione compare al par. 75 dei Contributi.
Esso incorpora il taglio prospettico di un pensare che approfondendo sprofonda e si slancia
nell'accogliere-cogliere l'Essere in ogni qualcosa, ed anche ove non vi è un qualcosa. Questo
“temperamento” del “secondo” pensare heideggeriano emergerà esplicitamente più volte ancora, così
venendo, per nostro vantaggio, a focalizzarsi sul piano filosofico. Il pensare rammemorante, in
Heidegger, ha anche altri nomi. Nomi che lasciano emergere altre sfumature del medesimo pensare.
Più avanti, in questo scritto, tutto ciò sarà ripreso più volte, e fin dove possibile approfondito.
18
Cfr. par. 72 dei Contributi alla filosofia (dall'evento)
19
Ivi. pag. 127
15

22
vuote”20. Come è da comprendersi ritegno, ovvero ciò ove si riassorbono
sgomento e pudore, stato d'animo guida della risonanza? Ritegno è “stato
d'animo preliminare della prontezza per il rifiuto in quanto donazione. Nel
ritegno domina, senza che quel retrocedere -il rifiuto in quanto donazionesia eliminato, il rivolgersi verso l'indugiante negarsi quale essenziale
presentarsi dell'Essere”21. Da dove arrivano il rifiuto (in quanto donazione)
ed il negarsi (indugiante, e “dell'”Essere)? Dicono lo stesso? Probabilmente
essi dicono dello stesso “movimento”. La seguente frase, estrapolata e
mutila, dice essenzialmente più di quanto, interamente, non voglia
affermare: “il ritegno fa sentire che l'Essere “si sottrae” all'uomo”22. Per
quanto uomo permanga qui, forse, il termine più fraintendibile. Dove ci
portano il “sottrarsi”, il rifiuto, il negarsi?
Qui: “La risonanza dell'Essere come rifiuto”23. Così, a testo appena
cominciato, nel paragrafo tre, Dall'evento, del primo capitolo. Titolazione,
questa del paragrafo, che non può rimanere indifferente. La risonanza, nel
suo ri-chiamo, nell'eco, avviene ergendosi dall'abbandono dell'essere
(scorto “addentro” alla dimenticanza dell'essere ed all'eludente ramificarsi
di questa), se tale abbandono è fatto proprio, ovvero colto-accolto, come
essenziale permanenza dell'Essere. L'abbandono dell'essere diviene (ha a
darsi) sentiero evocante l'essenziale permanenza dell'Essere. Ma di questi
ultimi, che non sono nient'altro che accenni, si dirà solo in seguito.
È nel cogliere, o “fare esperienza”24, l'intima pienezza del rifiuto (o
meglio, il rifiuto come intima pienezza) che risuona l'echeggiare della
“Risonanza dell'essenziale permanenza dell'Essere”25. Ma “prima” è da
cogliersi (cogliere-accogliere) l'abbandono dell'essere in quanto rifiuto, e
“prima ancora” l'abbandono dell'essere in quanto tale, cioè la dimenticanza
dell'essere ed il suo dissimulare (con tutte le ramificazioni che questo
“moto” comporta, che cioè può espletare e configurare). Questi “prima”
verranno speculativamente tentati, trascritti, nei successivi paragrafi.
Dobbiamo far notare come l'essenziale permanenza sia già, non
espressamente né in quanto tale tematicamente, sorta nello Heidegger di
Essere e tempo. Il legame si può, ad esempio, notare laddove si parla di una
“comprensione dell'essere, propria dell'Esserci... L'essere nel mondo
include in sé il riferimento dell'esistenza all'essere nella sua totalità:
comprensione d'essere... Il problema dell'essere si risolve in una
radicalizzazione della comprensione pre-ontologica dell'essere”26.
20

Ivi. pagg. 49, 50
Ivi. pag. 44
22
Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, pag.321. Ed. Morcelliana, Brescia.
23
Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 39. Ed. Adelphi, Milano 2007
24
Ivi. pag.127
Per un approfondimento di ciò che è l'esperire in Heidegger si rimanda oltre, ad un apposito
paragrafo.
25
Ivi. pag.127
26
Martin Heidegger, Essere e tempo, pagg. 24(in nota), 25 e 27. Ed. Longanesi, Milano 1971
21

23
Lo stato d'animo del ritegno non è quindi affare della occidentale
psicologia. Il ritegno come stato d'animo fondamentale non è
assolutamente esperienza vissuta (con l'eccezione che questa assume
all'interno della macchinazione27). Di esso si può dire che “accompagna”.
Ma nemmeno; esso non accompagna nell'accezione dello “stare a fianco”
di un qualcosa lì presente, né accompagna come quiddità addentro ad un
qualcosa lì presente in quanto quest'ultimo abbisogni di esser
accompagnato in cotale modalità. Bensì, il ritegno come stato d'animo
fondamentale dis-pone. “Lo stato d'animo dispone l'esser-ci28 e dunque il
pensiero in quanto progetto della verità dell'Essere in parola e concetto”29.
In questa frase viene ad esserci indicata la significatività o “direzione” di
un tale disporre. Il ritegno, nello specifico, è chiamato da Heidegger come
ciò che è “lo stile”30 e che dà “il tono”31 al pensare iniziale, ovvero il
pensiero dell'altro inizio32. Ritegno “indica appunto come il Dasein si
sente, o meglio come si deve sentire, allorché si apre alla dimensione
dell'altro inizio”33. Il ritegno dis-pone, introduce. Introduce dove? Noi qui
rispondiamo senza additare un qualcosa nel modo della correttezza.
Introduce ad (addentro a) un pensiero altro. Un pensare che è (è
essenzialmente nel) dell'altro inizio.
In questo dis-porre il ritegno si assona al ri-chiamo, o “movimento”
dell'echeggiare, della risonanza, e lo “guida”. “Guida”, come il termine
accompagna scritto più sopra, è ripieno di possibili fraintendimenti. Qui:
“guida” nel senso che in un certo qual modo ne è, come in un già-dasempre, l'apripista. Oppure, lo stesso detto in altre parole e sfumature
semantiche: ne è il senso d'orientamento e, al medesimo, l'orecchio teso ad
udirne.
Il vibrare di ciò che è risonanza, il venire ad ergersi dell'abbandono
dell'essere, il dis-porre appartenente allo stato d'animo fondamentale del
ritegno hanno la medesima contrada di provenienza e di “direzione”. La
contrada è l'ove in cui essi, in quanto tali, richiamati emergono, ed a cui
intimamente e necessariamente tendono e si volgono. È il luogo in cui
sempre permangono (non perdurano!). A chi domandasse dove sia un tale
posto non gioverebbe alcuna geografia, né alcuna fantasia, né capacità
astrattiva, né alcuna marmorea concettualità. Eppure il “dove”, tale “dove”,
ci è donato come accenno nello Heidegger, in attimi del più semplice e
27

Ivi. par. 63, 66,67,68
Esser-ci, parola che non dice lo stesso dell'esserci di Essere e tempo, verrà chiarificato oltre, in questo
scritto.
29
Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 50. Ed. Adelphi, Milano 2007
30
Ivi. pag. 60
31
Ibidem.
32
Questo che è qui indicato esplicitamente, cioè l'altro inizio e ciò che esso nomina, verrà ad emergere ed
a chiarirsi durante il proseguire del presente scritto. Attualmente possiamo solo rinviare alla nota 14
del presente capitolo, al pensare meditativo. Anch'esso tra l'altro non ulteriormente illuminato.
33
Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, pag.320. Ed. Morcelliana, Brescia.
28

24
tracotante34 dire.
“Lo stato d'animo è il propagarsi nell'esser-ci del vibrare dell'Essere come
evento”35.
“La risonanza dell'Essere vuole riprendere l'essere nella sua piena
permanenza essenziale in quanto evento svelando l'abbandono
dell'essere”36.
La risonanza; l'abbandono dell'essere e lo stato d'animo fondamentale del
ritegno; essi dicono dall'evento.

34

Non esuberante o eccessivo, ma ricco di essenzialità. Un'oltre. La lucida distanza dalle sottigliezze
puramente concettuali è, d'altronde, affiorata fin dagli inizi del pensiero heideggeriano, cfr. Martin
Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, pag. 107. Ed. il Melangolo, Genova 1999.
35
Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 50. Ed. Adelphi, Milano 2007
36
Ivi. pag. 135.
25
II.II
SUL GIOCO DI PASSAGGIO
Lo sviluppo nel testo di questo “punto di riferimento” ci pone fin da subito
in una sorta di imbarazzo. Si evidenzia in tal modo tutto il limite della
perifrasi da noi scelta ( cioè “punto di riferimento”) per designare i diversi
momenti della strutturazione dei Contributi. In codesto libro, è facile
notarlo, quando incontriamo delle parole che ci potrebbero dare degli
appigli teoretici o pratici, in base al nostro abituale orientamento
concettuale e quotidiano, succede invece che queste stesse parole non
fanno altro che dire in diverso modo rispetto al sopraccennato orientarsi
quotidiano. Difatti, sia che intendiamo nel modo abituale, sia che abbiamo
assorbito un minimo di heideggeriana confidenza speculativa con ciò che
viene detto nell'espressione “stato d'animo guida”, in entrambi i casi
comunque non ci sentiamo propriamente ambientati o rimaniamo
addirittura increduli e disorientati nel momento in cui leggiamo: “Lo stato
d'animo guida: la voglia di superamento degli inizi interrogandosi a
vicenda”1. La comprensione di ciò non è questione di neologismi.
E allora...Come? Ciò che guida sarebbe: voglia di superamento? Sarebbe:
in quanto voglia di superamento? Guida chi? Guida noi?
Con un generico noi come risposta non diciamo niente di davvero
rilevante. Invece diremo, per ora, guida nel senso di ciò che ci mostra una
via, di ciò che accompagna, ed accompagna intrinsecamente, il nostro
pensiero, il nostro domandare. Noi diremo, dunque, che qui il nostro
pensare domandante2 è in quanto accompagnato intrinsecamente. Ma tale
suo essere in quanto accompagnato intrinsecamente, qui in codesta
citazione, viene detto nelle parole: la voglia di superamento degli inizi
interrogandosi a vicenda. Difficile accingerci a tale frase in senso pratico,
ma nemmeno in senso speculativo-concettuale risulta agevole
appropinquarsi ad essa. Ciò che in tale frase viene detto non è un'etica
pratica, una constatazione psicologica, e nemmeno una asserzione
informativa mirante alla corretta definizione dello stato d'animo
1
2

Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 181. Ed. Adelphi, Milano 2007
O pensare interrogante, oppure pensare essenziale (cfr. Martin Heidegger, Che cos'è metafisica?, pag.
81. Ed. Adelphi, Milano 2001). Ricordiamo al lettore essere queste le sfumature della disposizione del
pensiero in Heidegger. Il rimando esplicito a tale caratteristica d'altronde si trova nelle righe
successive, a quelle appena citate, dei Contributi.
26
fondamentale in questione. Né una dottrina nella sua forma teorica. Essa
invece dice propriamente del gioco di passaggio.
E con ciò? Con ciò tutto e niente ci è rimasto. Ma tale tutto e niente o non
ci ri-chiama e scivola via dal nostro sguardo come mera irrilevanza, oppure
ci spiazza nel non lasciarci orientati, ovvero ci dis-pone ad un domandare
che è un ascoltare. Ad un meditare verso ciò che può, così, venirci
incontro.
Quel che spiazza nel non lasciare orientati, come anche quel che stupisce
scuotendo dalle fondamenta (θαùμα), è forse già una preparazione di ciò
che ci appare come l'inaspettato, dell'insolito, nel suo avvicinarsi.
Risulterebbe prematuro addentrarci oltre nei confronti di un tale
inaspettato.
Attualmente più pressante, al fine della delucidazione del passo citato, è
cercare di cogliere cosa siano gli inizi all'interno della frase da cui abbiamo
preso le mosse con una cascata di domande. Il rinvio, ovviamente, è ai
cosiddetti primo inizio e altro inizio, da noi precedentemente di sfuggita
incontrati. Ma poiché qui è in questione “il confronto della necessità
dell'altro inizio dalla posizione originaria del primo inizio”3 non possiamo
esimerci dal rischiarare ciò che gli inizi indicano. Anche se in seguito
verranno ripresi e nuovamente approfonditi più volte, essi sono sì
intimamente impastati con le cosiddette sei fughe che dobbiamo
approssimarci ad un loro, seppur mai sufficiente, chiarimento.
Ma, ci avviamo in un tale chiarimento partendo non esplicitamente dagli
inizi, bensì dagli aspetti latenti della inizialità che a codesti inizi inerisce
necessariamente. Quindi, per approssimarci con il pensiero alla inizialità
appena menzionata, provvisoriamente formuleremo queste domande:
“dove” iniziano (ove risiedono)? Come iniziano? Che “cosa” iniziano? Ciò
non significa che queste domande avranno una risposta. Tant'è vero che,
complici le virgolette, logicamente stridono un poco. Meglio così. Esse
infatti non domandano come chi domanda di una risposta assertiva avente
carattere di correttezza. Il loro domandare vorrebbe portarci, quantomeno
tematicamente (cioè per lo meno attraverso la filosofia come generalmente
intesa), semplicemente nei pressi di ciò che lo Heidegger speculativamente
(questo è ancora per l'appunto il piano in cui prevalentemente vogliamo
muoverci) apporta nominando tali inizi.
Innanzitutto, anche in ciò che il gioco di passaggio dice vanno a confluire
le numerose tematizzazioni heideggeriane riferite alla storia della
metafisica (questo si può notare esplicitamente nei paragrafi 91, 93, 97, 99,
102, 103, 104, 105, 106, 108, 109, 110, 112 dei Contributi), nonché quelle
rinvianti al pensiero ontologico fondamentale (si veda, per esempio, la
ripresa della differenza “ontologica”4). Per cui, premettiamo: il gioco di
3
4

Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 181. Ed. Adelphi, Milano 2007
Ivi pag. 215
27
passaggio si lega essenzialmente al pensiero occidentale ed alla sua storia, i
quali non sono altro che storia metafisica (storicizzarsi della metafisica).
Ma non si giunga a ingannevoli quanto logicamente spontanee opposizioni.
Che l'heideggeriano gioco di passaggio sia essenzialmente legato alla storia
del pensiero occidentale, significa che né il gioco di passaggio è aggiunta
“di qualcos'altro” rispetto alla metafisica né che la metafisica e l'intera
storia della metafisica si muovono “al di fuori” dell'orizzonte ove
essenzialmente risiede e può darsi ad avvenire il gioco di passaggio. A tale
significatività diamo il nome di coappartenenza degli inizi.
“Evidenziazione reciproca della domanda metafisica sull'essere -come
domanda del primo inizio della storia dell'essere- e della domanda
sull'essere appartenente alla storia dell'essere -come domanda dell'altro
inizio della stessa storia dell'essere. L'unità, in cui entrambe le figure della
domanda sull'essere si coappartengono essenzialmente,”5 è l'orizzonte
medesimo in cui va colto l'heideggeriano gioco di passaggio. Questo
orizzonte, la coappartenenza degli inizi, è, heideggerianamente parlando,
storia dell'essere.
Diciamo anche che questa coappartenenza può con-figurarsi come
disposizione in un equilibrio di luminosità ed ombre, ovvero aperture
disvelanti ed oblii velati (ma su una tale configurazione ritorneremo meglio
in seguito). È comunque probabile che momentaneamente venga più facile
orientarsi sulla parola coappartenenza. Per cui a questo termine ci
riferiremo.
Così come luminosità ed ombre richiamano logicamente spontanee
opposizioni, anche l'altro dell'altro inizio, rispetto al primo inizio, richiama
il contrario di ciò che comunemente si può indicare con il vocabolo
coappartenenza. Cos'altro poter concepire dell'alterità? Alterità non è forse
un rapporto, in qualche sua forma, di negazione? Almeno nel nostro caso, il
primo e l'altro dei rispettivi inizi possono indurre a pensarlo. Si tratta qui di
ri-pensare questa negazione (negation), ri-pensare il suo no. Ri-pensare
questa negazione, al di là della logica di non contraddizione, della causalità
e del processo dialettico, significa per Heidegger coglierla in senso
originario. “Questa negazione (verneinung) originaria è piuttosto dello
stesso tipo di quel rifiuto che rinuncia ad accompagnare ancora... Tale
negazione... si sviluppa nel liberare il primo inizio e la sua storia iniziale e
nel riporre ciò che in tal modo è liberato nel possesso dell'inizio... Tale
edificare ciò che del primo inizio si erge è il senso della “distruzione” nel
passaggio all'altro inizio”6. E così è ulteriormente ap-profondito ed
illuminato ciò che il pensare heideggeriano intende parlando del progetto di
“distruzione”, o decostruzione, della metafisica.
5

F.-W. Von Hermann, La metafisica nel pensiero di Heidegger, pag.18. Ed. Urbaniana University Press,
Roma 2004.
6
Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 190. Ed. Adelphi, Milano 2007.
28
É allora in una siffatta coappartenenza che risiede ciò che è portato alla
parola nei termini svolgimento e passaggio, presenti nella continuazione
della frase da cui, nel presente paragrafo, siamo partiti: “risposta alla
domanda guida e autentico svolgimento della domanda guida; passaggio
alla domanda fondamentale”7. Dunque, ritornando sui nostri passi di
qualche riga, quindi accantonando per ora l'arrivo filosofico alla storia
dell'essere, è nella storia del pensiero metafisico che riposano, come giàda-sempre, ciò che dicono le parole svolgimento e passaggio or ora
nominate. Tutto questo ci porta a pensare che: la storia della metafisica
porta nel grembo il rinvio ed il possibile accorgimento della
coappartenenza sopraddetta; ciò che è metafisica “poggia” sulla
possibilità/necessità del gioco di passaggio. Ma così, allora, la metafisica
tutta è (rientra nella) storia dell'essere? Ma non affrettiamoci a giungere ad
una qualche conclusione che possa definirsi tale! O molto ci sarà sfuggito.
Concentriamoci, invece, sugli inizi. In base all'ultima citazione possiamo
notare che allo svolgimento del primo compete una domanda guida (e
l'inverso), mentre al passaggio dell'altro inizio compete una domanda
fondamentale (e viceversa). Quali e come sono tali domande? Come si
attesta in queste, o magari tra esse, il trapassare nominato espressamente
nel gioco di passaggio? Come esse sono legate agli inizi?
“Con il primo inizio il pensiero incomincia, dapprima implicitamente poi
propriamente, a consolidarsi nella domanda che cos'è l'ente?”8. Ecco la
domanda guida della metafisica secondo lo Heidegger. Si noti: “che cosa è
l'ente?” è da chiedersi dell'enticità. Ovvero, si chiede rimirando l'enticità
degli enti. Si guarda già verso una enticità, verso l'essenza dell'ente, cioè
l'essere in quanto così (fisico-metafisica essenza dell'ente) intra-visto. E
tale è la domanda guida della metafisica, e della sua storia che è
l'occidentalità. Questo domandare è essenzialmente nella metafisica tutta,
anche quando la metafisica chiede o parla espressamente dell'essere. Tale
domandare costituisce, nella sua forma ultima, l'odierno dominante della
scienza moderna, della tecnica e delle loro ramificazioni (su questa
problematica, che merita un discorso a parte, ci concentreremo in seguito).
Il medesimo domandare è essenzialmente in ogni dualità tra essere ed ente,
ivi esso riposa e regna.
Ordunque, passiamo alla domanda fondamentale. Essa parla a noi nella
seguente modalità: “che cos'è la verità dell'Essere?”9. A tale domandare si
giunge, cioè il medesimo domandare si dà, anche nella seguente modalità:
“Perché in generale è l'ente e non piuttosto il Niente?”10. Non a caso
quest'ultima figurazione dello stesso domandare emerge alla conclusione di
una Prolusione il cui leitmotiv è la domanda: che cos'è metafisica?
7

Ivi. pag. 181
Ivi. pag. 190-191.
9
Ivi. pag. 183.
10
Martin Heidegger, Che cos'è metafisica?, pag. 114. Ed. Adelphi, Milano 2001
8

29
Apriamo una parentesi. Da notarsi, riguardo alla domanda fondamentale
(in entrambe le modalità presentate), come il dire dello Heidegger conii il
termine Niente per dire (dell') l'essere. Una altrettanto intensa attenzione va
posta alla parola Essere, in maiuscolo. Questi sono tentativi, dallo
Heidegger sempre nuovamente rinnovati, di semantizzazione11 dell'essere.
È bene accogliere tali tentativi di semantizzazione come probabile e
sincronica sorgente del pensiero rivolto alla problematica del linguaggio.
“Essere ed essere sono lo stesso eppure fondamentalmente diversi”12. In un
certo qual modo, nel dire che questa frase ap-porta risiede lo spiraglio da
cui scaturisce l'intero pensare heideggeriano.
Ritorniamo alle due domande. L'autentico pensiero è per Heidegger sempre
domandante. Noi, in concerto ad egli, diciamo che, addentro al pensare, un
autentico mutamento di domanda è il darsi di una nuova direzione nel
domandare. Ed una tensione altra del domandare è da cogliersi nella
formulazione, nonché nel legame, ma ancor più nel loro senso intimo, di
entrambe le domande dei rispettivi inizi. Questo senso intimo non è altro
che il pensare interrogante dello Heidegger. Ed è proprio un tale
mutamento o “passaggio, inteso storicamente13, ...il superamento...di tutta
la metafisica. Solo ora la “metafisica” si rende riconoscibile nella sua
essenza... La domanda: che cos'è metafisica?, posta nell'ambito del
passaggio all'altro inizio, ottiene con il domandare l'essenza della
“metafisica” già nel senso di una prima conquista della postazione
antistante il passaggio nell'altro inizio”14. Ecco, portato alle parole, il
legame, o coappartenenza, che costituisce gli inizi, ed il giocare di ciò che
è il gioco di passaggio. Il passaggio “nell'altro inizio è il ritorno nel primo
e viceversa. Ritorno nel primo inizio (“la ri-petizione”) non è però un
trasferirsi nel passato... Il ritorno nel primo inizio è piuttosto e
precisamente l'allontanamento da esso, l'occupare quella posizione di
distanza che è necessaria per esperire ciò che, in quell'inizio e in quanto
quell'inizio, si iniziò... Solo la posizione di distanza rispetto al primo inizio
permette di esperire che... la domanda sulla verità (άλήθεια) è rimasta
indomandata... e solo tale sapere ci suggerisce (spielt uns zu) la necessità
di preparare l'altro inizio”15. Qui vi è un “oltrepassamento della domanda
guida -appartenente alla metafisica tutta-...dell'essere dell'ente a partire dal
suo proprio fondamento, che viene ricercato dalla domanda fondamentale
come domanda sull'essenza dell'essere”16. “Per cui l'essenza della
metafisica è altro dalla metafisica”17. Tutto questo necessita che il primo
11

Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, Cap. secondo. Ed. Morcelliana, Brescia.
Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 183. Ed. Adelphi, Milano 2007
13
Ciò, qui, significa: mai storiograficamente.
14
Ivi. pag. 183
15
Ivi. pag. 196
16
F.-W. Von Hermann, La metafisica nel pensiero di Heidegger, pag.19. Ed. Urbaniana University Press,
Roma 2004.
17
Martin Heidegger, Che cos'è metafisica?, pag. 92. Ed. Adelphi, Milano 2001.
12

30
inizio (ovvero l'accaduto oblio della dimenticanza dell'essere) risuoni come
primo inizio. Da quanto antecedentemente scritto, ribadiamo non esservi
per Heidegger orizzonti differenti (seppur nel medesimo fondamentalmente
diversi) in cui incamminarsi al di fuori di quella sola chiaroscurale
contrada ove coappartengono gli inizi. Ed è necessariamente in tale
orizzonte che il gioco di passaggio può delinearsi e giungere, cioè
avvenire.
Ma quindi, si potrebbe obbiettare, ciò che sono gli inizi ed il gioco di
passaggio giace in domande? Nella corretta formulazione di domande? Ed
esattamente in quelle domande sopra trascritte? No. Se così si dovesse
concepire il discorso portato fin qui, questo significherebbe che ogni
riferimento fatto al gioco di passaggio sarebbe stato essenzialmente
frainteso. “Nella misura in cui un pensiero si mette in cammino per
esperire il fondamento della metafisica..., invece di limitarsi a
rappresentare l'ente in quanto ente, esso ha già in un certo modo
abbandonato la metafisica”18. Questo pensiero che si mette in cammino
per esperire il fondamento della metafisica (cioè l'invece di...) ha la
peculiarità di configurarsi in quanto un pensare domandante19. E non in
quanto la corretta formulazione di una domanda! Né come
concettualizzazione della relazione tra la domanda guida e la domanda
fondamentale. “Infatti, nella misura in cui -la domanda fondamentaleinterroga ancora nel modo tradizionale della metafisica -ossia in termini
causali, seguendo il filo conduttore del “perché”-, il pensiero dell'essere
viene completamente rinnegato a vantaggio della conoscenza che
rappresenta l'ente partendo dall'ente”20. Per tale motivo, quantomeno sul
18

Ivi. pag 92.
O interrogante. O ancora, rammemorante (per un esempio: Martin Heidegger, Saggi e discorsi, pag.
121. Ed. Mursia, Milano 1976). È giunto il momento di rischiarare maggiormente questo punto
poiché qui si tratta del pensiero già rivolto nell'altro inizio.
Secondo Heidegger, per un pensare autentico “il tratto fondamentale... non è l'interrogare bensì
l'ascoltare quel che viene suggerito da ciò che deve farsi problema”. Eppure noi abbiamo anche
precedentemente chiamato tale pensiero interrogante o domandante; come può questo stesso
presentarsi ora come ascolto. Anche qui, heideggerianamente non è da vedersi alcuna opposizione
dualistica intercorrente tra il domandare e l'ascoltare. Il pensiero domandante è ri-pensamento del
pensiero (e del domandare) nel significato che quest'ultimo verbo ha da tempo, in generale, acquisito.
I termini meditativo o contemplativo, anch'essi usati dallo Heidegger nel riferirsi fondamentalmente
ad un tale pensiero, aiutano forse ad evidenziare questo carattere d'ascolto del pensiero domandante, o
anche detto interrogare pensante. Ovvero fanno emergere meglio le sfumature di cui il ri-pensamento
sopraddetto, insito nell'heideggeriano pensare domandante, è costituito. Tale carattere può emergere
nitidamente in quel domandare che pone “la domanda sull'essenza”. Ogni interrogare è un volgersi
verso l'ascolto di ciò che già risuona. “Ogni posizione di domanda è possibile solo in quanto ciò che
si fa problema ha già iniziato a parlare e a dire di sé stesso”. Codesta dis-posizione è il pensiero
disposto all'evento (dall'evento).
Tutte le citazioni di questa nota si trovano in: Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pag.
139. Ed. Mursia, Milano 1973.
Il ri-pensamento heideggeriano del domandare trova le sue prime esplicitazioni nell'Opera degli anni
venti: “Ogni posizione di problema è un cercare. Ogni cercare trae la sua direzione preliminare dal
cercato”. In: Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 16. Ed. Longanesi, Milano 1971.
20
Martin Heidegger, Che cos'è metafisica?, pag. 114. Ed. Adelphi, Milano 2001.
19

31
piano speculativo-filosofico, in queste nostre pagine si è sempre ben
distinto il domandare, il pensiero interrogante, e la loro direzione, da ciò
che è l'aspetto (non la parvenza) di domanda di un parlare qualunque.
Ma, in tutta onestà, in queste pagine dedicate al “punto di riferimento”
denominato gioco di passaggio, abbiamo per lo più detto del gioco di
passaggio in quanto il gioco. Gioco fra gli inizi che è loro coappartenenza.
Durante ciò, seguendo Heidegger per i sentieri da lui indicati, abbiamo
accennato all'intraprendere un pensiero domandante, il quale cogliesse
perlomeno la possibilità di un tale gioco. Eppure il punto di fuga dell'intera
tematica di queste ultime pagine rimane il gioco in sé del gioco di
passaggio.
Nella filosofia, in senso autentico ovvero originario, il passaggio “scinde il
sopraggiungere dell'Essere..., da ogni manifestazione e percezione
dell'ente”21. Non si cerchi una qualche norma ontologica in codesta mutila
citazione. Quel che deve emergere dalle suddette parole è la non
completezza del gioco di passaggio in quanto il gioco. Il passaggio, in sé,
difatti non è stato ancora essenzialmente detto. Il termine sopraggiungere
ci deve porre in una situazione di ascolto. Riguardo ad esso non dobbiamo
domandarci il chi? Od il perché? Meglio sarebbe porci semplicemente
all'ascolto del suo come: il sopraggiungere che scinde, e scinde da ogni...,
dice più propriamente del passaggio in sé del gioco di passaggio.
“L'altro inizio non è un orientamento opposto al primo ma, in quanto altro,
sta al di fuori dell'opposizione e dell'immediata comparabilità”22. Ciò con
la presupponibile disapprovazione dell'egregio Professore FriedrchWilhelm von Hermann23.
Il “movimento e contromovimento” che, in modo cooriginario e non
causale, coinvolge e costituisce lo svolgimento della domanda guida, il
passaggio alla domanda fondamentale, la storicità24 della storia del
pensiero metafisico (fino e comprese le attuali sue propaggini), cioè
dell'occidentalità, prende nei Contribui l'esplicito nome de il gioco di
passaggio.
Eppure, si diceva, tale gioco di passaggio ci si è presentato, fino ad ora,
zoppo. In egual modo si è parlato dell'altro inizio. Si è parlato del
significato che nella storia della metafisica (e della filosofia occidentale)
apporta ed, insieme, assume l'inizialità di quest'ultimo. Possiamo si parlare
dell'altro inizio come “di un'eccedenza che viene prima e sporge oltre tutti
21

Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 188. Ed. Adelphi, Milano 2007.
Ivi. pag 197.
23
La seguente frase può aiutare a comprendere la “contraddittoria” affermazione appena fatta. “Per il
pensiero che si raccoglie nell'evento la storia dell'essere, in quanto è ciò che è da-pensare, giunge
alla sua fine, per quanto possa ben continuare ad esistere la metafisica”. Martin Heidegger, Tempo e
essere, pag. 53. Ed. Longanesi, Milano 2007.
24
Non storiografia, ovvero non la filosofia come materia di studio, né la filosofia come scienza mirante ad
una qualche forma di correttezza o alla dimostrazione, per esempio dialettica, di essenze
sovrasensibili.
22

32
gli sviluppi del primo inizio”25, per quanto i termini “viene prima” risultino
nel luogo dell'altro inizio a cui si vorrebbe giungere, a dir poco aberranti.
Ma ancora non è stato propriamente detto dell'altro. Oppure con altri
vocaboli: non abbiamo detto dell'eccedenza in sé (dell'eccedere nel suo
come). Per cui decretiamo non essere fin qui stato propriamente indicato, o
detto di..., ciò che è lo altro, dell'altro inizio. Lo altro che deve ergersi.
Anche qui, non: che cosa è questo altro? Ma come esso è (si dà)?
“L'altro inizio è il salto che, trasformando l'Essere, entra nella sua più
originaria verità”26. Con ciò è anticipato il successivo “punto di
riferimento”, il capitolo intitolato: Il salto.
L'ergersi (la negazione ri-pensata) dell'altro inizio; il primo inizio in quanto
tale; la coappartenenza degli inizi e l'orizzonte della storia dell'essere che,
evidenziantesi, la lascia (ed anche li lascia) fruibili in tal modo; il gioco di
passaggio; essi tutti dicono dall'evento.

25
26

Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, pag. 231. Ed. Morcelliana, Brescia.
Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 194. Ed. Adelphi, Milano 2007.
33
II.III
SU IL SALTO
Premessa o avvertenza: da ora il piano speculativo-filosofico, in cui fin qui
ci siamo esplicitamente prevalentemente mossi, potrà risultare
insufficiente, o non adeguato, alle future trattazioni e tematizzazioni. Ciò
che dell'altro inizio è totalmente diverso rispetto al primo può essere
spiegato mediante un dire che apparentemente non fa che giocare con un
rovesciamento mentre in verità tutto si trasforma”1. Dunque: l'incombenza
del fraintendere viene ad acuirsi e “l'insolito”, “l'inatteso”, non dovranno
destare l'irrigidimento nell'abituale e la volontà giudicante; la quale è
portata a decretare, nel migliore dei casi, “l'insolito” in quanto anomala
stranezza2.
De il salto abbiamo intrinsecamente detto nelle parole altro (il totalmente
altro) nell'altro inizio, e passaggio nel gioco di passaggio. “Qui, nel
passaggio, si prepara la decisione più originaria e perciò più storica,
quell'aut-aut di fronte a cui non rimangono nascondigli:... o restare
vincolati alla fine e al suo decorso -l'inerzia della metafisica-..., oppure
iniziare l'altro inizio, essere risoluti alla sua lunga preparazione... Ora
però, poiché l'inizio accade solo nel salto, questa preparazione deve essere
già un saltare che, in quanto prepara, deve al tempo stesso provenire e
balzare via dal confronto (gioco -il gioco- di passaggio) con il primo inizio
e con la sua storia”3.
All'interno dei Contributi, più precisamente in ciò che il salto dice, ogni
cosa che in Essere e tempo4 viene preparandosi arriva ad una nitidezza. “La
1

Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 235. Ed. Adelphi, Milano 2007.
Vi è forse una flebile analogia, solo analogia e nel significato comune (dominante) del termine, con il
pensiero che ha reso famosa la parola anomalia da noi appena usata. Al di là di questa possibilità il
termine indica bene lo “stato di cose” a cui vogliamo rimandare. In merito a tutto ciò, estrapolate,
forse completamente, dal loro contesto, le seguenti citazioni ci sanno però dare intuitivi consigli:
“Soltanto quando tutte le categorie concettuali attinenti...sono pronte in anticipo...la scoperta del che
e la scoperta del che cosa possono aver luogo assieme...in un solo istante... La novità emerge soltanto
con difficoltà, che si manifesta attraverso la resistenza, in contrasto con un sottofondo costituito dalla
aspettazione... L'anomalia è visibile soltanto sullo sfondo fornito dal paradigma”.
Thomas S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, pagg. 79, 88, 89. Ed. Einaudi
3
Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 235. Ed. Adelphi, Milano 2007.
4
“L'ontologia fondamentale, da cui soltanto tutte le altre possono scaturire, deve essere cercata
2

34
meditazione “dell'ontologia fondamentale” (fondazione dell'ontologia
come suo superamento) è il passaggio dalla fine del primo inizio all'altro
inizio. Tale passaggio è però al tempo stesso la rincorsa per il salto”5. Si
noti, alle spalle della bibliografia heideggeriana non vi sta alcuna strategia
dottrinaria. Già antecedentemente alla Kehre lo Heidegger afferma essere
stato, per tramite e grazie all'atteggiamento fenomenologico, alla
dissertazione di Brentano e alle riletture su Aristotele, “portato sul
cammino della questione dell'essere... Il cammino seguito da questo
domandare fu però più lungo di quanto credessi...ciò che tentavano le
prime lezioni di Friburgo e poi quelle di Marburgo mostra questo cammino
solo in maniera indiretta”6. “Essere e tempo è il passaggio al salto (il
domandare della domanda fondamentale)”7. Di più, “Essere e tempo non è
perciò un”ideale” né un “programma”, bensì l'incipiente inizio
dell'essenziale presentarsi dell'Essere stesso, non ciò che noi conquistiamo
con il pensiero, ma ciò che, ammesso che siamo maturi per questo, ci
costringe in un pensiero”8, un pensiero che, tutto sommato, è, per lo meno
anche, il pensare ed il cammino dello Heidegger. “Il pensiero tentato in
Sein und Zeit si è...”messo in cammino” per porre il pensiero su una via
per la quale esso pervenga al riferimento della verità dell'essere
all'essenza dell'uomo, per aprire al pensare un sentiero”9 direzionato in tal
modo.
Nel quarto capitolo dei Contributi si intravedono, esplicitati dallo stesso
autore, i legami che sussistono tra ciò che Essere e tempo viene in tal modo
a rivelarsi, ed il pensiero heideggeriano dopo la cosiddetta svolta. Abbiamo
così l'opera degli anni venti configurata come tentativo, che di “solo”
tentativo necessariamente può trattarsi, di un dispiegamento della domanda
guida, portato, tale dispiegamento, verso il trapasso in domanda
fondamentale. L'or ora utilizzato termine trapasso è qui posto in quanto
accenno ad una posizione del domandare totalmente altra, ovvero l'altro
dell'altro inizio; un pensare, diciamo, portato all'altro inizio. Per giungere
ad una tale posizione del domandare totalmente altra rispetto alla
dominante, quindi affinché si “avanzi fino a una possibilità decidibile -cioè
l'aut-aut di cui si diceva prima-, si deve anzitutto tentare... di creare un
passaggio verso il salto nella domanda fondamentale”10.
Ci troviamo, in quest'ultima citazione, in un certo qual modo, nella
trascrizione dell'unità, forse soggiacente ma di certo oltremodo strutturale,
nell'analitica esistenziale dell'Esserci”. Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 26. Ed. Longanesi,
Milano 1971. E cosa raccoglie per l'appunto Essere e tempo se non l'esplicarsi dell'analitica
esistenziale?
5
Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 235. Ed. Adelphi, Milano 2007.
6
Martin Heidegger, Tempo e essere, pag. 102. Ed. Longanesi, Milano 2007.
7
Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 239. Ed. Adelphi, Milano 2007.
8
Ivi. pag. 247.
9
Martin Heidegger, Che cos'è metafisica?, pag. 110. Ed. Adelphi, Milano 2001.
10
Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 239. Ed. Adelphi, Milano 2007.
35
dei primi tre capitoli dei Contributi nel loro legame (ovvero rinvio,
rimbalzo) costitutivo, e necessario, con il cammino (magari solo
accidentalmente bibliografico) del pensare dell'autore di Essere e tempo. O
almeno fino a questo punto, ovvero fino a questo punto di un tale
camminare, camminare che noi vorremmo, perlomeno, delucidare.
Nient'altro che il camminare posto in rilievo fin dal primo capitolo di
questo saggio. Dunque, fino a questo punto siamo giunti. Quindi fino a ciò
che ne Il salto, il nostro quarto “punto di riferimento” si viene a dire. Ma
cosa si viene a dire? E, analogamente (intendersi: come cerchi concentrici
nell'acqua allo gettare di un sasso, ivi sasso è il domandare) ad altre
domande precedentemente poste, come si viene a dire?
A questo punto torna nuovamente in questione lo stato d'animo guida. Esso
è il pudore, legantesi allo stato d'animo del ritegno11. Anche qui, come
nell'antecedente paragrafo, recitare le parole stato d'animo non ci è di alcun
orientamento se questo duetto di termini si intende, ovvero si ac-coglie, nel
modo abituale e dominante. Tutt'altro! Un tal modo devia dai sentieri che,
in una qualche forma del filosofare, vogliamo portare allo scoperto. E può
deviare, a maggior ragione, nel concretizzarsi di ciò che è (ovvero quello
che stiamo cercando) lo stato d'animo in termini quali pudore e ritegno.
All'interno di codesto possibile deviare, infatti, troppo automaticamente
(quindi a maniera d'automa) pudore e ritegno si associano a condizioni
psicologiche, legate alla coscienza individuale, concepiti come modalità di
quest'ultima. Oppure sono addirittura formulati in accezione puramente
sentimentalistica e moralista. Non ci riconosciamo e non ci troviamo forse
più ambientati nella descrizione di ciò? di quel che è appena stato asserito,
cioè di quello che noi abbiamo chiamato possibile deviare? E il nostro
ambientarci accade comunque, fosse anche esclusivamente al fine di
contraddirlo (ovvero intenderlo in quanto piatta e pura negazione di ciò che
andiamo cercando)? Si rammenti: questo sta a dire che nel deviare qui
nominato risiede l'orientarsi dominante e quotidiano a cui ognuno di noi,
come già da sempre e per lo più, soggiace. O, più propriamente, di cui è
costituito. Oppure, semplicemente, è.
Ebbene però non può bastarci una determinazione puramente negativa e
sterile di ciò che è il pudore heideggerianamente compreso. Se nel
paragrafo precedente abbiamo tentato di chiarire il ritegno (parzialmente si,
ma volutamente), ora cercheremo di rischiarare il pudore. Anche se,
occorre precisare, non è di qualcosa di differente che stiamo parlando,
essendo ritegno e pudore nient'altro che nomi approssimativi delle
direzioni di oscillazione dello “stato d'animo fondamentale del pensiero
nell'altro inizio”12.

11

Esplicitamente, si guardi: ivi. pag. 233.
Ivi. pag. 43.

12

36
Mai questo pudore sarà timidezza, annuncia Heidegger13, mai esso sarà da
concepirsi anche solo verso tale tendenza. Che anzi, un tale pudore dispone
di una grande forza. Non è un egoico ritrarsi o un generico titubare. Esso,
nei confronti del dominante, ha un che di “sfrontato”. Se così non fosse,
come potrebbe altrimenti il pudore costituire quell'“l'azzardo”14 che il salto
è.
Il pudore si configura, diciamo, come “sfaccettatura” dello stato d'animo
fondamentale nell'altro inizio. In quanto ciò, quest'ultimo, fa si che si possa
accogliere (o, il che è lo stesso ma diversamente portato alla parola, esso è
ove avviene) quell'apertura da cui “scaturisce la necessarietà della
reticenza”15. Dove indica quest'apertura (dove indica il pudore medesimo)?
Ovvero cosa la necessarietà della reticenza dice? Forse è or ora prematuro
esaurire la risposta a questa domanda, ammesso che il rispondere
heideggeriano possa essere considerato tale, perciò esauriente in senso
assertivo-informativo. Quello che per noi, adesso, conta è “limitarci” a ciò
che il salto è. Per cui lasceremo la reticenza, appena menzionata, nella
momentanea indeterminatezza. Puntando invece il nostro interesse sulla
necessarietà, anch'essa appena menzionata. Eppure la reticenza e la
contrada a cui essa guarda, ed al contempo appartiene, verranno sempre più
emergendo da sé.
Dunque. La necessarietà di cui parla l'ultima citazione, in verità, l'abbiamo
già incontrata. Il pudore come stato d'animo fondamentale nell'altro inizio è
apertura sia alla, che, contemporaneamente, nella, domanda fondamentale
(meglio: al e nel domandare fondamentale). Cotale domanda fondamentale
(meglio: tale domandare dell'altro inizio) “scaturisce direttamente da una
necessarietà della necessità dell'abbandono dell'essere”16. La necessarietà
di cui parliamo ed il suo intrinseco legame con la domanda fondamentale,
direzionata già all'altro inizio, competono a, e vicendevolmente ad esse
compete, quell'abbandono dell'essere di cui abbiamo detto nel paragrafo
primo del presente capitolo. Ed a quest'abbandono dell'essere compete,
vicendevolmente, anche lo stato d'animo del pudore. Ora, un tale
“orientamento”, una tale necessarietà, va esperita17. E necessariamente solo
in tal modo, esperendola, “coloro che si limitano a “scrivere” una critica
della domanda dell'essere” potranno approssimarsi al domandare del
pensare di Heidegger. Approssimarsi qui significa: evitando il pericolo del
fraintendimento. Fraintendimento, d'altronde, sempre incombente in questo
luogo del pensare. Sempre incombente nel pensiero che, incamminatosi, si
affaccia sul primo inizio in quanto tale, quindi nel suo rimando ad altro, ad
13

Ivi. pagg. 44, 45.
Ivi. pag. 233.
15
Ivi. pag.45
16
Ivi. pag. 238.
17
Esplicitamente, per esempio: Ivi. pag. 240. Non approfondiremo, per ora, l'esperire heideggeriano.
Sull'esperire, ripetiamo, si dirà più avanti.
14

37
un altro, all'altro inizio. Altro inizio che attualmente resta, all'interno del
nostro percorso ne i Contributi, nonostante tutto, ancora essenzialmente
adombrato.
E così, è bene notarlo, in questi intrinseci rimandi l'unitaria (o la presunta
tale) costituzione dei Contributi si presenta a noi, ancora una volta, nelle
plurime dimensioni (o livelli) dei suoi legami strutturali. Ciò, facile capirlo,
nel bene o nel male per la nostra autentica comprensione dell'opera.
Ma dove, e come, la necessarietà della necessità dell'abbandono dell'essere,
se esperita e così esperita, ed in ciò (l'esperire) tenendo conto della sua (di
tale necessarietà) intimità con lo stato d'animo detto pudore, ci può far
saltare? Visto che del salto, e del passaggio che è il salto, stiamo dicendo.
Certo, nella necessarietà di cui ci sforziamo di parlare sono, seppur
assolutamente non illuminati e non essenzialmente, affiorati dei legami tra
l'abbandono dell'essere, per l'appunto nella sua necessità non ulteriormente
chiarita, e ciò che abbiamo denominato il dominante. Ma con questo, come
era sottinteso nelle domande appena poste, non s'è però propriamente detto
de il salto. “Il salto è il raggiungere saltando (Er-springung) la prontezza
per l'appartenenza nell'evento”18. E l'evento (Ereignis) non deve essere
raggiunto “a forza con il pensiero”19 (in codesta citazione si rimira
all'antecedentemente menzionato esperire quella necessarietà da noi posta
a tema20; anche se, lo sappiamo, l'esperire a cui miriamo rimane non
ulteriormente chiarito, né in sé né nel suo legame o rapporto con il
pensiero).
Ebbene. L'evento (Ereignis), il titolo essenziale della opera dei Contributi,
è adesso chiamato in forma filosofica direttamente esplicitamente in causa,
sia nel presente paragrafo di questo scritto, sia diffusamente nel capitolo
quarto dell'opera medesima.
Non potremmo però certamente prendere di petto, a livello filosoficospeculativo o meno, ciò che l'evento è. La motivazione? In base
all'incamminarsi di questo scritto una tale volontà o pretesa sarebbe
assolutamente fuori luogo. E quindi, cosa fare? Parlando molto
sinteticamente: chi abbia letto il secondo Heidegger, o la letteratura critica
a lui riferita, può essere a conoscenza del fatto che, in genere, l'evento è
l'essere heideggeriano. Ma con questo non si è parlato di un bel nulla!
Dando per scontato che tale asserzione sia giusta all'interno della storia
della filosofia, che mai ce ne faremo, noi qui, di questa informazione! La
nostra tensione, che è il pensare, non deve perciò essere catturata o attratta
dalla forza di gravità di codesta parola in quanto tale. Non facciamoci
preventivamente soggettivi investigatoti della sua oggettiva concettualità.
O così facendo inautenticheremo radicalmente ciò che evento è. Tutto
18

Ivi. pag. 241
Ibidem.
20
Non risiede qui la contrapposizione esperire/pensare, fatti/idee, bensì un ri-pensamento intimo del
pensiero e della sua direzione.
19

38
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Thesis

  • 1. UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI BOLOGNA FACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di laurea in scienze filosofiche L'”ALTRO INIZIO”: I CONTRIBUTI ALLA FILOSOFIA (DALL'EVENTO) DI MARTIN HEIDEGGER Tesi di laurea in FILOSOFIA TEORETICA Relatore Presentata da Prof. Maurizio Malaguti Marcello Gagliardi Sessione III Anno accademico 2007-2008 1
  • 2. INDICE BREVE E PROVVISORIA FOCALIZZAZIONE DI QUESTO SCRITTO 4 I I.I L'OPERA: I CONTRIBUTI ALLA FILOSOFIA (DALL'EVENTO) PORSI DI FRONTE AI CONTRIBUTI 7 I.II LA STRUTTURAZIONE DEI CONTRIBUTI 9 I.III LA STRUTTURA INTRINSECA DEI CONTRIBUTI: UN INCAMMINARSI. IL PENSARE COME CAMMINO O SENTIERO 11 APPENDICE ERMENEUTICO-INTERPRETATIVA (RIGUARDO LA KEHRE) 15 II PREMESSA 17 II.I SU LA RISONANZA 19 II.II SUL GIOCO DI PASSAGGIO 26 II.III SU IL SALTO 34 II.IV SU LA FONDAZIONE 43 -esser-ci 45 -verità 60 -spazio-tempo 76 2
  • 3. II.V LINEA TRASVERSALE: LA MACCHINAZIONE 89 III III.I IL PENSARE COME PENSARE ESPERENTE 100 III.II SU I VENTURI 111 IV IV.I SU L'ULTIMO DIO 118 IV.II IL PENSARE COME TRASFIGURAZIONE 125 V V.I COMPENDIO “SULL'”ESSERE 142 APPENDICE CONCLUSIVA: SU LA FILOSOFIA 153 NOTA BIBLIOGRAFICA 158 BREVE E PROVVISORIA FOCALIZZAZIONE DI QUESTO SCRITTO 3
  • 4. “Si è fissato qui per cenni, come traccia da sviluppare in forma compiuta, ciò che una lunga esitazione mi aveva indotto a tenere da parte”1. Iniziano così i Contributi alla filosofia (dall'evento) di Heidegger. Cotale inizio immediatamente ci sussurra una problematicità del testo in questione, testo che risulta, di primo acchito, enigmatico. L'opera dei Contributi è stata valutata da alcuni rinomati studiosi del pensiero heideggeriano come “il più importante di una serie di trattati inediti..., se non come il... “vero magnum opus” ( O. Pöggeler) o la... “seconda opera capitale” (F.-W. Von Herrmann)... Nondimeno rimane, a parecchi anni dalla sua comparsa, ancora tutta da capire e da interpretare”2. Sempre riguardo alla medesima opera, possiamo leggere: “libro segreto... Raccolta di aforismi... Il grande abbozzo asistematico”3. D'altronde si può anche trovare qualcuno secondo cui i Contributi sono un “vero e proprio trattato...-nel quale- Heidegger sviluppa per la prima volta la parola chiave del suo tardo pensiero: Ereignis”4. Comunque stiano le cose, codesta opera e l'intrinseche sue profondità e problematicità saranno poste a tema nel presente scritto. Ciò, perlomeno, è nostro intento. Ma nella focalizzazione (nel mettere a fuoco per il vedere) vera e propria dei Contributi il piano filosofico potrebbe non bastarci. Potrebbe non essere adeguato a cogliere le profondità e problematicità prima accennate. Come ciò può essere...? Non è forse il testo dei Contributi un' opera dello Heidegger? E non è forse egli un grande e riconosciuto pensatore del novecento? Non è forse il suo pensiero ufficialmente concepito come una filosofia? Cioè, non troviamo forse questo pensiero nei libri di storia della filosofia? Non costituisce esso, insieme a tanto altro, quel bagaglio di conoscenze che forma la scienza e la cultura filosofiche? Nessuno lo negherebbe. Eppure proprio per questo lo Heidegger, durante l'intrinseco cammino che gli è appartenuto, ha prima di tutto sempre messo in guardia da due cose coloro che si approssimavano al suo pensiero: il più radicale, ma sempre incombente, fraintendimento5, e l'altrettanto incombente incanalamento del pensare-domandante in dottrina filosofica (in breve, in una filosofia facente parte delle filosofie della storia della filosofia)6. Soggiacente alla rilevazione di entrambi questi già-da-sempre 1 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 29. Ed. Adelphi, Milano 2007. Ivi. pag 19. 3 Maurizio Ferraris, Cronistoria di una svolta, in Martin Heidegger, La svolta, pag. 92. Ed. il Melangolo, Genova 1990. 4 Corrado Badocco, Avvertenza all'edizione italiana de Martin Heidegger, Tempo e essere, pag. VI. Ed. Longanesi, Milano 2007. 5 “Heidegger stesso non poté scorgere, nell'attenzione rivolta alla sua opera...nient'altro che un'incomprensione delle proprie intenzioni effettive... Ciò che viene pensato non è preso...come segnavia nella ricerca del cammino, ma come risultato finito, e così viene “compreso” a partire da ciò che è già noto, quindi “incompreso”, frainteso”. Otto Pöggeler, il cammino di pensiero di Martin Heidegger, pagg. 7-8. Ed. Guida, Napoli 1991. 6 Ai Contributi soggiace un “nuovo pericolo che ora l'evento -l'essere come evento- si trasformi subito in un nome ed in un comodo concetto dal quale “dedurre” altro,...astrarlo in una discussione 2 4
  • 5. incombenti “pericoli” vi è la premurosa necessità di scostarsi da quella prospettiva detta il dominante o metafisica, in tutte le sue forme. Ciò significa distaccarsi, o meglio sradicarsi, da una data, e data come già-dasempre (pre-condizione), visione dell'essere e perciò del “mondo”. È da cotale luogo che scaturisce tutta la questione heideggeriana del linguaggio e la problematicità della “ricerca” di un dire7 altro rispetto a quello definito dominante o metafisico (con tutte le sue propaggini). Di tutta la bibliografia heideggeriana si può affermare che il “rischio consiste nel parlare con proposizioni assertorie di qualcosa a cui è per essenza inadeguata questa modalità del dire”8. Non è casuale che in avanzata età Heidegger ritorni agli inizi del suo cammino filosofico (esplicitamente ad Essere e tempo, all'interno del testo Tempo e essere). Egli ritornò a quando, avvicinatosi alla fenomenologia la ri-colse (ripensò), forse più che altro intuitivamente, forse deviandola dai binari a cui era usa, ma cogliendo quegli impulsi direttivi che avrebbero accompagnato e guidato il suo pensare da lì in avanti, e forse anche da prima ancora: “l'essenziale per essa (la fenomenologia) non sta nell'essere reale come “corrente” filosofica. Più in alto della realtà sta la possibilità. La comprensione della fenomenologia consiste esclusivamente nell'afferrarla come possibilità... Essa è la possibilità del pensiero -possibilità che si trasforma nei tempi, perché solo così può rimanere una possibilità- di corrispondere all'appello di ciò che è da-pensare. Soltanto se la fenomenologia è esperita e mantenuta in questo modo, essa può sparire come denominazione storiografica a favore della cosa del pensiero, la cui manifestatezza resta un mistero”9. La tematica che ci approssimiamo ad affrontare, proprio nel suo essere al di là di una semplice tematica, come si cercherà di mostrare, investe ciò che è in sé la filosofia in quanto pensare. Sotto una certa prospettiva, quello che afferma Vattimo nella presentazione della traduzione italiana del testo Introduzione alla metafisica ha un che di lampante: “Il pensiero non può essere altro, per noi, che una meditazione e una ripetizione della storia della metafisica, intesa come il modo proprio e peculiare in cui l'essere si dà alla nostra epoca”10. La prospettiva in cui queste parole, ed il loro speculativa”. Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 346. Ed. Adelphi, Milano 2007. 7 Durante l'intero scritto baseremo la significatività propria di questo termine, quando esso sarà posto in risalto tramite la sua scrittura in corsivo, sulla essenziale diversità tra dire ( Riguardo una tale diversità, e quindi riguardo alla significatività di cui siamo a porre (la quale concerne anche ciò che sarà denominato il non-detto o non-espresso), chiarificatori e lampanti sono il terzo, quarto, quinto capoverso de: Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pag. 198. Ed. Mursia, Milano 1973. Questa significatività di cui siamo a porre riguarda intimamente il linguaggio (l'essenza del linguaggio) nel suo essere ri-pensato, heideggerianamente, ed in quanto intrinseco “moto” ed interezza, come Si veda: Ivi. pag. 197. 8 Martin Heidegger, Tempo e essere, pag. 33. Ed. Longanesi, Milano 2007. 9 Ivi. pag. 105. 10 Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, pag. 9. Ed. Mursia, Azzate (Varese) 1990. 5
  • 6. tono, vengono detti emergerà di volta in volta durante le pagine che ci apprestiamo a scrivere. Però, se ne tenga conto: nulla è stato asserito o avanzato sull'inerzia di questa nostra epoca11 heideggerianamente definita metafisica; nulla è ancora detto riguardo quel “noi”, appartenente all'epoca metafisica, al di là di quest'ultima. Per ora diremo, approssimativamente: nulla è, da un qualcosa, già decretato riguardo come quel “noi” e la nostra epoca possano divenire altro. Ed altro qui significa, necessariamente, intrinsecamente, nel darsi dell'essere medesimo e mai al di fuori di esso. 11 Epoca non è qui intesa banalmente in quanto età storica, ovvero sotto la prospettiva cronologica. Epoca si riferisce direttamente alla storia dell'essere. L'essere si dà in modo epocale, l'epocale va pensato dal Tutto questo va a confluire nella significatività dell'escatologia come carattere dell'essere. Per un sunto ed una chiarificazione di codesto discorso si veda: Gianni Vattimo, Essere storia e linguaggio in Heidegger, pagg. 23-25. Ed. Marietti, Genova 1989. 6
  • 7. I I.I L'OPERA: I CONTRIBUTI ALLA FILOSOFIA (DALL'EVENTO) PORSI DI FRONTE AI CONTRIBUTI Riportiamo ora brevemente la collocazione di tale opera all'interno del pensiero filosofico-speculativo heideggeriano muovendoci nell'ottica della storia della filosofia. Il cosiddetto “fallimento” di Essere e tempo, il quale trova riscontro nella sua mancata prosecuzione, intraprende un percorso che, portandoci alla tanto rinomata quanto speculativamente indeterminabile Kehre, e passando per le vicissitudini politiche e l'isolamento culturale, approda alla positività1 del pensiero heideggeriano dei Contributi. Il manoscritto di ciò che è stato successivamente pubblicato in quanto testo filosofico avente per titolo Contributi alla filosofia (Dall'evento) risale ad un periodo che va dal 1936 al 1938. Anni questi assai rilevanti per lo Heidegger, essendo la cosiddetta svolta avvenuta intorno al 1935-1936. Dobbiamo tenere conto dell'epoca di questa prima stesura. Siamo quindi a porci di fronte ad una opera che, appena successiva ai momenti cui risalgono gli scritti sull'opera d'arte e sulla poesia di Hölderlin, include obbligatoriamente uno sviluppo filosofico-speculativo dell'esperienza della svolta. O così per lo meno è presupposto in tutti coloro i quali, in un modo o nell'altro, intraprendono un'analisi dei Contributi. Nell'opera in questione infatti si trovano neologismi e nuove terminologie heideggeriane. Vi si trovano al suo interno nuove “figure” proposte dallo Heidegger. Talune saranno portate avanti dal pensiero successivo, tal altre no. Ad ogni modo, in generale, la struttura speculativa che trova posto nei Contributi è lasciata cadere (in quanto tale), tanto più che, si rammenti, neanche si volle renderla pubblica (non lo volle l'autore), se non molto tempo dopo e con forti reticenze. Ma, più di ogni altra cosa, nei Contributi vi è lo sforzo, adesso presentato in modo meramente nominale e su un piano a dir poco fraintendibile nonché tramite un parlare inappropriato, di pensare (meglio sarebbe scrivere: accogliere) l'essere (l'Essere) in quanto evento e/o Wesung (essenziale permanenza). Siamo nel punto in cui la filosofia heideggeriana passa (come e in quali piani è ancora tutto da vedere) dalla tralasciata analitica esistenziale, tendente ad un'ontologia fondamentale, alla storia dell'essere e della sua verità. Si apre, quantomeno, un diverso orizzonte teoretico1 Positività da ri-comprendersi qui in senso fondamentale ed essenziale. Quindi non contrapposto ad una qualche negatività, non valutativo o valoriale, ma come positività di ciò-che-è. Se ne dirà successivamente. Comunque questa visione della positività richiama esplicitamente la dinamica medesima della Kehre; ovvero che in quanto svolta, mantiene una “direzione verso...” pur essendo anche costituita dei precedenti tragitti, la di cui specificità è l'apparire differenziati nella direzione ora intrapresa nella svolta. Anche ciò si andrà focalizzando in seguito. 7
  • 8. speculativo. Ma vi sta qui una continuità o una discontinuità? Anche a ciò cercheremo di dar risposte nel corso del presente scritto. Concludiamo rilevando quanto facilmente ci si possa genericamente accorgere di come i contenuti (meglio sarebbe dire la significatività intima) del testo di cui siamo a trattare non si presentino sotto l'ottica, il “metodo”, di analisi dell'analitica esistenziale caratteristica invece dell'opera del 1927. Tutt'altro, Ai Contributi, abbiamo precedentemente affermato, precede invece quel cambio prospettico (qui torna come un flusso e riflusso il senso della Kehre) che si avvia ad un pensiero “nuovo”, o meglio, altro, definito (aprente un nuovo perimetro speculativo) appunto con-forme alla storia (non storiografia o stroricismo!) dell'essere. L'essere, pensato e pro-posto nella storia e verità dell'Essere, ovvero come evento, si focalizzerà sempre più essenzialmente in quanto cardine del cosiddetto “secondo” e tardo pensiero heideggeriano. 8
  • 9. I.II LA STRUTTURAZIONE DEI CONTRIBUTI Al fine di una migliore comprensione dell'impostazione d'avvio di questo nostro scritto ci muoveremo momentaneamente, e lo faremo volontariamente ed esplicitamente, all'interno del linguaggio metafisico (quindi, con Heidegger, penseremo e diremo metafisicamente, cioè incarnanti senso d'orientamento metafisico), linguaggio assodatosi nel corso di tutta la storia della filosofia occidentale cioè dell'Occidente medesimo, ma di quest'ultimo ce ne occuperemo più oltre. Ciò significa porre due diversi livelli in rapporto di rimando tra loro. Il rimando concerne quella relazione che caratterizza forma e contenuto, ma non si ferma ad essa, né si presenta altrettanto nettamente. Il testo contiene, o meglio è, struttura e strutturazione. La strutturazione si presenta come un espletarsi della struttura, ed in quanto si presenta, non è esente dall'essere guardata in vario modo. La struttura sono le innervature dei contenuti, nella loro interna dinamica. La struttura può essere vista, più che non guardata, in diversi modi. Ad essi ci si riferisce quando si nomina l'interpretazione o, in senso lato, l'ermeneutica di un'opera1. Ordunque, partendo dal livello formale, per poi comunque approdare al piano contenutistico, vi sono da fare alcune osservazioni. Se da Essere e tempo si estrapola una ben delineata struttura dei passaggi del pensiero heideggeriano contenutovi, una struttura logicamente ferma riscontrabile per esempio nelle varie divisioni, suddivisioni e appendici del testo, ed inoltre si percepisce una sistematicità che, in genere, si dice rinviare ad una definita visione d'insieme e capacità d'analisi, lo stesso non può certo dirsi riguardo ai Contributi. Al primo impatto quest'ultimo testo ci appare piuttosto frammentario, quantomeno non sistematico. Ciò non solo a causa della titolazione dei capitoli e dei molti paragrafi, che in questo risultano spesso piuttosto oscuri e non nozionisticamente riassuntivi, e nemmeno solamente a causa della numerazione continua e non suddivisa (la quale giunge al numero di 281) dei sopraddetti paragrafi. Quanto piuttosto nella intricata rete di rimandi (denominiamo così, per adesso, i legami interni dell'opera) che all'interno dello scritto connettono, in un confronto incessante, da un paragrafo all'altro. La lettura, perlomeno a livello nozionistico, ne viene drasticamente affaticata. Questo poiché spesso le spiegazioni contenutistiche si addensano, mutano esplicitamente di prospettiva o variano nelle proprie sfumature, ad ogni rimando. Infine, la lettura medesima, e a maggior ragione l'interpretazione, difficilmente risulta univoca, complice una necessarietà di luci ed ombre sia del pensiero 1 Ma non ci si confonda: chiariamo subito che parlare e dire sono qui essenzialmente altro da, rispettivamente, strutturazione e struttura. Per quanto, in una certa prospettiva, entrambe queste ultime dicono del parlare. Il quale non è poi indipendente ed solato dal dire in sé, tutt'altro. Ma non è ora il momento in cui un tal discorso va approfondito. 9
  • 10. che nell'esprimersi heideggeriani. Veniamo così alla conclusione, anche intuitiva, che la filosofia dei Contributi non è, né può filtrarsi tramite, una sistematicità. O quantomeno una sistematicità riscontrabile all'interno del testo stesso. Ovvero, il testo in sé non risulta proposto ed adeguato ai principi della razionalizzazione sistematica. Non a caso Heidegger avrebbe poi messo in rilievo questa peculiarità del suo pensiero (ovvero dell'apparire di tale pensiero ad un dato modo di vedere). Egli non la nasconde quando, parlando delle domande fondamentali, usa le seguenti parole: “Forse un giorno sarà possibile trovare risposta a queste domande proprio in quei tentativi di pensiero che, come i miei, si presentano come qualcosa di disordinato e arbitrario”2. Non vi è perciò da stupirsi se qualcuno giudica i Contributi, “consentaneamente a tutti i testi successivi ad Essere e tempo, -come un'opera in cui- Heidegger si spiega con un procedere rapsodico molto discosto dalla tecnicità fenomenologica”3. Dobbiamo, di conseguenza, concludere che nel suddetto testo non vi siano né strutturazione né metodo? Né, forse, una intrinseca struttura portante? Come un bisbiglio ed un invito sottovoce, è lo stesso autore ad accennarci, nei momenti ultimi del suo cammino, la veduta da cui con il pensiero, similmente che tramite lo sguardo, poter spaziare sui Contributi. Nell'ambito del pensiero “non esiste né metodo né tema, ma la contrada (Gegend) che così appunto si chiama, perché dischiude e offre (gegnet) ciò che deve essere pensato dal pensiero. Il pensiero si trattiene in quella contrada percorrendone le vie. Qui la via fa parte della contrada”4. “Il metodo non segue ciò che è propriamente via”5. 2 Martin Heidegger, Saggi e discorsi, pag. 124. Ed. Mursia, Milano 1976. Maurizio Ferraris, Cronistoria di una svolta, in Martin Heidegger, La svolta, pag. 78. Ed. il Melangolo, Genova 1990. 4 Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pag. 141. Ed. Mursia, Milano 1973. 5 Ivi. pag. 155. 3 10
  • 11. I.III LA STRUTTURA INTRINSECA DEI CONTRIBUTI1: UN INCAMMINARSI IL PENSARE COME CAMMINO O SENTIERO Più che di struttura interna, vocabolo che richiama fraintendimenti, dovremmo parlare di intrinseca disposizione. Ad ogni modo, teniamo presente che il testo, almeno nella sua elaborazione per essere tale (strutturazione), ci comunica dei “punti di riferimento”2, in cui esso si articola. Tali, definiti per ora, “punti di riferimento” verrebbero travisati nella loro significatività se venissero colti, a livello di strutturazione, come mere divisioni, cioè in quanto nomi di capitoli e titolazioni. Ciò che si distilla dai rimandi (o meglio, dalla dinamica) interni dei Contributi è la propria significatività o il proprio senso come percorso e cammino3 di un pensare (ovvero della direzione e dell'intimità di un tale pensare), che è un domandare autentico, orientato all'essere ed al suo darsi. Senza una tale conquista (fondata nell'ascolto del dire echeggiante di ciò che nel testo sono cioè dicono i vocaboli, andando “oltre” ai contenuti nel loro presentarsi come nozioni) non si accoglie il come, ovvero l'intimità, l'essenzialità della direzione dello sguardo, del pensare heideggeriano dei Contributi; tenuto ben conto che qui, di essi trattiamo. Il pensare-domandante (o meditativo), in quanto è incamminarsi cioè sentiero, rimane esplicitamente essenziale al secondo ed al cosiddetto tardo pensiero heideggeriano. Rammentiamo qui la chiara esemplarità del tornante4, e più ancora il senso “percepibile” di questa. Il quale tornante, d'altronde, non è che una possibile traduzione della parola tedesca Kehre. Infatti, “normalmente la parola indica quelle curve molto strette nelle strade di montagna...le quali, pur essendo cambiamenti di direzione, conducono alla medesima meta, la sommità della montagna... Heidegger si servì di questa metafora per indicare il mutamento di prospettiva maturato”5. Dunque, per quanto ci concerne, dalle strade di montagna 1 Cfr. la titolazione del par. 1, I “Contributi” domandano in un percorso. Cfr. Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 39. Ed. Adelphi, Milano 2007. 3 Il rimando, per questo termine e la sua significatività complessiva, è esplicitamente ed analogamente (da intendersi: come i cerchi concentrici nell'acqua allo gettare di un sasso) indirizzato all'opera Segnavia. Non a caso opera del “secondo” Heidegger, in cui la “struttura di sentiero” richiama alla significatività del testo (e in questo caso della significativa successione della significatività dei testi) medesimo. Cfr. anche la seconda conferenza, incentrata su “il cammino”, de l'essenza del linguaggio in: Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pag. 141-155. Ed. Mursia, Milano 1973. 4 È probabile che la prima immagine rappresentativa apparsa alla nostra mente sia quella del segnale stradale o della forma del cosiddetto tornante. Certo è che niente di più lontano dalla materializzazione oggettivante, funzionale e rap-presentativa del tornante è ciò cui qui Heidegger richiama. 5 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 23. Ed. Adelphi, Milano 2007. Si voglia però evidenziare come la forma metaforico-rappresentativa non si addica al pensare heideggeriano. Il termine metafora andrebbe perciò ri-pensato nella sua significatività, o sostituito, onde evitare il fraintendere. 2 11
  • 12. facilmente giungiamo ai sentieri, tanto famigliari a chi vive ed abita le folte, verdi e chiaro scure zone boscose come la germanica Foresta Nera. E proprio come sentiero o via, non nel significato di strada ma come cammino, Heidegger pone il suo pensare. Egli parla di “cammini di pensiero”6, parla del pensare come domandare che “lavora a costruire una via... la via è una via del pensiero... che l'autore ha percorso”7 e che percorrendola “provoca... una crescita”8. Se dunque i Contributi mancano di sistematicità non per questo mancano di un proprio “rigore”, di una propria forza filosofica, di una struttura intima, di una intrinseca significatività, di un dire essenziale. Tutt'altro. Ma a questo dire non ci accosteremo senza ingannarci se non come ad un cammino da percorrere, ad una filosofia che non è solamente contenutistica o meramente nozionistica ma va accolta come pensare meditativo-domandante. Senza una prospettiva di cammino o per-corso anche questo pensare heideggeriano che è i Contributi risulta a noi, per lo più, solamente un libro, ovvero libro in quanto “raccolta di saggi e discorsi”9. Da tutto ciò ne viene che, più che una premessa, queste righe sono l'accenno, l'intravedersi, di una prospettiva che chiameremo meditareinterrogante. Di tutto ciò terremo conto (sarà costitutivo) nel nostro porci di fronte ai Contributi. E verrà man mano ad emergere, ove lo si potrà vedere. Dunque in che consistono questi precedentemente denominati “punti di riferimento”? Strutturano essi il cammino di un pensare interno ai Contributi? Come essi riguardano il pensiero altro10 che ri-chiama e si incardina nella prospettiva della storia dell'Essere? Così, al terzo paragrafo dei Contributi detto Dall'evento, abbiamo già dispiegata la strutturazione del testo medesimo: “La risonanza. Il gioco di passaggio. Il salto. La 6 Martin Heidegger, Saggi e discorsi, pag. 1. Ed. Mursia, Milano 1976. Ivi. pag. 1. 8 Ivi. pag. 5. Così, ad esempio, ed in ciò empaticamente alla direzione del presente scritto,, l'interpretazione dell'allievo heideggeriano Pöggeler: “La capacità di comprendere il pensiero di Heidegger si desta solo allorché il lettore...è disposto a comprendere tutto ciò che ha letto di volta in volta come un passo verso quel “da pensare”, verso cui Heidegger è in cammino... Come avviarsi per un cammino, come essere in cammino, Heidegger ha sempre compreso il proprio pensiero”. Otto Pöggeler, il cammino di pensiero di Martin Heidegger, pag. 9. Ed. Guida, Napoli 1991. Riguardo a quest'ultima citazione (e interpretazione), il senso, da noi assunto, de “il cammino” (o porsi-incammino), ricadendo sul come, ne esce assai più incisivo per lo stesso pensiero percorrente le vicinanze dell'essere: il pensiero non è qui solamente nel cammino (come direzione), qui il pensare è come cammino-incamminarsi. Alle successive pagine l'arduo mostrare ciò. Altri riferimenti ad un pensare o poetare (essendo il legame tra i due è più che intimo) come cammino-incamminarsi, sentiero, via,si riscontrano in: Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pagg. 45, 48, 68-69, 86, 88, 91, 98, 123, 135, 141, 150, 155, 164 (i passi), 170, 189, 201, 206. Ed. Mursia, Milano 1973. E questo solamente in un opera, sarebbe inutile stilare un elenco. Non è, d'altronde, Heidegger medesimo a dire poeticamente, di coloro che compiono la propria essenza, i viandanti? Ivi. pag. 52. 9 Martin Heidegger, Saggi e discorsi, pag. 1. Ed. Mursia, Milano 1976. 10 È fin da ora opportuno chiarire che questo pensiero altro si porterà heideggerianamente a fuoco (anche) in quanto pensiero rammemorante. Rimando, solo per un esempio, a: Martin Heidegger, Saggi e discorsi, pag. 175. Ed. Mursia, Milano 1976. 7 12
  • 13. fondazione. I venturi. L'ultimo Dio”11. Innanzitutto si noti che il capitolo finale, l'Essere, nel manoscritto risulta all'inizio, quindi posto successivamente al capitolo Sguardo preliminare12. Perciò la “conclusione”, se di “conclusione” si può parlare, in quanto manoscritta essa risiede nel capitolo denominato L'ultimo Dio. Il termine “conclusione” è qui per l'appunto posto tra virgolette a significare la valenza non di chiusura ed il non concatenamento logico/causale con cui si pronuncia tale vocabolo. Ricordiamo che non è né sarà ivi in gioco un corretto processo assertivo-concettuale, ma un incamminarsi e quindi un sentiero nel suo percorrerlo; se si vuol tenere fede a ciò che è fin qui stato riportato, posto all'attenzione, ed affermato, forse detto. Noi, dal canto nostro, non mancheremo mai di rammentare tale “interna struttura” e prospettiva. Addentro la stessa ottica, la strutturazione, sopra nominata appena, non è un elenco di capitoli, né si basa solamente su interconnessioni concettuali e causali. La parvente presentazione didascalica dei capitoli è subito dissolta da Heidegger stesso: “l'abbozzo del piano di questi Contributi ai fini della preparazione del passaggio è tratto dal piano fondamentale, ancora incompiuto, della storicità del passaggio stesso... Si tratta di una schizzo preliminare dello spazio di azione del tempo che solo la storia del passaggio crea in quanto proprio regno”13. Se nel passaggio cui si accenna è in gioco l'originarietà di ciò che è iniziale, ovvero ciò che si delineerà come l'altro inizio, nel suo legame con il primo inizio14, nella parola storicità è da intra-vedersi il richiamo (quantomeno heideggeriano) alla storia dell'essere a cui (in cui) il pensiero si deve con-formare. Qui storicità non ha nulla di storicistico, e men che meno di storiografico, essendo quest'ultimo, in quanto materia di scienza, scaturito e costituito dall'orizzonte denominato da Heidegger metafisica, o il dominante. I sei “punti di riferimento”, o fughe15, o disposizioni16, riconoscono la, ed echeggiano della, storia dell'Essere come orizzonte del domandare heideggeriano. Essi accennano all'evento17, dicono del passaggio in quanto passare posto fra gli inizi (il primo e l'altro). Tale passaggio si dà in un cammino, si dà come incamminarsi: “i Contributi domandano in un percorso che si apre solo attraverso il passaggio all'altro inizio”18. Abbiamo qui rinvenuto: passaggio, altro inizio, primo inizio, evento, storia dell'Essere. Ecco, per adesso solo nominalmente, l'orizzonte aprentesi a ciò 11 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 39. Ed. Adelphi, Milano 2007. Ivi. pag. 21. 13 Ivi. pag. 36. 14 “Il primo inizio resta decisivo in quanto primo, eppure è superato in quanto inizio”. Ivi. pag. 36. 15 Ivi. pag. 20. 16 Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, pag.420. Ed. Morcelliana, Brescia. 17 Dall'evento è il titolo del sopra citato par. 3 dei Contributi, nonché titolo essenziale dell'opera medesima. 18 Ivi. pag. 34. 12 13
  • 14. che è la Kehre. Le sei fughe rimangono, però, fin qui da noi non approfondite. Per farlo ne parleremo singolarmente, pur rammentando il cammino loro soggiacente e, il che è lo stesso, l'orizzonte in cui esse affiorano, emergono. L'intima struttura (o disposizione) dei Contributi è ciò che dev'essere (e deve esserci a noi) posto di fronte guardando codesta opera medesima. Concordemente a ciò, la presenza di un (heideggeriano) pensare come incamminarsi o “permanere nella via” (Unterwegs) è rilevato, e forse accolto, anche nella rielaborazione del pensiero dello Heidegger contenuta nel saggio di Vattimo19. In ultimo. Il percorrere non potrà certo essere quello dei Contributi. Non si vuole ripetere il testo, alla maniera dei pappagalli. Bensì ne si vuole dire (...ed in tale discrepanza è essenzialmente: linguaggio). Ma l'accento e la significatività di codesta ultima frase cadono e si pongono nel dire, ed assolutamente non nel volere (che parrebbe essere, in questo caso, nostro). Indi per cui il percorrere sarà, nel presente scritto, ben più accidentato rispetto all'opera a cui siamo posti di fronte; ed innanzitutto lo sarà nei confronti del pensare come cammino compiutosi in quanto sei “punti di riferimento”, o altrimenti detti le sei fughe. Ma il dire che focalizza permane un pensare come cammino che giunge (con ed in chi si incammina) nel (il complemento “dal” evocherebbe, più facilmente, altro rispetto ciò cui essenzialmente si va or ora facendo cenno) primo inizio all'altro inizio. Primo inizio. Altro inizio. Cosa vi è di più pensare come cammino dell'incamminarsi che giungendo al primo permane nell'altro. Soprattutto nell'attimo in cui “noi” ci mostrassimo costitutivamente appartenenti in e ad esso. E parlo al singolare poiché di “due” non se ne può (più) dire. Anche se di “due” scriveremo durante tutto il presente scritto, durante tutto il nostro percorso. Si è or ora asserito: “soprattutto nell'attimo in cui “noi” ci mostrassimo”. Ma a noi dunque, ivi nello scrivere codeste pagine, cioè nel percorrere, molto dev'essere mostrato. 19 Cfr. efficacemente: Gianni Vattimo, Essere storia e linguaggio in Heidegger, pagg. 193, primo capoverso, e 223, ultimo capoverso. Ed. Marietti, Genova 1989. 14
  • 15. APPENDICE ERMENEUTICO-INTERPRETATIVA1 (RIGUARDO LA KEHRE A noi, l'accordato rango dei Contributi in quanto opera “di mezzo”, magari di congiunzione, ma anche opera prima e fondante nell'Heidegger cronologicamente secondo, permette senza forzature di accogliere quelle assonanze e analogie con i conseguenti o seguenti “sviluppi”, percorsi o pensieri intrapresi, del medesimo autore. Soprattutto là dove la terminologia dei Contributi trova riscontro. Sforzandoci in tal modo, senza però obbligatoriamente limitarci a cotale modo, di permanere all'interno dell'orizzonte del pensiero heideggeriano e della sua direzione. Qualunque cosa ciò significhi. Insomma, guarderemo alle cronologicamente successive opere e scritti con sensibile interesse, occhio acuto ed orecchio pronto all'ascolto. Ma questo atteggiamento non è affrontabile in chiave meramente cronologica, cioè tramite un filtro temporale-causale. L'importanza filosofica (questo, per ora, almeno, è il nostro piano) dei Contributi risiede infatti nell'esplicazione (anch'essa a livello filosofico) della Kehre, delle contrade che questa, diciamo, apre al pensare heideggeriano. Il “fallimento” di Essere e tempo sarebbe decretato dalla sua non prosecuzione e non conclusione2. Qui, in breve, e necessariamente in forma riduttiva, diremo che da tale situazione di “stallo” il filosofo di Meßkirch sa “uscirne” solo dopo alcuni anni trascorsi dalla pubblicazione della sua opera capitale. Ciò viene testimoniato limpidamente quando, proprio scrivendo sulla mai trascritta terza sezione della prima parte di Essere e tempo, egli dice: “Qui tutto si capovolge. La sezione in questione non fu pubblicata perché il pensiero non riusciva a dire in modo adeguato questa svolta (Kehre) e non ne veniva a capo con l'aiuto del linguaggio della metafisica”3. A sostegno della non forzatura della nostra affermazione sulla essenzialità della Kehre nei Contributi, e per accostarci alla significatività intima della citazione appena riportata, interviene innanzitutto ciò che è la svolta stessa. Il significato della Kehre, fondante4 e, come si è intravisto, in quanto tale fin dall'inizio permanente nel pensiero del cosiddetto secondo Heidegger, ri-chiama un essenziale unico (da intendere: avente medesima direzione) pensiero-domandante. Che esso ora possa apparire come carsico non deve stupirci. Anzi, svolta ci indica anche, infatti, un “moto” di repentino e coinvolgente cambio di direzione e 1 Scriviamo ermeneutico-interpretativa per distinguere e lasciare spazio alla significatività propriamente heideggeriana del termine ermeneutica. Quest'ultima, trattandosi il presente saggio di uno scritto sullo Heidegger, verrà per cui evocata con il solo termine ermeneutica, senza alcun'altra precisazione. 2 Come era, invece, negli intenti di partenza. Vedasi, riguardo alla famigerata terza sezione della prima parte: Martin Heidegger, Essere tempo, pag. 56. Ed. Longanesi, Milano 1971. 3 Martin Heidegger, Lettera sull'”umanismo”, pag 52. Ed. Adelphi, Milano 2002. Si ponga riguardo alle note, non è difficile coglierne un uso linguaggio prossimo a quello dei Contributi, e più aderente al dire di quest'opera. 4 Non in accezione causale. 15
  • 16. tensione. Grazie a ciò possiamo scorgere che l' essenzialità della svolta si pone già, è, a fondamento di Essere e tempo. Ma ivi non sa forse ancora parlarsi: in questo testo il suo dire resta non-detto, pur nella tensione che lo caratterizza. É nei Contributi che il medesimo dire trova forse una voce che sa parlarne. Ovvero trova, il che è lo stesso, un pensare che tende a vibrare all'unisono di tale dire (o heideggerianamente: un pensare che è il dire soggiacente alla svolta in quanto come tale sorge e appare). Ci riferiamo a quel, cosiddetto, pensare inerente la (da comprendere: che si avvia nella) storia dell'essere. Storia dell'essere viene spesso denominato il pensiero del secondo e tardo Heidegger. Ciò starebbe a segnare il “passaggio dalla prospettiva ontologica fondamentale a quella della storia dell'essere”5, ritenuta, per l'appunto, successiva. Dunque, se questa “seconda via risulta da una trasformazione immanente della via dell'ontologia fondamentale”6, noi sottolineiamo con vigore che è “evento la parola fondamentale di Heidegger lungo la seconda via di elaborazione della domanda fondamentale sull'essenza dell'essere: la via della storia dell'essere”7. La permanenza e permeanza della Kehre come pensiero appartenente alla storia dell'essere è testimoniata chiaramente dallo stesso pensatore di Meßkirch. In una nota, risalente all'edizione del 1949, contenuta nello scritto Lettera sull'”umanismo”, troviamo le seguenti parole: “ciò che qui si dice -da notarsi il si dice e non, per esempio, è scritto, oppure, su cui si parla- non è stato ideato solo al tempo della sua stesura, ma si basa sul corso di un cammino che fu iniziato nel 1936, nell'”attimo” di un tentativo di dire in modo semplice la verità dell'essere”8. Tale “attimo” ri-chiama e testimonia l'esperienza9 di ciò che è qui detto svolta (Kehre). La appena intravista dis-posizione e configurazione filosofica della Kehre come un cammino, unita alla comparsa del termine evento10, con la sua essenzialità11, ci riportano, in uno slancio, ai Contributi. 5 F.-W. Von Hermann, La metafisica nel pensiero di Heidegger, pag.45. Ed. Urbaniana University Press, Roma 2004. 6 Ivi. pag. 23. 7 Ibidem. 8 Martin Heidegger, Lettera sull'”umanismo”, pag. 29. Ed. Adelphi, Milano 2002. 9 Questo termine, nella significatività datagli da Heidegger, verrà chiarito in seguito.䩃 10 “Il pensiero è dell'essere in quanto, fatto avvenire (ereignet) dall'essere, all'essere appartiene”. Ed in nota: “...dal 1936 “evento” (Ereignis) è la parola-guida del mio pensiero”. Martin Heidegger, Lettera sull'”umanismo”, pag 35. Ed. Adelphi, Milano 2002. 11 Essenzialità da subito emergente in chiara luce all'interno dei Contributi, nel primo ed iniziale (e non numerato) par. Il titolo pubblico: “Contributi alla filosofia” e Il titolo essenziale: “Dall'evento”. Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 33. Ed. Adelphi, Milano 2007. 16
  • 17. II PREMESSA Non è intento di questo scritto dare un panorama specifico ed esaustivo del pensiero heideggeriano o del corso della sua filosofia, sia che l'impegno di dare un tale panorama venga svolto in maniera storicistica sia che il suo svolgimento richieda ben altro. In una parola, a noi interessa il pensare heideggeriano. Se poi il pensiero dello Heidegger, nel suo non essere un sistema o una dottrina, giace interamente nel pensare heideggeriano (nel suo dire, come noi percepiamo e sosteniamo), ciò è cosa che verrà intrinsecamente a mostrarsi (non: dimostrare). Per quanto i punti e le tematiche che verremo ad affrontare, cioè quelle presenti nei Contributi, contengano impliciti rinvii con i momenti sia precedenti che successivi del pensiero heideggeriano, non ci impegneremo nel rischiarare tali momenti ed i loro legami. La dedizione del percorso di approfondimento che qui viene a trascriversi è data ai Contributi ed al pensare, tanto emergente quanto al contempo soggiacente, in (e di) quest'opera. Ora, più sopra lo si era preventivato, ciò non significa che non ci dilungheremo in descrizioni o chiarimenti, citazioni o riprese sia del pensare heideggeriano precedente, e nel pensare heideggeriano precedente, che successivo. Cioè, ove un qualche bisogno di comprensione o confronto (più che altro sul piano filosofico-speculativo) ci spinga, illumineremo taluni dati momenti dell'Heidegger antecedente o susseguente. Anzi, ciò è in certo qual modo connaturato alla struttura di scritto (tesi) che il presente insieme di fogli comporta. Ma risulta invece spesso necessario innanzitutto per il rischiararsi dei Contributi e solo “indirettamente” della filosofia che lo Heidegger apporta. Inoltre, il testo a cui ci siamo posti di fronte, leggendolo non si hanno fondati dubbi a riguardo, ha un ché della monade, di conchiuso in sé, tanto nel suo linguaggio quanto nella sua significatività, cioè nel suo dire. Tale caratteristica non significa però non ambiguo, nozionisticamente corretto, in sé compiuto, concluso1. Anzi! A ben vedere, il senso in cui ora viene menzionata la parola “conchiuso” si può maggiormente avvicinare alle caratteristiche inverse. Ciò non di meno, si è qui fermamente “convinti” che non vi siano cesure nel pensare heideggeriano (nel pensare, non nella esplicita “costruzione filosofica”). Ribadiamo: non si mancherà di accennare, risvegliare, e fondare, tal volte nascostamente tal altre no, codesta nostra convinzione, ove sia necessario e possibile farlo. Insomma, i rischiaramenti di questo nostro scritto riguardano il pensare dei 1 A tal proposito cfr. Gianni Vattimo, Essere storia e linguaggio in Heidegger, pag. 199 Ed. Marietti, Genova 1989. 17
  • 18. Contributi. Ciò, per noi, in un modo o nell'altro ma comunque, significa che codesti rischiaramenti essenzialmente già ri-guardano l'interezza e l'unità del pensare heideggeriano (qualsiasi cosa quest'ultimo si riveli essere). Dunque, ed al contempo nonostante ciò, sul piano teoretico-speculativo molti “nessi” tra un cosiddetto primo ed un cosiddetto secondo Heidegger rimangono ulteriormente non contestualizzati, non vagliati, non approfonditi, né nella loro possibile disgiunzione né nella loro possibile unitarietà. Quest'ultima premessa è generalmente valida per tutto il presente testo. Infine rammentiamo la prospettiva delineata: il pensare, dei Contributi, come incamminarsi; un pensiero come sentiero/i o via, uno stare-permanere (Gang) in tale via (Weg). 18
  • 19. II.I SU LA RISONANZA Risonanza si dice di qualche cosa che ri-suona. La risonanza è eco. Eco di cosa? Non certo di un qualcosa. Allora, eco come? Eco dell'essere. L'inizio del capitolo La risonanza ci dà la possibilità, fin da subito, di non vacillare su ciò che, da noi prima chiamato “punto di riferimento” all'interno della strutturazione dei Contributi, Heidegger vuole portare alla parola. La risonanza è “dell'essenziale permanenza dell'Essere”1. Risonanza è ri-chiamare di questa essenziale permanenza medesima. In un tale ri-chiamo risuona la chiamata di chi ode. Il ri-chiamare, di cui ora siamo a tentare di parlare, chiama in quanto risponde e con ciò l'inverso. Ma con questo cosa si ha da intendere?2 Si osservi: riguardo questa vicendevole inversione del chiamare e del rispondere, con che significatività essa andrà accolta? Essa avanza e dice il come di chiamare e rispondere, mai il causale perché. Inoltre, riguardo la costruzione di questa ultima frase: se il soggetto di essa, di tutto ciò che va proponendo, rimane non definito e non univoco non è per casualità. Eppur questo non ci rassicura, difatti la nostra usuale logicità potrebbe rimanerne turbata. Meglio! Se pensiamo ad un soggetto oggettivante, o comunque ad una prospettiva ove già-da-sempre emerge un soggetto in quanto tale, non faremo altro che allontanarci da ciò che in, e con, risonanza si porta a dire. “ Qui non si deve descrivere né spiegare né disporre in un ordine qualcosa che sia lì presente”3. Ed ora, proseguendo, lasciamo pure fermentare in noi, senza scandalo né rimpianti, l'introduttiva conturbante “vaghezza” di queste ultime righe. Il chiamare e l'udire richiamante emergono nel ri-chiamo. Ma come può tale ri-chiamo darsi a comprendere? Addentro o attraverso quali sfumature esso risuona? Qual'è la sua tonalità, la sua melodia? Come il chiamare e l'udire richiamante odono il ri-chiamo che è la risonanza? Tali punti interrogativi or ora trascritti sono il domandare che ci guiderà nelle prossime pagine. Come una voce nell'acqua si propaga ovattata, eppur, la medesima, tra alti monti echeggia limpida, così la risonanza ha un'orizzonte proprio nel e dal quale emergere per sì ri-chiamare (ri-chiamare. Il che è qui lo stesso di: nell'udirne l'eco, essendone l'eco, essere così chiamata, tale risonanza, dall'udente). Ove, quindi, spazia l'essenziale permanenza dell'Essere come risonanza? “La risonanza... verso dove? La risonanza dell'essenziale 1 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 127. Ed. Adelphi, Milano 2007. “La risonanza... che suono ha?” Ivi. pag 128. 3 Ivi. pag.128 2 19
  • 20. permanenza dell'Essere nell'abbandono dell'essere”4. Con questa frase Heidegger dove ci introduce ed induce? L'abbandono dell'essere è, in un certo qual modo, l'oggi5. Meglio, l'odierno dominante. Ma non in senso storiografico, né sociale, men che meno in accezione metastorica! Nell'abbandono dell'essere va a confluire, sotto rinnovata luce, il progetto heideggeriano di una decostruzione della metafisica6. L'abbandono dell'essere è la storia (non storiograficamente intesa) dell'Occidente. Storia che l'attuale mondo, noi pienamente compresi, è. Si noti: ciò sta ad indicare, per adesso solo a titolo informativo, che tutti gli approfondimenti e gli studi dello Heidegger compiuti sulla storia della metafisica-filosofia occidentale, da La dottrina platonica della verità al Nietzsche, trovano nel “movimento” dell'abbandono dell'essere, essendo quest'ultimo speculativamente portato al pensiero dall'Heidegger secondo, il proprio rinnovato luogo. Dunque qui, l'abbandono dell'essere è accolto, possiamo dire, come l'humus da cui può ergersi la risonanza. Ma per il pensatore che dice della risonanza, l'avere portato al pensiero l'abbandono dell'essere (e lo stato in cui quest'ultimo dis-pone) significa l'avere accolto già la risonanza medesima. L'avere accolto già la risonanza medesima, il che è lo stesso che dire, l'echeggiare della risonanza. Ma in quale stato l'abbandono dell'essere dis-pone? Heidegger ce lo indica; purché non si intenda in modalità oggettivizzante l'appena utilizzato termine: stato. Bisogna dire che l'abbandono dell'essere dis-pone nella “dimenticanza dell'essere”7. La dimenticanza è il “modo velato”8 del darsi dell'abbandono dell'essere. Ma, come altrove, se heideggerianamente intesi, abbandono e velatezza non apportano un malus, una pura negatività, men che meno incorporano un giudizio assiologico. Non per nulla a cotale velatezza “corrisponde... una comprensione dominante”9. Ovvero, quest'ultima, questo comprendere, è quello dominante nei confronti dell'essere. Come si articola questo comprendere che, a noi, appare, “in ultima istanza”, come abbandono dell'essere? Puntualizziamo: qui ci si riallaccia nuovamente ed intimamente alla storia 4 Ivi. pag.127 “L'”oggi” – non calcolato secondo il calendario, né secondo le vicende della storia mondiale – si determina in base al tempo più proprio della storia della metafisica: è la determinatezza metafisica dell'umanità storica”. Martin Heidegger, Il nichilismo europeo, pag. 314. Ed. Adelphi, Milano 2003. 6 In Essere e tempo. Qui la decostruzione metafisica si fa, seppur brevemente, esplicita in quanto progetto filosofico. A questo riguardo si rimanda a: Martin Heidegger, Essere e tempo, pagg. 13 e 36. Ed. Longanesi, Milano 1971. Nei Contributi. Per quel che concerne la tematica della risonanza, riferimenti alla storia della filosofia (fino, e compresa, la scienza moderna) occidentale ed ai passaggi della, a questa inerente, visione metafisica spuntano in tutto il capitolo secondo: La risonanza. Essi sono strettamente legati alla tematica dell'abbandono dell'essere. Nel testo appena citato ne troviamo, a titolo d'esempio: a pagina 130, 131, 135, 144, 157 158. 7 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag 135. Ed. Adelphi, Milano 2007. 8 Ivi. pag.135 9 Ivi. pag.135 5 20
  • 21. dell'Occidente o metafisica, nel significato di questi a monte brevemente intravisto. Se ora nulla ci vieta di affermare che nella comprensione a tutt'ora dominante dell'essere valgono come intoccabili e oggettivi i caratteri della generalità e dell'ovvietà10, caratteri che ricordano in modo aderente il paragrafo primo di Essere e tempo11, e che l'annunciarsi dell'abbandono, che è dimenticanza, si articola in più modalità (anche estremamente quotidiane)12, dobbiamo però non lasciar scorrere via dalla vista il nostro “punto di riferimento”, cioè la risonanza. La domanda riguardo l'articolarsi su quel comprendere che noi qui richiamiamo con il termine dominante va posticipata. Comunque sia dobbiamo tenere fermo al nostro pensiero l'abbandono dell'essere (e sincronicamente la dimenticanza dell'essere) nel suo legame con la risonanza. Fatto ciò, dobbiamo immergerci nuovamente nella posizione da cui abbiamo preso le mosse, quindi: dove o in che modo ci può essere reso più nitido ciò che, con il termine risonanza, Heidegger porta alla parola? Oppure, almeno, ciò che ostacola una tale comprensione, ed anche l'ascolto dell'eco? Nel capitolo di cui trattiamo si evidenzia in altro modo, per “altra strada”, quel legame con l'abbandono dell'essere che costituisce la risonanza. Quest'altro modo si fa strada ove si viene a parlare della necessità. “L'abbandono dell'essere è l'intimo fondamento della necessità dell'assenza di necessità”13. Quest'imperativa necessità dissimula il suo svolgersi e radicarsi; nel mentre, così facendo, dissimula sé medesima in quanto necessità. Ovvero, nell'abbandono dell'essere, la necessità di concepirsi al-di-fuori di ogni luogo ove regna una necessità si presenta, in quanto dissimulatrice di necessità, come qualcosa che non ha il carattere della necessità. In che modo ha da articolarsi un tale presentarsi dissimulante? Meglio, “dove”, in che luogo, lo si può scorgere? Premettiamo, ciò viene indicato da Heidegger, purché non si com-prendano i termini dissimulazione e presentarsi in prospettiva dualistico-metafisica, cioè come antagonisti rispetto “a ciò che realmente è” (a come stanno davvero le cose). In ultima analisi: purché non ci prema la correttezza non contraddittoria delle asserzioni. “L'abbandono dell'essere si cela -ed in questo celare non è da cogliersi un qualcosa puramente negativo, ma una pienezza- nella crescente valenza del calcolo, della velocità e della pretesa di ciò che ha il carattere di massa. In questo occultamento si nasconde- per le parole occultamento e nasconde dicasi lo stesso che è stato detto per il celare- l'ostinata malaessenza 10 Cfr.: Ivi. pag.136. Necessità di una ripetizione esplicita del problema dell'essere, Martin Heidegger, Essere e tempo, pagg. 14 e 15. Ed. Longanesi, Milano 1971. 12 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pagg 136 e 137. Ed. Adelphi, Milano 2007. 13 Ivi. pag.138. 11 21
  • 22. dell'abbandono dell'essere e lo rende inattaccabile”14. Con questi rimandi alla pretesa onnicomprensività e alla valenza oggettivante del calcolo, nonché alla velocità, Heidegger introduce la tematica della macchinazione e del gigantesco15. Questa tematica merita una trattazione a parte, per cui ora non verrà approfondita nelle sue caratteristiche. Ciò nonostante dobbiamo anticipare che nella macchinazione e nel gigantesco si ha la fisionomia del dominante nell'epoca attuale. È l'ultima “trasformazione” della visione metafisica, attualità dell'Occidente (questo non in senso politico-geografico). Il legame tra la modernità (Occidente) e le sue diramazioni (scienze, logica-logistica, tecnica, storicità storiografica, quotidianità, ecc...), e l'oblio dell'abbandono dell'essere si trova già presentato ne Introduzione alla metafisica16. Quel che a noi preme è comprendere che nella necessità dell'assenza di necessità ogni autentico domandare viene meno, e con esso ogni autentico pensare, ovvero ciò che Heidegger chiama, e soprattutto chiamerà nei suoi scritti più tardi, pensare meditativo17. Dunque, l'elusione della necessità dell'assenza di necessità si innerva. Al suo innervarsi, che è l'oggi, viene dato anche il nome più essenziale di nichilismo18. Termine assai fraintendibile, tenendo conto del suo uso all'interno della filosofia e della storia moderne. Anche la caratterizzazione heideggeriana del nichilismo non potrà ivi, enucleando, venire approfondita. Ri-volgiamoci, presto e nuovamente, alla risonanza ed a ciò che tale termine dice. Abbiamo accennato all'humus da cui può ergersi la risonanza, abbiamo anche, e solamente, nominato la sua provenienza. Ma ancora non siamo giunti a parlare di un aspetto essenziale della risonanza. Essa, diciamo momentaneamente, si “accompagna” ad uno stato d'animo guida: “sgomento e pudore, che però scaturiscono sempre dallo stato d'animo di fondo del ritegno”19. Stato d'animo? In che modo accettare queste parole? “Lo stato d'animo dispone l'esser-ci e dunque il pensiero in quanto progetto della verità dell'Essere in parola e concetto... Se manca lo stato d'animo tutto non è che un artificioso strepito di concetti e di parole 14 Ivi. pag.139 Esplicitamente, Ivi. par. 61 e par. 70 16 Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, pagg. 47-49. Ed. Mursia, Azzate (Varese) 1990. Il tono di codeste pagine può facilmente essere con-fuso nella retorica storicistica. 17 O pensare rammemorante, o interrogante. Il termine meditazione compare al par. 75 dei Contributi. Esso incorpora il taglio prospettico di un pensare che approfondendo sprofonda e si slancia nell'accogliere-cogliere l'Essere in ogni qualcosa, ed anche ove non vi è un qualcosa. Questo “temperamento” del “secondo” pensare heideggeriano emergerà esplicitamente più volte ancora, così venendo, per nostro vantaggio, a focalizzarsi sul piano filosofico. Il pensare rammemorante, in Heidegger, ha anche altri nomi. Nomi che lasciano emergere altre sfumature del medesimo pensare. Più avanti, in questo scritto, tutto ciò sarà ripreso più volte, e fin dove possibile approfondito. 18 Cfr. par. 72 dei Contributi alla filosofia (dall'evento) 19 Ivi. pag. 127 15 22
  • 23. vuote”20. Come è da comprendersi ritegno, ovvero ciò ove si riassorbono sgomento e pudore, stato d'animo guida della risonanza? Ritegno è “stato d'animo preliminare della prontezza per il rifiuto in quanto donazione. Nel ritegno domina, senza che quel retrocedere -il rifiuto in quanto donazionesia eliminato, il rivolgersi verso l'indugiante negarsi quale essenziale presentarsi dell'Essere”21. Da dove arrivano il rifiuto (in quanto donazione) ed il negarsi (indugiante, e “dell'”Essere)? Dicono lo stesso? Probabilmente essi dicono dello stesso “movimento”. La seguente frase, estrapolata e mutila, dice essenzialmente più di quanto, interamente, non voglia affermare: “il ritegno fa sentire che l'Essere “si sottrae” all'uomo”22. Per quanto uomo permanga qui, forse, il termine più fraintendibile. Dove ci portano il “sottrarsi”, il rifiuto, il negarsi? Qui: “La risonanza dell'Essere come rifiuto”23. Così, a testo appena cominciato, nel paragrafo tre, Dall'evento, del primo capitolo. Titolazione, questa del paragrafo, che non può rimanere indifferente. La risonanza, nel suo ri-chiamo, nell'eco, avviene ergendosi dall'abbandono dell'essere (scorto “addentro” alla dimenticanza dell'essere ed all'eludente ramificarsi di questa), se tale abbandono è fatto proprio, ovvero colto-accolto, come essenziale permanenza dell'Essere. L'abbandono dell'essere diviene (ha a darsi) sentiero evocante l'essenziale permanenza dell'Essere. Ma di questi ultimi, che non sono nient'altro che accenni, si dirà solo in seguito. È nel cogliere, o “fare esperienza”24, l'intima pienezza del rifiuto (o meglio, il rifiuto come intima pienezza) che risuona l'echeggiare della “Risonanza dell'essenziale permanenza dell'Essere”25. Ma “prima” è da cogliersi (cogliere-accogliere) l'abbandono dell'essere in quanto rifiuto, e “prima ancora” l'abbandono dell'essere in quanto tale, cioè la dimenticanza dell'essere ed il suo dissimulare (con tutte le ramificazioni che questo “moto” comporta, che cioè può espletare e configurare). Questi “prima” verranno speculativamente tentati, trascritti, nei successivi paragrafi. Dobbiamo far notare come l'essenziale permanenza sia già, non espressamente né in quanto tale tematicamente, sorta nello Heidegger di Essere e tempo. Il legame si può, ad esempio, notare laddove si parla di una “comprensione dell'essere, propria dell'Esserci... L'essere nel mondo include in sé il riferimento dell'esistenza all'essere nella sua totalità: comprensione d'essere... Il problema dell'essere si risolve in una radicalizzazione della comprensione pre-ontologica dell'essere”26. 20 Ivi. pagg. 49, 50 Ivi. pag. 44 22 Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, pag.321. Ed. Morcelliana, Brescia. 23 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 39. Ed. Adelphi, Milano 2007 24 Ivi. pag.127 Per un approfondimento di ciò che è l'esperire in Heidegger si rimanda oltre, ad un apposito paragrafo. 25 Ivi. pag.127 26 Martin Heidegger, Essere e tempo, pagg. 24(in nota), 25 e 27. Ed. Longanesi, Milano 1971 21 23
  • 24. Lo stato d'animo del ritegno non è quindi affare della occidentale psicologia. Il ritegno come stato d'animo fondamentale non è assolutamente esperienza vissuta (con l'eccezione che questa assume all'interno della macchinazione27). Di esso si può dire che “accompagna”. Ma nemmeno; esso non accompagna nell'accezione dello “stare a fianco” di un qualcosa lì presente, né accompagna come quiddità addentro ad un qualcosa lì presente in quanto quest'ultimo abbisogni di esser accompagnato in cotale modalità. Bensì, il ritegno come stato d'animo fondamentale dis-pone. “Lo stato d'animo dispone l'esser-ci28 e dunque il pensiero in quanto progetto della verità dell'Essere in parola e concetto”29. In questa frase viene ad esserci indicata la significatività o “direzione” di un tale disporre. Il ritegno, nello specifico, è chiamato da Heidegger come ciò che è “lo stile”30 e che dà “il tono”31 al pensare iniziale, ovvero il pensiero dell'altro inizio32. Ritegno “indica appunto come il Dasein si sente, o meglio come si deve sentire, allorché si apre alla dimensione dell'altro inizio”33. Il ritegno dis-pone, introduce. Introduce dove? Noi qui rispondiamo senza additare un qualcosa nel modo della correttezza. Introduce ad (addentro a) un pensiero altro. Un pensare che è (è essenzialmente nel) dell'altro inizio. In questo dis-porre il ritegno si assona al ri-chiamo, o “movimento” dell'echeggiare, della risonanza, e lo “guida”. “Guida”, come il termine accompagna scritto più sopra, è ripieno di possibili fraintendimenti. Qui: “guida” nel senso che in un certo qual modo ne è, come in un già-dasempre, l'apripista. Oppure, lo stesso detto in altre parole e sfumature semantiche: ne è il senso d'orientamento e, al medesimo, l'orecchio teso ad udirne. Il vibrare di ciò che è risonanza, il venire ad ergersi dell'abbandono dell'essere, il dis-porre appartenente allo stato d'animo fondamentale del ritegno hanno la medesima contrada di provenienza e di “direzione”. La contrada è l'ove in cui essi, in quanto tali, richiamati emergono, ed a cui intimamente e necessariamente tendono e si volgono. È il luogo in cui sempre permangono (non perdurano!). A chi domandasse dove sia un tale posto non gioverebbe alcuna geografia, né alcuna fantasia, né capacità astrattiva, né alcuna marmorea concettualità. Eppure il “dove”, tale “dove”, ci è donato come accenno nello Heidegger, in attimi del più semplice e 27 Ivi. par. 63, 66,67,68 Esser-ci, parola che non dice lo stesso dell'esserci di Essere e tempo, verrà chiarificato oltre, in questo scritto. 29 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 50. Ed. Adelphi, Milano 2007 30 Ivi. pag. 60 31 Ibidem. 32 Questo che è qui indicato esplicitamente, cioè l'altro inizio e ciò che esso nomina, verrà ad emergere ed a chiarirsi durante il proseguire del presente scritto. Attualmente possiamo solo rinviare alla nota 14 del presente capitolo, al pensare meditativo. Anch'esso tra l'altro non ulteriormente illuminato. 33 Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, pag.320. Ed. Morcelliana, Brescia. 28 24
  • 25. tracotante34 dire. “Lo stato d'animo è il propagarsi nell'esser-ci del vibrare dell'Essere come evento”35. “La risonanza dell'Essere vuole riprendere l'essere nella sua piena permanenza essenziale in quanto evento svelando l'abbandono dell'essere”36. La risonanza; l'abbandono dell'essere e lo stato d'animo fondamentale del ritegno; essi dicono dall'evento. 34 Non esuberante o eccessivo, ma ricco di essenzialità. Un'oltre. La lucida distanza dalle sottigliezze puramente concettuali è, d'altronde, affiorata fin dagli inizi del pensiero heideggeriano, cfr. Martin Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, pag. 107. Ed. il Melangolo, Genova 1999. 35 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 50. Ed. Adelphi, Milano 2007 36 Ivi. pag. 135. 25
  • 26. II.II SUL GIOCO DI PASSAGGIO Lo sviluppo nel testo di questo “punto di riferimento” ci pone fin da subito in una sorta di imbarazzo. Si evidenzia in tal modo tutto il limite della perifrasi da noi scelta ( cioè “punto di riferimento”) per designare i diversi momenti della strutturazione dei Contributi. In codesto libro, è facile notarlo, quando incontriamo delle parole che ci potrebbero dare degli appigli teoretici o pratici, in base al nostro abituale orientamento concettuale e quotidiano, succede invece che queste stesse parole non fanno altro che dire in diverso modo rispetto al sopraccennato orientarsi quotidiano. Difatti, sia che intendiamo nel modo abituale, sia che abbiamo assorbito un minimo di heideggeriana confidenza speculativa con ciò che viene detto nell'espressione “stato d'animo guida”, in entrambi i casi comunque non ci sentiamo propriamente ambientati o rimaniamo addirittura increduli e disorientati nel momento in cui leggiamo: “Lo stato d'animo guida: la voglia di superamento degli inizi interrogandosi a vicenda”1. La comprensione di ciò non è questione di neologismi. E allora...Come? Ciò che guida sarebbe: voglia di superamento? Sarebbe: in quanto voglia di superamento? Guida chi? Guida noi? Con un generico noi come risposta non diciamo niente di davvero rilevante. Invece diremo, per ora, guida nel senso di ciò che ci mostra una via, di ciò che accompagna, ed accompagna intrinsecamente, il nostro pensiero, il nostro domandare. Noi diremo, dunque, che qui il nostro pensare domandante2 è in quanto accompagnato intrinsecamente. Ma tale suo essere in quanto accompagnato intrinsecamente, qui in codesta citazione, viene detto nelle parole: la voglia di superamento degli inizi interrogandosi a vicenda. Difficile accingerci a tale frase in senso pratico, ma nemmeno in senso speculativo-concettuale risulta agevole appropinquarsi ad essa. Ciò che in tale frase viene detto non è un'etica pratica, una constatazione psicologica, e nemmeno una asserzione informativa mirante alla corretta definizione dello stato d'animo 1 2 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 181. Ed. Adelphi, Milano 2007 O pensare interrogante, oppure pensare essenziale (cfr. Martin Heidegger, Che cos'è metafisica?, pag. 81. Ed. Adelphi, Milano 2001). Ricordiamo al lettore essere queste le sfumature della disposizione del pensiero in Heidegger. Il rimando esplicito a tale caratteristica d'altronde si trova nelle righe successive, a quelle appena citate, dei Contributi. 26
  • 27. fondamentale in questione. Né una dottrina nella sua forma teorica. Essa invece dice propriamente del gioco di passaggio. E con ciò? Con ciò tutto e niente ci è rimasto. Ma tale tutto e niente o non ci ri-chiama e scivola via dal nostro sguardo come mera irrilevanza, oppure ci spiazza nel non lasciarci orientati, ovvero ci dis-pone ad un domandare che è un ascoltare. Ad un meditare verso ciò che può, così, venirci incontro. Quel che spiazza nel non lasciare orientati, come anche quel che stupisce scuotendo dalle fondamenta (θαùμα), è forse già una preparazione di ciò che ci appare come l'inaspettato, dell'insolito, nel suo avvicinarsi. Risulterebbe prematuro addentrarci oltre nei confronti di un tale inaspettato. Attualmente più pressante, al fine della delucidazione del passo citato, è cercare di cogliere cosa siano gli inizi all'interno della frase da cui abbiamo preso le mosse con una cascata di domande. Il rinvio, ovviamente, è ai cosiddetti primo inizio e altro inizio, da noi precedentemente di sfuggita incontrati. Ma poiché qui è in questione “il confronto della necessità dell'altro inizio dalla posizione originaria del primo inizio”3 non possiamo esimerci dal rischiarare ciò che gli inizi indicano. Anche se in seguito verranno ripresi e nuovamente approfonditi più volte, essi sono sì intimamente impastati con le cosiddette sei fughe che dobbiamo approssimarci ad un loro, seppur mai sufficiente, chiarimento. Ma, ci avviamo in un tale chiarimento partendo non esplicitamente dagli inizi, bensì dagli aspetti latenti della inizialità che a codesti inizi inerisce necessariamente. Quindi, per approssimarci con il pensiero alla inizialità appena menzionata, provvisoriamente formuleremo queste domande: “dove” iniziano (ove risiedono)? Come iniziano? Che “cosa” iniziano? Ciò non significa che queste domande avranno una risposta. Tant'è vero che, complici le virgolette, logicamente stridono un poco. Meglio così. Esse infatti non domandano come chi domanda di una risposta assertiva avente carattere di correttezza. Il loro domandare vorrebbe portarci, quantomeno tematicamente (cioè per lo meno attraverso la filosofia come generalmente intesa), semplicemente nei pressi di ciò che lo Heidegger speculativamente (questo è ancora per l'appunto il piano in cui prevalentemente vogliamo muoverci) apporta nominando tali inizi. Innanzitutto, anche in ciò che il gioco di passaggio dice vanno a confluire le numerose tematizzazioni heideggeriane riferite alla storia della metafisica (questo si può notare esplicitamente nei paragrafi 91, 93, 97, 99, 102, 103, 104, 105, 106, 108, 109, 110, 112 dei Contributi), nonché quelle rinvianti al pensiero ontologico fondamentale (si veda, per esempio, la ripresa della differenza “ontologica”4). Per cui, premettiamo: il gioco di 3 4 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 181. Ed. Adelphi, Milano 2007 Ivi pag. 215 27
  • 28. passaggio si lega essenzialmente al pensiero occidentale ed alla sua storia, i quali non sono altro che storia metafisica (storicizzarsi della metafisica). Ma non si giunga a ingannevoli quanto logicamente spontanee opposizioni. Che l'heideggeriano gioco di passaggio sia essenzialmente legato alla storia del pensiero occidentale, significa che né il gioco di passaggio è aggiunta “di qualcos'altro” rispetto alla metafisica né che la metafisica e l'intera storia della metafisica si muovono “al di fuori” dell'orizzonte ove essenzialmente risiede e può darsi ad avvenire il gioco di passaggio. A tale significatività diamo il nome di coappartenenza degli inizi. “Evidenziazione reciproca della domanda metafisica sull'essere -come domanda del primo inizio della storia dell'essere- e della domanda sull'essere appartenente alla storia dell'essere -come domanda dell'altro inizio della stessa storia dell'essere. L'unità, in cui entrambe le figure della domanda sull'essere si coappartengono essenzialmente,”5 è l'orizzonte medesimo in cui va colto l'heideggeriano gioco di passaggio. Questo orizzonte, la coappartenenza degli inizi, è, heideggerianamente parlando, storia dell'essere. Diciamo anche che questa coappartenenza può con-figurarsi come disposizione in un equilibrio di luminosità ed ombre, ovvero aperture disvelanti ed oblii velati (ma su una tale configurazione ritorneremo meglio in seguito). È comunque probabile che momentaneamente venga più facile orientarsi sulla parola coappartenenza. Per cui a questo termine ci riferiremo. Così come luminosità ed ombre richiamano logicamente spontanee opposizioni, anche l'altro dell'altro inizio, rispetto al primo inizio, richiama il contrario di ciò che comunemente si può indicare con il vocabolo coappartenenza. Cos'altro poter concepire dell'alterità? Alterità non è forse un rapporto, in qualche sua forma, di negazione? Almeno nel nostro caso, il primo e l'altro dei rispettivi inizi possono indurre a pensarlo. Si tratta qui di ri-pensare questa negazione (negation), ri-pensare il suo no. Ri-pensare questa negazione, al di là della logica di non contraddizione, della causalità e del processo dialettico, significa per Heidegger coglierla in senso originario. “Questa negazione (verneinung) originaria è piuttosto dello stesso tipo di quel rifiuto che rinuncia ad accompagnare ancora... Tale negazione... si sviluppa nel liberare il primo inizio e la sua storia iniziale e nel riporre ciò che in tal modo è liberato nel possesso dell'inizio... Tale edificare ciò che del primo inizio si erge è il senso della “distruzione” nel passaggio all'altro inizio”6. E così è ulteriormente ap-profondito ed illuminato ciò che il pensare heideggeriano intende parlando del progetto di “distruzione”, o decostruzione, della metafisica. 5 F.-W. Von Hermann, La metafisica nel pensiero di Heidegger, pag.18. Ed. Urbaniana University Press, Roma 2004. 6 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 190. Ed. Adelphi, Milano 2007. 28
  • 29. É allora in una siffatta coappartenenza che risiede ciò che è portato alla parola nei termini svolgimento e passaggio, presenti nella continuazione della frase da cui, nel presente paragrafo, siamo partiti: “risposta alla domanda guida e autentico svolgimento della domanda guida; passaggio alla domanda fondamentale”7. Dunque, ritornando sui nostri passi di qualche riga, quindi accantonando per ora l'arrivo filosofico alla storia dell'essere, è nella storia del pensiero metafisico che riposano, come giàda-sempre, ciò che dicono le parole svolgimento e passaggio or ora nominate. Tutto questo ci porta a pensare che: la storia della metafisica porta nel grembo il rinvio ed il possibile accorgimento della coappartenenza sopraddetta; ciò che è metafisica “poggia” sulla possibilità/necessità del gioco di passaggio. Ma così, allora, la metafisica tutta è (rientra nella) storia dell'essere? Ma non affrettiamoci a giungere ad una qualche conclusione che possa definirsi tale! O molto ci sarà sfuggito. Concentriamoci, invece, sugli inizi. In base all'ultima citazione possiamo notare che allo svolgimento del primo compete una domanda guida (e l'inverso), mentre al passaggio dell'altro inizio compete una domanda fondamentale (e viceversa). Quali e come sono tali domande? Come si attesta in queste, o magari tra esse, il trapassare nominato espressamente nel gioco di passaggio? Come esse sono legate agli inizi? “Con il primo inizio il pensiero incomincia, dapprima implicitamente poi propriamente, a consolidarsi nella domanda che cos'è l'ente?”8. Ecco la domanda guida della metafisica secondo lo Heidegger. Si noti: “che cosa è l'ente?” è da chiedersi dell'enticità. Ovvero, si chiede rimirando l'enticità degli enti. Si guarda già verso una enticità, verso l'essenza dell'ente, cioè l'essere in quanto così (fisico-metafisica essenza dell'ente) intra-visto. E tale è la domanda guida della metafisica, e della sua storia che è l'occidentalità. Questo domandare è essenzialmente nella metafisica tutta, anche quando la metafisica chiede o parla espressamente dell'essere. Tale domandare costituisce, nella sua forma ultima, l'odierno dominante della scienza moderna, della tecnica e delle loro ramificazioni (su questa problematica, che merita un discorso a parte, ci concentreremo in seguito). Il medesimo domandare è essenzialmente in ogni dualità tra essere ed ente, ivi esso riposa e regna. Ordunque, passiamo alla domanda fondamentale. Essa parla a noi nella seguente modalità: “che cos'è la verità dell'Essere?”9. A tale domandare si giunge, cioè il medesimo domandare si dà, anche nella seguente modalità: “Perché in generale è l'ente e non piuttosto il Niente?”10. Non a caso quest'ultima figurazione dello stesso domandare emerge alla conclusione di una Prolusione il cui leitmotiv è la domanda: che cos'è metafisica? 7 Ivi. pag. 181 Ivi. pag. 190-191. 9 Ivi. pag. 183. 10 Martin Heidegger, Che cos'è metafisica?, pag. 114. Ed. Adelphi, Milano 2001 8 29
  • 30. Apriamo una parentesi. Da notarsi, riguardo alla domanda fondamentale (in entrambe le modalità presentate), come il dire dello Heidegger conii il termine Niente per dire (dell') l'essere. Una altrettanto intensa attenzione va posta alla parola Essere, in maiuscolo. Questi sono tentativi, dallo Heidegger sempre nuovamente rinnovati, di semantizzazione11 dell'essere. È bene accogliere tali tentativi di semantizzazione come probabile e sincronica sorgente del pensiero rivolto alla problematica del linguaggio. “Essere ed essere sono lo stesso eppure fondamentalmente diversi”12. In un certo qual modo, nel dire che questa frase ap-porta risiede lo spiraglio da cui scaturisce l'intero pensare heideggeriano. Ritorniamo alle due domande. L'autentico pensiero è per Heidegger sempre domandante. Noi, in concerto ad egli, diciamo che, addentro al pensare, un autentico mutamento di domanda è il darsi di una nuova direzione nel domandare. Ed una tensione altra del domandare è da cogliersi nella formulazione, nonché nel legame, ma ancor più nel loro senso intimo, di entrambe le domande dei rispettivi inizi. Questo senso intimo non è altro che il pensare interrogante dello Heidegger. Ed è proprio un tale mutamento o “passaggio, inteso storicamente13, ...il superamento...di tutta la metafisica. Solo ora la “metafisica” si rende riconoscibile nella sua essenza... La domanda: che cos'è metafisica?, posta nell'ambito del passaggio all'altro inizio, ottiene con il domandare l'essenza della “metafisica” già nel senso di una prima conquista della postazione antistante il passaggio nell'altro inizio”14. Ecco, portato alle parole, il legame, o coappartenenza, che costituisce gli inizi, ed il giocare di ciò che è il gioco di passaggio. Il passaggio “nell'altro inizio è il ritorno nel primo e viceversa. Ritorno nel primo inizio (“la ri-petizione”) non è però un trasferirsi nel passato... Il ritorno nel primo inizio è piuttosto e precisamente l'allontanamento da esso, l'occupare quella posizione di distanza che è necessaria per esperire ciò che, in quell'inizio e in quanto quell'inizio, si iniziò... Solo la posizione di distanza rispetto al primo inizio permette di esperire che... la domanda sulla verità (άλήθεια) è rimasta indomandata... e solo tale sapere ci suggerisce (spielt uns zu) la necessità di preparare l'altro inizio”15. Qui vi è un “oltrepassamento della domanda guida -appartenente alla metafisica tutta-...dell'essere dell'ente a partire dal suo proprio fondamento, che viene ricercato dalla domanda fondamentale come domanda sull'essenza dell'essere”16. “Per cui l'essenza della metafisica è altro dalla metafisica”17. Tutto questo necessita che il primo 11 Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, Cap. secondo. Ed. Morcelliana, Brescia. Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 183. Ed. Adelphi, Milano 2007 13 Ciò, qui, significa: mai storiograficamente. 14 Ivi. pag. 183 15 Ivi. pag. 196 16 F.-W. Von Hermann, La metafisica nel pensiero di Heidegger, pag.19. Ed. Urbaniana University Press, Roma 2004. 17 Martin Heidegger, Che cos'è metafisica?, pag. 92. Ed. Adelphi, Milano 2001. 12 30
  • 31. inizio (ovvero l'accaduto oblio della dimenticanza dell'essere) risuoni come primo inizio. Da quanto antecedentemente scritto, ribadiamo non esservi per Heidegger orizzonti differenti (seppur nel medesimo fondamentalmente diversi) in cui incamminarsi al di fuori di quella sola chiaroscurale contrada ove coappartengono gli inizi. Ed è necessariamente in tale orizzonte che il gioco di passaggio può delinearsi e giungere, cioè avvenire. Ma quindi, si potrebbe obbiettare, ciò che sono gli inizi ed il gioco di passaggio giace in domande? Nella corretta formulazione di domande? Ed esattamente in quelle domande sopra trascritte? No. Se così si dovesse concepire il discorso portato fin qui, questo significherebbe che ogni riferimento fatto al gioco di passaggio sarebbe stato essenzialmente frainteso. “Nella misura in cui un pensiero si mette in cammino per esperire il fondamento della metafisica..., invece di limitarsi a rappresentare l'ente in quanto ente, esso ha già in un certo modo abbandonato la metafisica”18. Questo pensiero che si mette in cammino per esperire il fondamento della metafisica (cioè l'invece di...) ha la peculiarità di configurarsi in quanto un pensare domandante19. E non in quanto la corretta formulazione di una domanda! Né come concettualizzazione della relazione tra la domanda guida e la domanda fondamentale. “Infatti, nella misura in cui -la domanda fondamentaleinterroga ancora nel modo tradizionale della metafisica -ossia in termini causali, seguendo il filo conduttore del “perché”-, il pensiero dell'essere viene completamente rinnegato a vantaggio della conoscenza che rappresenta l'ente partendo dall'ente”20. Per tale motivo, quantomeno sul 18 Ivi. pag 92. O interrogante. O ancora, rammemorante (per un esempio: Martin Heidegger, Saggi e discorsi, pag. 121. Ed. Mursia, Milano 1976). È giunto il momento di rischiarare maggiormente questo punto poiché qui si tratta del pensiero già rivolto nell'altro inizio. Secondo Heidegger, per un pensare autentico “il tratto fondamentale... non è l'interrogare bensì l'ascoltare quel che viene suggerito da ciò che deve farsi problema”. Eppure noi abbiamo anche precedentemente chiamato tale pensiero interrogante o domandante; come può questo stesso presentarsi ora come ascolto. Anche qui, heideggerianamente non è da vedersi alcuna opposizione dualistica intercorrente tra il domandare e l'ascoltare. Il pensiero domandante è ri-pensamento del pensiero (e del domandare) nel significato che quest'ultimo verbo ha da tempo, in generale, acquisito. I termini meditativo o contemplativo, anch'essi usati dallo Heidegger nel riferirsi fondamentalmente ad un tale pensiero, aiutano forse ad evidenziare questo carattere d'ascolto del pensiero domandante, o anche detto interrogare pensante. Ovvero fanno emergere meglio le sfumature di cui il ri-pensamento sopraddetto, insito nell'heideggeriano pensare domandante, è costituito. Tale carattere può emergere nitidamente in quel domandare che pone “la domanda sull'essenza”. Ogni interrogare è un volgersi verso l'ascolto di ciò che già risuona. “Ogni posizione di domanda è possibile solo in quanto ciò che si fa problema ha già iniziato a parlare e a dire di sé stesso”. Codesta dis-posizione è il pensiero disposto all'evento (dall'evento). Tutte le citazioni di questa nota si trovano in: Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pag. 139. Ed. Mursia, Milano 1973. Il ri-pensamento heideggeriano del domandare trova le sue prime esplicitazioni nell'Opera degli anni venti: “Ogni posizione di problema è un cercare. Ogni cercare trae la sua direzione preliminare dal cercato”. In: Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 16. Ed. Longanesi, Milano 1971. 20 Martin Heidegger, Che cos'è metafisica?, pag. 114. Ed. Adelphi, Milano 2001. 19 31
  • 32. piano speculativo-filosofico, in queste nostre pagine si è sempre ben distinto il domandare, il pensiero interrogante, e la loro direzione, da ciò che è l'aspetto (non la parvenza) di domanda di un parlare qualunque. Ma, in tutta onestà, in queste pagine dedicate al “punto di riferimento” denominato gioco di passaggio, abbiamo per lo più detto del gioco di passaggio in quanto il gioco. Gioco fra gli inizi che è loro coappartenenza. Durante ciò, seguendo Heidegger per i sentieri da lui indicati, abbiamo accennato all'intraprendere un pensiero domandante, il quale cogliesse perlomeno la possibilità di un tale gioco. Eppure il punto di fuga dell'intera tematica di queste ultime pagine rimane il gioco in sé del gioco di passaggio. Nella filosofia, in senso autentico ovvero originario, il passaggio “scinde il sopraggiungere dell'Essere..., da ogni manifestazione e percezione dell'ente”21. Non si cerchi una qualche norma ontologica in codesta mutila citazione. Quel che deve emergere dalle suddette parole è la non completezza del gioco di passaggio in quanto il gioco. Il passaggio, in sé, difatti non è stato ancora essenzialmente detto. Il termine sopraggiungere ci deve porre in una situazione di ascolto. Riguardo ad esso non dobbiamo domandarci il chi? Od il perché? Meglio sarebbe porci semplicemente all'ascolto del suo come: il sopraggiungere che scinde, e scinde da ogni..., dice più propriamente del passaggio in sé del gioco di passaggio. “L'altro inizio non è un orientamento opposto al primo ma, in quanto altro, sta al di fuori dell'opposizione e dell'immediata comparabilità”22. Ciò con la presupponibile disapprovazione dell'egregio Professore FriedrchWilhelm von Hermann23. Il “movimento e contromovimento” che, in modo cooriginario e non causale, coinvolge e costituisce lo svolgimento della domanda guida, il passaggio alla domanda fondamentale, la storicità24 della storia del pensiero metafisico (fino e comprese le attuali sue propaggini), cioè dell'occidentalità, prende nei Contribui l'esplicito nome de il gioco di passaggio. Eppure, si diceva, tale gioco di passaggio ci si è presentato, fino ad ora, zoppo. In egual modo si è parlato dell'altro inizio. Si è parlato del significato che nella storia della metafisica (e della filosofia occidentale) apporta ed, insieme, assume l'inizialità di quest'ultimo. Possiamo si parlare dell'altro inizio come “di un'eccedenza che viene prima e sporge oltre tutti 21 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 188. Ed. Adelphi, Milano 2007. Ivi. pag 197. 23 La seguente frase può aiutare a comprendere la “contraddittoria” affermazione appena fatta. “Per il pensiero che si raccoglie nell'evento la storia dell'essere, in quanto è ciò che è da-pensare, giunge alla sua fine, per quanto possa ben continuare ad esistere la metafisica”. Martin Heidegger, Tempo e essere, pag. 53. Ed. Longanesi, Milano 2007. 24 Non storiografia, ovvero non la filosofia come materia di studio, né la filosofia come scienza mirante ad una qualche forma di correttezza o alla dimostrazione, per esempio dialettica, di essenze sovrasensibili. 22 32
  • 33. gli sviluppi del primo inizio”25, per quanto i termini “viene prima” risultino nel luogo dell'altro inizio a cui si vorrebbe giungere, a dir poco aberranti. Ma ancora non è stato propriamente detto dell'altro. Oppure con altri vocaboli: non abbiamo detto dell'eccedenza in sé (dell'eccedere nel suo come). Per cui decretiamo non essere fin qui stato propriamente indicato, o detto di..., ciò che è lo altro, dell'altro inizio. Lo altro che deve ergersi. Anche qui, non: che cosa è questo altro? Ma come esso è (si dà)? “L'altro inizio è il salto che, trasformando l'Essere, entra nella sua più originaria verità”26. Con ciò è anticipato il successivo “punto di riferimento”, il capitolo intitolato: Il salto. L'ergersi (la negazione ri-pensata) dell'altro inizio; il primo inizio in quanto tale; la coappartenenza degli inizi e l'orizzonte della storia dell'essere che, evidenziantesi, la lascia (ed anche li lascia) fruibili in tal modo; il gioco di passaggio; essi tutti dicono dall'evento. 25 26 Umberto Regina, Servire l'essere con Heidegger, pag. 231. Ed. Morcelliana, Brescia. Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 194. Ed. Adelphi, Milano 2007. 33
  • 34. II.III SU IL SALTO Premessa o avvertenza: da ora il piano speculativo-filosofico, in cui fin qui ci siamo esplicitamente prevalentemente mossi, potrà risultare insufficiente, o non adeguato, alle future trattazioni e tematizzazioni. Ciò che dell'altro inizio è totalmente diverso rispetto al primo può essere spiegato mediante un dire che apparentemente non fa che giocare con un rovesciamento mentre in verità tutto si trasforma”1. Dunque: l'incombenza del fraintendere viene ad acuirsi e “l'insolito”, “l'inatteso”, non dovranno destare l'irrigidimento nell'abituale e la volontà giudicante; la quale è portata a decretare, nel migliore dei casi, “l'insolito” in quanto anomala stranezza2. De il salto abbiamo intrinsecamente detto nelle parole altro (il totalmente altro) nell'altro inizio, e passaggio nel gioco di passaggio. “Qui, nel passaggio, si prepara la decisione più originaria e perciò più storica, quell'aut-aut di fronte a cui non rimangono nascondigli:... o restare vincolati alla fine e al suo decorso -l'inerzia della metafisica-..., oppure iniziare l'altro inizio, essere risoluti alla sua lunga preparazione... Ora però, poiché l'inizio accade solo nel salto, questa preparazione deve essere già un saltare che, in quanto prepara, deve al tempo stesso provenire e balzare via dal confronto (gioco -il gioco- di passaggio) con il primo inizio e con la sua storia”3. All'interno dei Contributi, più precisamente in ciò che il salto dice, ogni cosa che in Essere e tempo4 viene preparandosi arriva ad una nitidezza. “La 1 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 235. Ed. Adelphi, Milano 2007. Vi è forse una flebile analogia, solo analogia e nel significato comune (dominante) del termine, con il pensiero che ha reso famosa la parola anomalia da noi appena usata. Al di là di questa possibilità il termine indica bene lo “stato di cose” a cui vogliamo rimandare. In merito a tutto ciò, estrapolate, forse completamente, dal loro contesto, le seguenti citazioni ci sanno però dare intuitivi consigli: “Soltanto quando tutte le categorie concettuali attinenti...sono pronte in anticipo...la scoperta del che e la scoperta del che cosa possono aver luogo assieme...in un solo istante... La novità emerge soltanto con difficoltà, che si manifesta attraverso la resistenza, in contrasto con un sottofondo costituito dalla aspettazione... L'anomalia è visibile soltanto sullo sfondo fornito dal paradigma”. Thomas S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, pagg. 79, 88, 89. Ed. Einaudi 3 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 235. Ed. Adelphi, Milano 2007. 4 “L'ontologia fondamentale, da cui soltanto tutte le altre possono scaturire, deve essere cercata 2 34
  • 35. meditazione “dell'ontologia fondamentale” (fondazione dell'ontologia come suo superamento) è il passaggio dalla fine del primo inizio all'altro inizio. Tale passaggio è però al tempo stesso la rincorsa per il salto”5. Si noti, alle spalle della bibliografia heideggeriana non vi sta alcuna strategia dottrinaria. Già antecedentemente alla Kehre lo Heidegger afferma essere stato, per tramite e grazie all'atteggiamento fenomenologico, alla dissertazione di Brentano e alle riletture su Aristotele, “portato sul cammino della questione dell'essere... Il cammino seguito da questo domandare fu però più lungo di quanto credessi...ciò che tentavano le prime lezioni di Friburgo e poi quelle di Marburgo mostra questo cammino solo in maniera indiretta”6. “Essere e tempo è il passaggio al salto (il domandare della domanda fondamentale)”7. Di più, “Essere e tempo non è perciò un”ideale” né un “programma”, bensì l'incipiente inizio dell'essenziale presentarsi dell'Essere stesso, non ciò che noi conquistiamo con il pensiero, ma ciò che, ammesso che siamo maturi per questo, ci costringe in un pensiero”8, un pensiero che, tutto sommato, è, per lo meno anche, il pensare ed il cammino dello Heidegger. “Il pensiero tentato in Sein und Zeit si è...”messo in cammino” per porre il pensiero su una via per la quale esso pervenga al riferimento della verità dell'essere all'essenza dell'uomo, per aprire al pensare un sentiero”9 direzionato in tal modo. Nel quarto capitolo dei Contributi si intravedono, esplicitati dallo stesso autore, i legami che sussistono tra ciò che Essere e tempo viene in tal modo a rivelarsi, ed il pensiero heideggeriano dopo la cosiddetta svolta. Abbiamo così l'opera degli anni venti configurata come tentativo, che di “solo” tentativo necessariamente può trattarsi, di un dispiegamento della domanda guida, portato, tale dispiegamento, verso il trapasso in domanda fondamentale. L'or ora utilizzato termine trapasso è qui posto in quanto accenno ad una posizione del domandare totalmente altra, ovvero l'altro dell'altro inizio; un pensare, diciamo, portato all'altro inizio. Per giungere ad una tale posizione del domandare totalmente altra rispetto alla dominante, quindi affinché si “avanzi fino a una possibilità decidibile -cioè l'aut-aut di cui si diceva prima-, si deve anzitutto tentare... di creare un passaggio verso il salto nella domanda fondamentale”10. Ci troviamo, in quest'ultima citazione, in un certo qual modo, nella trascrizione dell'unità, forse soggiacente ma di certo oltremodo strutturale, nell'analitica esistenziale dell'Esserci”. Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 26. Ed. Longanesi, Milano 1971. E cosa raccoglie per l'appunto Essere e tempo se non l'esplicarsi dell'analitica esistenziale? 5 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 235. Ed. Adelphi, Milano 2007. 6 Martin Heidegger, Tempo e essere, pag. 102. Ed. Longanesi, Milano 2007. 7 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 239. Ed. Adelphi, Milano 2007. 8 Ivi. pag. 247. 9 Martin Heidegger, Che cos'è metafisica?, pag. 110. Ed. Adelphi, Milano 2001. 10 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), pag. 239. Ed. Adelphi, Milano 2007. 35
  • 36. dei primi tre capitoli dei Contributi nel loro legame (ovvero rinvio, rimbalzo) costitutivo, e necessario, con il cammino (magari solo accidentalmente bibliografico) del pensare dell'autore di Essere e tempo. O almeno fino a questo punto, ovvero fino a questo punto di un tale camminare, camminare che noi vorremmo, perlomeno, delucidare. Nient'altro che il camminare posto in rilievo fin dal primo capitolo di questo saggio. Dunque, fino a questo punto siamo giunti. Quindi fino a ciò che ne Il salto, il nostro quarto “punto di riferimento” si viene a dire. Ma cosa si viene a dire? E, analogamente (intendersi: come cerchi concentrici nell'acqua allo gettare di un sasso, ivi sasso è il domandare) ad altre domande precedentemente poste, come si viene a dire? A questo punto torna nuovamente in questione lo stato d'animo guida. Esso è il pudore, legantesi allo stato d'animo del ritegno11. Anche qui, come nell'antecedente paragrafo, recitare le parole stato d'animo non ci è di alcun orientamento se questo duetto di termini si intende, ovvero si ac-coglie, nel modo abituale e dominante. Tutt'altro! Un tal modo devia dai sentieri che, in una qualche forma del filosofare, vogliamo portare allo scoperto. E può deviare, a maggior ragione, nel concretizzarsi di ciò che è (ovvero quello che stiamo cercando) lo stato d'animo in termini quali pudore e ritegno. All'interno di codesto possibile deviare, infatti, troppo automaticamente (quindi a maniera d'automa) pudore e ritegno si associano a condizioni psicologiche, legate alla coscienza individuale, concepiti come modalità di quest'ultima. Oppure sono addirittura formulati in accezione puramente sentimentalistica e moralista. Non ci riconosciamo e non ci troviamo forse più ambientati nella descrizione di ciò? di quel che è appena stato asserito, cioè di quello che noi abbiamo chiamato possibile deviare? E il nostro ambientarci accade comunque, fosse anche esclusivamente al fine di contraddirlo (ovvero intenderlo in quanto piatta e pura negazione di ciò che andiamo cercando)? Si rammenti: questo sta a dire che nel deviare qui nominato risiede l'orientarsi dominante e quotidiano a cui ognuno di noi, come già da sempre e per lo più, soggiace. O, più propriamente, di cui è costituito. Oppure, semplicemente, è. Ebbene però non può bastarci una determinazione puramente negativa e sterile di ciò che è il pudore heideggerianamente compreso. Se nel paragrafo precedente abbiamo tentato di chiarire il ritegno (parzialmente si, ma volutamente), ora cercheremo di rischiarare il pudore. Anche se, occorre precisare, non è di qualcosa di differente che stiamo parlando, essendo ritegno e pudore nient'altro che nomi approssimativi delle direzioni di oscillazione dello “stato d'animo fondamentale del pensiero nell'altro inizio”12. 11 Esplicitamente, si guardi: ivi. pag. 233. Ivi. pag. 43. 12 36
  • 37. Mai questo pudore sarà timidezza, annuncia Heidegger13, mai esso sarà da concepirsi anche solo verso tale tendenza. Che anzi, un tale pudore dispone di una grande forza. Non è un egoico ritrarsi o un generico titubare. Esso, nei confronti del dominante, ha un che di “sfrontato”. Se così non fosse, come potrebbe altrimenti il pudore costituire quell'“l'azzardo”14 che il salto è. Il pudore si configura, diciamo, come “sfaccettatura” dello stato d'animo fondamentale nell'altro inizio. In quanto ciò, quest'ultimo, fa si che si possa accogliere (o, il che è lo stesso ma diversamente portato alla parola, esso è ove avviene) quell'apertura da cui “scaturisce la necessarietà della reticenza”15. Dove indica quest'apertura (dove indica il pudore medesimo)? Ovvero cosa la necessarietà della reticenza dice? Forse è or ora prematuro esaurire la risposta a questa domanda, ammesso che il rispondere heideggeriano possa essere considerato tale, perciò esauriente in senso assertivo-informativo. Quello che per noi, adesso, conta è “limitarci” a ciò che il salto è. Per cui lasceremo la reticenza, appena menzionata, nella momentanea indeterminatezza. Puntando invece il nostro interesse sulla necessarietà, anch'essa appena menzionata. Eppure la reticenza e la contrada a cui essa guarda, ed al contempo appartiene, verranno sempre più emergendo da sé. Dunque. La necessarietà di cui parla l'ultima citazione, in verità, l'abbiamo già incontrata. Il pudore come stato d'animo fondamentale nell'altro inizio è apertura sia alla, che, contemporaneamente, nella, domanda fondamentale (meglio: al e nel domandare fondamentale). Cotale domanda fondamentale (meglio: tale domandare dell'altro inizio) “scaturisce direttamente da una necessarietà della necessità dell'abbandono dell'essere”16. La necessarietà di cui parliamo ed il suo intrinseco legame con la domanda fondamentale, direzionata già all'altro inizio, competono a, e vicendevolmente ad esse compete, quell'abbandono dell'essere di cui abbiamo detto nel paragrafo primo del presente capitolo. Ed a quest'abbandono dell'essere compete, vicendevolmente, anche lo stato d'animo del pudore. Ora, un tale “orientamento”, una tale necessarietà, va esperita17. E necessariamente solo in tal modo, esperendola, “coloro che si limitano a “scrivere” una critica della domanda dell'essere” potranno approssimarsi al domandare del pensare di Heidegger. Approssimarsi qui significa: evitando il pericolo del fraintendimento. Fraintendimento, d'altronde, sempre incombente in questo luogo del pensare. Sempre incombente nel pensiero che, incamminatosi, si affaccia sul primo inizio in quanto tale, quindi nel suo rimando ad altro, ad 13 Ivi. pagg. 44, 45. Ivi. pag. 233. 15 Ivi. pag.45 16 Ivi. pag. 238. 17 Esplicitamente, per esempio: Ivi. pag. 240. Non approfondiremo, per ora, l'esperire heideggeriano. Sull'esperire, ripetiamo, si dirà più avanti. 14 37
  • 38. un altro, all'altro inizio. Altro inizio che attualmente resta, all'interno del nostro percorso ne i Contributi, nonostante tutto, ancora essenzialmente adombrato. E così, è bene notarlo, in questi intrinseci rimandi l'unitaria (o la presunta tale) costituzione dei Contributi si presenta a noi, ancora una volta, nelle plurime dimensioni (o livelli) dei suoi legami strutturali. Ciò, facile capirlo, nel bene o nel male per la nostra autentica comprensione dell'opera. Ma dove, e come, la necessarietà della necessità dell'abbandono dell'essere, se esperita e così esperita, ed in ciò (l'esperire) tenendo conto della sua (di tale necessarietà) intimità con lo stato d'animo detto pudore, ci può far saltare? Visto che del salto, e del passaggio che è il salto, stiamo dicendo. Certo, nella necessarietà di cui ci sforziamo di parlare sono, seppur assolutamente non illuminati e non essenzialmente, affiorati dei legami tra l'abbandono dell'essere, per l'appunto nella sua necessità non ulteriormente chiarita, e ciò che abbiamo denominato il dominante. Ma con questo, come era sottinteso nelle domande appena poste, non s'è però propriamente detto de il salto. “Il salto è il raggiungere saltando (Er-springung) la prontezza per l'appartenenza nell'evento”18. E l'evento (Ereignis) non deve essere raggiunto “a forza con il pensiero”19 (in codesta citazione si rimira all'antecedentemente menzionato esperire quella necessarietà da noi posta a tema20; anche se, lo sappiamo, l'esperire a cui miriamo rimane non ulteriormente chiarito, né in sé né nel suo legame o rapporto con il pensiero). Ebbene. L'evento (Ereignis), il titolo essenziale della opera dei Contributi, è adesso chiamato in forma filosofica direttamente esplicitamente in causa, sia nel presente paragrafo di questo scritto, sia diffusamente nel capitolo quarto dell'opera medesima. Non potremmo però certamente prendere di petto, a livello filosoficospeculativo o meno, ciò che l'evento è. La motivazione? In base all'incamminarsi di questo scritto una tale volontà o pretesa sarebbe assolutamente fuori luogo. E quindi, cosa fare? Parlando molto sinteticamente: chi abbia letto il secondo Heidegger, o la letteratura critica a lui riferita, può essere a conoscenza del fatto che, in genere, l'evento è l'essere heideggeriano. Ma con questo non si è parlato di un bel nulla! Dando per scontato che tale asserzione sia giusta all'interno della storia della filosofia, che mai ce ne faremo, noi qui, di questa informazione! La nostra tensione, che è il pensare, non deve perciò essere catturata o attratta dalla forza di gravità di codesta parola in quanto tale. Non facciamoci preventivamente soggettivi investigatoti della sua oggettiva concettualità. O così facendo inautenticheremo radicalmente ciò che evento è. Tutto 18 Ivi. pag. 241 Ibidem. 20 Non risiede qui la contrapposizione esperire/pensare, fatti/idee, bensì un ri-pensamento intimo del pensiero e della sua direzione. 19 38