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La Newsletter dell’Ambasciata di Palestina
Roma, Italia
No 59
27 febbraio 2017
“Il Ministero degli Esteri palestinese chiede alla comunità internazionale di prendere una posizione
chiara ed esplicita sui tentativi di Israele di abbandonare la soluzione dei due Stati”
23 febbraio 2017
1
NEWSLETTER No 59
Indice:
I) Abbas si appella al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite
II) Il Ministero degli Esteri della Palestina chiede misure deterrenti per Israele
III) Il processo al soldato Azarya è stato una farsa
IV) Mobilitazione per la Campagna Open Shuhada Street
2
I – Abbas si appella al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite
Intervenendo il 27 febbraio alla 34esima Sessione del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite
(HRC) che avrebbe dovuto rivelare i nomi delle aziende che hanno interessi commerciali all’interno
degli insediamenti illegali nella Cisgiordania, il Presidente Abu Mazen ha voluto condividere con il
Consiglio “la realtà delle condizioni dei diritti umani nello Stato della Palestina Occupato”,
definendole “tragiche”, dal momento che “Israele, la potenza occupante, continua a violare le
disposizioni della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ponendosi al di sopra della legge”. Per
questo, “adesso più che mai, c’è bisogno che le Nazioni Unite e le sue agenzie, ma in particolare il
Consiglio di Sicurezza, si prendano le loro responsabilità”.
Ci vuole, secondo Abu Mazen, “un
sistema di protezione internazionale
per il popolo palestinese”, in grado di
porre termine alla confisca di terra e
di acqua palestinese, all’arresto
indiscriminato di civili e alla
demolizione delle loro case,
garantendo invece “una vita pacifica
e sicura ai bambini della Palestina”.
In particolare, per quel che riguarda
la questione degli insediamenti, che
impedisce la creazione di uno Stato
palestinese ed è fonte di violenza, “urge che la Risoluzione 2334 sia messa in pratica”. Non bisogna
invece fare nessun passo che possa contribuire a rafforzare l’occupazione israeliana della Palestina,
ad esempio spostando le ambasciate a Gerusalemme, visto che “Noi non riconosciamo l’annessione
di Gerusalemme e la Città Santa deve essere aperta ai fedeli delle tre religioni monoteistiche”. Su
questo punto Abu Mazen ha voluto essere molto chiaro: “La nostra posizione rifiuta l’uso della
religione per raggiungere obiettivi politici”.
E’ avendo tutto questo a mente che il Presidente della Palestina ha reiterato la richiesta che sia
pubblicata la lista di aziende che violano i diritti umani, insistendo sull’importanza che vengano
rafforzati i meccanismi di monitoraggio del Consiglio per i Diritti Umani.
Da parte sua, la Palestina sta aderendo agli standard previsti dal diritto internazionale. A questo
proposito, Abu Mazen si è detto particolarmente fiero di aver presentato il primo Rapporto alla
Convenzione per l’Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione Contro le Donne, in cui si
sottolinea il sacrificio e il ruolo delle donne palestinesi nel processo di costruzione dello Stato di
Palestina.
L’auspicio è che il Consiglio possa porre termine alle violazioni dei diritti umani in Palestina, perché
questo “ristabilirà il rispetto dei diritti umani in tutto il mondo”. In questo senso, quello che si deve
affrontare e superare in Palestina è un vero e proprio “test”.
Vedi:
https://www.youtube.com/watch?v=HU1EuxwLH0c
II - Il Ministero degli Esteri della Palestina chiede misure deterrenti per Israele
Il 22 febbraio, il Ministero degli Esteri della Palestina ha condannato con forza la decisione del
governo israeliano di annettersi 25 ettari di terreno a Gerusalemme Est con lo scopo di costruire
2.000 nuove unità abitative illegali, ed ha espresso uguale disappunto di fronte alla distruzione
operata per mezzo di ruspe nella riserva di Wadi Qana, avente lo scopo di estendere l’insediamento
3
di Yakir aggiungendo altre 2.000 case. Si tratta di pratiche
mirate a creare “fatti sul campo”. In questo modo, la
coalizione di destra del governo israeliano cerca di risolvere
unilateralmente le questioni relative allo status finale, “ciò che
conferma l’assenza in Israele di un vero partner di pace”.
Stando così le cose, il Ministero degli Esteri della Palestina
esorta i Paesi di tutto il mondo “a passare dalla semplice
condanna degli insediamenti e dei loro effetti sulla soluzione
dei due Stati, all’imposizione di reali sanzioni sullo Stato
occupante, costringendolo a smetterla di ribellarsi contro il
diritto internazionale, le risoluzioni e gli accordi sottoscritti”.
Vedi:
http://www.mofa.pna.ps/en/2017/02/22/ministry-of-foreign-affairs-the-absence-of-deterrent-
international-sanctions-encourages-israel-to-unilaterally-resolve-the-final-status-issues/
III – Il processo al soldato Azarya è stato una farsa
Il soldato israeliano Elor Azarya, colpevole di aver ucciso a sangue freddo un giovane coetaneo
palestinese che non rappresentava alcuna minaccia per nessuno, è stato condannato alla ridicola
pena di un anno e mezzo di reclusione. Ma i suoi difensori tenteranno di evitargli anche questa breve
detenzione, cercando di dimostrare che l’esecuzione del ventunenne Abd Al-Fattah Al-Sharif non
meriti un simile castigo.
I fatti dimostrano invece che quella di Azarya è stata un’inutile crudeltà, perché non può essere
descritta diversamente l’azione di chi spara alla testa a un ragazzo disteso a terra gravemente ferito,
soprattutto se viene commessa dopo aver dichiarato: “questo cane è ancora vivo…merita di morire”.
Non a caso il soldato Azarya non si è mai detto pentito del gesto compiuto.
I familiari di Al-Sharif lo hanno definito un
“processo farsa” conclusosi con una pena
lieve, capace però di distrarre l’attenzione da
una più ampia cultura dell’impunità che
caratterizza le forze di occupazione. Non c’è
da sorprendersene e non se ne sono
sorpresi, sottolineando come la condanna
attribuita al soldato israeliano per aver
ucciso Al-Sharif sia “inferiore a quella inflitta
a un bambino palestinese per aver lanciato
una pietra”. Ma hanno giurato di dare
battaglia in sede di Corte Penale
Internazionale.
Allo stesso tempo, Hanan Ashrawi, Membro del Comitato Esecutivo dell’OLP, ha parlato di una
“parodia della giustizia”, sostenendo quanto sia “ormai evidente la compromissione della giustizia
israeliana con il razzismo sistematico e con la cultura dell’odio che caratterizzano l’occupazione”.
Tant’è che se il 67% dell’opinione pubblica israeliana ha chiesto per Azarya il perdono da parte del
Presidente e si è mobilitata in sua difesa al grido di “è figlio di ciascuno di noi”, il Ministro
dell’Istruzione israeliano Naftali Bennett ha detto che “la sicurezza di Israele impone di perdonarlo”,
mentre l’attivista palestinese che con il suo filmato ha catturato le immagini dell’omicidio ha
ricevuto centinaia di minacce di morte e di aggressioni da parte dei coloni israeliani.
4
La verità è che i soldati israeliani sono abituati molto male se si considera che su almeno 109
uccisioni di palestinesi ad opera dei coloni e delle forze armate israeliane nel 2016, quella di Al-Sharif
è l’unica per cui un membro dell’esercito è stato se non altro dichiarato colpevole.
Vedi:
https://www.maannews.com/Content.aspx?id=775583
http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4926063,00.html
IV – Mobilitazione per la Campagna Open Shuhada Street
Nell’ambito della Campagna
Internazionale Open Shuhada Street - che
da ormai otto anni sensibilizza contro le
misure di restrizione e separazione
imposte dal governo israeliano ai
palestinesi della città di Hebron e di tutti i
Territori Occupati, chiedendo la riapertura
di Shuhada Street, la principale arteria
della città vecchia di Hebron, off limits per
i palestinesi a cui viene impedito l’ingresso
e il transito con blocchi stradali e
checkpoint - si è svolta e conclusa, dal 18
al 26 febbraio - la settimana di
mobilitazione organizzata in Italia da
AssopacePalestina e dalla Rete della Pace, che ha visto la partecipazione di Sohaib Zahda e Nour
Abuhaisha, due giovani attivisti della Ong palestinese Youth Against Settlements.
Si è così ricordato come Shuhada Street, la Strada dei Martiri che da Nord a Sud attraversa una delle
città più importanti della Palestina, sia interamente chiusa dai soldati israeliani perché al suo interno
si sono stabiliti circa 600 coloni israeliani che rivendicano questo luogo per diritto divino e che con
l’aiuto delle forze di occupazione hanno costretto il 42% della popolazione palestinese della città
vecchia ad andarsene. Per questo, con il mercato chiuso, le case abbandonate e la strada principale
deserta, la parte più antica di Hebron è adesso chiamata “la città fantasma”, mentre nel resto della
città continuano a vivere circa 290.000 palestinesi.
Sono innanzitutto questi palestinesi ad aver dato vita alla Campagna, chiedendo “Aprite la strada,
smantellate il ghetto, fuori i coloni!”. Tra loro, Sohaib e Nour, che sono venuti in Italia per far parlare
i fatti, raccontare come siano stati costretti a lasciare le loro case, spiegare cosa significhi vivere
sotto occupazione circondati dall’esercito e dai coloni.
Il 25 febbraio ricorreva l’anniversario del massacro avvenuto dentro la Moschea di Abramo, quando,
nel 1994, 29 palestinesi in preghiera furono uccisi e in 100 furono feriti da Baruch Goldstein, un
medico fanatico di Brooklyn. Da allora, non sono stati cacciati i coloni da Hebron, ma i palestinesi,
di cui si cerca, giorno dopo giorno, di cancellare la presenza.
Vedi:
http://www.assopacepalestina.org/2017/02/intervista-a-luisa-morgantini-su-shuhada-street/
https://www.youtube.com/watch?v=rkWzKD0Ux0M

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  • 1. La Newsletter dell’Ambasciata di Palestina Roma, Italia No 59 27 febbraio 2017 “Il Ministero degli Esteri palestinese chiede alla comunità internazionale di prendere una posizione chiara ed esplicita sui tentativi di Israele di abbandonare la soluzione dei due Stati” 23 febbraio 2017
  • 2. 1 NEWSLETTER No 59 Indice: I) Abbas si appella al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite II) Il Ministero degli Esteri della Palestina chiede misure deterrenti per Israele III) Il processo al soldato Azarya è stato una farsa IV) Mobilitazione per la Campagna Open Shuhada Street
  • 3. 2 I – Abbas si appella al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite Intervenendo il 27 febbraio alla 34esima Sessione del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (HRC) che avrebbe dovuto rivelare i nomi delle aziende che hanno interessi commerciali all’interno degli insediamenti illegali nella Cisgiordania, il Presidente Abu Mazen ha voluto condividere con il Consiglio “la realtà delle condizioni dei diritti umani nello Stato della Palestina Occupato”, definendole “tragiche”, dal momento che “Israele, la potenza occupante, continua a violare le disposizioni della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ponendosi al di sopra della legge”. Per questo, “adesso più che mai, c’è bisogno che le Nazioni Unite e le sue agenzie, ma in particolare il Consiglio di Sicurezza, si prendano le loro responsabilità”. Ci vuole, secondo Abu Mazen, “un sistema di protezione internazionale per il popolo palestinese”, in grado di porre termine alla confisca di terra e di acqua palestinese, all’arresto indiscriminato di civili e alla demolizione delle loro case, garantendo invece “una vita pacifica e sicura ai bambini della Palestina”. In particolare, per quel che riguarda la questione degli insediamenti, che impedisce la creazione di uno Stato palestinese ed è fonte di violenza, “urge che la Risoluzione 2334 sia messa in pratica”. Non bisogna invece fare nessun passo che possa contribuire a rafforzare l’occupazione israeliana della Palestina, ad esempio spostando le ambasciate a Gerusalemme, visto che “Noi non riconosciamo l’annessione di Gerusalemme e la Città Santa deve essere aperta ai fedeli delle tre religioni monoteistiche”. Su questo punto Abu Mazen ha voluto essere molto chiaro: “La nostra posizione rifiuta l’uso della religione per raggiungere obiettivi politici”. E’ avendo tutto questo a mente che il Presidente della Palestina ha reiterato la richiesta che sia pubblicata la lista di aziende che violano i diritti umani, insistendo sull’importanza che vengano rafforzati i meccanismi di monitoraggio del Consiglio per i Diritti Umani. Da parte sua, la Palestina sta aderendo agli standard previsti dal diritto internazionale. A questo proposito, Abu Mazen si è detto particolarmente fiero di aver presentato il primo Rapporto alla Convenzione per l’Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione Contro le Donne, in cui si sottolinea il sacrificio e il ruolo delle donne palestinesi nel processo di costruzione dello Stato di Palestina. L’auspicio è che il Consiglio possa porre termine alle violazioni dei diritti umani in Palestina, perché questo “ristabilirà il rispetto dei diritti umani in tutto il mondo”. In questo senso, quello che si deve affrontare e superare in Palestina è un vero e proprio “test”. Vedi: https://www.youtube.com/watch?v=HU1EuxwLH0c II - Il Ministero degli Esteri della Palestina chiede misure deterrenti per Israele Il 22 febbraio, il Ministero degli Esteri della Palestina ha condannato con forza la decisione del governo israeliano di annettersi 25 ettari di terreno a Gerusalemme Est con lo scopo di costruire 2.000 nuove unità abitative illegali, ed ha espresso uguale disappunto di fronte alla distruzione operata per mezzo di ruspe nella riserva di Wadi Qana, avente lo scopo di estendere l’insediamento
  • 4. 3 di Yakir aggiungendo altre 2.000 case. Si tratta di pratiche mirate a creare “fatti sul campo”. In questo modo, la coalizione di destra del governo israeliano cerca di risolvere unilateralmente le questioni relative allo status finale, “ciò che conferma l’assenza in Israele di un vero partner di pace”. Stando così le cose, il Ministero degli Esteri della Palestina esorta i Paesi di tutto il mondo “a passare dalla semplice condanna degli insediamenti e dei loro effetti sulla soluzione dei due Stati, all’imposizione di reali sanzioni sullo Stato occupante, costringendolo a smetterla di ribellarsi contro il diritto internazionale, le risoluzioni e gli accordi sottoscritti”. Vedi: http://www.mofa.pna.ps/en/2017/02/22/ministry-of-foreign-affairs-the-absence-of-deterrent- international-sanctions-encourages-israel-to-unilaterally-resolve-the-final-status-issues/ III – Il processo al soldato Azarya è stato una farsa Il soldato israeliano Elor Azarya, colpevole di aver ucciso a sangue freddo un giovane coetaneo palestinese che non rappresentava alcuna minaccia per nessuno, è stato condannato alla ridicola pena di un anno e mezzo di reclusione. Ma i suoi difensori tenteranno di evitargli anche questa breve detenzione, cercando di dimostrare che l’esecuzione del ventunenne Abd Al-Fattah Al-Sharif non meriti un simile castigo. I fatti dimostrano invece che quella di Azarya è stata un’inutile crudeltà, perché non può essere descritta diversamente l’azione di chi spara alla testa a un ragazzo disteso a terra gravemente ferito, soprattutto se viene commessa dopo aver dichiarato: “questo cane è ancora vivo…merita di morire”. Non a caso il soldato Azarya non si è mai detto pentito del gesto compiuto. I familiari di Al-Sharif lo hanno definito un “processo farsa” conclusosi con una pena lieve, capace però di distrarre l’attenzione da una più ampia cultura dell’impunità che caratterizza le forze di occupazione. Non c’è da sorprendersene e non se ne sono sorpresi, sottolineando come la condanna attribuita al soldato israeliano per aver ucciso Al-Sharif sia “inferiore a quella inflitta a un bambino palestinese per aver lanciato una pietra”. Ma hanno giurato di dare battaglia in sede di Corte Penale Internazionale. Allo stesso tempo, Hanan Ashrawi, Membro del Comitato Esecutivo dell’OLP, ha parlato di una “parodia della giustizia”, sostenendo quanto sia “ormai evidente la compromissione della giustizia israeliana con il razzismo sistematico e con la cultura dell’odio che caratterizzano l’occupazione”. Tant’è che se il 67% dell’opinione pubblica israeliana ha chiesto per Azarya il perdono da parte del Presidente e si è mobilitata in sua difesa al grido di “è figlio di ciascuno di noi”, il Ministro dell’Istruzione israeliano Naftali Bennett ha detto che “la sicurezza di Israele impone di perdonarlo”, mentre l’attivista palestinese che con il suo filmato ha catturato le immagini dell’omicidio ha ricevuto centinaia di minacce di morte e di aggressioni da parte dei coloni israeliani.
  • 5. 4 La verità è che i soldati israeliani sono abituati molto male se si considera che su almeno 109 uccisioni di palestinesi ad opera dei coloni e delle forze armate israeliane nel 2016, quella di Al-Sharif è l’unica per cui un membro dell’esercito è stato se non altro dichiarato colpevole. Vedi: https://www.maannews.com/Content.aspx?id=775583 http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4926063,00.html IV – Mobilitazione per la Campagna Open Shuhada Street Nell’ambito della Campagna Internazionale Open Shuhada Street - che da ormai otto anni sensibilizza contro le misure di restrizione e separazione imposte dal governo israeliano ai palestinesi della città di Hebron e di tutti i Territori Occupati, chiedendo la riapertura di Shuhada Street, la principale arteria della città vecchia di Hebron, off limits per i palestinesi a cui viene impedito l’ingresso e il transito con blocchi stradali e checkpoint - si è svolta e conclusa, dal 18 al 26 febbraio - la settimana di mobilitazione organizzata in Italia da AssopacePalestina e dalla Rete della Pace, che ha visto la partecipazione di Sohaib Zahda e Nour Abuhaisha, due giovani attivisti della Ong palestinese Youth Against Settlements. Si è così ricordato come Shuhada Street, la Strada dei Martiri che da Nord a Sud attraversa una delle città più importanti della Palestina, sia interamente chiusa dai soldati israeliani perché al suo interno si sono stabiliti circa 600 coloni israeliani che rivendicano questo luogo per diritto divino e che con l’aiuto delle forze di occupazione hanno costretto il 42% della popolazione palestinese della città vecchia ad andarsene. Per questo, con il mercato chiuso, le case abbandonate e la strada principale deserta, la parte più antica di Hebron è adesso chiamata “la città fantasma”, mentre nel resto della città continuano a vivere circa 290.000 palestinesi. Sono innanzitutto questi palestinesi ad aver dato vita alla Campagna, chiedendo “Aprite la strada, smantellate il ghetto, fuori i coloni!”. Tra loro, Sohaib e Nour, che sono venuti in Italia per far parlare i fatti, raccontare come siano stati costretti a lasciare le loro case, spiegare cosa significhi vivere sotto occupazione circondati dall’esercito e dai coloni. Il 25 febbraio ricorreva l’anniversario del massacro avvenuto dentro la Moschea di Abramo, quando, nel 1994, 29 palestinesi in preghiera furono uccisi e in 100 furono feriti da Baruch Goldstein, un medico fanatico di Brooklyn. Da allora, non sono stati cacciati i coloni da Hebron, ma i palestinesi, di cui si cerca, giorno dopo giorno, di cancellare la presenza. Vedi: http://www.assopacepalestina.org/2017/02/intervista-a-luisa-morgantini-su-shuhada-street/ https://www.youtube.com/watch?v=rkWzKD0Ux0M