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Collana AFRODITE
diretta da Mariella Calcagno

AFRODITE guida questa collana all’insegna di ciò che fa parte di ognu-
no di noi: l’erotismo. Quell’erotismo che ci fa sognare, eccitare e tal-
volta trasgredire, nella scrittura, nelle pagine di un libro. Uno spazio
dedicato a ciò che nella vita di tutti i giorni ci rende talvolta più vivi e
maliziosi. AFRODITE si suddivide in due sezioni: narrativa erotica e
giallo erotico. IMERO segna le nostre passioni più interiori e segrete, la
sensualità, la trama dei sensi. PHOBOS ci accompagna verso gli abissi,
verso la gravità delle azioni, verso il mistero e la paura, sottolineato
dall’eros, dal sesso, dalla trasgressione. Parole scritte e lette da chi
ama emozionarsi con i sensi.

1. MARIELLA CALCAGNO, Paura, 2007, 128 pp.
Mariella calcagno




  Paura




   Graphe.it edizioni
I edizione, novembre 2007

©   Graphe.it Edizioni di Roberto Russo, 2007
    tel +39.075.50.92.315 – fax +39.075.58.37.286
    www.graphe.it • graphe@graphe.it


ISBN:          978-88-89840-30-6

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA


Copertina di ROBERTO DI IULIO


I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento totale o parziale,
con qualsiasi mezzo (compresi microfilm e copie fotostatiche),
sono riservati per tutti i paesi.
A te che hai creduto in me
             dal primo momento che mi hai
                        guardato negli occhi
                                Ai tuoi occhi
che mi hanno sempre vista per ciò che sono,
                            mostrandomelo.
                                Al tuo cuore,
     a cui mi hai legata senza usare catene.
                             A te, Armando.
PREFAZIONE


  Magari i giornali che Mariella Calcagno racconta in questo libro sono
molto diversi da quelli veri. Nel senso che i secondi sono molto peggio
dei primi. E magari è diversa anche la polizia. Ma in questa città senza
nome, che potrebbe essere al Nord come al Sud, nel satollo Nord-Est o
nel grigio Nord-Ovest, Mariella mette indietro le lancette del tempo e
costruisce un mondo non vero ma credibile, una scacchiera classica
dove le pedine si muovono senza sforzo apparente tutte tese a
confondere le posizioni, a imbrogliare le piste, a dissimulare,
a sorprendere perfino chi le muove. Insomma l’inghippo c’è e, una
volta cominciato, questo libro deve essere letto fino in fondo, aprendo
(e chiudendo) una piacevole parentesi nella propria giornata.
  E sarà, ve lo prometto, un divertimento. Divertimento maschile,
soprattutto, visto che la giornalista che Mariella ha inventato ha tutti i
numeri per fare girare la testa al lettore: intelligente, bella, volitiva,
ambiziosa. Soprattutto sensuale ed erotica. Una che sa ascoltare il
proprio corpo, che conosce il brivido dell’eccitazione, capace di
lasciarsi avvolgere da quel minimo di dannazione che condisce come il
sale ogni pietanza che si desidera gustosa ma, nello stesso tempo, col
cuore pieno di desideri “puliti”, quelli di chi cerca la passione che non
abiti molto distante dalla Favola.
  I brani erotici, numerosi e ben raccontati, non sono mai fini a sé stessi
e intrecciano la storia della protagonista-segugio con quella della sua
preda. Perché il contesto del romanzo ha il sesso come centro di gravità
visto che qui si racconta di un serial killer che strangola le sue belle
e sofisticate vittime nel momento in cui vengono portate dall’assassino
stesso al “piacere perfetto”. Eros e Tanatos, Amore e Morte, ricetta
tradizionale anche nella “letteratura di genere”, qui servono come
bulini usati per restaurare un mobile antico. La “nera” delle stragi cupe,
dei “brutti sporchi e cattivi”, delle scuole degli orchi, dei serial killer di
tassisti: questo, ultimamente, ci passa il governo. Così Mariella ha
pensato, appunto, di riportare indietro l’orologio della cronaca
lasciando intonso quello del tempo e ha ambientato ai giorni nostri una


                                                                            7
vicenda che sembra presa dai rotocalchi degli anni Sessanta con le
vicende di belle donne uccise, belle donne assassine, di ricchi che più
ricchi non si può e di poveri truffaldini. Quelle che incollavano i
giornali alle mani di milioni di lettori. Altro che mafia, pentiti, servizi
segreti. Alla fine avrete letto un libro, un’opera di fantasia. Ma pensate
se tutto quello che leggerete fosse cronaca. Ebbene, conclusa la
vicenda, sarebbe dimenticato in pochi giorni e i giornali ne avrebbero
scritto rimpastando i comunicati stampa della questura, raccolti nel
“giro” mattutino di cronisti ormai impiegati che si insigniscono del
titolo di un mestiere che non c’è più.
   Chi lavora nell’informazione sa bene che oggi non esiste più un caso
che diventi Caso e qualcuno destinato a seguirlo per giorni e giorni. Il
cronista che va a cercarsi le notizie è un ruolo ad esaurimento, incalzato
dall’orda famelica di quanti stanno davanti a un telefono o a un
computer aspettando che le notizie arrivino. E non importa chi
stabilisce come, quando e in che ordine devono arrivare. Così
paradossalmente l’informazione oggi viene di fatto gestita fuori dagli
organi deputati. La nostra bella cronista avrebbe davvero vita difficile.
Ma potrebbe sempre chiedere di essere trasferita alla redazione politica
dove, ormai, la “nera” è di casa. O forse è meglio immaginarla ancora
lì e vederla muoversi come in un film americano in bianco e nero. Tra
un amplesso e un pedinamento.

                                                        Daniele Billitteri




8
Mariella calcagno




  Paura




   G
Lo sentiva dentro con potenza: la prendeva ora come le aveva spie-
gato al telefono, facendola bagnare e chiedendole di resistere fino al
suo arrivo.
  Legata con le mani alla spalliera del letto, faceva di lei ciò che vole-
va. Mai come questa volta nella sua vita, Stefania aveva provato emo-
zioni così forti. Lui la faceva impazzire come nessuno mai.
  Per la prima volta si era lasciata andare completamente, lei che una
volta fingeva orgasmi con gli uomini, perché una bella donna non può
non venire, una bella donna regala sempre alte prestazioni.
  Con lui non c’era stato bisogno di finzioni, muri dove nascondersi,
niente.
  Lui l’aveva scopata come aveva sempre voluto, facendola sentire
femmina. Le dava ciò che voleva, semplicemente.
  Quella sera era arrivato puntualissimo come sempre, una rosa in una
mano, una bottiglia di champagne nell’altra.
  Romantico e indagatore nello sguardo, la baciò dolcemente stringen-
dole un capezzolo fino a farla sussultare.
  Cenarono quasi silenziosamente. Quando si faceva desiderare per
giorni, incontrandolo non riusciva nemmeno a parlare tanto il deside-
rio di lui le occupava la mente, i sensi, la voglia assurda che sentiva
fra le cosce.
  Avevano cominciato lì sul tavolo, il primo orgasmo della serata la rag-
giunse a gambe divaricate con la testa di lui in mezzo che la leccava
voracemente e la penetrava con il collo della bottiglia dello champagne.
  Strinse i muscoli della vagina ripensando al suo sguardo soddisfatto
e sardonico mentre si rialzava e beveva al collo lo spumante francese
col sapore di lei…
  La prese in braccio e le mise il sesso in bocca, durissimo, glielo spin-
se fino in gola, senza guardare se le facesse male.
  La eccitava questo suo comportamento, lui la dominava interamente.
  Iniziò poi scoparla a lungo.
  Le sollevò le gambe e le appoggiò sulle sue spalle, cominciò a sodo-
mizzarla lentamente, troppo lentamente. Stefania non riusciva nemme-
no più a gemere per il fortissimo piacere, chiuse gli occhi e si lasciò
andare pienamente, aspettando quelle spinte decise e calcolate che
sapeva sarebbero arrivate a breve.
  Le tolse la guepiere, sfilando i laccetti, allungandoli al massimo.
  Iniziò a spingersi in lei sempre più velocemente e premendo il polli-
ce sul suo clitoride. Stefania era molto vicina all’orgasmo. Lui poggiò
la guepiere sul suo collo, legandola con i laccetti. Stefania non ci fece
caso, sapeva che lui l’amava così.


                                                                       11
Le contrazioni dell’orgasmo cominciarono a farla tremare, mentre
lui… il suo lui, cominciò a stringerle il collo, lentamente ma sempre più
a fondo, sempre di più.
  Gli occhi di lei sembrarono uscirle fuori, mentre attoniti si chiedeva-
no cose stesse accadendo.
  Lui venne dentro di lei… nel momento stesso in cui non la sentì più
respirare.




12
Ero incazzatissima quella mattina. Sì, incazzatissima.
  Non amo usare questi epiteti molto spesso, ma ero stufa di scrivere
servizi su vip o di stupidi casi di litigi fra mariti e mogli!
  Anni di gavetta mi avevano portato fino a quel giornale: due anni nel
mio primo quotidiano, giusto il tempo di far l’esame per diventare gior-
nalista professionista, poi varie testate per alcuni anni, fino ad arrivare
al Nuovo Giorno. Qui pensavo di far carriera, l’ambiente mi piaceva,
era dinamico e molto giovane. Chissà perché ma ero convinta che qui
avrei fatto il grande salto.
  Però erano già due anni che non accadeva nulla di speciale, per me.
  I soliti articoli, niente di eccitante.
  Ero talmente presa nella mia scala professionale che ero diventata
piuttosto fredda col mondo esterno. Lavoro solo lavoro.
  La vita non era stata esattamente generosa con me, nessuno mi aveva
mai regalato nulla, ogni piccola cosa me l’ero guadagnata: questo crea-
va un orgoglio molto forte ma inattaccabile.
  Sin da ragazza avevo sempre amato scrivere. Dopo il diploma scola-
stico avevo avuto la fortuna di poter convertire questa mia passione in
una professione vera e propria affiancandomi ad un corrispondente
locale ormai anziano. I suoi consigli mi furono molto preziosi e mi ave-
vano aiutato ad entrare nel primo giornale.

   Quando fui assunta in quel giornale, il Nuovo Giorno, ero al settimo
cielo: finalmente avevo la mia occasione di manifestare ciò che sapevo
fare: cronaca nera, quello era il mio pane. Sapevo di essere brava,
di saper cercare indizi alla pari del migliore investigatore privato, cono-
scevo i trucchi del mestiere, come far parlare la gente, non avevo paura
di nulla, neppure del peggiore dei delinquenti.
   Ero solo delusa del fatto che non riuscivo a dimostrare il mio talento:
il capo redazione mi trattava sempre come una delle ultime arrivate e
quindi a suo parere dovevo fare quella che lui riteneva la giusta gavet-
ta, ed io ero stanca, basta!, volevo un caso di quelli da far apparire i
titoli sul giornale a carattere cubitali.
   Mi ero sistemata bene in quella metropoli, avevo alcuni amici, ma la
mia unica aspirazione era sfondare nel giornalismo. Non avevo fidan-
zati, salvo qualche avventura puramente sessuale, niente di più. Sentivo
la mia famiglia nel fine settimana, un cinema, una pizza con qualche
amica, niente di veramente speciale. Il lavoro era ciò a cui ambivo.
   Dividevo l’ufficio con un collega, un uomo sui trentasette anni, – io
di anni ne ho trentadue – simpatico e sempre disponibile, adocchiato da
più di una donna all’interno del giornale. Qualcuna mi aveva fatto qual-


                                                                        13
che battuta su quanto fossi fortunata a stargli vicino per ore. A me non
interessava avere storie in quel momento, anche se lui aveva un corpo
da fare invidia ad un atleta e due occhi… due occhi neri e profondi. Io
non lo vedevo sotto quell’aspetto, ma solo come un collega. Il suo
nome mi aveva colpito, era inusuale, Manfredi. Sembrava quasi un
cognome, curioso.
  I suoi capelli neri leggermente mossi stonavano col suo modo di
vestire casual, ma sempre perfetto e preciso, comunque un gusto ricer-
cato. Le sue spalle grandi davano sicurezza anche se lo sguardo serio
gli conferiva un’aria sempre ombrosa.
  Un’esperienza invidiabile la sua: da giornalista aveva lavorato in due
dei giornali più famosi dello stato fino ad approdare al Nuovo Giorno
e si era conquistato una bella autonomia, si muoveva liberamente.
Il suo modo di scrivere era preciso, uno stile inconfondibile, mai scon-
tato. Anche se non collaboravamo molto lo rispettavo.

  Avevo scongiurato il mio capo redazione di darmi quel caso ma non
voleva ascoltarmi. Lo pregai più volte e disse che per me era ancora
presto, quello era un caso per professionisti. Io cos’ero?
  Quella storia la seguivo da mesi, mi intrigava, mi faceva impazzire ed
andare in escandescenze. Perché un uomo uccide una donna dopo aver-
la fatta innamorare?
  Nel giro di circa otto mesi, quattro donne furono trovate morte nel loro
appartamento, nude, dopo aver avuto un rapporto sessuale consenziente,
strangolate col loro stesso reggicalze, tutte nello stesso identico modo.
Gli inquirenti dopo il secondo caso cominciarono a sospettare di un serial
killer, al terzo ne furono convinti. Ciò che univa i quattro omicidi era la
stessa tecnica usata, ma non solo. Scavando nella vita privata delle vitti-
me ricorrevano forti similitudini: donne in carriera, single che prima
della loro morte avevano avuto una storia con uomo di cui nessuno dei
conoscenti ne conosceva l’identità, nessuno lo aveva mai visto.
  Mi intrigava questa maledetta storia, mi chiedevo cosa farneticasse la
mente di quell’uomo. Perché per ucciderle aveva prima bisogno di farle
innamorare o di creare una storia?
  Studiavo quel caso da mesi, in ogni particolare, avevo addirittura
comprato libri inerenti ad omicidi compiuti da psicopatici, mi ritrova-
vo a passeggiare davanti alle case delle vittime, immaginando cosa
avevano provato negli ultimi secondi della loro vita.

  Tornai nel mio ufficio, tremante di rabbia, sbattendo la borsa sul tavo-
lo, imprecando ad alta voce chiedendo chi cazzo fosse quello a cui ave-


14
vano affidato il caso. Manfredi rimase in silenzio alcuni minuti, guar-
dandomi. Non parlavo molto con lui, ci guardammo negli occhi per
alcuni istanti. «L’hanno affidato a me». Disse con molta calma.
  Sentii il bisogno di una sigaretta, ma ero riuscita a superare quasi tutta
la mattina senza fumarne nemmeno una: dovevo resistere. La rabbia
scoppiò in ogni caso, volevo smettere di fumare, quindi nervosa la ero,
e Manfredi mi disse con la sua solita flemma quella frase.

  Lo guardai quasi con odio. Perché a lui? Cazzo!
  «A te?» Non volevo crederci.
  «Sì, mi spiace Francesca, ma sono qui al giornale da più tempo di te.
Mi sembra giusto che sia io a seguire questa storia, non credi?»
  Non volevo nemmeno rispondergli, aveva ragione forse, ma anch’io
volevo la mia possibilità.
  «Scusami, non ce l’ho con te, ma quando mi daranno qualcosa che mi
farà scattare l’adrenalina per scrivere come sento io? Questo servizio me
lo sento nel sangue, so che lo farei bene, l’ho sorvegliato per tutti questi
mesi. Sei fortunato ma io m’incazzo lo stesso!» Ero davvero arrabbiata.
  Mi sorrise, si alzò e mi disse che doveva proprio andare, uscì salutan-
domi con un: «Ciao, a domani».
  Mi arrabbiai ancora di più: cosa faceva ora? Si pavoneggiava della
sua conquista con me? Sorrideva del fatto che io subivo questo smac-
co dal mio collega più vicino?
  Che vada a farsi fottere anche lui, pensai.
  Mi appoggiai alla scrivania posta di fronte alla finestra e respirai pro-
fondamente, avevo troppa rabbia. Calmati Francesca. Guardai l’ora,
era già buio, decisi di andare a casa e forse una doccia calda mi avreb-
be calmata.
  La città era in preda alle ultime corse ai negozi che stavano per chiu-
dere e le luci della strada erano quasi tutte accese, non riuscivo a smet-
tere di pensare al mio caso, lo sentivo talmente mio che mi faceva
impazzire l’idea che fosse Manfredi ad occuparsene.
  Un pacchetto di Camel mezzo vuoto mi tentava dal cruscotto dell’au-
to: «Fumami dai, che aspetti?» Io posso resistere. Era un gioco con me
stessa, poter resistere alle tentazioni. Lo lasciai lì con tutta la sua sedu-
zione andata in fumo e presi l’ascensore che mi portava al mio loft:
adoravo quella casa, mi rappresentava alla perfezione.
  Mi sdraiai sul divano, facendomi cadere pesantemente. A volte esse-
re soli era difficile.
  Mi alzai senza alcuna voglia di fare nulla, ma una doccia mi avrebbe
favorito sicuramente un rilassamento.


                                                                          15
Spostai coi piedi alcuni vestiti buttati per terra al mattino, il mio
disordine era uno dei difetti che avevo smesso di combattere, me ne fre-
gavo. Feci cadere sopra agli altri i vestiti che avevo indosso, mi guar-
dai velocemente allo specchio. Mi piaceva la mia forma fisica: ero una
bella donna e forse questo talvolta mi aveva aiutato nelle mie indagini,
ci avevo marciato sopra approfittandone.
  L’acqua calda scorreva piano e iniziò a sciogliere i nervi tesi.
Mi appoggiai alla parete e lasciai che scorresse sopra di me, volevo
smettere di pensare per qualche minuto, solo qualche minuto.

  La notte dormii male, non riuscii a riposare e arrivai in ufficio con gli
occhiali neri calati sul viso, per nascondere la nottataccia trascorsa.
  Manfredi era già lì, col suo sorrisetto sarcastico. Se solo avesse pro-
vato a dirmi qualcosa… guai a lui.
  Vedevo che sistemava il suo block notes da lavoro, un registratore
portatile ed altre cose. Si preparava al suo caso, lui!
  Ma prima di uscire, girandosi, mi disse:
  «Muoviti, forza, o vuoi che qualcun altro ci rubi lo scoop di questa
storia?» con quel sorriso scanzonato stampato sul viso.
  «Che cosa stai dicendo?» cosa voleva dire?
  «Mi serve un assistente, diciamo così. Il capo della redazione è d’ac-
cordo che sia tu, se per te va bene, possiamo lavorarci insieme». Il suo
sorriso divenne più incerto mentre aspettava la mia risposta.
  «Stai scherzando? Come ci sei riuscito?» Perché dare credito a lui e
non a me?, pensai.
  «Sarà il diritto d’anzianità, resta il fatto che ti dà questa chance ma…
insieme a me. Prendere o lasciare». Era serio ora.
  «Accetto, sicuro che accetto!» Non mi sarei certo fatta scappare quel-
l’occasione!
  Presi la borsa ed uscii insieme a lui.
  Saliti in macchina, gli chiesi da dove avremmo iniziato.
  «Sei tu che hai studiato il caso, no? Fatti avanti». Il suo sorriso ini-
ziava a piacermi.
  «Allora mi hai preso con te per approfittartene! Altro che assisten-
te…!» Risi mentre lo dicevo.
  «Approfittare di te? No… ma se vuoi… approfittane tu… » Mi guar-
dò diversamente, negli occhi, giusto il tempo di… mi chiesi se altre
volte quello sguardo avesse attraversato il mio corpo come in quel
momento. Non me n’ero mai accorta prima.
  Feci finta di non capire e gli dissi di dirigerci verso la centrale della
polizia: avevo un amico che forse ci poteva aiutare.


16
Arrivati sul posto, chiesi del tenente Sarti. Mi comunicarono di atten-
dere. Sorrisi al mio sorpreso accompagnatore e mi appoggiai al muro
del corridoio di quella grigia centrale.
  I pavimenti in formica e le pareti sporche dipingevano la sede della
polizia come il migliore dei film noir, l’odore del fumo era ovunque.
Il viavai era frenetico, agenti che spostavano delinquenti da una stanza
all’altra, persone che attendevano per una denuncia con fare nervoso,
però mi piaceva stare lì, era come far parte di qualcosa, di una notizia,
chiunque là dentro avrebbe avuto qualcosa da raccontare. Roberto Sarti,
quarantenne, tenente di polizia da almeno dieci anni. Un uomo con un
corpo non perfetto ma che non passava inosservato. Alto quanto
Manfredi, occhi verdi che risaltavano nel suo viso mascolino, brizzola-
to e sempre spettinato. L’avevo conosciuto qualche anno prima durante
una intervista per una rissa fra coniugi, finita male, con la morte di lei.
Diventammo amici durante un drink offertomi da lui, per qualche tempo
ci frequentammo, trovandoci saltuariamente per un aperitivo o un dopo-
cena. Approfittavo di lui spesso, mi dava qualche soffiata e questo mi
rendeva la vita più facile al giornale in cui lavoravo allora.
  Mi ero resa perfettamente conto che era attratto da me e quindi flirtavo
un po’ con lui, ma non provavo un vero interesse, era una – chiamiamo-
la pure così – bastardata. Mi faceva comodo avere un amico alla polizia.
  Solitamente gli sbirri non amano i giornalisti, tutt’altro. Li vedono
come dei rompicoglioni che giocano a fare gli Sherlock Holmes e
magari talvolta per un colpo di fortuna trovano la traccia giusta,
mentre loro fanno poi figuracce coi loro superiori.
  Essere una bella donna qualche volte ha i suoi pro.
  Ma Roby – come lo chiamavano gli amici – non era stupido, capì il
mio comportamento e si allontanò da me, anche se, quando avevo biso-
gno mi dava una mano. Aveva sempre un debole per me.

  Sarti arrivò dopo cinque minuti, mi abbracciò stretta e mi chiese
scherzando se ero venuta per invitarlo a cena. Risi con lui e poi attac-
cai con la mia richiesta. Sapevo di poter contare sulla mia bellezza:
rossa fuoco con qualche lentiggine che mi punteggiava il naso e gli
zigomi non passavo inosservata. Lasciavo i capelli mossi cadere sulle
spalle maliziosamente, conoscevo bene le mie armi. Il mio sguardo ora
puntava quello di Sarti che divertito mi fissava diritto nei miei occhi
color nocciola contornati da pagliuzze dorate.
  «Potresti aiutarci con il caso del killer del reggicalze? Lo so che non
puoi eccetera eccetera ma vorremmo saperne di più su quelle donne,
come puoi darci una mano?»


                                                                        17
Approfittando malignamente del mio ascendente su di lui, mi avvici-
nai e sfoggiai uno dei miei più grandi e insinuanti sorrisi.
   Manfredi se ne stava da una parte a guardare la scena: sembrava un
gatto sornione che osservava pensando chissà cosa. Ma mi soddisface-
va è che mi stesse lasciando fare.
   «Francesca ma come posso… è un caso in cui mantenere la riserva-
tezza è basilare. Che tipo d’aiuto vorresti?» Mi guardava dispiaciuto
ma sembrava sincero nel volermi sostenere.
   «Potremmo vedere le loro case, ad esempio». Azzardai, lo sapevo.
   «Le case? Ma tu sei pazza! È tutto sigillato, dovrei chiedere un per-
messo speciale, e poi cosa direi, è per i giornalisti! No… non posso».
   «Tu non dire nulla: non è certo la prima volta che torni sul posto di
un reato senza chiedere un permesso scritto! Ci andremo con te, così
potrai controllare che non toccheremo niente, e noi avremmo qualcosa
in più su cui lavorare, ti prego… è importante questo caso per la mia
carriera». Ero falsa ma supplichevole davvero.
   «Ok… facciamo domani sera, così ci saranno meno curiosi, ma
voglio fare tutto massimo in tre ore con tutte le case, non voglio pro-
blemi, ok?»
   Lo baciai teneramente sulla guancia, dicendogli grazie, prendemmo
accordi per la sera dopo, alle ventuno e trenta, e ci salutammo.
   Manfredi non disse una parola per tutto il tempo. Non so neanche se
il mio amico tenente si fosse accorto della sua presenza. Appena entra-
ti in macchina si girò verso di me e mi disse:
   «Hai un bel modo di chiedere favori, ma se questo ci può aiutare è
tutto ok».
   «Hai in contrario qualcosa? Se dobbiamo lavorare insieme,
è meglio che tu sia chiaro».
   «Nulla… è tutto ok».

  Tornammo al giornale, scrutandoci celatamente, ma forse ero più io
che mi sentivo osservata, oppure sapevo d’aver dato un bel giro di boa
al caso da studiare.
  Ci dedicammo per qualche ora al caso a tavolino, in ufficio, segnan-
do le persone da intervistare e cercando di non tralasciare niente. Dal
momento che il caso era già sui giornali da qualche tempo, noi voleva-
mo scoprire qualcosa di più.
  Alle 14,00 i sintomi della fame si fecero sentire. Dario entrò nell’uf-
ficio con qualche panino, acqua minerale e caffè caldo.
  Dario era un ragazzo di ventiquattro anni che faceva apprendistato
presso il giornale: era il tuttofare, ogni tanto gli si dava qualche picco-


18
lo articolo da creare, ma lui scalpitava, voleva diventare giornalista,
quindi chiedeva a tutti di poter fare qualcosa, qualunque cosa che lo
facesse sentire parte di una notizia stampata sul giornale.
  «Ragazzi, avete bisogno di me per caso?» sorridendo sarcasticamen-
te si proponeva.
  «No tesoro, ci stai aiutando così. Noi ci saremmo anche scordati di
mangiare se non fosse per te!»
  «Beh, io vi controllo, sappiatelo, quindi so quando avete bisogno,
ma… se avete problemi, interviste da fare, indagini, io ci sono eh?»
  Con la sua aria da professionista uscì e ci lasciò al nostro lavoro. Alto
almeno un metro e novanta e con quei vestiti da cantante hip hop con-
sunti, mi faceva sorridere.
  La giornata finì troppo presto, ero eccitatissima per ciò che stava
accadendo: finalmente avevo una storia in cui credevo. Anzi avevamo.
  Ero stanca: perfino nel riflesso del vetro brunito della finestra vede-
vo le mie occhiaie; anche Manfredi lo sembrava, ma rimaneva assorto
davanti al suo computer.
  Alle 22,00 decidemmo di andare a casa, ci salutammo velocemente e
ognuno si avviò alla sua macchina nel garage sotterraneo del giornale.
  Niente doccia, quella sera, decisi per la vasca idromassaggio.
  Immersa nell’acqua mi resi conto di pensare a Manfredi: era una per-
sona davvero disponibile, intelligente e perspicace, due occhi… Pensai
di lasciar perdere, non era il caso di pensare ad attrazioni fisiche, spe-
cie con un collega.

  Trascorremmo la giornata seguente a parlare della serata con Sarti, su
cosa cercare negli appartamenti delle vittime. Ero in smania, ero den-
tro, lo respiravo a pieni polmoni questo caso.
  Puntualissimi, alle 21,30 eravamo davanti alla casa della prima vitti-
ma: una villetta in stile coloniale, bianca e isolata. La defunta proprie-
taria era Dorothy Durlimple, americana, si faceva chiamare Didì, tene-
va pubbliche relazioni con l’estero, una specie di diplomatica, trenta-
treenne, bionda platino, davvero bella.
  Una volta in casa, notai che il pavimento era ricoperto della polvere
nera per il rilevamento delle impronte. Sarti ci indicò la polvere per non
farci sporcare e cominciai a guardarmi in giro. Manfredi guardava tutte
le foto, amici, parenti e le annotava sul suo block notes. Io mi diressi
verso la stanza da letto.
  Ebbi paura entrando, era lì che era morta.
  Il letto ancora sfatto, con alte spalliere in ferro battuto, con i comodi-
ni ai lati che erano due semplici tavolini di cristallo e, unica luce della


                                                                         19
stanza, una lampada bianca a cono su uno dei comodini. Un ambiente
molto intimo e sensuale. Evidentemente era una donna di classe che
curava i particolari del proprio arredamento. Si notavano le tracce della
polizia passata di lì: cassetti aperti, ricerche di effetti personali. Tutto
ciò che era nella prassi fare, insomma.
  Non sapevo nemmeno io cosa cercassi: mi aggiravo per la camera
notando qualsiasi cosa mi desse luce nel buio in cui ero. Vidi che c’era
biancheria intima, di lusso e di alta categoria, sparsa ovunque. Mi chie-
si se il killer le avesse chiesto di indossarla per lui. Ebbi paura di nuovo,
mi resi conto di provare una sorta d’eccitazione: vedevo i loro corpi fare
l’amore, immaginavo lui che la guardava mentre lei infilava completi
sexy che lui forse le regalava. Facevano l’amore per ore, pensai, forse
lui dava a lei ciò che altri non avevano mai fatto, cercavo di immedesi-
marmi nella situazione; mi spaventai perché mi sentivo eccitata. Non era
possibile provare questo, non in una questione d’omicidio.
  Uscii di corsa dalla stanza, l’ultima cosa che notai fu una boccetta di
profumo straniero che cercavo di recuperare da anni. Strano vederlo
ora, in quel momento.
  Manfredi e Sarti mi guardarono un po’ straniti, mi chiesero se fosse
tutto ok, annuii e uscii dalla porta, per respirare. In quella stanza avevo
sentito odore di sesso, puro, trasgressivo, mortale. Mi ero sentita presa
fra lei e il killer, per un solo istante percepii qualcosa di malvagio come
maledettamente eccitante.

  Quasi in silenzio arrivammo alla seconda casa, un attico di un gratta-
cielo. Le vetrate circondavano l’intero appartamento mostrando una
vista da togliere il fiato dell’intera città. Anche qui si notava il ceto
sociale alto, beni di lusso di ogni genere, dal più piccolo monile ai
mobili essenziali che arredavano l’intero ambiente. Entrai nella came-
ra da letto lentamente: tremavo al pensiero di sentire di nuovo quelle
forti emozioni; cercai di tirare fuori la mia professionalità per non farmi
prendere dalle suggestioni che questo caso mi offriva. Non notai nien-
te di diverso dalle altre.
  La vittima si chiamava Giorgia Morelli, anche lei single, libera pro-
fessionista, praticava gestione di marketing, trentunenne. Al contrario
dell’altra era mora, capelli corvini, dalle foto attaccate alle pareti si
notavano le sue bellissime gambe. Anche lei era bellissima. Il letto qui
era senza spalliere, piatto e semplice: lenzuola bianche di seta in disor-
dine, due mensole con lampade in ferro ai lati. Immaginai il serial kil-
ler nella scelta delle sue vittime. Aveva gusto, pensai ironicamente.
  Mi decisi ad uscire dalla stanza quando il cuore mi si fermò.


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Mariella Calcagno, Paura

  • 2. Collana AFRODITE diretta da Mariella Calcagno AFRODITE guida questa collana all’insegna di ciò che fa parte di ognu- no di noi: l’erotismo. Quell’erotismo che ci fa sognare, eccitare e tal- volta trasgredire, nella scrittura, nelle pagine di un libro. Uno spazio dedicato a ciò che nella vita di tutti i giorni ci rende talvolta più vivi e maliziosi. AFRODITE si suddivide in due sezioni: narrativa erotica e giallo erotico. IMERO segna le nostre passioni più interiori e segrete, la sensualità, la trama dei sensi. PHOBOS ci accompagna verso gli abissi, verso la gravità delle azioni, verso il mistero e la paura, sottolineato dall’eros, dal sesso, dalla trasgressione. Parole scritte e lette da chi ama emozionarsi con i sensi. 1. MARIELLA CALCAGNO, Paura, 2007, 128 pp.
  • 3. Mariella calcagno Paura Graphe.it edizioni
  • 4. I edizione, novembre 2007 © Graphe.it Edizioni di Roberto Russo, 2007 tel +39.075.50.92.315 – fax +39.075.58.37.286 www.graphe.it • graphe@graphe.it ISBN: 978-88-89840-30-6 PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Copertina di ROBERTO DI IULIO I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi microfilm e copie fotostatiche), sono riservati per tutti i paesi.
  • 5. A te che hai creduto in me dal primo momento che mi hai guardato negli occhi Ai tuoi occhi che mi hanno sempre vista per ciò che sono, mostrandomelo. Al tuo cuore, a cui mi hai legata senza usare catene. A te, Armando.
  • 6.
  • 7. PREFAZIONE Magari i giornali che Mariella Calcagno racconta in questo libro sono molto diversi da quelli veri. Nel senso che i secondi sono molto peggio dei primi. E magari è diversa anche la polizia. Ma in questa città senza nome, che potrebbe essere al Nord come al Sud, nel satollo Nord-Est o nel grigio Nord-Ovest, Mariella mette indietro le lancette del tempo e costruisce un mondo non vero ma credibile, una scacchiera classica dove le pedine si muovono senza sforzo apparente tutte tese a confondere le posizioni, a imbrogliare le piste, a dissimulare, a sorprendere perfino chi le muove. Insomma l’inghippo c’è e, una volta cominciato, questo libro deve essere letto fino in fondo, aprendo (e chiudendo) una piacevole parentesi nella propria giornata. E sarà, ve lo prometto, un divertimento. Divertimento maschile, soprattutto, visto che la giornalista che Mariella ha inventato ha tutti i numeri per fare girare la testa al lettore: intelligente, bella, volitiva, ambiziosa. Soprattutto sensuale ed erotica. Una che sa ascoltare il proprio corpo, che conosce il brivido dell’eccitazione, capace di lasciarsi avvolgere da quel minimo di dannazione che condisce come il sale ogni pietanza che si desidera gustosa ma, nello stesso tempo, col cuore pieno di desideri “puliti”, quelli di chi cerca la passione che non abiti molto distante dalla Favola. I brani erotici, numerosi e ben raccontati, non sono mai fini a sé stessi e intrecciano la storia della protagonista-segugio con quella della sua preda. Perché il contesto del romanzo ha il sesso come centro di gravità visto che qui si racconta di un serial killer che strangola le sue belle e sofisticate vittime nel momento in cui vengono portate dall’assassino stesso al “piacere perfetto”. Eros e Tanatos, Amore e Morte, ricetta tradizionale anche nella “letteratura di genere”, qui servono come bulini usati per restaurare un mobile antico. La “nera” delle stragi cupe, dei “brutti sporchi e cattivi”, delle scuole degli orchi, dei serial killer di tassisti: questo, ultimamente, ci passa il governo. Così Mariella ha pensato, appunto, di riportare indietro l’orologio della cronaca lasciando intonso quello del tempo e ha ambientato ai giorni nostri una 7
  • 8. vicenda che sembra presa dai rotocalchi degli anni Sessanta con le vicende di belle donne uccise, belle donne assassine, di ricchi che più ricchi non si può e di poveri truffaldini. Quelle che incollavano i giornali alle mani di milioni di lettori. Altro che mafia, pentiti, servizi segreti. Alla fine avrete letto un libro, un’opera di fantasia. Ma pensate se tutto quello che leggerete fosse cronaca. Ebbene, conclusa la vicenda, sarebbe dimenticato in pochi giorni e i giornali ne avrebbero scritto rimpastando i comunicati stampa della questura, raccolti nel “giro” mattutino di cronisti ormai impiegati che si insigniscono del titolo di un mestiere che non c’è più. Chi lavora nell’informazione sa bene che oggi non esiste più un caso che diventi Caso e qualcuno destinato a seguirlo per giorni e giorni. Il cronista che va a cercarsi le notizie è un ruolo ad esaurimento, incalzato dall’orda famelica di quanti stanno davanti a un telefono o a un computer aspettando che le notizie arrivino. E non importa chi stabilisce come, quando e in che ordine devono arrivare. Così paradossalmente l’informazione oggi viene di fatto gestita fuori dagli organi deputati. La nostra bella cronista avrebbe davvero vita difficile. Ma potrebbe sempre chiedere di essere trasferita alla redazione politica dove, ormai, la “nera” è di casa. O forse è meglio immaginarla ancora lì e vederla muoversi come in un film americano in bianco e nero. Tra un amplesso e un pedinamento. Daniele Billitteri 8
  • 10.
  • 11. Lo sentiva dentro con potenza: la prendeva ora come le aveva spie- gato al telefono, facendola bagnare e chiedendole di resistere fino al suo arrivo. Legata con le mani alla spalliera del letto, faceva di lei ciò che vole- va. Mai come questa volta nella sua vita, Stefania aveva provato emo- zioni così forti. Lui la faceva impazzire come nessuno mai. Per la prima volta si era lasciata andare completamente, lei che una volta fingeva orgasmi con gli uomini, perché una bella donna non può non venire, una bella donna regala sempre alte prestazioni. Con lui non c’era stato bisogno di finzioni, muri dove nascondersi, niente. Lui l’aveva scopata come aveva sempre voluto, facendola sentire femmina. Le dava ciò che voleva, semplicemente. Quella sera era arrivato puntualissimo come sempre, una rosa in una mano, una bottiglia di champagne nell’altra. Romantico e indagatore nello sguardo, la baciò dolcemente stringen- dole un capezzolo fino a farla sussultare. Cenarono quasi silenziosamente. Quando si faceva desiderare per giorni, incontrandolo non riusciva nemmeno a parlare tanto il deside- rio di lui le occupava la mente, i sensi, la voglia assurda che sentiva fra le cosce. Avevano cominciato lì sul tavolo, il primo orgasmo della serata la rag- giunse a gambe divaricate con la testa di lui in mezzo che la leccava voracemente e la penetrava con il collo della bottiglia dello champagne. Strinse i muscoli della vagina ripensando al suo sguardo soddisfatto e sardonico mentre si rialzava e beveva al collo lo spumante francese col sapore di lei… La prese in braccio e le mise il sesso in bocca, durissimo, glielo spin- se fino in gola, senza guardare se le facesse male. La eccitava questo suo comportamento, lui la dominava interamente. Iniziò poi scoparla a lungo. Le sollevò le gambe e le appoggiò sulle sue spalle, cominciò a sodo- mizzarla lentamente, troppo lentamente. Stefania non riusciva nemme- no più a gemere per il fortissimo piacere, chiuse gli occhi e si lasciò andare pienamente, aspettando quelle spinte decise e calcolate che sapeva sarebbero arrivate a breve. Le tolse la guepiere, sfilando i laccetti, allungandoli al massimo. Iniziò a spingersi in lei sempre più velocemente e premendo il polli- ce sul suo clitoride. Stefania era molto vicina all’orgasmo. Lui poggiò la guepiere sul suo collo, legandola con i laccetti. Stefania non ci fece caso, sapeva che lui l’amava così. 11
  • 12. Le contrazioni dell’orgasmo cominciarono a farla tremare, mentre lui… il suo lui, cominciò a stringerle il collo, lentamente ma sempre più a fondo, sempre di più. Gli occhi di lei sembrarono uscirle fuori, mentre attoniti si chiedeva- no cose stesse accadendo. Lui venne dentro di lei… nel momento stesso in cui non la sentì più respirare. 12
  • 13. Ero incazzatissima quella mattina. Sì, incazzatissima. Non amo usare questi epiteti molto spesso, ma ero stufa di scrivere servizi su vip o di stupidi casi di litigi fra mariti e mogli! Anni di gavetta mi avevano portato fino a quel giornale: due anni nel mio primo quotidiano, giusto il tempo di far l’esame per diventare gior- nalista professionista, poi varie testate per alcuni anni, fino ad arrivare al Nuovo Giorno. Qui pensavo di far carriera, l’ambiente mi piaceva, era dinamico e molto giovane. Chissà perché ma ero convinta che qui avrei fatto il grande salto. Però erano già due anni che non accadeva nulla di speciale, per me. I soliti articoli, niente di eccitante. Ero talmente presa nella mia scala professionale che ero diventata piuttosto fredda col mondo esterno. Lavoro solo lavoro. La vita non era stata esattamente generosa con me, nessuno mi aveva mai regalato nulla, ogni piccola cosa me l’ero guadagnata: questo crea- va un orgoglio molto forte ma inattaccabile. Sin da ragazza avevo sempre amato scrivere. Dopo il diploma scola- stico avevo avuto la fortuna di poter convertire questa mia passione in una professione vera e propria affiancandomi ad un corrispondente locale ormai anziano. I suoi consigli mi furono molto preziosi e mi ave- vano aiutato ad entrare nel primo giornale. Quando fui assunta in quel giornale, il Nuovo Giorno, ero al settimo cielo: finalmente avevo la mia occasione di manifestare ciò che sapevo fare: cronaca nera, quello era il mio pane. Sapevo di essere brava, di saper cercare indizi alla pari del migliore investigatore privato, cono- scevo i trucchi del mestiere, come far parlare la gente, non avevo paura di nulla, neppure del peggiore dei delinquenti. Ero solo delusa del fatto che non riuscivo a dimostrare il mio talento: il capo redazione mi trattava sempre come una delle ultime arrivate e quindi a suo parere dovevo fare quella che lui riteneva la giusta gavet- ta, ed io ero stanca, basta!, volevo un caso di quelli da far apparire i titoli sul giornale a carattere cubitali. Mi ero sistemata bene in quella metropoli, avevo alcuni amici, ma la mia unica aspirazione era sfondare nel giornalismo. Non avevo fidan- zati, salvo qualche avventura puramente sessuale, niente di più. Sentivo la mia famiglia nel fine settimana, un cinema, una pizza con qualche amica, niente di veramente speciale. Il lavoro era ciò a cui ambivo. Dividevo l’ufficio con un collega, un uomo sui trentasette anni, – io di anni ne ho trentadue – simpatico e sempre disponibile, adocchiato da più di una donna all’interno del giornale. Qualcuna mi aveva fatto qual- 13
  • 14. che battuta su quanto fossi fortunata a stargli vicino per ore. A me non interessava avere storie in quel momento, anche se lui aveva un corpo da fare invidia ad un atleta e due occhi… due occhi neri e profondi. Io non lo vedevo sotto quell’aspetto, ma solo come un collega. Il suo nome mi aveva colpito, era inusuale, Manfredi. Sembrava quasi un cognome, curioso. I suoi capelli neri leggermente mossi stonavano col suo modo di vestire casual, ma sempre perfetto e preciso, comunque un gusto ricer- cato. Le sue spalle grandi davano sicurezza anche se lo sguardo serio gli conferiva un’aria sempre ombrosa. Un’esperienza invidiabile la sua: da giornalista aveva lavorato in due dei giornali più famosi dello stato fino ad approdare al Nuovo Giorno e si era conquistato una bella autonomia, si muoveva liberamente. Il suo modo di scrivere era preciso, uno stile inconfondibile, mai scon- tato. Anche se non collaboravamo molto lo rispettavo. Avevo scongiurato il mio capo redazione di darmi quel caso ma non voleva ascoltarmi. Lo pregai più volte e disse che per me era ancora presto, quello era un caso per professionisti. Io cos’ero? Quella storia la seguivo da mesi, mi intrigava, mi faceva impazzire ed andare in escandescenze. Perché un uomo uccide una donna dopo aver- la fatta innamorare? Nel giro di circa otto mesi, quattro donne furono trovate morte nel loro appartamento, nude, dopo aver avuto un rapporto sessuale consenziente, strangolate col loro stesso reggicalze, tutte nello stesso identico modo. Gli inquirenti dopo il secondo caso cominciarono a sospettare di un serial killer, al terzo ne furono convinti. Ciò che univa i quattro omicidi era la stessa tecnica usata, ma non solo. Scavando nella vita privata delle vitti- me ricorrevano forti similitudini: donne in carriera, single che prima della loro morte avevano avuto una storia con uomo di cui nessuno dei conoscenti ne conosceva l’identità, nessuno lo aveva mai visto. Mi intrigava questa maledetta storia, mi chiedevo cosa farneticasse la mente di quell’uomo. Perché per ucciderle aveva prima bisogno di farle innamorare o di creare una storia? Studiavo quel caso da mesi, in ogni particolare, avevo addirittura comprato libri inerenti ad omicidi compiuti da psicopatici, mi ritrova- vo a passeggiare davanti alle case delle vittime, immaginando cosa avevano provato negli ultimi secondi della loro vita. Tornai nel mio ufficio, tremante di rabbia, sbattendo la borsa sul tavo- lo, imprecando ad alta voce chiedendo chi cazzo fosse quello a cui ave- 14
  • 15. vano affidato il caso. Manfredi rimase in silenzio alcuni minuti, guar- dandomi. Non parlavo molto con lui, ci guardammo negli occhi per alcuni istanti. «L’hanno affidato a me». Disse con molta calma. Sentii il bisogno di una sigaretta, ma ero riuscita a superare quasi tutta la mattina senza fumarne nemmeno una: dovevo resistere. La rabbia scoppiò in ogni caso, volevo smettere di fumare, quindi nervosa la ero, e Manfredi mi disse con la sua solita flemma quella frase. Lo guardai quasi con odio. Perché a lui? Cazzo! «A te?» Non volevo crederci. «Sì, mi spiace Francesca, ma sono qui al giornale da più tempo di te. Mi sembra giusto che sia io a seguire questa storia, non credi?» Non volevo nemmeno rispondergli, aveva ragione forse, ma anch’io volevo la mia possibilità. «Scusami, non ce l’ho con te, ma quando mi daranno qualcosa che mi farà scattare l’adrenalina per scrivere come sento io? Questo servizio me lo sento nel sangue, so che lo farei bene, l’ho sorvegliato per tutti questi mesi. Sei fortunato ma io m’incazzo lo stesso!» Ero davvero arrabbiata. Mi sorrise, si alzò e mi disse che doveva proprio andare, uscì salutan- domi con un: «Ciao, a domani». Mi arrabbiai ancora di più: cosa faceva ora? Si pavoneggiava della sua conquista con me? Sorrideva del fatto che io subivo questo smac- co dal mio collega più vicino? Che vada a farsi fottere anche lui, pensai. Mi appoggiai alla scrivania posta di fronte alla finestra e respirai pro- fondamente, avevo troppa rabbia. Calmati Francesca. Guardai l’ora, era già buio, decisi di andare a casa e forse una doccia calda mi avreb- be calmata. La città era in preda alle ultime corse ai negozi che stavano per chiu- dere e le luci della strada erano quasi tutte accese, non riuscivo a smet- tere di pensare al mio caso, lo sentivo talmente mio che mi faceva impazzire l’idea che fosse Manfredi ad occuparsene. Un pacchetto di Camel mezzo vuoto mi tentava dal cruscotto dell’au- to: «Fumami dai, che aspetti?» Io posso resistere. Era un gioco con me stessa, poter resistere alle tentazioni. Lo lasciai lì con tutta la sua sedu- zione andata in fumo e presi l’ascensore che mi portava al mio loft: adoravo quella casa, mi rappresentava alla perfezione. Mi sdraiai sul divano, facendomi cadere pesantemente. A volte esse- re soli era difficile. Mi alzai senza alcuna voglia di fare nulla, ma una doccia mi avrebbe favorito sicuramente un rilassamento. 15
  • 16. Spostai coi piedi alcuni vestiti buttati per terra al mattino, il mio disordine era uno dei difetti che avevo smesso di combattere, me ne fre- gavo. Feci cadere sopra agli altri i vestiti che avevo indosso, mi guar- dai velocemente allo specchio. Mi piaceva la mia forma fisica: ero una bella donna e forse questo talvolta mi aveva aiutato nelle mie indagini, ci avevo marciato sopra approfittandone. L’acqua calda scorreva piano e iniziò a sciogliere i nervi tesi. Mi appoggiai alla parete e lasciai che scorresse sopra di me, volevo smettere di pensare per qualche minuto, solo qualche minuto. La notte dormii male, non riuscii a riposare e arrivai in ufficio con gli occhiali neri calati sul viso, per nascondere la nottataccia trascorsa. Manfredi era già lì, col suo sorrisetto sarcastico. Se solo avesse pro- vato a dirmi qualcosa… guai a lui. Vedevo che sistemava il suo block notes da lavoro, un registratore portatile ed altre cose. Si preparava al suo caso, lui! Ma prima di uscire, girandosi, mi disse: «Muoviti, forza, o vuoi che qualcun altro ci rubi lo scoop di questa storia?» con quel sorriso scanzonato stampato sul viso. «Che cosa stai dicendo?» cosa voleva dire? «Mi serve un assistente, diciamo così. Il capo della redazione è d’ac- cordo che sia tu, se per te va bene, possiamo lavorarci insieme». Il suo sorriso divenne più incerto mentre aspettava la mia risposta. «Stai scherzando? Come ci sei riuscito?» Perché dare credito a lui e non a me?, pensai. «Sarà il diritto d’anzianità, resta il fatto che ti dà questa chance ma… insieme a me. Prendere o lasciare». Era serio ora. «Accetto, sicuro che accetto!» Non mi sarei certo fatta scappare quel- l’occasione! Presi la borsa ed uscii insieme a lui. Saliti in macchina, gli chiesi da dove avremmo iniziato. «Sei tu che hai studiato il caso, no? Fatti avanti». Il suo sorriso ini- ziava a piacermi. «Allora mi hai preso con te per approfittartene! Altro che assisten- te…!» Risi mentre lo dicevo. «Approfittare di te? No… ma se vuoi… approfittane tu… » Mi guar- dò diversamente, negli occhi, giusto il tempo di… mi chiesi se altre volte quello sguardo avesse attraversato il mio corpo come in quel momento. Non me n’ero mai accorta prima. Feci finta di non capire e gli dissi di dirigerci verso la centrale della polizia: avevo un amico che forse ci poteva aiutare. 16
  • 17. Arrivati sul posto, chiesi del tenente Sarti. Mi comunicarono di atten- dere. Sorrisi al mio sorpreso accompagnatore e mi appoggiai al muro del corridoio di quella grigia centrale. I pavimenti in formica e le pareti sporche dipingevano la sede della polizia come il migliore dei film noir, l’odore del fumo era ovunque. Il viavai era frenetico, agenti che spostavano delinquenti da una stanza all’altra, persone che attendevano per una denuncia con fare nervoso, però mi piaceva stare lì, era come far parte di qualcosa, di una notizia, chiunque là dentro avrebbe avuto qualcosa da raccontare. Roberto Sarti, quarantenne, tenente di polizia da almeno dieci anni. Un uomo con un corpo non perfetto ma che non passava inosservato. Alto quanto Manfredi, occhi verdi che risaltavano nel suo viso mascolino, brizzola- to e sempre spettinato. L’avevo conosciuto qualche anno prima durante una intervista per una rissa fra coniugi, finita male, con la morte di lei. Diventammo amici durante un drink offertomi da lui, per qualche tempo ci frequentammo, trovandoci saltuariamente per un aperitivo o un dopo- cena. Approfittavo di lui spesso, mi dava qualche soffiata e questo mi rendeva la vita più facile al giornale in cui lavoravo allora. Mi ero resa perfettamente conto che era attratto da me e quindi flirtavo un po’ con lui, ma non provavo un vero interesse, era una – chiamiamo- la pure così – bastardata. Mi faceva comodo avere un amico alla polizia. Solitamente gli sbirri non amano i giornalisti, tutt’altro. Li vedono come dei rompicoglioni che giocano a fare gli Sherlock Holmes e magari talvolta per un colpo di fortuna trovano la traccia giusta, mentre loro fanno poi figuracce coi loro superiori. Essere una bella donna qualche volte ha i suoi pro. Ma Roby – come lo chiamavano gli amici – non era stupido, capì il mio comportamento e si allontanò da me, anche se, quando avevo biso- gno mi dava una mano. Aveva sempre un debole per me. Sarti arrivò dopo cinque minuti, mi abbracciò stretta e mi chiese scherzando se ero venuta per invitarlo a cena. Risi con lui e poi attac- cai con la mia richiesta. Sapevo di poter contare sulla mia bellezza: rossa fuoco con qualche lentiggine che mi punteggiava il naso e gli zigomi non passavo inosservata. Lasciavo i capelli mossi cadere sulle spalle maliziosamente, conoscevo bene le mie armi. Il mio sguardo ora puntava quello di Sarti che divertito mi fissava diritto nei miei occhi color nocciola contornati da pagliuzze dorate. «Potresti aiutarci con il caso del killer del reggicalze? Lo so che non puoi eccetera eccetera ma vorremmo saperne di più su quelle donne, come puoi darci una mano?» 17
  • 18. Approfittando malignamente del mio ascendente su di lui, mi avvici- nai e sfoggiai uno dei miei più grandi e insinuanti sorrisi. Manfredi se ne stava da una parte a guardare la scena: sembrava un gatto sornione che osservava pensando chissà cosa. Ma mi soddisface- va è che mi stesse lasciando fare. «Francesca ma come posso… è un caso in cui mantenere la riserva- tezza è basilare. Che tipo d’aiuto vorresti?» Mi guardava dispiaciuto ma sembrava sincero nel volermi sostenere. «Potremmo vedere le loro case, ad esempio». Azzardai, lo sapevo. «Le case? Ma tu sei pazza! È tutto sigillato, dovrei chiedere un per- messo speciale, e poi cosa direi, è per i giornalisti! No… non posso». «Tu non dire nulla: non è certo la prima volta che torni sul posto di un reato senza chiedere un permesso scritto! Ci andremo con te, così potrai controllare che non toccheremo niente, e noi avremmo qualcosa in più su cui lavorare, ti prego… è importante questo caso per la mia carriera». Ero falsa ma supplichevole davvero. «Ok… facciamo domani sera, così ci saranno meno curiosi, ma voglio fare tutto massimo in tre ore con tutte le case, non voglio pro- blemi, ok?» Lo baciai teneramente sulla guancia, dicendogli grazie, prendemmo accordi per la sera dopo, alle ventuno e trenta, e ci salutammo. Manfredi non disse una parola per tutto il tempo. Non so neanche se il mio amico tenente si fosse accorto della sua presenza. Appena entra- ti in macchina si girò verso di me e mi disse: «Hai un bel modo di chiedere favori, ma se questo ci può aiutare è tutto ok». «Hai in contrario qualcosa? Se dobbiamo lavorare insieme, è meglio che tu sia chiaro». «Nulla… è tutto ok». Tornammo al giornale, scrutandoci celatamente, ma forse ero più io che mi sentivo osservata, oppure sapevo d’aver dato un bel giro di boa al caso da studiare. Ci dedicammo per qualche ora al caso a tavolino, in ufficio, segnan- do le persone da intervistare e cercando di non tralasciare niente. Dal momento che il caso era già sui giornali da qualche tempo, noi voleva- mo scoprire qualcosa di più. Alle 14,00 i sintomi della fame si fecero sentire. Dario entrò nell’uf- ficio con qualche panino, acqua minerale e caffè caldo. Dario era un ragazzo di ventiquattro anni che faceva apprendistato presso il giornale: era il tuttofare, ogni tanto gli si dava qualche picco- 18
  • 19. lo articolo da creare, ma lui scalpitava, voleva diventare giornalista, quindi chiedeva a tutti di poter fare qualcosa, qualunque cosa che lo facesse sentire parte di una notizia stampata sul giornale. «Ragazzi, avete bisogno di me per caso?» sorridendo sarcasticamen- te si proponeva. «No tesoro, ci stai aiutando così. Noi ci saremmo anche scordati di mangiare se non fosse per te!» «Beh, io vi controllo, sappiatelo, quindi so quando avete bisogno, ma… se avete problemi, interviste da fare, indagini, io ci sono eh?» Con la sua aria da professionista uscì e ci lasciò al nostro lavoro. Alto almeno un metro e novanta e con quei vestiti da cantante hip hop con- sunti, mi faceva sorridere. La giornata finì troppo presto, ero eccitatissima per ciò che stava accadendo: finalmente avevo una storia in cui credevo. Anzi avevamo. Ero stanca: perfino nel riflesso del vetro brunito della finestra vede- vo le mie occhiaie; anche Manfredi lo sembrava, ma rimaneva assorto davanti al suo computer. Alle 22,00 decidemmo di andare a casa, ci salutammo velocemente e ognuno si avviò alla sua macchina nel garage sotterraneo del giornale. Niente doccia, quella sera, decisi per la vasca idromassaggio. Immersa nell’acqua mi resi conto di pensare a Manfredi: era una per- sona davvero disponibile, intelligente e perspicace, due occhi… Pensai di lasciar perdere, non era il caso di pensare ad attrazioni fisiche, spe- cie con un collega. Trascorremmo la giornata seguente a parlare della serata con Sarti, su cosa cercare negli appartamenti delle vittime. Ero in smania, ero den- tro, lo respiravo a pieni polmoni questo caso. Puntualissimi, alle 21,30 eravamo davanti alla casa della prima vitti- ma: una villetta in stile coloniale, bianca e isolata. La defunta proprie- taria era Dorothy Durlimple, americana, si faceva chiamare Didì, tene- va pubbliche relazioni con l’estero, una specie di diplomatica, trenta- treenne, bionda platino, davvero bella. Una volta in casa, notai che il pavimento era ricoperto della polvere nera per il rilevamento delle impronte. Sarti ci indicò la polvere per non farci sporcare e cominciai a guardarmi in giro. Manfredi guardava tutte le foto, amici, parenti e le annotava sul suo block notes. Io mi diressi verso la stanza da letto. Ebbi paura entrando, era lì che era morta. Il letto ancora sfatto, con alte spalliere in ferro battuto, con i comodi- ni ai lati che erano due semplici tavolini di cristallo e, unica luce della 19
  • 20. stanza, una lampada bianca a cono su uno dei comodini. Un ambiente molto intimo e sensuale. Evidentemente era una donna di classe che curava i particolari del proprio arredamento. Si notavano le tracce della polizia passata di lì: cassetti aperti, ricerche di effetti personali. Tutto ciò che era nella prassi fare, insomma. Non sapevo nemmeno io cosa cercassi: mi aggiravo per la camera notando qualsiasi cosa mi desse luce nel buio in cui ero. Vidi che c’era biancheria intima, di lusso e di alta categoria, sparsa ovunque. Mi chie- si se il killer le avesse chiesto di indossarla per lui. Ebbi paura di nuovo, mi resi conto di provare una sorta d’eccitazione: vedevo i loro corpi fare l’amore, immaginavo lui che la guardava mentre lei infilava completi sexy che lui forse le regalava. Facevano l’amore per ore, pensai, forse lui dava a lei ciò che altri non avevano mai fatto, cercavo di immedesi- marmi nella situazione; mi spaventai perché mi sentivo eccitata. Non era possibile provare questo, non in una questione d’omicidio. Uscii di corsa dalla stanza, l’ultima cosa che notai fu una boccetta di profumo straniero che cercavo di recuperare da anni. Strano vederlo ora, in quel momento. Manfredi e Sarti mi guardarono un po’ straniti, mi chiesero se fosse tutto ok, annuii e uscii dalla porta, per respirare. In quella stanza avevo sentito odore di sesso, puro, trasgressivo, mortale. Mi ero sentita presa fra lei e il killer, per un solo istante percepii qualcosa di malvagio come maledettamente eccitante. Quasi in silenzio arrivammo alla seconda casa, un attico di un gratta- cielo. Le vetrate circondavano l’intero appartamento mostrando una vista da togliere il fiato dell’intera città. Anche qui si notava il ceto sociale alto, beni di lusso di ogni genere, dal più piccolo monile ai mobili essenziali che arredavano l’intero ambiente. Entrai nella came- ra da letto lentamente: tremavo al pensiero di sentire di nuovo quelle forti emozioni; cercai di tirare fuori la mia professionalità per non farmi prendere dalle suggestioni che questo caso mi offriva. Non notai nien- te di diverso dalle altre. La vittima si chiamava Giorgia Morelli, anche lei single, libera pro- fessionista, praticava gestione di marketing, trentunenne. Al contrario dell’altra era mora, capelli corvini, dalle foto attaccate alle pareti si notavano le sue bellissime gambe. Anche lei era bellissima. Il letto qui era senza spalliere, piatto e semplice: lenzuola bianche di seta in disor- dine, due mensole con lampade in ferro ai lati. Immaginai il serial kil- ler nella scelta delle sue vittime. Aveva gusto, pensai ironicamente. Mi decisi ad uscire dalla stanza quando il cuore mi si fermò. 20