2. C’è stato un tempo in cui arrivavo quasi
sempre col fiatone in chiesa. Ne aprivo la
porta con la sfacciataggine di chi possiede e
io sentivo mio quell’orecchio divino, quel
grande padiglione universale a cui gridavo:
“Signore, dammi la forza”.
4. Vomitavo i miei occhi al suolo aggrappandomi a
quel nodo di mani che strozzavano i miei
peccati insieme alla mia fede.
“Signore, dammi la forza”.
5.
6. Senza fiato alzavo la mia testa agli affreschi, ai
lampadari, agli angeli di Dio e, ogni tanto,
avanzava qualche lacrima sui miei occhi,
rimanenza di un pasto di colpe e ragioni che
non ero riuscita a triturare con i denti né
tantomeno con le preghiere.
Poi uscivo dalla chiesa e la mia forza era sempre
la stessa anche se sentivo calda la pancia e
piena di ovatta, come se mi avessero ficcato
delle nuvole dentro.
10. La vera messa era a tavola e non c’era bisogno di
suppliche e di richieste, il grande orecchio di
mia madre riusciva ad ascoltarmi sempre e a
guardarmi quasi fosse un immenso occhio
gigantesco:
“Mamma, mi passeresti l’acqua?”.
E l’acqua arrivava.
“Mamma, mi passeresti il pane?”.
E il pane arrivava.
14. Di certo Dio non mi ascoltava perché non gli
avevo chiesto la forza con gentilezza.
Perché mi ero persa dietro a imperativi
vincolanti che avevano insonorizzato il soffitto
della chiesa isolando acusticamente i miei
appelli.