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    Liberazione e costituzione repubblicana. Contributi per una rilettura

                                   di Francesco Paolo Casavola


Intervento al convegno 'Radici e vitalità della Costituzione' svoltosi a Genova il 23
aprile 2005.
Pubblicato in Storia e memoria, 2005 - Vol.14 - Fasc.2 - pp.129 – 135.


La ricorrenza del sessantesimo anniversario della Liberazione suggerisce
riflessioni nuove rispetto al passato. Proviamo ad esprimerle ed ordinarle
insieme, non per rito memoriale ma per un esame di coscienza rigoroso e
sincero. Da qualche tempo si levano dubbi sul significato della festa della
Liberazione, che nel calendario repubblicano non ricorderebbe la nascita di
una nuova Italia, ma la divisione degli italiani in quella guerra civile che
sembra essere per una recente storiografia il vero volto della Resistenza
contro il fascismo e contro l’occupazione tedesca. Perché questa alterazione
della memoria e della interpretazione dei fatti ch’essa conserva? A mano a
mano che le generazioni nascono e vivono sempre più lontane nel tempo
rispetto ad eventi cruciali e fondativi per la comunità nazionale, scompaiono i
testimoni       che     quelle      esperienze         hanno      direttamente         vissuto.      Nessun
documento restituisce il pathos della vita collettiva. È nelle passioni civili,
nelle attese, nelle speranze, nelle paure, nelle scelte istintive e non calcolate
delle popolazioni che si rivelano più verità di quante non ne trattengano i
documenti esplorati dagli storici. È perciò un'occasione da non sciupare
quella delle feste civili destinate a rinverdire i ricordi delle generazioni
superstiti e più vicine agli eventi perché si facciano tramite a quelle
sopravvenute e immemori.
         È anche importante la valorizzazione di documentari filmati e di film
girati nei mesi o negli anni immediatamente successivi alla Liberazione,
1   [ Int er ve n to al co nve g no ' Radi ci e vi talit à de lla C o st itu zione ' s vo lto si a G e nov a il
    23 april e 2005]
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perché le immagini, e i sentimenti ch’esse suscitano, sono più veridiche delle
tesi costruite a tavolino.
      Muoviamo dalla prima considerazione, che chiameremo della italianità
della Liberazione. Non riflettiamo mai abbastanza sull’aggettivo 'nazionale'
che segue il sostantivo liberazione. Le parole, specie quelle coniate e diffuse
rapidamente dalla creatività dei parlanti, esprimono intuizioni profonde. Era
la liberazione della nazione italiana dallo straniero che tutte le popolazioni
della penisola cominciarono a fortemente e unanimemente volere dopo l’8
settembre del 1943. Fu un giudizio improvviso e istintivo al Sud e al Nord,
nelle città e nei paesi, nelle fabbriche e nelle campagne, tra i militari e i
civili, nelle Università e nelle parrocchie, che i tedeschi, al cui fianco
eravamo stati trascinati in una guerra sciagurata, erano e si comportavano
come nemici da cui dovevamo liberarci. Le scelte di popolo, che gli storici
percepiscono debolmente e che forse solo i grandi narratori sanno rievocare (e
penso alle pagine tolstoiane che chiudono Guerra e Pace), furono allora
inequivoche. I tedeschi apparvero come il nemico storico che aveva ostacolato
il nostro Risorgimento, contro cui avevamo combattuto nel 1915-‘18, e che il
fascismo aveva mascherato come alleato in un patto tra due ideologie e due
dittatori, non certo in una solidarietà di culture e di popoli. L’estraneamento
tra italiani e tedeschi nel 1943 fu radicale e reciproco. La memoria collettiva
delle Nazioni ha ricordi tenaci. L’armistizio dell’8 settembre 1943 suscitò nei
tedeschi l’astio verso gli italiani ancora una volta svelatisi traditori. Essi
pensarono    ad   una   replica   della   dichiarazione   della   nostra   neutralità
dell’agosto 1914, che preparava il passaggio dell’Italia dalla Triplice
Alleanza con gli Imperi centrali alla Intesa con Francia e Inghilterra. Le
contrapposizioni furono dunque da una parte e dall’altra nette. Il paradosso
nella nostra psicologia collettiva, a conferma del riconoscimento del vero
nemico, fu che nei ricoveri antiaerei non riuscivamo più ad avere sentimenti
3




ostili per gli aviatori anglo-americani, che devastarono le nostre città con
bombardieri pesanti dal simbolico nome di Liberator.
      Senza questa corale agnizione del nemico non sarebbe neppure possibile
dare un contenuto storicamente compiuto alla liberazione nazionale. Di qui la
seconda considerazione, che l’inizio della lotta di liberazione fu una scelta
militare. Gli italiani dovevano combattere contro i tedeschi. E dissolte le
nostre forze armate, la lotta non poteva che essere impari, tra gruppi di
irregolari male armati, difensori della propria nazione, e un potente esercito
di occupazione. È la guerra partigiana, con le Squadre di azione patriottica
nelle città, le brigate e le divisioni in montagna.
      La Liberazione di Genova, con l’atto di resa germanica del 25 aprile
1945, è emblematica di questa sproporzione di forze, tra italiani e tedeschi.
Eppure il generale Günther Meinhold si arrende e non solo per l’andamento
delle operazioni di guerra in Italia e per l’avvicinarsi della V armata
americana. Delle truppe ai suoi ordini, alcuni reparti avrebbero potuto
continuare   a   combattere     sfruttando   la   superiorità    di   armamento.      La
Kriegsmarine al comando del capitano di vascello Max Berninghaus, decisa a
opporsi   alla   insurrezione   dei   cittadini   e   dei   partigiani,   sconfessa   la
capitolazione e condanna a morte il generale Meinhold, il cui sottufficiale
interprete dottor Joseph Pohl, giovane trentenne e fervente nazista si era
intanto suicidato a Villa Migone, dove i tedeschi avevano trattato la resa con
il Presidente del Comitato di Liberazione Nazionale per la Liguria, Remo
Scappini, assistito dall’avv. Enrico Martino e il dott. Giovanni Savoretti,
membri del Comitato, e dal maggiore Mauro Aloni, comandante della Piazza
di Genova. Paolo Emilio Taviani, che aveva partecipato alla lotta di
liberazione con il nome di battaglia di Riccardo Pittaluga, ha lasciato un
racconto del periodo 1943-’45 nel libro intitolato Pittaluga racconta.
Romanzo di fatti veri, pubblicato nel 1988.
4




       Con la immediatezza e la concitazione della cronaca di fatti vissuti,
siamo aiutati a capire come una macchina militare imponente e potente quale
quella tedesca, che aveva trasformato Genova in una formidabile piazzaforte,
essendo le industrie genovesi una risorsa irrinunciabile per la potenza
occupante, cedesse dinanzi agli scioperi degli operai, alle incursioni dei
patrioti in città, alla discesa delle unità partigiane dalla montagna, alla azione
di coordinamento politico del Comitato di Liberazione della Liguria, alla
mediazione triangolare, come l’ha definita M. Elisabetta Tonizzi, della Curia
tra popolazione, nazifascisti e Resistenza. Si può dire che la liberazione di
Genova è un ennesimo caso esemplare del rovesciamento del più forte da
parte del più debole, quando il primo ha dalla sua parte la sola forza delle
armi e l’altro la buona causa della libertà.
       Ha scritto Antonio Gibelli in uno studio dedicato a La classe
lavoratrice genovese nella Resistenza che il documento della resa del
generale Meinhold “costituisce una sorta di certificato di identità della nostra
città, o se si vuole una specie di certificato di battesimo della Genova libera e
civile nella quale abbiamo vissuto gli anni della Repubblica”.
       Ma la terza considerazione, che ci porta oltre i caratteri della italianità
della liberazione nazionale e della organizzazione militare della resistenza,
tocca il cuore della contesa recente sull’assorbimento nel disegno della
egemonia culturale comunista del significato della Liberazione come evento
realizzato dalla partecipazione preponderante delle unità partigiane comuniste
e   perciò   indebitamente    collocato     nel     calendario   della    memoria     civile
repubblicana. La Liberazione ricorderebbe non la concordia e l’unità degli
italiani nella riconquistata libertà, ma la loro divisione nella guerra fratricida
antifascista. E data la suggestione che su una storiografia cosiddetta
revisionista   esercitano    le   vicende     dei     vinti,   come      per   il   processo
risorgimentale dell’Unità italiana vengono rivalutati i legittimisti borbonici e
i briganti delle province meridionali, così emergono i vinti nella lotta di
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resistenza i fascisti della Repubblica del Nord e gli assassinati dai partigiani
comunisti.
        In tal modo la resistenza diventa non solo guerra civile tra fascisti e
antifascisti, ma anche tra comunisti e anticomunisti, insomma una pagina
cruenta tra fazioni italiane. Quanto queste riletture offuschino la realtà
luminosa della Liberazione è di tutta evidenza. Esse vanno pacatamente
discusse contestando soprattutto l’errore di opporre episodi particolari quando
non proprio marginali a quadri e vicende generali. La passione civile può
degradare a odio politico e alimentare vendette personali e private. Ma è
obbligo dello storico distinguere e non confondere e generalizzare.
        Nella Resistenza combatterono 185 mila partigiani, tra cui 35 mila
donne, di cui 683 uccise in combattimento, i morti furono 29 mila, 20 mila i
mutilati e invalidi, 10 mila soldati della Divisione Acqui furono fucilati dai
tedeschi a Cefalonia, altri 33 mila militari italiani morirono nei lager nazisti,
oltre 14 mila civili furono vittime di rappresaglie o deportati, come gli ebrei,
morirono nei campi di combattimento.
        Questo è il sacrificio italiano per ottenere la liberazione. Si possono
aggiungere a queste cifre quelle dei 13 mila militari e 2.500 civili che
caddero dall’altra parte tra quanti non volevano la Liberazione.
        Da una parte e dall’altra ci si è battuti in buona fede, con eroismo e con
furore. Ma le scelte di campo non sono equivalenti. Le scelte individuali
possono essere giuste o sbagliate. Le giuste corrispondono a quella corale
concordia delle popolazioni che rivendicavano la protezione della propria
italianità contro lo straniero. Le sbagliate si autoescludono dalla italianità,
nell’obbedienza allo straniero occupante le nostre terre e padrone delle nostre
vite.
        E qui passiamo ad una quarta riflessione. La Liberazione non si arresta
alla cacciata dai territori del nostro perse degli invasori tedeschi, né alla
caduta della Repubblica fascista. La Liberazione vuole fondare una nuova
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Italia, diversa da quella del ventennio della dittatura, e diversa anche da
quella dell’età liberale. Una nazione che fosse davvero una grande comunità, i
cui   cittadini   non   fossero   mandati   a   morire   in   guerre   ideologiche       e
imperialistiche o costretti a cercare lavoro all'estero, discriminati non solo tra
ricchi e poveri, ma anche per la razza, la religione e le opinioni politiche.
Una comunità che avesse come valore supremo non più lo Stato, ma la
persona dell’uomo, e aiutasse questa persona a crescere nelle formazioni
sociali, nella famiglia, nella scuola, nelle associazioni, nelle professioni. Una
comunità ordinata nell’intreccio di diritti inviolabili che spettano alla persona
umana e di doveri di solidarietà che i cittadini devono inderogabilmente
adempiere l’uno verso l’altro nella vita politica, economica e sociale. Una
comunità in cui tutte le istituzioni che si unificano nella parola Repubblica
operano per rendere effettiva e non astratta la libertà e l’uguaglianza dei
cittadini. Insomma la Liberazione era la vita nuova per le nuove generazioni
degli italiani. Ecco perché quella liberazione dai tedeschi e dai fascisti non
appariva che come premessa della Repubblica e della Costituzione.
       Quando il 2 giugno 1946 gli italiani e per la prima volta le italiane
votarono per la Repubblica e per l’Assemblea Costituente, si fece fare un
decisivo passo avanti alla Liberazione, non più apertura di una strada ma
inizio di un cammino. E dovremmo misurare ogni 25 aprile quanta distanza
abbiamo percorsa da quella partenza del 1945. La Liberazione è un esodo
verso una terra promessa quale fu intravista e desiderata dai caduti di allora.
       Il 4 marzo 1947 in Assemblea Costituente Piero Calamandrei pronunciò
un discorso le cui parole conclusive giova rileggere: “Io mi domando,
onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa
nostra Assemblea Costituente: se la sentiranno alta e solenne come noi
sentiamo oggi alta e solenne la Costituente romana, dove un secolo fa sedeva
e parlava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì: credo che i nostri posteri
sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata
7




veramente una nuova storia: e si immagineranno, come sempre avviene che
con l’andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda, che in questa
nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione repubblicana,
seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi
saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei
morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle
prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle
sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a
Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio di Anna Maria
Enriquez e di Tina Lorenzoni, nelle quali l’eroismo è giunto alla soglia della
santità. Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità,
come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che
occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono
riservati la parte più dura e più difficile: quella di morire, di testimoniare con
la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito
cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il
loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti
gli uomini, allenati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono a noi
i nostri morti. Non dobbiamo tradirli”.
      Ma, quinta riflessione, se la Liberazione è un nuovo cammino degli
italiani, abbiamo il dovere di ricordarne le tappe, oltre la Repubblica e la
Costituente: il decennio degli anni Cinquanta, la Ricostruzione; il decennio
degli anni Sessanta, il miracolo economico; gli ani Settanta, gli anni di
piombo; gli anni Ottanta, la crisi della partitocrazia; gli anni Novanta, la
transizione costituzionale. Perché intitolare tante e diverse fasi della storia
repubblicana    alla   Liberazione?   Non    certo   soltanto   per   la   banale
considerazione che senza l’uscita dell’Italia dal fascismo e dalla guerra la
sequenza storica successiva non sarebbe stata possibile. Piuttosto perché quei
decenni, in cui abbiamo schematizzato la distanza dei nostri giorni da quelli
8




della Liberazione, si caratterizzano per un diverso rapporto dialettico con lo
spirito della Liberazione. Costituzione, ricostruzione e sviluppo del Paese
sono inveramento dei sogni e progetti di quanti vissero la lotta e la vittoria
della Liberazione per una società più libera e prospera e moderna. Gli anni
della contestazione studentesca e poi del terrorismo stragista a destra e
brigatista a sinistra sono il segno di una eclissi dello spirito della Liberazione
nell’animare una nuova politica di collaborazione tra le classi e i partiti che
fino ad allora le avevano rappresentate. Freni derivanti dalle tensioni
internazionali tra Unione Sovietica e Stati Uniti d’America, istanze di
emancipazione dei gruppi sociali che andavano mutando la morfologia della
società senza più confini certi tra proletariato contadino ed operaio e ceti
medi, investendo le strutture della famiglia e del matrimonio, e sollecitando
rivendicazioni femministiche e giovanili, non trovavano risposte in un
establishment che paventando il collasso delle istituzioni cercava protezione
in solidarietà occulte di lobbies o di logge massoniche mentre in parallelo si
organizzavano e operavano i gruppi clandestini dell’eversione. Lo spirito
della Liberazione ebbe ragione alla fine di quel decennio tragico che ebbe le
centinaia di assassinati dai terroristi tra i quali Moro e Bachelet, per
l’isolamento in cui i cittadini e i lavoratori abbandonarono stragisti e
brigatisti senza farsene né suggestionare né intimorire e per la fermezza con
cui i partiti di governo e di opposizione reagirono dinanzi ai ricatti estremi
dei terroristi. A guardar bene anche quella fu, con modalità inedite, una
cruenta lotta di liberazione.
      Negli anni Ottanta, la Repubblica dei partiti cominciò ad accusare una
crisi di rappresentanza democratica. Le si andava contrapponendo una
Repubblica dei cittadini, che evidentemente non si rispecchiavano più nei
partiti che avevano espresso i comitati di liberazione nazionale e l’Assemblea
Costituente e i Governi e i Parlamenti delle legislature repubblicane. Dietro
quelle rappresentanze non c’erano più le classi dirigenti che avevano avuto
9




leader protagonisti della lotta antifascista e poi delle politiche economiche e
sociali della ricostruzione degli anni Cinquanta e dello sviluppo degli anni
Sessanta. Mentre si imputavano le insufficienze dei partiti alla Costituzione
del 1948 e si cercavano modelli di riforma della forma di Stato e di governo,
scoppiava       la   questione    morale    sulla    dilagante   corruzione     politico-
amministrativa. Tangentopoli dava inizio alla decapitazione di un intero ceto
parlamentare e di governo mentre le commissioni bicamerali della IX, XI e
negli anni Novanta della XIII legislatura concludevano senza un nulla di fatto
i loro lavori di progetto di revisione costituzionale. Lo scioglimento formale
di partiti di massa che avevano accompagnato l’evoluzione politica del paese,
Democrazia Cristiana, Partito Socialista Italiano, Partito Comunista Italiano,
segna, secondo una convenzione ormai acquisita dagli storici, politologi,
politici e mass-media, la fine della I Repubblica. La incerta transizione
costituzionale si aggrava nella presente XIV legislatura con una revisione che
appartiene alla volontà della sola maggioranza di governo. L’ora presente è la
più grave che il Paese vive dopo quel giorno della Liberazione di sessanta
anni fa.
        In più i problemi della vita italiana non sono più prospettabili e
risolvibili sulla lavagna delle questioni nazionali. Siamo nel contesto di una
costituzione europea; siamo in un processo di globalizzazione dell’economia;
attraversiamo una fase di grande disordine internazionale con un terrorismo
fondamentalista islamico diffuso in ogni continente, con la organizzazione
delle Nazioni Unite che stenta a realizzare i suoi fini statutari a cominciare da
quello di prevenire o sedare il flagello delle guerre; condividiamo con tutti i
paesi   della    terra   i   pericoli   derivanti   dall’aggravarsi   delle   alterazioni
climatiche e degli squilibri ecologici; siamo un territorio di sbarco e di
insediamento per flussi immigratori da paesi poveri dell’Asia e dell’Africa; la
vita sociale è angustiata dai dilemmi della bioetica, insidiata dalla criminalità
1




organizzata, dalla devianza minorile, resa insicura dalla precarietà del lavoro
e dalla emigrazione di capitali e imprese all’estero.
      Lo spirito della Liberazione che fu sogno e progetto di futuro dopo gli
odi e le lotte per vincere il passato sembra smarrirsi nella complessità dei
fattori in campo in ogni parte del nostro orizzonte.
      Occorre oggi dotarsi di conoscenze e di virtù civili per affrontare come
cittadini consapevoli delle proprie libertà costituzionali e del propri diritti e
anche e di più dei propri doveri le difficoltà che nei sessanta anni trascorsi
erano riservate ai partiti, alla burocrazia, alla mano pubblica. Liberazione
vuol forse significare nel secolo nuovo cittadinanza attiva, non solo nel dare
investitura alla rappresentanza democratica       ma anche nell’esercitare         a
sussidio delle istituzioni ogni iniziativa utile al bene comune e alla pace.
      Chi ritenga troppo oneroso o utopistico investire di più nella buona
volontà dei cittadini che non nella attesa di buone scelte delle istituzioni,
pensi a quel che rischiarono i partigiani, i soldati, i civili nella guerra di
liberazione per preparare per noi le conquiste di quel migliore avvenire che,
con ingratitudine o incoscienza, rischiamo di non sapere difendere.
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  • 1. 1 Liberazione e costituzione repubblicana. Contributi per una rilettura di Francesco Paolo Casavola Intervento al convegno 'Radici e vitalità della Costituzione' svoltosi a Genova il 23 aprile 2005. Pubblicato in Storia e memoria, 2005 - Vol.14 - Fasc.2 - pp.129 – 135. La ricorrenza del sessantesimo anniversario della Liberazione suggerisce riflessioni nuove rispetto al passato. Proviamo ad esprimerle ed ordinarle insieme, non per rito memoriale ma per un esame di coscienza rigoroso e sincero. Da qualche tempo si levano dubbi sul significato della festa della Liberazione, che nel calendario repubblicano non ricorderebbe la nascita di una nuova Italia, ma la divisione degli italiani in quella guerra civile che sembra essere per una recente storiografia il vero volto della Resistenza contro il fascismo e contro l’occupazione tedesca. Perché questa alterazione della memoria e della interpretazione dei fatti ch’essa conserva? A mano a mano che le generazioni nascono e vivono sempre più lontane nel tempo rispetto ad eventi cruciali e fondativi per la comunità nazionale, scompaiono i testimoni che quelle esperienze hanno direttamente vissuto. Nessun documento restituisce il pathos della vita collettiva. È nelle passioni civili, nelle attese, nelle speranze, nelle paure, nelle scelte istintive e non calcolate delle popolazioni che si rivelano più verità di quante non ne trattengano i documenti esplorati dagli storici. È perciò un'occasione da non sciupare quella delle feste civili destinate a rinverdire i ricordi delle generazioni superstiti e più vicine agli eventi perché si facciano tramite a quelle sopravvenute e immemori. È anche importante la valorizzazione di documentari filmati e di film girati nei mesi o negli anni immediatamente successivi alla Liberazione, 1 [ Int er ve n to al co nve g no ' Radi ci e vi talit à de lla C o st itu zione ' s vo lto si a G e nov a il 23 april e 2005]
  • 2. 2 perché le immagini, e i sentimenti ch’esse suscitano, sono più veridiche delle tesi costruite a tavolino. Muoviamo dalla prima considerazione, che chiameremo della italianità della Liberazione. Non riflettiamo mai abbastanza sull’aggettivo 'nazionale' che segue il sostantivo liberazione. Le parole, specie quelle coniate e diffuse rapidamente dalla creatività dei parlanti, esprimono intuizioni profonde. Era la liberazione della nazione italiana dallo straniero che tutte le popolazioni della penisola cominciarono a fortemente e unanimemente volere dopo l’8 settembre del 1943. Fu un giudizio improvviso e istintivo al Sud e al Nord, nelle città e nei paesi, nelle fabbriche e nelle campagne, tra i militari e i civili, nelle Università e nelle parrocchie, che i tedeschi, al cui fianco eravamo stati trascinati in una guerra sciagurata, erano e si comportavano come nemici da cui dovevamo liberarci. Le scelte di popolo, che gli storici percepiscono debolmente e che forse solo i grandi narratori sanno rievocare (e penso alle pagine tolstoiane che chiudono Guerra e Pace), furono allora inequivoche. I tedeschi apparvero come il nemico storico che aveva ostacolato il nostro Risorgimento, contro cui avevamo combattuto nel 1915-‘18, e che il fascismo aveva mascherato come alleato in un patto tra due ideologie e due dittatori, non certo in una solidarietà di culture e di popoli. L’estraneamento tra italiani e tedeschi nel 1943 fu radicale e reciproco. La memoria collettiva delle Nazioni ha ricordi tenaci. L’armistizio dell’8 settembre 1943 suscitò nei tedeschi l’astio verso gli italiani ancora una volta svelatisi traditori. Essi pensarono ad una replica della dichiarazione della nostra neutralità dell’agosto 1914, che preparava il passaggio dell’Italia dalla Triplice Alleanza con gli Imperi centrali alla Intesa con Francia e Inghilterra. Le contrapposizioni furono dunque da una parte e dall’altra nette. Il paradosso nella nostra psicologia collettiva, a conferma del riconoscimento del vero nemico, fu che nei ricoveri antiaerei non riuscivamo più ad avere sentimenti
  • 3. 3 ostili per gli aviatori anglo-americani, che devastarono le nostre città con bombardieri pesanti dal simbolico nome di Liberator. Senza questa corale agnizione del nemico non sarebbe neppure possibile dare un contenuto storicamente compiuto alla liberazione nazionale. Di qui la seconda considerazione, che l’inizio della lotta di liberazione fu una scelta militare. Gli italiani dovevano combattere contro i tedeschi. E dissolte le nostre forze armate, la lotta non poteva che essere impari, tra gruppi di irregolari male armati, difensori della propria nazione, e un potente esercito di occupazione. È la guerra partigiana, con le Squadre di azione patriottica nelle città, le brigate e le divisioni in montagna. La Liberazione di Genova, con l’atto di resa germanica del 25 aprile 1945, è emblematica di questa sproporzione di forze, tra italiani e tedeschi. Eppure il generale Günther Meinhold si arrende e non solo per l’andamento delle operazioni di guerra in Italia e per l’avvicinarsi della V armata americana. Delle truppe ai suoi ordini, alcuni reparti avrebbero potuto continuare a combattere sfruttando la superiorità di armamento. La Kriegsmarine al comando del capitano di vascello Max Berninghaus, decisa a opporsi alla insurrezione dei cittadini e dei partigiani, sconfessa la capitolazione e condanna a morte il generale Meinhold, il cui sottufficiale interprete dottor Joseph Pohl, giovane trentenne e fervente nazista si era intanto suicidato a Villa Migone, dove i tedeschi avevano trattato la resa con il Presidente del Comitato di Liberazione Nazionale per la Liguria, Remo Scappini, assistito dall’avv. Enrico Martino e il dott. Giovanni Savoretti, membri del Comitato, e dal maggiore Mauro Aloni, comandante della Piazza di Genova. Paolo Emilio Taviani, che aveva partecipato alla lotta di liberazione con il nome di battaglia di Riccardo Pittaluga, ha lasciato un racconto del periodo 1943-’45 nel libro intitolato Pittaluga racconta. Romanzo di fatti veri, pubblicato nel 1988.
  • 4. 4 Con la immediatezza e la concitazione della cronaca di fatti vissuti, siamo aiutati a capire come una macchina militare imponente e potente quale quella tedesca, che aveva trasformato Genova in una formidabile piazzaforte, essendo le industrie genovesi una risorsa irrinunciabile per la potenza occupante, cedesse dinanzi agli scioperi degli operai, alle incursioni dei patrioti in città, alla discesa delle unità partigiane dalla montagna, alla azione di coordinamento politico del Comitato di Liberazione della Liguria, alla mediazione triangolare, come l’ha definita M. Elisabetta Tonizzi, della Curia tra popolazione, nazifascisti e Resistenza. Si può dire che la liberazione di Genova è un ennesimo caso esemplare del rovesciamento del più forte da parte del più debole, quando il primo ha dalla sua parte la sola forza delle armi e l’altro la buona causa della libertà. Ha scritto Antonio Gibelli in uno studio dedicato a La classe lavoratrice genovese nella Resistenza che il documento della resa del generale Meinhold “costituisce una sorta di certificato di identità della nostra città, o se si vuole una specie di certificato di battesimo della Genova libera e civile nella quale abbiamo vissuto gli anni della Repubblica”. Ma la terza considerazione, che ci porta oltre i caratteri della italianità della liberazione nazionale e della organizzazione militare della resistenza, tocca il cuore della contesa recente sull’assorbimento nel disegno della egemonia culturale comunista del significato della Liberazione come evento realizzato dalla partecipazione preponderante delle unità partigiane comuniste e perciò indebitamente collocato nel calendario della memoria civile repubblicana. La Liberazione ricorderebbe non la concordia e l’unità degli italiani nella riconquistata libertà, ma la loro divisione nella guerra fratricida antifascista. E data la suggestione che su una storiografia cosiddetta revisionista esercitano le vicende dei vinti, come per il processo risorgimentale dell’Unità italiana vengono rivalutati i legittimisti borbonici e i briganti delle province meridionali, così emergono i vinti nella lotta di
  • 5. 5 resistenza i fascisti della Repubblica del Nord e gli assassinati dai partigiani comunisti. In tal modo la resistenza diventa non solo guerra civile tra fascisti e antifascisti, ma anche tra comunisti e anticomunisti, insomma una pagina cruenta tra fazioni italiane. Quanto queste riletture offuschino la realtà luminosa della Liberazione è di tutta evidenza. Esse vanno pacatamente discusse contestando soprattutto l’errore di opporre episodi particolari quando non proprio marginali a quadri e vicende generali. La passione civile può degradare a odio politico e alimentare vendette personali e private. Ma è obbligo dello storico distinguere e non confondere e generalizzare. Nella Resistenza combatterono 185 mila partigiani, tra cui 35 mila donne, di cui 683 uccise in combattimento, i morti furono 29 mila, 20 mila i mutilati e invalidi, 10 mila soldati della Divisione Acqui furono fucilati dai tedeschi a Cefalonia, altri 33 mila militari italiani morirono nei lager nazisti, oltre 14 mila civili furono vittime di rappresaglie o deportati, come gli ebrei, morirono nei campi di combattimento. Questo è il sacrificio italiano per ottenere la liberazione. Si possono aggiungere a queste cifre quelle dei 13 mila militari e 2.500 civili che caddero dall’altra parte tra quanti non volevano la Liberazione. Da una parte e dall’altra ci si è battuti in buona fede, con eroismo e con furore. Ma le scelte di campo non sono equivalenti. Le scelte individuali possono essere giuste o sbagliate. Le giuste corrispondono a quella corale concordia delle popolazioni che rivendicavano la protezione della propria italianità contro lo straniero. Le sbagliate si autoescludono dalla italianità, nell’obbedienza allo straniero occupante le nostre terre e padrone delle nostre vite. E qui passiamo ad una quarta riflessione. La Liberazione non si arresta alla cacciata dai territori del nostro perse degli invasori tedeschi, né alla caduta della Repubblica fascista. La Liberazione vuole fondare una nuova
  • 6. 6 Italia, diversa da quella del ventennio della dittatura, e diversa anche da quella dell’età liberale. Una nazione che fosse davvero una grande comunità, i cui cittadini non fossero mandati a morire in guerre ideologiche e imperialistiche o costretti a cercare lavoro all'estero, discriminati non solo tra ricchi e poveri, ma anche per la razza, la religione e le opinioni politiche. Una comunità che avesse come valore supremo non più lo Stato, ma la persona dell’uomo, e aiutasse questa persona a crescere nelle formazioni sociali, nella famiglia, nella scuola, nelle associazioni, nelle professioni. Una comunità ordinata nell’intreccio di diritti inviolabili che spettano alla persona umana e di doveri di solidarietà che i cittadini devono inderogabilmente adempiere l’uno verso l’altro nella vita politica, economica e sociale. Una comunità in cui tutte le istituzioni che si unificano nella parola Repubblica operano per rendere effettiva e non astratta la libertà e l’uguaglianza dei cittadini. Insomma la Liberazione era la vita nuova per le nuove generazioni degli italiani. Ecco perché quella liberazione dai tedeschi e dai fascisti non appariva che come premessa della Repubblica e della Costituzione. Quando il 2 giugno 1946 gli italiani e per la prima volta le italiane votarono per la Repubblica e per l’Assemblea Costituente, si fece fare un decisivo passo avanti alla Liberazione, non più apertura di una strada ma inizio di un cammino. E dovremmo misurare ogni 25 aprile quanta distanza abbiamo percorsa da quella partenza del 1945. La Liberazione è un esodo verso una terra promessa quale fu intravista e desiderata dai caduti di allora. Il 4 marzo 1947 in Assemblea Costituente Piero Calamandrei pronunciò un discorso le cui parole conclusive giova rileggere: “Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea Costituente: se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata
  • 7. 7 veramente una nuova storia: e si immagineranno, come sempre avviene che con l’andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio di Anna Maria Enriquez e di Tina Lorenzoni, nelle quali l’eroismo è giunto alla soglia della santità. Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservati la parte più dura e più difficile: quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, allenati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti. Non dobbiamo tradirli”. Ma, quinta riflessione, se la Liberazione è un nuovo cammino degli italiani, abbiamo il dovere di ricordarne le tappe, oltre la Repubblica e la Costituente: il decennio degli anni Cinquanta, la Ricostruzione; il decennio degli anni Sessanta, il miracolo economico; gli ani Settanta, gli anni di piombo; gli anni Ottanta, la crisi della partitocrazia; gli anni Novanta, la transizione costituzionale. Perché intitolare tante e diverse fasi della storia repubblicana alla Liberazione? Non certo soltanto per la banale considerazione che senza l’uscita dell’Italia dal fascismo e dalla guerra la sequenza storica successiva non sarebbe stata possibile. Piuttosto perché quei decenni, in cui abbiamo schematizzato la distanza dei nostri giorni da quelli
  • 8. 8 della Liberazione, si caratterizzano per un diverso rapporto dialettico con lo spirito della Liberazione. Costituzione, ricostruzione e sviluppo del Paese sono inveramento dei sogni e progetti di quanti vissero la lotta e la vittoria della Liberazione per una società più libera e prospera e moderna. Gli anni della contestazione studentesca e poi del terrorismo stragista a destra e brigatista a sinistra sono il segno di una eclissi dello spirito della Liberazione nell’animare una nuova politica di collaborazione tra le classi e i partiti che fino ad allora le avevano rappresentate. Freni derivanti dalle tensioni internazionali tra Unione Sovietica e Stati Uniti d’America, istanze di emancipazione dei gruppi sociali che andavano mutando la morfologia della società senza più confini certi tra proletariato contadino ed operaio e ceti medi, investendo le strutture della famiglia e del matrimonio, e sollecitando rivendicazioni femministiche e giovanili, non trovavano risposte in un establishment che paventando il collasso delle istituzioni cercava protezione in solidarietà occulte di lobbies o di logge massoniche mentre in parallelo si organizzavano e operavano i gruppi clandestini dell’eversione. Lo spirito della Liberazione ebbe ragione alla fine di quel decennio tragico che ebbe le centinaia di assassinati dai terroristi tra i quali Moro e Bachelet, per l’isolamento in cui i cittadini e i lavoratori abbandonarono stragisti e brigatisti senza farsene né suggestionare né intimorire e per la fermezza con cui i partiti di governo e di opposizione reagirono dinanzi ai ricatti estremi dei terroristi. A guardar bene anche quella fu, con modalità inedite, una cruenta lotta di liberazione. Negli anni Ottanta, la Repubblica dei partiti cominciò ad accusare una crisi di rappresentanza democratica. Le si andava contrapponendo una Repubblica dei cittadini, che evidentemente non si rispecchiavano più nei partiti che avevano espresso i comitati di liberazione nazionale e l’Assemblea Costituente e i Governi e i Parlamenti delle legislature repubblicane. Dietro quelle rappresentanze non c’erano più le classi dirigenti che avevano avuto
  • 9. 9 leader protagonisti della lotta antifascista e poi delle politiche economiche e sociali della ricostruzione degli anni Cinquanta e dello sviluppo degli anni Sessanta. Mentre si imputavano le insufficienze dei partiti alla Costituzione del 1948 e si cercavano modelli di riforma della forma di Stato e di governo, scoppiava la questione morale sulla dilagante corruzione politico- amministrativa. Tangentopoli dava inizio alla decapitazione di un intero ceto parlamentare e di governo mentre le commissioni bicamerali della IX, XI e negli anni Novanta della XIII legislatura concludevano senza un nulla di fatto i loro lavori di progetto di revisione costituzionale. Lo scioglimento formale di partiti di massa che avevano accompagnato l’evoluzione politica del paese, Democrazia Cristiana, Partito Socialista Italiano, Partito Comunista Italiano, segna, secondo una convenzione ormai acquisita dagli storici, politologi, politici e mass-media, la fine della I Repubblica. La incerta transizione costituzionale si aggrava nella presente XIV legislatura con una revisione che appartiene alla volontà della sola maggioranza di governo. L’ora presente è la più grave che il Paese vive dopo quel giorno della Liberazione di sessanta anni fa. In più i problemi della vita italiana non sono più prospettabili e risolvibili sulla lavagna delle questioni nazionali. Siamo nel contesto di una costituzione europea; siamo in un processo di globalizzazione dell’economia; attraversiamo una fase di grande disordine internazionale con un terrorismo fondamentalista islamico diffuso in ogni continente, con la organizzazione delle Nazioni Unite che stenta a realizzare i suoi fini statutari a cominciare da quello di prevenire o sedare il flagello delle guerre; condividiamo con tutti i paesi della terra i pericoli derivanti dall’aggravarsi delle alterazioni climatiche e degli squilibri ecologici; siamo un territorio di sbarco e di insediamento per flussi immigratori da paesi poveri dell’Asia e dell’Africa; la vita sociale è angustiata dai dilemmi della bioetica, insidiata dalla criminalità
  • 10. 1 organizzata, dalla devianza minorile, resa insicura dalla precarietà del lavoro e dalla emigrazione di capitali e imprese all’estero. Lo spirito della Liberazione che fu sogno e progetto di futuro dopo gli odi e le lotte per vincere il passato sembra smarrirsi nella complessità dei fattori in campo in ogni parte del nostro orizzonte. Occorre oggi dotarsi di conoscenze e di virtù civili per affrontare come cittadini consapevoli delle proprie libertà costituzionali e del propri diritti e anche e di più dei propri doveri le difficoltà che nei sessanta anni trascorsi erano riservate ai partiti, alla burocrazia, alla mano pubblica. Liberazione vuol forse significare nel secolo nuovo cittadinanza attiva, non solo nel dare investitura alla rappresentanza democratica ma anche nell’esercitare a sussidio delle istituzioni ogni iniziativa utile al bene comune e alla pace. Chi ritenga troppo oneroso o utopistico investire di più nella buona volontà dei cittadini che non nella attesa di buone scelte delle istituzioni, pensi a quel che rischiarono i partigiani, i soldati, i civili nella guerra di liberazione per preparare per noi le conquiste di quel migliore avvenire che, con ingratitudine o incoscienza, rischiamo di non sapere difendere. .