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Giuseppe Boscarello

   Una società violenta: banditismo e terrorismo politico nella memoria dei protagonisti di
                                   Portella delle Ginestre

Più di 100 ore di interviste, 150 persone coinvolte in un area geografica che comprende Piana degli
Albanesi, San Giuseppe Jato, San Cipirello e Montelepre hanno permesso di ampliare la ricerca al
di là del suo tema principale: la memoria e il lutto della Strage di Portella della Ginestra.
La natura stessa dello strumento di ricerca, l’intervista con la sua base metodologica, impone di
contestualizzare la memoria e di analizzarne i processi di stratificazione. Nel far questo, ovvero nel
ricostruire le biografie degli intervistati, i ricercatori hanno disegnato uno schizzo della società in
cui i protagonisti vivevano, concentrandosi in particolare sugli anni subito precedenti e successivi
alla strage. Il risultato è stato una riflessione corale sul lungo dopoguerra siciliano (1943-1948).
Questo scritto non può, per ragioni di spazio, adempiere al passo successivo: confrontare la
memoria collettiva raccolta con la produzione storiografica già esistente su Portella. Il mio scopo è
quello di presentare, in breve, le caratteristiche ricorrenti nei discorsi dei protagonisti, recuperando
dalla manualistica solo una linea cronologica che la memoria, muovendosi per blocchi
contenutistici, non è interessata a ricostruire.


Un’economia in ginocchio – R. Marino, agricoltore di Piana degli Albanesi, testimone ventenne dei
fatti di Portella, militante comunista, utilizza una secca metafora per spiegare la situazione
economica: “dopo la guerra, la fame si raccoglieva con il rastrello”. L’operazione Husky, lo sbarco
anglo-americano, porta rapidamente alla fine del fascismo e, in Sicilia, alla formazione dell’Allied
Military Goverment (AMGOT) già nel 1943. Gli americani sono un ricordo breve ma intenso,
sempre associato al lancio di “cioccolata e caramelle” delle truppe in transito. Non c’è quasi traccia
di loro nell’interviste nonostante l’impatto che la politica alleata ebbe sul territorio.
Il principale problema dell’AMGOT, nonché delle autorità italiane che lo coadiuvavano e che gli
succedettero, era l’approvvigionamento delle truppe e dei civili. La soluzione, ovvero l’ammasso,
ha un impatto negativo sulla situazione economica della popolazione siciliana. “I miei genitori
dicevano di nascondermi quando mangiavo una sarda.” ricorda un dirigente della Lega delle
Cooperative siciliana, anche lui pianota come Marino. Racconta il papas (prete) Plescia: il
tesseramento non era sufficiente per sfamare le famiglie, dava cibo di pessima qualità per gli
standard della zona e inoltre riguardava anche il grano destinato alla semina con gravi problemi per
il ciclo e la qualità dei raccolti. Di fronte alla politica degli ammassi i contadini siciliani rispondono
con l’illegalità ingrandendo il mercato nero formatosi durante la guerra. “Tutti facevano
contrabbando di grano” affermano gli intervistati, una sintesi che se approfondita divide i
contrabbandieri fra chi effettivamente vendeva il grano e chi si rifiutava di portarlo all’ammasso. Il
mercato nero dava la possibilità ai contadini di migliorare la qualità del cibo e della semina ma
soprattutto consentiva proventi notevoli a chi ne controllava i meccanismi. Non a caso la mafia
ricostruì i sui assetti dopo la repressione fascista intorno alla struttura dell’ammasso. Non a caso la
storia banditesca dell’esecutore di Portella, Salvatore Giuliano, inizia nel ’43 proprio per un crimine
di contrabbando del grano.
Il problema della terra in assenza di stato – Le altre caratteristiche che emergono dalle interviste
sono strettamente connesse con la situazione economica. La divisione è, in primo luogo, fra chi ha
la terra e chi non ce l’ha o, forse, fra chi è in grado di lucrare sui suoi proventi e chi no. È la terra il
problema perché la terra in una società quasi integralmente contadina rappresenta il lavoro, l’aspetto
principale dell’organizzazione della vita sociale. Questo problema della terra deve essere però
inserito nel suo contesto del tempo ed è un silenzio degli intervistati che chiarisce un punto
fondamentale: manca lo stato. Le storie raccontate sono piene di rappresentanti e di strumenti dello
stato: poliziotti, carabinieri, generali, processi e prima ancora fascisti e podestà ma lo stato in
quanto cornice della società, fonte di legge, non è citato. Lo stato non è presente neanche con la sua
caratteristica base che da Weber in poi ha preso il nome di monopolio della violenza. Solo in questo
contesto non comune può essere spiegata la natura della lotta contadina in Sicilia.
La ricerca d’archivio o sui giornali è più puntuale della memoria nell’elencare le decine di morti, le
centinaia di feriti e di scontri a fuoco che si succedono in Sicilia fra il ’43 e il ’48.
contemporaneamente descrive gli autori di quegli scontri: mafiosi, separatisti, attivisti, forze
dell’ordine. Le interviste, però, danno la sensazione della diffusione del possesso delle armi.
Sempre Marino ricorda che durante la ritirata delle forze italiane, che nella sua memoria stratificata
di militante di sinistra è accaduto dopo l’otto settembre, furono saccheggiati i depositi dell’esercito:
“dopo l’otto settembre c’erano armi dappertutto…” e continua “tutti armati con il mitra, bombe a
mano e fucili mitragliatori…”, solo a Piana almeno un centinaio. Uno degli imputati per la strage,
poi assolto dalla corte di appello di Viterbo nel 1956, racconta di come nella contrada “Piana
dell’occhio” fu saccheggiato un magazzino militare: “I bambini giocavano con le casse di bombe a
mano. In un esplosione morirono ventidue persone. Li seppellirono in una fossa comune”. Sempre
lui spiega che Montelepre era difesa da tre postazioni di mitragliatrici, poi abbandonate durante la
ritirata: “Qualche giorno dopo erano scomparse, vendute”. Su tutto il territorio delle interviste molti
sono i ricordi delle scadenze elettorali in cui si andava con le granate nelle tasche della giacca.
Il primo tentativo dello stato badogliano di ripristinare un controllo sulla società causa i moti del
Non si parte che a Piana iniziano la breve e poco studiata esperienza della Repubblica di Piana degli
Albanesi, mentre nelle zone limitrofe allargano la banda Giuliano con giovani renitenti.
Non c’è lo stato ma c’è la politica, ci sono le già citate divisioni nella società e le parti diventano
gruppi e partiti politici. In quel clima la violenza diviene un corollario. Un discorso, quello di un
dopoguerra violento, che è certo valido per tutta l’Italia ma che in Sicilia assume caratteristiche
differenti a causa della storia antica e recente dell’isola.
Le parti diventano partiti - Concentrandosi sul problema dell’approvvigionamento gli Alleati
creano un sistema amministrativo ma non ricostruiscono un sistema politico. Inglesi e Americani
diffidano dei partiti che firmano il Patto di Salerno. Privo di un piano coerente, l’AMGOT si affida
alle èlites prefasciste cercando in primo luogo l’appoggio degli agrari con le loro reti di patronage.
Questi dubbiosi nei riguardi dello stato badogliano assente e contrari alle tinte rivoluzionarie del
Vento del Nord, si incaricano in prima persona della difesa dei loro privilegi: optano per il
separatismo, riforniscono le bande dei briganti come Giuliano e affidano il controllo del territorio a
loro e alla mafia delle campagne. Contemporaneamente lo scontro per la terra si inasprisce. Ma il
lento e progressivo imporsi dei partiti di massa nel periodo fra il ’44 e il ’46 porta la DC a mediare
le esigenze del partito d’ordine, che si sposta su posizioni autonomiste, mentre il PCI si incarica di
mediare la domanda politica dei contadini. La natura violenta del controllo del territorio deve
cambiare forma. La mafia, fallita l’opzione separatista trova il suo spazio nella zona grigia della
nuova repubblica, assicurando un controllo del territorio a bassa visibilità. Il banditismo non è
altrettanto capace di adattarsi alle mutate condizioni politiche. L’arrivo del Comando Forze per la
Repressione del Banditismo incrina i rapporti fra banditi e mafia, indurendo allo stesso tempo le
condizioni di vita della popolazione fra cui le bande si muovevano.
Portella, un bandito usato? – Eppure l’aria di rivoluzione persisteva e la lotta per la terra diventava
occupazione. Giuliano, politicamente isolato, decide di dimostrare la sua utilità agli agrari e alla
mafia. Spara a Portella ma la mossa non riesce ed è definitivamente abbandonato. La necessità
politica del banditismo è finita. Ma cosa rimane nelle interviste di questa storia? Certo la causa
fondamentale, la lotta per la terra e per il miglioramento delle condizioni di vita dei contadini.
“C’era aria di rivoluzione”; “ci volevano punire”. Altrettanto ferma è l’idea che a sparare sia stato
Giuliano ma che i mandanti furono gli agrari e i mafiosi. Forte è l’idea di una premeditazione nella
strage. “In paese sapevano” e chi sapeva non andava e consigliava i vicini di fare altrettanto. Forte è
l’idea di un uso politico di Giuliano, definito talvolta uno sprovveduto e talvolta uno stupido,
sicuramente uno che si è fatto usare perché da quella strage non ebbe la protezione che cercava e gli
serviva. “Era un cretino perché se fosse stato intelligente non avrebbe frequentato i salotti buoni di
Palermo. Doveva capire che era un trucco”, sintetizza uno degli intervistati. Nella memoria di una
monteleprina la direzione politica del banditismo è tanto forte da diventare una vera e propria storia
da raccontare dove Scelba e De Gasperi sono venuti direttamente in paese per parlare con i banditi:
“li ho davanti agli occhi, quelli che sono entrati qui!”
Dopo Portella Giuliano è solo un peso: “lo ammazzarono perché non doveva parlare. Chi lo
ammazzò fu Pisciotta suo cugino”. I mafiosi non solo furono i mandanti (intermediari?) della strage
e della morte di Giuliano ma anche del suo carnefice: “furono i mafiosi, i Riolo a fare ammazzare
Pisciotta”.

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Una società violenta: banditismo e terrorismo politico nella memoria dei protagonisti di Portella delle Ginestre

  • 1. Giuseppe Boscarello Una società violenta: banditismo e terrorismo politico nella memoria dei protagonisti di Portella delle Ginestre Più di 100 ore di interviste, 150 persone coinvolte in un area geografica che comprende Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato, San Cipirello e Montelepre hanno permesso di ampliare la ricerca al di là del suo tema principale: la memoria e il lutto della Strage di Portella della Ginestra. La natura stessa dello strumento di ricerca, l’intervista con la sua base metodologica, impone di contestualizzare la memoria e di analizzarne i processi di stratificazione. Nel far questo, ovvero nel ricostruire le biografie degli intervistati, i ricercatori hanno disegnato uno schizzo della società in cui i protagonisti vivevano, concentrandosi in particolare sugli anni subito precedenti e successivi alla strage. Il risultato è stato una riflessione corale sul lungo dopoguerra siciliano (1943-1948). Questo scritto non può, per ragioni di spazio, adempiere al passo successivo: confrontare la memoria collettiva raccolta con la produzione storiografica già esistente su Portella. Il mio scopo è quello di presentare, in breve, le caratteristiche ricorrenti nei discorsi dei protagonisti, recuperando dalla manualistica solo una linea cronologica che la memoria, muovendosi per blocchi contenutistici, non è interessata a ricostruire. Un’economia in ginocchio – R. Marino, agricoltore di Piana degli Albanesi, testimone ventenne dei fatti di Portella, militante comunista, utilizza una secca metafora per spiegare la situazione economica: “dopo la guerra, la fame si raccoglieva con il rastrello”. L’operazione Husky, lo sbarco anglo-americano, porta rapidamente alla fine del fascismo e, in Sicilia, alla formazione dell’Allied Military Goverment (AMGOT) già nel 1943. Gli americani sono un ricordo breve ma intenso, sempre associato al lancio di “cioccolata e caramelle” delle truppe in transito. Non c’è quasi traccia di loro nell’interviste nonostante l’impatto che la politica alleata ebbe sul territorio. Il principale problema dell’AMGOT, nonché delle autorità italiane che lo coadiuvavano e che gli succedettero, era l’approvvigionamento delle truppe e dei civili. La soluzione, ovvero l’ammasso, ha un impatto negativo sulla situazione economica della popolazione siciliana. “I miei genitori dicevano di nascondermi quando mangiavo una sarda.” ricorda un dirigente della Lega delle Cooperative siciliana, anche lui pianota come Marino. Racconta il papas (prete) Plescia: il tesseramento non era sufficiente per sfamare le famiglie, dava cibo di pessima qualità per gli standard della zona e inoltre riguardava anche il grano destinato alla semina con gravi problemi per il ciclo e la qualità dei raccolti. Di fronte alla politica degli ammassi i contadini siciliani rispondono con l’illegalità ingrandendo il mercato nero formatosi durante la guerra. “Tutti facevano contrabbando di grano” affermano gli intervistati, una sintesi che se approfondita divide i
  • 2. contrabbandieri fra chi effettivamente vendeva il grano e chi si rifiutava di portarlo all’ammasso. Il mercato nero dava la possibilità ai contadini di migliorare la qualità del cibo e della semina ma soprattutto consentiva proventi notevoli a chi ne controllava i meccanismi. Non a caso la mafia ricostruì i sui assetti dopo la repressione fascista intorno alla struttura dell’ammasso. Non a caso la storia banditesca dell’esecutore di Portella, Salvatore Giuliano, inizia nel ’43 proprio per un crimine di contrabbando del grano. Il problema della terra in assenza di stato – Le altre caratteristiche che emergono dalle interviste sono strettamente connesse con la situazione economica. La divisione è, in primo luogo, fra chi ha la terra e chi non ce l’ha o, forse, fra chi è in grado di lucrare sui suoi proventi e chi no. È la terra il problema perché la terra in una società quasi integralmente contadina rappresenta il lavoro, l’aspetto principale dell’organizzazione della vita sociale. Questo problema della terra deve essere però inserito nel suo contesto del tempo ed è un silenzio degli intervistati che chiarisce un punto fondamentale: manca lo stato. Le storie raccontate sono piene di rappresentanti e di strumenti dello stato: poliziotti, carabinieri, generali, processi e prima ancora fascisti e podestà ma lo stato in quanto cornice della società, fonte di legge, non è citato. Lo stato non è presente neanche con la sua caratteristica base che da Weber in poi ha preso il nome di monopolio della violenza. Solo in questo contesto non comune può essere spiegata la natura della lotta contadina in Sicilia. La ricerca d’archivio o sui giornali è più puntuale della memoria nell’elencare le decine di morti, le centinaia di feriti e di scontri a fuoco che si succedono in Sicilia fra il ’43 e il ’48. contemporaneamente descrive gli autori di quegli scontri: mafiosi, separatisti, attivisti, forze dell’ordine. Le interviste, però, danno la sensazione della diffusione del possesso delle armi. Sempre Marino ricorda che durante la ritirata delle forze italiane, che nella sua memoria stratificata di militante di sinistra è accaduto dopo l’otto settembre, furono saccheggiati i depositi dell’esercito: “dopo l’otto settembre c’erano armi dappertutto…” e continua “tutti armati con il mitra, bombe a mano e fucili mitragliatori…”, solo a Piana almeno un centinaio. Uno degli imputati per la strage, poi assolto dalla corte di appello di Viterbo nel 1956, racconta di come nella contrada “Piana dell’occhio” fu saccheggiato un magazzino militare: “I bambini giocavano con le casse di bombe a mano. In un esplosione morirono ventidue persone. Li seppellirono in una fossa comune”. Sempre lui spiega che Montelepre era difesa da tre postazioni di mitragliatrici, poi abbandonate durante la ritirata: “Qualche giorno dopo erano scomparse, vendute”. Su tutto il territorio delle interviste molti sono i ricordi delle scadenze elettorali in cui si andava con le granate nelle tasche della giacca. Il primo tentativo dello stato badogliano di ripristinare un controllo sulla società causa i moti del Non si parte che a Piana iniziano la breve e poco studiata esperienza della Repubblica di Piana degli Albanesi, mentre nelle zone limitrofe allargano la banda Giuliano con giovani renitenti.
  • 3. Non c’è lo stato ma c’è la politica, ci sono le già citate divisioni nella società e le parti diventano gruppi e partiti politici. In quel clima la violenza diviene un corollario. Un discorso, quello di un dopoguerra violento, che è certo valido per tutta l’Italia ma che in Sicilia assume caratteristiche differenti a causa della storia antica e recente dell’isola. Le parti diventano partiti - Concentrandosi sul problema dell’approvvigionamento gli Alleati creano un sistema amministrativo ma non ricostruiscono un sistema politico. Inglesi e Americani diffidano dei partiti che firmano il Patto di Salerno. Privo di un piano coerente, l’AMGOT si affida alle èlites prefasciste cercando in primo luogo l’appoggio degli agrari con le loro reti di patronage. Questi dubbiosi nei riguardi dello stato badogliano assente e contrari alle tinte rivoluzionarie del Vento del Nord, si incaricano in prima persona della difesa dei loro privilegi: optano per il separatismo, riforniscono le bande dei briganti come Giuliano e affidano il controllo del territorio a loro e alla mafia delle campagne. Contemporaneamente lo scontro per la terra si inasprisce. Ma il lento e progressivo imporsi dei partiti di massa nel periodo fra il ’44 e il ’46 porta la DC a mediare le esigenze del partito d’ordine, che si sposta su posizioni autonomiste, mentre il PCI si incarica di mediare la domanda politica dei contadini. La natura violenta del controllo del territorio deve cambiare forma. La mafia, fallita l’opzione separatista trova il suo spazio nella zona grigia della nuova repubblica, assicurando un controllo del territorio a bassa visibilità. Il banditismo non è altrettanto capace di adattarsi alle mutate condizioni politiche. L’arrivo del Comando Forze per la Repressione del Banditismo incrina i rapporti fra banditi e mafia, indurendo allo stesso tempo le condizioni di vita della popolazione fra cui le bande si muovevano. Portella, un bandito usato? – Eppure l’aria di rivoluzione persisteva e la lotta per la terra diventava occupazione. Giuliano, politicamente isolato, decide di dimostrare la sua utilità agli agrari e alla mafia. Spara a Portella ma la mossa non riesce ed è definitivamente abbandonato. La necessità politica del banditismo è finita. Ma cosa rimane nelle interviste di questa storia? Certo la causa fondamentale, la lotta per la terra e per il miglioramento delle condizioni di vita dei contadini. “C’era aria di rivoluzione”; “ci volevano punire”. Altrettanto ferma è l’idea che a sparare sia stato Giuliano ma che i mandanti furono gli agrari e i mafiosi. Forte è l’idea di una premeditazione nella strage. “In paese sapevano” e chi sapeva non andava e consigliava i vicini di fare altrettanto. Forte è l’idea di un uso politico di Giuliano, definito talvolta uno sprovveduto e talvolta uno stupido, sicuramente uno che si è fatto usare perché da quella strage non ebbe la protezione che cercava e gli serviva. “Era un cretino perché se fosse stato intelligente non avrebbe frequentato i salotti buoni di Palermo. Doveva capire che era un trucco”, sintetizza uno degli intervistati. Nella memoria di una monteleprina la direzione politica del banditismo è tanto forte da diventare una vera e propria storia
  • 4. da raccontare dove Scelba e De Gasperi sono venuti direttamente in paese per parlare con i banditi: “li ho davanti agli occhi, quelli che sono entrati qui!” Dopo Portella Giuliano è solo un peso: “lo ammazzarono perché non doveva parlare. Chi lo ammazzò fu Pisciotta suo cugino”. I mafiosi non solo furono i mandanti (intermediari?) della strage e della morte di Giuliano ma anche del suo carnefice: “furono i mafiosi, i Riolo a fare ammazzare Pisciotta”.