Digital marketing: evoluzioni e nuove figure professionali. Speciale Food Mar...Free Your Talent
Project Work realizzato all'interno del Master in Marketing ISTUD a cura di Stefania Antinoro, Giulio Dal Passo, Alberto Formenti, Vincenzo Piparo e Sara Schiattarella.
All’interno dell’elaborato viene trattata la tematica del digital marketing in relazione alla sua evoluzione nel tempo, agli strumenti digitali utilizzati e alle figure professionali ad esso collegate.
Il processo di digitalizzazione ha ormai coinvolto ogni ambito della nostra vita. Anche le aziende hanno dovuto adattarsi al cambiamento, adeguando i propri modelli di business in funzione dell’introduzione di nuovi sistemi di gestione e comunicazione sempre più tecnologici. Nello specifico è stato trattato il settore del food attraverso l’analisi di due aziende che si collocano nell’ambito della ristorazione: Burger King e Puok burger store. L’obiettivo: comprendere come una grande ed una piccola azienda si siano approcciate al fenomeno digital.
Bocconi Osservatorio Ask Quaderno 27 Sulla MulticanalitàMartina Casani
Comunicazione multicanale e interattiva nelle aziende italiane: le tendenze, i profili di comportamento delle aziende, i contenuti comunicati sui media digitali
Social media strategy: metodologia per la Pubblica AmministrazionePiero Zilio
Social Media Strategy per la PA: un approccio metodologico per gestire in modo strategico i profili social della pubblica amministrazione. Capitolo a cura di Piero Zilio tratto dalla seconda edizione di "Social Media e PA, dalla formazione ai consigli per l'uso" (CC BY-SA 4.0).
Comunicazione della salute e marketing sociale. Le nuove prospettive del web....Giuseppe Fattori
Gli obiettivi dell’intero progetto102 erano quelli di sostenere in modo determinante le associazioni e le aziende sanitarie locali nel loro sforzo di sensibilizzazione sul tema dei Fasd e di supportare le organizzazioni appena nate in aree del mondo dove c’è poca (o talvolta nessuna) attività di prevenzione. Come visto, per raggiungere queste finalità è stato necessario creare un network capillare (sia online che offline) volto a condividere i materiali della campagna e a diffondere l’adozione delle migliori pratiche di vita, fornendo così anche delle possibilità per confrontare le esperienze delle varie nazioni e valutare l’efficacia delle tecniche usate.
Tramite la creazione di un ampio dibattito tra i cittadini e i professionisti del settore si è cercato di creare un circuito di solidarietà nelle comunità, che spingesse il maggior numero di persone ad informarsi e di conseguenza ad agire in base alle conoscenze maturate.
Il ruolo dell'ufficio stampa ai tempi della disintermediazione tra media e aziende e alla luce degli accordi di stoccolma. Molti dicono che l'ufficio stampa è morto ma al contrario il suo ruolo oggi può essere molto strategico. Articolo scritto per Ferpi.it nel 2010
Una social media strategy per le organizzazioni cristina felice civitillo in...Cristina FELICE CIVITILLO
Il mercato, i consumatori, le aziende, i lavoratori sono cambiati. È tempo di aggiornare il modo in cui lavoriamo diffondendo una cultura della collaborazione e della condivisione, supportando i processi spontanei di networking che mettano in collegamento le persone e le loro competenze, implementando strumenti che facilitino i flussi di comunicazione sia interni all’azienda (bottom-up, top-down e peer-to-peer) che esterni.
Il modello ACV per vendere con il Social SellingGiorgio Tosi
I Social stanno modificando il contesto competitivo digitale, facendolo evolvere da un eccesso di informazione indifferenziata, ad una condivisione di opinioni ed esperienze personali. Tale evoluzione si ripercuote anche nei comportamenti di acquisto: i Social hanno facilitato e velocizzato la ricerca, la valutazione, il confronto e l’interazione tra clienti e prospect, influenzando fortemente il processo decisionale di acquisto di prodotti e servizi, sia sui mercati B2C che B2B.
Al fine di inseguire e «cavalcare» questo fenomeno le aziende devono adeguare le proprie metodologie e processi dvendita, non limitandosi ad affiancare i Social ai tradizionali canali di vendita, ma integrandoli all’interno del modellocommerciale complessivo, sfruttando a proprio favore le caratteristiche peculiari che tali strumenti hanno.
Strategic MP, sintetizzando le esperienze maturate sia nell’ambito Commerciale e Marketing che nei Social Network, propone alle aziende di riflettere su come i Social possano supportare efficacemente l’azione commerciale, attraverso il modello ACV:
-Ascoltare: utilizza i Social per rilevare le opportunità commerciali
-Coinvolgere: interagisci con i prospect sui Social, mostra le tue competenze ed influenza il processo decisionale
-Vendere: conduci la trattativa e finalizza la vendita in sinergia con i diversi canali commerciali disponibili
Visto il cambio di mentalità e di metodologia di lavoro richiesti, Strategic MP consiglia l’adozione di un approccio prototipale sulla base di un progetto pilota, attraverso il quale capitalizzare l’esperienza fatta e decidere modalità e perimetro di un’eventuale estensione d’ambito.
Digital marketing: evoluzioni e nuove figure professionali. Speciale Food Mar...Free Your Talent
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Tramite la creazione di un ampio dibattito tra i cittadini e i professionisti del settore si è cercato di creare un circuito di solidarietà nelle comunità, che spingesse il maggior numero di persone ad informarsi e di conseguenza ad agire in base alle conoscenze maturate.
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Una social media strategy per le organizzazioni cristina felice civitillo in...Cristina FELICE CIVITILLO
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I Social stanno modificando il contesto competitivo digitale, facendolo evolvere da un eccesso di informazione indifferenziata, ad una condivisione di opinioni ed esperienze personali. Tale evoluzione si ripercuote anche nei comportamenti di acquisto: i Social hanno facilitato e velocizzato la ricerca, la valutazione, il confronto e l’interazione tra clienti e prospect, influenzando fortemente il processo decisionale di acquisto di prodotti e servizi, sia sui mercati B2C che B2B.
Al fine di inseguire e «cavalcare» questo fenomeno le aziende devono adeguare le proprie metodologie e processi dvendita, non limitandosi ad affiancare i Social ai tradizionali canali di vendita, ma integrandoli all’interno del modellocommerciale complessivo, sfruttando a proprio favore le caratteristiche peculiari che tali strumenti hanno.
Strategic MP, sintetizzando le esperienze maturate sia nell’ambito Commerciale e Marketing che nei Social Network, propone alle aziende di riflettere su come i Social possano supportare efficacemente l’azione commerciale, attraverso il modello ACV:
-Ascoltare: utilizza i Social per rilevare le opportunità commerciali
-Coinvolgere: interagisci con i prospect sui Social, mostra le tue competenze ed influenza il processo decisionale
-Vendere: conduci la trattativa e finalizza la vendita in sinergia con i diversi canali commerciali disponibili
Visto il cambio di mentalità e di metodologia di lavoro richiesti, Strategic MP consiglia l’adozione di un approccio prototipale sulla base di un progetto pilota, attraverso il quale capitalizzare l’esperienza fatta e decidere modalità e perimetro di un’eventuale estensione d’ambito.
Progetto di ricerca - Metodi per l'analisi della comunicazione
Riferimento della pubblicazione:
Cocorullo, A., Nespoli, A. (2013), "L’Acl nel caso America’s Cup Napoli",
in E. Amaturo, G. Punziano (a cura di), "Content Analysis: tra comunicazione e politica", Milano: Ledizioni, pp. 173-190.
Metodi statistici per l'analisi della comunicazione
Comunicazione d'impresa
1. Università degli Studi di Napoli
“Federico II”
Facoltà di Sociologia
Corso di Laurea Magistrale in
Comunicazione pubblica, sociale e politica
Corso di
Comunicazione d’impresa
Slide
Anno Accademico 2011/2012
Augusto Cocorullo
3. Slide
Gruppi 1-7 Pecchenino - Gruppo 8 De Feo - Gruppo 9 Invernizzi - Gruppo 10 ? -
Gruppi 11-12 Signorelli - Gruppo 13 Codeluppi - Gruppo 14 ?
1. La comunicazione d’impresa
2. Le relazioni pubbliche
3. Il direct marketing
4. Il brand name
5. La visual identity
6. La pubblicità
7. Promozione e sponsorizzazione
8. Il comunicatore d’impresa in Italia
9. La comunicazione nei modelli organizzativi e nel contesto sociale
10. La responsabilità sociale delle imprese
11. Il consumo
12. Il consumo, teorie contemporanee
13. Il biocapitalismo
14. Il commercio equo e il consumatore etico
1. La comunicazione d’impresa
Lo studio del settore disciplinare afferente alla sfera della comunicazione
d’impresa necessita di alcune premesse metodologiche, atte a fornire strumenti idonei
per una corretta interpretazione ed un’efficace comprensione dei concetti
successivamente esposti.
Nello specifico, risulta opportuno focalizzarsi sulla definizione di
“informazione” e sulle caratteristiche della comunicazione, in quanto elementi
strutturanti della disciplina in analisi. In particolare, l’informazione costituisce un
concetto centrale per lo studio della società contemporanea, configurandosi come
un’azione sociale cui si attribuisce un significato collettivamente condiviso, divenendo
in tal modo parte integrante del processo comunicativo. Inoltre, per “comunicazione”
si intende un processo di trasmissione di informazioni tra soggetti, un’azione sociale,
reciproca e comunitaria, che si connota come “agire comunicativo” in termini di
3
4. dinamicità tra individui. Infatti, la comunicazione può essere considerata come relazione
tra soggetti che vogliono comunicare (intenzionalità), che possono comunicare (mezzi e
contesti), che riescono a comunicare (valori condivisi). Nell’ambito della
comunicazione d’impresa, interagiscono due tipologie di soggetti: l’impresa, che si
focalizza su modelli organizzativi e su modalità comunicative; il consumatore, che
sviluppa modelli di consumo mediante specifiche modalità comunicative. La relazione
che si è progressivamente instaurata tra i suddetti soggetti ha subito una sostanziale
evoluzione, provocando un mutamento del rapporto sia per l’impresa (dall’informazione
di mercato alla relazione con il consumatore) sia per il consumatore (dal bene di
consumo all’agire di consumo), fino all’“evaporazione” della relazione impresa-
consumatori. Questione particolarmente complessa è quella della definizione delle
peculiarità della professione del comunicatore d’impresa, in termini di competenze, di
possibilità occupazionali, di istituzionalizzazione professionale. Collegate alla
precedente, si elencano altre tematiche da approfondire: il piano di comunicazione,
l’ITC ed il telelavoro, il commercio equo e solidale, il consumo critico.
2. Le relazioni pubbliche
Per “relazioni pubbliche” si intende l’insieme dei nessi relazionali strategici che
le organizzazioni mettono in atto nell’ambiente di riferimento. Le R. P. si configurano
come l’insieme delle attività dell’azienda finalizzate a sviluppare la credibilità,
potenziandone l’immagine e la reputazione, per ottenere benevolenza e consenso:
vengono altresì considerate come lo strumento finalizzato a governare in modo pro-
attivo i sistemi di relazione con i soggetti influenti, ai fini di un tempestivo
raggiungimento degli obiettivi aziendali.
In particolare, le azioni di R. P. possono rivolgersi ai media, agli attori
economici (fornitori e concorrenti), alla sfera politica (istituzioni e partiti), alla società
civile (opinione pubblica e comunità locali), agli opinion leader. Le R. P. sono uno
strumento comunicativo di tipo composito, per il fatto che possono essere utilizzati
diversi canali per la loro implementazione (strumenti scritti, strumenti “immagine”,
strumenti orali); applicabile a diversi ambiti, dall’impresa al prodotto; rilevante in tutti i
settori della comunicazione d’impresa. Esse possono riguardare la comunicazione
istituzionale (Pubblic Affairs), la comunicazione di marketing (Consumer Relations), la
4
5. comunicazione economico-finanziaria (Financial PR), la comunicazione organizzativa
(Internal Relations). Tali forme si servono di alcuni strumenti operativi specifici:
relazioni con i media, ossia strumenti di attivazione e gestione dei rapporti con i mezzi
ed i veicoli della comunicazione e con i giornalisti (conferenza stampa, comunicato
stampa, rassegna stampa); eventi di comunicazione, manifestazioni che prevedono la
partecipazione di pubblici interessati a specifiche tematiche (convention, mostre,
convegni, open day, workshop); eventi speciali, manifestazioni che implicano
l’associazione del nome di un soggetto aziendale ad una attività non direttamente riferita
all’operatore economico (sponsorizzazione, mecenatismo, patronage); pubblicazioni
editoriali, prodotti editoriali attraverso cui l’azienda divulga la propria mission, i propri
valori e la propria condizione sociale ed economica (bilanci, house-organ, newsletter,
brochure); media digitali, strumenti per coniugare le caratteristiche peculiari della
stampa unitamente agli aspetti tipici dei mezzi della comunicazione via web (email,
blog aziendale, forum, press room virtuale); musei aziendali, istituzioni culturali che
raccolgono e rendono fruibile il patrimonio materiale della produzione e della storia di
un’impresa.
Inoltre, risulta opportuno analizzare le fasi di programmazione delle relazioni
pubbliche, sintetizzabili in specifici passaggi del metodo Gòrel. Nello specifico, dopo
aver individuato il pubblico di riferimento, sarà necessario specificare l’obiettivo che si
intende perseguire alla luce delle variabili (interne ed esterne) e degli influenti; si
procederà quindi con lo studio dei messaggi-chiave, effettuando alcuni pre-test su
piccoli campioni, al fine di definire una strategia operativa efficace in termini di
trasferimento dei contenuti, per poi valutare e misurare i risultati ottenuti.
3. Il direct marketing
Il direct marketing è uno strumento che mira ad instaurare un rapporto diretto e
interattivo tra impresa e cliente, inteso come individuo singolo e specifico. Si
distinguono due forme di marketing diretto: tradizionale, rivolto a pubblici vasti;
specifico, finalizzato alla promozione. È opportuno specificare che il direct marketing si
differenzia dalle relazioni pubbliche per il fatto che esse si riferiscono a pratiche
comunicative considerate nella loro generalità e numerosità tipologica, a differenza
5
6. della metodologia in analisi che, invece, si incentra esclusivamente sulla promozione di
un prodotto.
Il d. m. si caratterizza per una serie di dimensioni particolari, focalizzandosi su
di un target specifico di utenti dei quali si hanno informazioni aggiornate,
configurandosi come relazione interattiva e biunivoca tra impresa e cliente, servendosi
di tecniche e strumenti per la misurazione del feedback, utilizzando, infine, una pluralità
di mezzi e di canali di comunicazione. Ed ancora, il marketing diretto si discosta dal
marketing di massa (mass marketing) in relazione a numerosi parametri: mentre il d. m.
si basa su di un approccio one-to-one, il m. m. si serve di un approccio standardizzato.
Altre differenze possono essere collocate nelle seguenti opposizioni: focus
sull’individuo/focus sul mercato; comunicazione impersonale/comunicazione personale;
fidelizzazione dei clienti/acquisizione di nuovi clienti; customer relationship
management/customer care. Nello specifico, il customer relationship management,
concetto strettamente legato a quello di fidelizzazione del cliente, prevede una continua
attività di monitoraggio in itinere del comportamento del cliente in termini di preferenze
d’acquisto, al fine di adattare l’offerta alla richiesta. In tal modo, il consumatore,
estremamente coinvolto nel processo produttivo, diviene “prosumer”, ossia produttore e
consumatore allo stesso tempo, determinando con la sua richiesta il prodursi di quella
data merce maggiormente richiesta.
Il direct marketing trova ampia diffusione nell’ambito della società
contemporanea a causa dell’affermarsi di una serie di fattori contestuali specifici: la
frammentazione della società, attivando un processo di individualizzazione dei consumi
- indicatori dello status sociale ed economico dell’utente - ha determinato un’evoluzione
dei modelli consumistici, inducendo le imprese ad una iper-competizione. Inoltre,
concorrono all’affermazione del d. m. anche la diffusione dei new media, nonché la
riduzione dei costi di elaborazione e trasmissione dei dati. Un piano di direct marketing,
perché risulti valido ed efficace, deve articolarsi sulla base di sei fasi operative:
definizione degli obiettivi; individualizzazione del target; definizione della lista di
distribuzione sui target; selezione dei mezzi; creazione del messaggio; misurazione dei
risultati. Nello specifico, le due possibili strategie utilizzabili nel direct marketing, in
relazione ai mezzi di comunicazione, si riferiscono rispettivamente ai mass media,
caratterizzati da un ridotto livello di interattività, un target di ampie dimensioni e bassi
6
7. costi di implementazione, la prima; a tecniche face-to-face, che si connotano in termini
di alti livelli di interattività, target di dimensioni ridotte ed alti costi per contatto, la
seconda.
4. Il brand name
Per “brand name” si intende il nome di un prodotto o di un’azienda e,
precisamente, l’indicativo di un bene o servizio offerto sul mercato. È possibile
considerare due diverse accezioni del concetto in questione: quando ricorda il
bene/servizio e richiama direttamente il settore merceologico congiuntamente alle sue
funzioni od utilità, è detto b. n. “punto zero”; quando invece si prefigge l’obiettivo di
conferire una carica valoriale all’oggetto cui si riferisce, all’interno di un contesto di
marketing, viene definito b. n. “making sense”, applicato soprattutto ai prodotti che, a
causa di una saturazione di consumo, necessitano di un rinnovamento identitario.
In particolare, il brand name “punto zero” deve essere facilmente pronunciabile
e memorizzabile, capace di distinguere il prodotto nella varietà esistente in quel
determinato segmento di mercato, anticipando funzioni e/o benefit. I criteri di
misurazione dell’efficacia di questa tipologia di b. n. sono la brand familiarity ed il
brand quale valore aggiunto, nella misura in cui esso concorre ad incrementare
l’affidabilità della merce cui si riferisce.
Differenti sono le peculiarità del brand name “making sense”. Quest’ultimo,
infatti, deve marcare l’identità e la differenza rispetto ai concorrenti, facilitando la
awareness e l’accesso al senso. I criteri di misurazione dell’efficacia della tipologia di
brand name in analisi sono collocabili rispettivamente nella brand personality e nel
brand meaning. Un’ulteriore differenza tra i due tipi di b. n. citati attiene alla strategia
da utilizzare per la diffusione del brand stesso: nel caso di un b. n. del primo tipo, sarà
opportuno scegliere il mass marketing; nel caso di un b. n. del secondo tipo, sarà utile
optare per il direct marketing. A prescindere dalla tipologia, prima del lancio di un
brand name si dovranno verificare e valutare alcuni parametri: fittingness (capacità di
richiamo); distinctiviness (capacità di distinzione); mood (affettività del nome); speed of
learning (semplicità d’apprendimento).
7
8. 5. La visual identity
Per “visual identity” si intende l’insieme degli elementi visuali, organizzati in un
programma di applicazioni specifiche (Visual Identity Program), che conferisce
all’impresa un profilo estetico definito e riconoscibile verso i diversi pubblici o partner.
Il “simbolo” ed il “marchio” hanno funzione sia segnaletica, indicando la presenza, sia
significante, essendo finalizzato a distinguere un determinato prodotto nel contesto di
mercato cui si inserisce. Nello specifico, il “marchio”, in quanto caso specifico di visual
identity, identifica un’entità trasmettendo se stesso come messaggio, sintetizza valori ed
informazioni raccontandoli in forma di elementi visibili e memorabili, consente una
rapida identificazione delle proprietà dei prodotti e dei servizi aziendali, garantisce e
difende la qualità della proposta prima dell’atto di acquisto. Si riconoscono tre diverse
tipologie di marchio: il logotipo, il pittogramma ed il diagramma. Diversi sono i
requisiti che devono connotare la visual identity di un prodotto o di un’azienda:
originalità, visibilità, semplicità, correttezza morale, riproducibilità, attrattività, alta
qualità grafica, longevità, presenza sul web, protezione legale. Infine, il Visual Identity
Program assolve alla funzione di fornire un preciso ed universale profilo visivo
dell’azienda, concretizzandosi nell’identificazione coerente dell’oggetto per il quale è
strutturato, definendone il corrispettivo posizionamento estetico.
6. La pubblicità
Si distinguono tre diverse tipologie di pubblicità: p. “di prodotto”, atta a
qualificare l’immagine di un prodotto con lo scopo di aumentarne la richiesta; p. “di
impresa”, finalizzata all’affermazione dell’immagine dell’impresa per sviluppare
atteggiamenti positivi nel pubblico; p. “collettiva”, diretta all’incentivazione dell’uso
dei prodotti collocabili nello stesso settore merceologico.
La pubblicità, in quanto strumento capace di favorire l’aumento della richiesta di
un bene, può produrre due tipi di effetti sulla domanda: effetto di traslazione, che, a
parità di prezzo, determina un aumento della domanda; effetto di cambiamento di
tendenza, che provoca una variazione dell’elasticità della domanda. Per quanto possa
essere ben strutturata ed articolata, una campagna pubblicitaria risente ed è condizionata
da alcuni fattori specifici, che ne determinano l’esito finale. Nello specifico, ci si
riferisce alla tendenza allo sviluppo della domanda per una classe di prodotti, alla
8
9. validità del prodotto, al grado di differenziazione, all’efficienza della rete di
distribuzione ed infine all’impostazione della campagna pubblicitaria della concorrenza.
Quale ulteriore tipologia di pubblicità, tipica del mercato contemporaneo, la
pubblicità “indiretta” (product placement) si inserisce in contesti non dichiaratamente
pubblicitari, insinuandosi in spazi dedicati ad altri scopi.
7. Promozione e sponsorizzazione
Per “promozione” si intende uno strumento della comunicazione below the line,
che si differenzia dalla pubblicità in termini di tempestica, essendo finalizzata a favorire
un aumento tempestivo delle vendite di un prodotto, mediante il coinvolgimento diretto
del consumatore. Si riconoscono diverse forme di promozione: operazioni a premio
(raccolta punti), concorsi a premio (estrazione), riduzione dei prezzi, campioni omaggio,
telepromozione. Inoltre, la comunicazione della promozione deve basarsi su tre
presupposti logici: utilizzo di media a carattere locale, packaging strategico, presenza
effettiva dei prodotti oggetto di promozione.
Ed ancora, la “sponsorizzazione” si configura come comunicazione associata ad un
evento e/o personaggio. È possibile distinguere quattro diverse tipologie di
sponsorizzazione: s. sociale, s. culturale, s. sportiva, s. cinematografica-televisiva.
8. Il comunicatore d’impresa in Italia
Il comunicatore d’impresa si occupa della progettazione e della gestione delle
dinamiche comunicative interne ed esterne all’impresa. L’affermarsi della suddetta
categoria professionale è favorita e determinata dal mutamento del contesto socio-
culturale ed economico proprio dell’età contemporanea: i cambiamenti organizzativi e
le trasformazioni dei processi comunicativi concorrono al costituirsi di nuove
professioni.
Nello specifico, ci si riferisce all’impianto organizzativo delle imprese, definito
reticolare o “a rete”, che, attuando un processo di esternalizzazione di taluni servizi,
richiede figure atte a gestire tale potenziamento del flusso di comunicazione. Inoltre,
con l’avvento delle Information and Communication Technology (ITC) si impone un
cambiamento tecnologico nella gestione delle informazioni che, a sua volta, fa scaturire
maggiori e più complessi flussi comunicativi interni ed esterni all’impresa,
9
10. opportunamente coordinati dai comunicatori d’impresa, con modalità di gestione del
lavoro meno gerarchiche e più partecipative.
I comunicatori d’impresa operano sia in strutture esterne, grandi agenzie di
consulenza e servizio, piccoli e medi studi professionali, singoli consulenti in proprio
(freelance). Nello specifico, attraverso la consultazione della fonte Excelsior, database
online che definisce le previsioni sulle richieste di mercato, è stato possibile stilare una
lista di tipologie di professioni intellettuali e ad elevata specializzazione (NUP -
Nomenclatura delle unità professioni). Si distinguono: specialisti delle pubbliche
relazioni e dell’immagine (responsabile della comunicazione, responsabile delle
pubbliche relazioni); specialisti nei rapporti con il mercato (responsabile marketing,
account manager, key account manager); specialisti dei problemi del personale e
dell’organizzazione del lavoro (responsabile comunicazione interna, responsabile
risorse umane).
Nell’ambito delle professioni tecniche, si collocano: tecnici del marketing
(addetto marketing, addetto sviluppo prodotti, product manager, assistente ricerche di
mercato); tecnici della pubblicità e delle pubbliche relazioni (addetto alle relazioni
pubbliche, tecnico pubblicitario). La consultazione delle tabelle contenenti le
percentuali delle previsioni di assunzione consente di elaborare alcune congetture sulle
prospettive future per il comunicatore d’impresa, in relazione ad alcuni parametri
specifici, quali: titolo di studio, esperienza e reperimento, area geografica e dimensione,
settore.
In tale contesto analitico, assume particolare rilevanza la questione inerente
all’identità della comunicazione d’impresa come professione effettiva e dotata di un
proprio statuto disciplinare, etico e metodologico. In particolare, per “professione” si
intende un’attività lavorativa qualificata, di riconosciuta utilità sociale, svolta da
individui che hanno acquisito una competenza specializzata, seguendo un percorso di
studi complesso ed articolato. Al fine di illustrare le caratteristiche specifiche
dell’attività del comunicatore d’impresa, viene descritto un particolare caso di studio
che si propone di verificare se è possibile ritenere avviato il processo di
professionalizzazione della figura del comunicatore d’impresa.
Come premessa metodologica, si espongono due diverse teorie che si incentrano
proprio sul concetto e sul significato del termine “professione”. Il funzionalista Talcott
10
11. Parsons elabora una differenziazione tra “professione” ed “occupazione”: la prima, a
differenza della seconda, si svolge a partire dall’applicazione di una conoscenza
scientifica acquisita con un lungo percorso formativo, è applicata in ottemperanza di
determinanti valori etici ed è fondata sull’interesse collettivo. L’altra interpretazione
risale agli studiosi della Scuola di Chicago, secondo i quali è tendenza diffusa operare
idealizzazioni, generalizzando, del concetto di “professione”, che quindi si configura
come categoria d’uso comune utilizzata per raggiungere un determinato obiettivo.
Dunque, la professionalizzazione costituisce un processo di normalizzazione
delle caratteristiche di una data attività, per il primo; può avviarsi a partire sia
dall’interno che dall’esterno, per i secondi. Emerge quindi il profilo professionale dei
comunicatori d’impresa, caratterizzato da un’alta expertise e da un ampio background
conoscitivo derivante da un lungo e complesso percorso formativo. Le diverse
segmentazioni categoriali di questa nuova figura professionale si articolano in relazione
al tipo di rapporto istituito con l’impresa e con lo Stato, ai programmi di formazione ed
alle relative competenze acquisite, al codice deontologico assunto come parametro di
comportamento. Nello specifico, il percorso formativo intrapreso e seguito dal
comunicatore d’impresa risulta essere multidisciplinare e trasversale in virtù delle
caratteristiche proprie delle scienze della comunicazione, nonché generalista ed aperto,
come conseguenza del dinamismo dei contesti organizzativi e tecnologici.
Quanto detto, avvalora la tesi dell’esistenza della differenziazione dei profili
professionali della comunicazione d’impresa. Ed ancora, risulta opportuno focalizzarsi
sulle tipologie di competenze che devono essere possedute dalla figura in analisi:
competenze tacite, di tipo comunicativo, relazionale, emozionale e creativo; competenze
“codificate”, di stampo informatico, linguistico, redazionale, analitico,
psicologico/sociologico ed organizzativo/gestionale. Tali competenze devono
necessariamente essere accompagnate da flessibilità formativa e disciplinare, secondo i
canoni dell’apprendimento on the job, a causa della disomogeneità e della pluralità dei
contesti lavorativi.
Per l’analisi del rapporto tra comunicatore d’impresa e contesto lavorativo nel
quale esso si colloca ed agisce, occorre considerare due diversi modelli organizzativi. In
particolare, nel modello di “organizzazione razionale o meccanica”, il comunicatore
deve trasmettere informazioni verso i pubblici di interesse, implementando le sue
11
12. attività entro limitati margini di discrezionalità nella gestione dei processi organizzativi,
che saranno standardizzati e razionalizzati, con condizioni di lavoro e carriera
gerarchicamente definite. Al contrario, nel modello di “organizzazione reticolare o a
nodi”, il comunicatore d’impresa deve instaurare un dialogo tra l’impresa ed i differenti
soggetti con cui essa entra in contatto, sfruttando la condizione di maggiore autonomia e
discrezionalità nella gestione dei flussi comunicativi, con un orientamento al servizio,
alla responsabilità ed alla crescita professionale.
Altro aspetto importante attiene all’“associazionismo” nel campo della
comunicazione, che si concretizza in tre diverse tipologie di “associazione”: le
community, comunità di scelta e interazione individualizzata con limitate barriere
all’ingresso; i club, comunità professionali composte da membri influenti dell’élite
economica e culturale (es. direttori di imprese pubbliche e private, docenti universitari);
le associazioni di categoria, associazioni di rappresentanza sociale e istituzionale di
particolari categorie di professionisti (es. tecnici pubblicitari, professionisti delle
relazioni pubbliche). Le associazioni di categoria hanno precisi obiettivi e funzioni:
individuazione delle linee di sviluppo delle attività e definizione dei contenuti operativi;
determinazione dei contenuti deontologici delle attività professionali; riconoscimento
istituzionale delle attività professionali del settore della comunicazione.
Particolare importanza viene data, soprattutto nel contesto contemporaneo, ai
codici deontologici, ossia alle regole di comportamento professionale atte ad ottenere
fiducia nella professione: l’autoregolazione nel campo della comunicazione è integrata
con la regolazione del mercato (es. assenza di tariffari minimi, nessuna limitazione di
pubblicità informativa circa le caratteristiche del servizio offerto).
Infine, la questione della rappresentanza professionale si pone in termini di
dualismo tra professioni non regolamentate e professioni regolamentate; “unionismo
professionale” delle professioni della comunicazione come movimento per il
riconoscimento istituzionale (ICI - Interassociazione Comunicazione d’Impresa);
difficoltà delle nuove strategie collettive di riconoscimento, legate alla variabilità degli
interessi associativi ed all’eterogeneità della base sociale di riferimento; regolazione
professionale internazionale e definizione delle politiche a livello europeo.
12
13. 9. La comunicazione nei modelli organizzativi e nel contesto sociale
I diversi modelli organizzativi esistenti trovano applicazione in specifiche
modalità di comunicazione, attraverso le quali vengono implementati ed applicati gli
schemi gestionali propri di ciascun modello. Nello specifico, al primo dei tre modelli
organizzativi individuati, il modello meccanico-razionale, corrisponde una strategia
comunicativa che si basa sul trasferimento di informazioni; al modello contingente-
proattivo è abbinato il controllo delle risorse comunicative; al modello reticolare-
interattivo si associa una costruzione di relazioni comunicative. I suddetti modelli, pur
differenziandosi in termini di metodologie organizzative proposte ed impostazione
generale strutturale, tuttavia presentano quattro tipologie di elementi costitutivi comuni:
elementi materiali, elementi economici, cultura e valori, relazioni sociali e
comunicative.
In particolare, l’organizzazione razionale o meccanica si caratterizza per una
struttura di tipo piramidale estremamente incentrata sul contesto interno dell’impresa,
poco attenta all’ambiente esterno ad essa, tendente alla specializzazione dell’attività
lavorativa come conseguenza del carattere ripetitivo dell’attività pratica (catena di
montaggio). Il lavoro ad economia scalare si esplica in scambi retributivi e nella forma
peculiare del mercato ad assorbimento.
Per quanto riguarda la dimensione etico-culturale, si osserva l’applicazione nel
processo produttivo di regole esterne (scienza ed economia), con il prevalere di valori
monetaristi abbinati a criteri di utilità ed efficienza. Il rapporto tra lavoratori assume
un’impostazione gerarchica di controllo disciplinare e gli scambi di informazione si
attengono sia al modello top down, sia al modello bottom up. Fulcro principale del
modello organizzativo razionale/meccanico è l’atto della comunicazione: in questo
contesto è necessario comunicare per comandare e controllare, per motivare e integrare
gli individui nel modello organizzativo (consenso, premi economici), per amministrare
con efficienza ed equità impersonale, infine, per valorizzare e coinvolgere i lavoratori in
obiettivi organizzativi. In sintesi, l’agire comunicativo nell’organizzazione razionale
assumerà le seguenti connotazioni: impersonale/strumentale; motivazionale/formale;
stabile/prevedibile.
Il secondo modello organizzativo considerato si riferisce ad un’organizzazione
contingente e pro-attiva dell’impresa. Differente rispetto al modello precedentemente
13
14. analizzato, quello contingente/pro-attivo si caratterizza per confini aperti e
maggiormente orientati verso l’ambiente esterno, nonché per una struttura di tipo socio-
tecnico. L’assetto economico si esplica in una produzione da mercato ed in scambi
retributivi. Dal punto di vista deontologico, prevalgono regole di autodisciplina
internalizzate, associate a valori sociali che orientano il sistema produttivo verso la
pubblica utilità ed il comune interesse. Le relazioni tra lavoratori e tra i vari strati
gerarchici si connotano in termini di bidirezionalità e di scambi di informazioni interno-
esterno e viceversa. In tale contesto, l’atto comunicativo assume quattro diverse finalità,
e il “comunicare” funge da strumento per: contenere i limiti della razionalità, riducendo
l’ambiguità nei processi decisionali; ridurre l’incertezza ambientale, favorendo
l’intervento pro-attivo; legittimare l’organizzazione, creando un’identità distintiva;
suscitare il sentimento di appartenenza. L’agire comunicativo è dunque
interpersonale/strutturale, informale/formale, interno/esterno.
Come per l’organizzazione razionale/meccanica ci si avvale della metafora
dell’orologio meccanico per raffigurarne simbolicamente il funzionamento, per il
modello organizzativo contingente/proattivo si utilizza la metafora dell’azienda come
organismo dotato di una spiccata capacità di adattamento al contesto sociale,
economico, politico ed ambientale ad esso circostante.
Infine, l’organizzazione reticolare ed interattiva si caratterizza per una serie di
elementi costitutivi specifici: materiali (open office, struttura senza confini - non
piramidale, ICT); economici (lavoro flessibile scambi progettuali - non materiali,
mercati plurimi); culturali (regolazioni - sanzioni sociali, reciprocità, negoziazione tra
soggetti in una rete interattiva); relazionali (cooperazione e partecipazione finalizzate al
raggiungimento di un comune obiettivo, scambi comunicativi bidirezionali).
Tale modello viene stilizzato con la metafora dell’ologramma, determinando una
configurazione dell’azienda come struttura che, sebbene visualizzata da diverse
angolazioni, conserva le medesime peculiarità ontologiche. Attestata l’esistenza dei
sudetti modelli organizzativi e descrittene le proprietà principali, sarà opportuno
focalizzarsi sull’oggetto “impresa” generalmente inteso, alla luce degli effetti che la
società dell’informazione ha sortito su di essa. Nello specifico, i numerosi cambiamenti
sociali, scaturenti da una confluenza di elementi culturali e contestuali, hanno attivato
un processo di responsabilizzazione dell’impresa, sia verso l’interno sia verso l’esterno.
14
15. L’impresa, quindi, ricopre il ruolo di istituzione sociale, ponendosi al centro tra
economia e società, in virtù della congettura di weberiana memoria. Un sostanziale
cambiamento attiene anche alla sfera prettamente organizzativa (de-gerarchizzazione,
sviluppo a rete, importanza degli intangibles), nonché a quella economica
(internazionalizzazione, nuove tecnologie, economia della conoscenza), ed in fine al
settore del consumo (diversificazione dei gruppi sociali, differenziazione culturale,
nuovi modelli di consumo). Notevoli sono altresì i mutamenti nella comunicazione:
maggiori flussi e articolazione della comunicazione, coerenza tra comunicazione interna
ed esterna, comunicazione d’impresa come identità distintiva.
10. La responsabilità sociale delle imprese
Per “Responsabilità Sociale d’Impresa” (Corporate Social Responsibility, CSR)
si intende l’integrazione di preoccupazioni di natura etica all’interno della visione
strategica d’impresa. La CSR può essere definita come “integrazione volontaria delle
preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e
nei loro rapporti con le parti interessate. Nel dibattito incentrato sul rapporto tra etica e
mercato, occorre valutare quale sia il giusto equilibrio da raggiungere.
Per quanto riguarda il processo di razionalizzazione dell’economia, si fa
riferimento all’Etica Protestante di Weber, in cui si sostiene che un sostrato culturale
aveva determinato la nascita del Capitalismo. In Weber la modernità si basa sulla
razionalità: si lavora perché è giusto farlo dal punto di vista individuale, come
individuale era il rapporto con Dio.
L’impresa attraverso una visione consensuale del rapporto con l’individuo si
impegna a mantenere una buona condotta sociale: la RSI si connota per un carattere
volontario, per l’abbinamento di aspetti sociali ed ambientali nell’agire economico, per
una continua interazione tra impresa e soggetti con i quali entra in contatto. La CSR è
una strategia volta a riscuotere fiducia e notorietà presso diversi pubblici: l’impegno
sociale delle aziende si configura come elemento costitutivo dell’impresa che comunica
se stessa in un ottica di valori. L’attenzione per la responsabilità sociale scaturisce dal
rapporto instauratosi tra la pressione dei soggetti sociali e morali e la risposta/proposta
degli attori economici e delle aziende: i cittadini esercitano una pressione sugli attori
economici che, di conseguenza, rispondono a tali forze pressorie con proposte
15
16. strategiche. La CSR in una prima fase assume la connotazione di filantropia,
successivamente diviene più strutturata configurandosi come welfare aziendale.
Dopo la Grande Depressione, cade il mito del businessman e nasce il manager
come mediatore tra i beneficiari ed il business. Negli anni Cinquanta, si innesca un
processo di individualizzazione dell’azione responsabile. La figura del manager si
istituzionalizza e si pone come “servitore della società”, restituendo output specifici in
relazione a determinante richieste. La formalizzazione delle Human Relations è prova
dell’enfasi che viene applicata alla dimensione socio-umana delle dinamiche aziendali,
in termini di rispetto e sviluppo della persona. Il modello del welfare capitalism si
dispiega nel rapporto tra pressione sociale e possibili risposte ad essa collegate:
orientamento sociale (passivo) e responsabilità sociale (attiva). A tal proposito, il
bilancio sociale si configura come uno strumento attraverso il quale l’impresa
implementa pratiche di rendicontazione del proprio operato nei riguardi degli
stakeholder.
La piramide di Carroll (1991) si propone di schematizzare i diversi tipi di
responsabilità sociale in relazione al rapporto tra ciascun livello della struttura
piramidale ed il consumatore. Nello specifico, si distinguono quattro diverse
declinazioni del concetto di CSR: responsabilità economica, pretesa dal cittadino;
responsabilità legale, richiesta dalla società; responsabilità etica, attesa dagli
stakeholders; responsabilità filantropica, desiderata dalla società. Il passaggio da una
responsabilità “dovuta” ad una “discrezionale” rappresenta quello che alcuni
definiscono come l’orientamento comunitario dell’impresa: in tal caso, si parla di
strategia sociale proattiva dell’impresa (marketing filantropico, Cause Related
Marketing).
Ed ancora, la responsabilità etica riguarda le attese della comunità rispetto
all’attività aziendale. Tale responsabilità è stimolata dalla nuova consapevolezza del
consumatore e dall’emergere di una cultura della qualità della vita. A tali aspettative, le
imprese hanno risposto attraverso strumenti di comunicazione specifici in modo
autonomo o mediati da soggetti esterni.
Per comunicazioni “dirette” si intendono messaggi pubblicitari che assicurano
l’impegno da parte dell’impresa verso attese etiche sulla produzione e sul ciclo del
prodotto (es. comunicazione ecologica). Al contrario, le comunicazioni “mediate” sono
16
17. prodotte utilizzando soggetti terzi ed agenzie esterne all’impresa che certificano
l’impegno etico dell’azienda (es. ecolabel).
Inoltre, la responsabilità filantropica riguarda le azioni messe in atto da
un’impresa indipendentemente dalle attese della comunità o degli stakeholders, in
quest’ottica l’impresa riconosce a se stessa un ruolo di soggetto che deve socializzare la
ricchezza prodotta al di là dei processi distributivi contrattuali e di mercato. In tale
ottica, costituiscono esempi di strumenti attraverso i quali implementare attività di
responsabilità filantropica: sponsorizzazioni sociali, donazioni, attività di marketing
legate ad una causa (CRM - Cause Related Marketing).
In particolare, la CRM è uno strumento strategico che lega un’azienda o una
marca ad un’importante causa sociale o ad un’organizzazione non-profit per mutuo
beneficio. Le iniziative CRM prevedono la creazione di un legame tra l’entità del
contributo offerto dall’impresa per la causa con la vendita di un prodotto/servizio
aziendale. L’azione di CRM può durare per lungo tempo o per un periodo limitato alla
realizzazione della causa in oggetto.
11. Il consumo
Il tema del consumo viene analizzato in funzione dei mutamenti affermatisi nel
settore e delle diverse teorie che ne hanno descritto le modalità di fruizione da parte
dell’individuo, evidenziandone caratteristiche e criticità. In primo luogo, il
cambiamento dei beni di consumo si ricollega al processo di smaterializzazione che ne
ha determinato una trasformazione in termini di tipologie di spinte all’uso da parte del
consumatore. Si parla, infatti, di perdita della sostanza fisica e durevole e di
acquisizione dell’immaterialità esperenziale e non durevole.
Numerosi autori hanno proposto diverse interpretazioni dell’atto consumistico
alla luce delle principali teorie sociologiche e dell’assetto socioculturale proprio
dell’epoca in cui essi operavano. In particolare, Karl Marx (1818 - 1883) introduce il
concetto di “carattere feticcio” della merce, teorizzando un processo di mercificazione
delle relazioni sociali e del consumo. Nello specifico, il consumo, nella sua accezione di
godimento del bene di consumo stesso, viene descritto come “alienazione”. In tale
ottica, l’autore in questione spiega il passaggio dal “valore d’uso”, inteso come
relazione sociale tra il bene ed il consumatore, al ”valore di scambio”, quale relazione
17
18. (non sociale) tra merci (feticci). Pertanto, il consumo si configura come variabile
dipendente dal sistema di produzione ed i bisogni individuali si conformano alle
esigenze della produzione capitalistica: la produzione produce il bene di consumo, il
modo del consumo e l’impulso al consumo. Ed ancora, Jean Baudrillard (1929 - 2007)
analizza la società consumistica nel suo passeggio dal valore d’uso al segno-valore,
determinante l’innescarsi di un processo di omologazione sociale e valoriale dell’agire
di consumo.
I beni di consumo non si connotano solo per il loro valore d’uso (funzionalità
intrinseca), ma anche per il valore di scambio (significati astratti). Il bene assume
l’essenza di segno-valore, in quanto espressione di significati e marca di prestigio; essi,
inoltre, orientano il comportamento d’acquisto, creando un’immagine da ostentare ed
influenzando le relazioni sociali.
Pierre Bourdieu (1930 - 2002) spiega il consumo in termini di “distinzione”: le
pratiche di consumo costituiscono un riflesso dei gusti nello spazio sociale. Nello
specifico, il consumo è determinato dall’habitus e dal contesto socioculturale personale
di ciascun individuo: l’habitus si attesta come status del corpo e la relazione tra habitus
individuale e di classe è definita dal capitale economico e culturale, in una struttura
sociale e gerarchica. In tale ottica, le pratiche di consumo si configurano come
espressione di posizione gerarchica e configurazione di potere simbolico: il grado
elevato di risorse economiche e culturali riesce a definire i gusti ed a orientare l’agire di
consumo stesso.
In tale dibattito si colloca anche Veblen, noto per la funzione comunicativa che
attribuisce alle pratiche consumistiche, in termini di consumo vistoso. I beni di
consumo, collocabili alla base della rispettabilità del sistema sociale di riferimento,
concorrono all’ostentazione della ricchezza da parte di individui appartenenti a
determinate classi sociali. Le speculazioni sociologiche di Veblen appaiono fortemente
influenzate dal contesto sociale in cui egli operava, nonché dal processo involutivo
dell’aristocrazia francese con la complementare ascesa della nuova classe borghese che,
proprio nel consumo, poneva le fondamenta della sua legittimazione.
Infine, Simmel introduce il concetto di trickle down (effetto fontana), secondo
cui le modalità di consumo proprie delle classi più elevate indirizzano ed influenzano
quelle delle classi subalterne. Pertanto, la cultura del denaro oggettivizza gli oggetti ed
18
19. entra nell’agire di consumo, facendo perdere le connotazioni soggettive ai desideri; i
beni caratterizzano gli stili di vita come conseguenza del consumo e di relative
esperienze. In questo contesto, l’agire di consumo rappresenta una tendenza dei gruppi
sociali all’eguaglianza ed anche alla differenziazione.
A tal punto, occorre precisare che, a causa del verificarsi di un sostanziale
cambiamento nel modello socio - economico, si è innescato un processo di
smaterializzazione nella società: dal fordismo (rigidità, standardizzazione,
massificazione) al postfordismo (flessibilità, innovazione, personalizzazione).
12. Il consumo, teorie contemporanee
Consumo come cultura visibile: il soggetto consumatore attivo rielabora i
processi di scambio tra significati impliciti ed espliciti. Tali significati si collocano nelle
relazioni tra i beni e tutti controllano l’informazione quale bene principale della
contemporaneità. Pertanto, il consumo assume le caratteristiche di un’area in cui gli
individui lottano per accedere all’uso di determinati beni e controllare l’informazione.
Consumo come significato culturale: il significato del bene è culturalmente
costruito e gli strumenti che si presuppongo reciprocamente per l’attribuzione dei
significati sono le categorie ed i principi culturali. Nei contesti sociali i beni di consumo
hanno biografia culturale o storia sociale e possono uscire dalla condizione di merce in
base all’uso fatto nella specifica società.
Consumo come forma di linguaggio. Il consumo autonomo e indipendente dalle
logiche di produzione assume una funzione comunicativa di presenza e appartenenza
sociale, consentendo al consumatore di effettuare una scelta libera ed individuale, in
termini di accesso nel gruppo e nella stratificazione sociale.
13. Il biocapitalismo
Il biocapitalismo è la più recente evoluzione del modello economico e sociale
capitalistico. È caratterizzato dall’intreccio dell’esistenza psicologica e materiale degli
individui con il processo di produzione di valore. Tale sistema attribuisce al
consumatore un ruolo estremamente attivo, evidenziando la sua capacità d’orientamento
della produzione in seguito alla richiesta maggiore o minore di un determinato bene. È
altresì verificabile l’innescarsi di un processo di esternalizzazione di determinate attività
19
20. precedentemente svolte all’interno dell’azienda: l’outsourcing prevede appunto che il
consumatore provveda all’esecuzione di talune fasi così da consentire l’effettivo
completamento della produzione di un dato bene di consumo. Il percorso che ha
condotto alla determinazione ed all’affermazione del biocapitalismo ha origine a partire
dal processo di astrazione del mercato considerato nelle sue componenti costitutive.
Il capitalismo, infatti, è caratterizzato dalla capacità di astrazione del lavoro, del
denaro, delle merci e del corpo. Pertanto, si passa dalla materialità ad un assetto
immateriale. La natura del biocapitalismo si connota anche in termini di passaggio
dall’economia materiale all’economia della conoscenza: dalla fabbrica che produce beni
alla società che produce conoscenza. In questo contesto, nasce la figura del prosumer, il
produttore-consumatore che, collocandosi nel sistema del libero mercato, concorre a
determinare gli orientamenti dello stesso. Il consumatore è quindi visto non solo come
punto d’arrivo del processo di consumo o come soggetto che fa un uso creativo del
consumo, ma anche come produttore di sapere, cultura, creatività, lavoro e
comunicazione.
L’affermarsi del modello biocapitalistico determina una rottura della dimensione
spaziale e temporale: i mezzi di comunicazione consentono di abbattere le consuete
barriere sociali e con la rete nasce “l’individuo collettivo” confacente ai flussi del
biocapitalismo. Si assesta una diffusa tendenza alla crescita senza limiti ed il processo di
produzione di valore ingloba qualunque aspetto della vita e la tendenza è la crescita per
la crescita, definita da Codeluppi “escrescenza”, inseguita anche dal corpo. Questo è
sempre stato oggetto di controllo nella storia del capitalismo e la “medicalizzazione
della società” (M. Foucault) ne rappresenta un esempio. Attualmente il fenomeno è
divenuto estremo.
Uno degli strumenti del biocapitalismo è collocabile nella marca, intesa come
nominativo applicato ad una determinata merce, atto a distinguere un prodotto dagli altri
appartenenti allo stesso settore merceologico. La marca identifica un significato,
creando emozioni; nasconde l’oggetto enfatizzando la dimensione simbolica; crea
valore (brand equity); assimila gli elementi culturali della società e si diffonde
nell’ambiente sociale, mutando gli stili di vita e di consumo. Il biocapitalismo presenta
altresì dei rischi ascrivibili ad una possibile appropriazione - e del relativo controllo -
delle forme culturali della società, all’ingerenza dell’agire strumentale nell’agire
20
21. comunicativo; alla riduzione dello spazio privato occupato dalla cultura del consumo. Il
rischio principale del biocapitalismo, tuttavia, è collocabile nella possibile autofagia del
sistema: il modello economico biocapitalista, attraverso lo sfruttamento della cultura,
dei corpi, degli individui e della natura, potrebbe incorrere in un depauperamento del
sistema stesso.
14. Il commercio equo e il consumatore etico
Il Commercio Equo e Solidale è un approccio alternativo al commercio
convenzionale; esso promuove la giustizia sociale ed economica, lo sviluppo
sostenibile, il rispetto per le persone e per l’ambiente, la crescita della consapevolezza
dei consumatori, l’educazione, l’informazione e l’azione politica. Tale forma di
commercio nasce negli anni Cinquanta e si configura, almeno nella sua fase aurorale,
come movimento a sfondo religioso, attestandosi come relazione paritaria fra tutti i
soggetti coinvolti nella catena di commercializzazione: dai produttori ai consumatori.
In particolare, la determinazione dei prezzi dei prodotti, in questo caso, segue
criteri fondati sulla “coscienza”, non sulla classica relazione tra domanda ed offerta,
pratica, questa, che spiega il motivo per il quale i prezzi dei prodotti venduti nell’ambito
del commercio equo risultano più elevati rispetto a quelli del commercio tradizionale
(15 - 20 %).
Nel contesto italiano, la forma di commercio in analisi assume un orientamento
più “locale” rispetto a quello tipico del commercio equo a livello mondiale, improntato
secondo logiche di una più ampia diffusione e visibilità di questa attività: in Italia si
registra l’esistenza di botteghe esclusivamente deputate alla vendita di prodotti importati
che, pertanto, ad eccezione di pochi casi, non vengono proposti e venduti nell’ambito di
grandi centri commerciali, come invece accade per altri paesi.
Ai fini di un’implementazione efficace e fruttifera di pratiche di commercio
equo, è necessario che tra produttore ed importatore si instauri un rapporto di fiducia
che favorisca un’agevole collaborazione tra le suddette figure, in termini anche di
trasparenza circa le modalità di produzione delle merci importate. In particolare, il
commercio equo prevede una serie di specifiche attività e procedure: stabilire rapporti
economici diretti e continuativi, determinando un prezzo equo con i produttori;
effettuare un prefinanziamento ai produttori pari al 50% del costo totale della
21
22. produzione; agevolare pratiche di agricoltura biologica e rispettose dell’ambiente,
finanziando progetti di sviluppo locale; favorire processi democratici, partecipativi e
trasparenti, sostenendo le minoranze ed i gruppi svantaggiati nell’ingresso ai mercati.
Nel momento in cui i produttori stringono rapporti con gli importatori su base
fiduciaria, specificano determinati accordi con questi ultimi in relazione alle modalità di
produzione dei prodotti, effettuando periodicamente dei controlli per accettare
l’effettivo attenersi ai patti.
A prezzi elevati, dunque, corrisponde un’alta qualità dei prodotti, caratteristica,
questa, che può essere anche certificata dai produttori. Nell’ambito del commercio equo,
si osserva un categorico rifiuto delle canoniche forme di promozione ed aumento della
visibilità dei prodotti, per il fatto che la pubblicità è ritenuta eccessivamente
“commerciale” rispetto all’impianto proprio della forma in analisi: il commercio equo si
prefigge l’obiettivo di accumulare profitto, per ovvi motivi economici, ma, allo stesso
tempo, non intende spingere il consumatore verso atteggiamenti ed inclinazioni
orientate al consumo esasperato dei beni.
Ed ancora, la certificazione è la garanzia per il consumatore del rispetto dei
principi del ComES. La certificazione riduce i costi di transazione (certificazione di
filiera o di prodotto), in termini di verifica delle qualità che si suppone abbia un
prodotto, grazie anche alla base fiduciaria che si instaura tra produttore ed importatore
(CTM e Altro Mercato). Il prezzo equo rappresenta per il cliente la concretizzazione dei
principi del ComES e rende esplicita la composizione dei costi. Un esempio di struttura
che implementa pratiche di commercio equo è quello della cooperativa “E’ Pappici”, la
realtà più importante di ComES della Campania. Nasce nel 1993 come Associazione e
nel 1996 si trasforma in Cooperativa; nel 2008 comprende tre botteghe ed un
Magazzino Regionale, 224 soci, circa 10 persone a contratto (lavoratori e di servizio
civile) e circa 20 volontari.
La campagna della cooperativa in analisi si propone di informare sul diritto
universale al cibo, valorizzare un mercato per ridurre le disuguaglianze nell’accesso al
cibo, offrire l’opportunità di costruire una cultura del consumo del cibo più consapevole
e responsabile, lanciare o ripresentare prodotti di filiera ComES inerenti alla campagna.
Le iniziative per la campagna “E’ Pappice” comprendono comunicazioni “in-store”
(volantini, brochure, manifesti), relazioni pubbliche (incontri con esponenti istituzionali,
22
23. scuole, parrocchie, associazioni), iniziative “in-store” ed esterne (colazioni solidali,
presentazione di libri sul tema, concerti). Nel contesto del commercio equo, si colloca la
figura del consumatore responsabile. Le scelte di consumo sono attente alle
conseguenze sociali ed ambientali degli acquisti. I soggetti - definibili come
responsabili, etici e critici - costituiscono circa il 10% dei consumatori italiani. Le scelte
di consumo responsabile sono un ulteriore elemento che caratterizza l’identità e lo stile
di vita di questi consumatori (attivi nel volontariato, nella politica in attività
caritatevoli).
Il consumatore responsabile si distingue per caratteristiche soggettive (alta
istruzione, reddito mensile alto, occupazioni di alto profilo, in prevalenza del Nord
Italia) e per una specifica visione del mercato in termini di: bassa fiducia nel mercato e
nelle pratiche commerciali (pubblicità); attuazione di comportamenti di non-acquisto;
valutazione dell’impatto ambientale del bene, della necessità della sostituzione di un
bene già in possesso, della facilità di utilizzo del prodotto.
È possibile distinguere tre tipi di orientamento in base al senso attribuito
all’azione di acquisto dei beni delle filiere di commercio equo. Nello specifico, secondo
l’orientamento militante, il commercio è un’opportunità di attività politica sganciata
dalle forme partitiche tradizionali considerate corrotte o inadeguate (acquisto come atto
politico). L’orientamento devoto considera il commercio equo come un modo per poter
compiere un atto di “bene”, di “bontà” verso i poveri del mondo (acquisto come
impegno religioso). In relazione al terzo ed ultimo orientamento, quello ritualista, il
commercio equo si configura come una moda, un atto che guarda alla caratteristica
intrinseca del bene (es. prodotto biologico) ma anche un acquisto distratto (acquisto
come moda o atto differenziato).
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