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Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 12 novembre - 27 dicembre 2013, n. 6264
Presidente Pajno – Estensore Lotti
Fatto
Il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche, con la sentenza n. 1654 dell’11 dicembre 2000, ha
respinto il ricorso proposto dall’attuale appellante per l’annullamento dell’ordinanza 26 settembre 1998
con la quale era stata ordinata l’immediata chiusura della stalla per bovini ubicata in un fabbricato sito
nella Frazione di Seppio di Pioraco.
Il TAR fondava la sua decisione rilevando, sinteticamente, che la circostanza che l’immobile adibito a
stalla (ed a magazzino) fosse stato realizzato quando la destinazione della zona era agricola e che solo
nel 1980 il piano di fabbricazione aveva reso possibile un’edificabilità di tipo residenziale non poteva
costituire motivo per giustificare la gestione di una stalla di bovini, di una porcilaia e di un letamaio a
stretto ridosso di altre abitazioni, poiché l’allevamento di bestiame rappresenta di per sé attività
potenzialmente pericolosa per la salute pubblica ed è ricompresa nell’elenco delle industrie o lavorazioni
insalubri di prima classe di cui all’art.216 R.D. 27 luglio 1934, n.1265 (e classificazione decreto del
Ministero della Sanità 5 settembre 1994 che ha sostituito il D.M. 19 novembre 1981).
Pertanto, per il TAR, indipendentemente dall’essere localizzate o meno in zona agricola, dette industrie
insalubri, in forza dell’art. 216 T.U.L.S., devono essere tenute lontane dalle abitazioni e pertinente era,
dunque, il richiamo nel provvedimento all’art. 30 del regolamento comunale d’igiene che si conforma ad
una fonte d’ordine sopraordinata.
Infine, per il TAR, non si poteva pretendere che l’Amministrazione attendesse il verificarsi di una
situazione di danno concreto per la salute pubblica, essendo sufficiente, per configurare il presupposto
dell’urgenza, una situazione di pericolo non fronteggiabile adeguatamente e tempestivamente con misure
ordinarie; tale situazione di pericolo era, nella specie, obiettivamente esistente ed era stata attestata
dall’A.U.S.L. n.10 nelle relazioni richiamate nell'atto impugnato.
L’appellante contestava la sentenza del TAR deducendo vari profili:
- Illegittimità e contraddittorietà della sentenza impugnata in ordine alla mancata declaratoria di eccesso
ed abuso di potere dell’ordinanza sindacale circa l’erronea valutazione dei fatti materiali; Illegittimità e
contraddittorietà della sentenza impugnata circa l’erronea interpretazione delle norme di legge ed in
ordine alla mancata declaratoria di eccesso ed abuso di potere dell’ordinanza sindacale per erronea
interpretazione ed applicazione di norme di legge;
- Illegittimità e contraddittorietà della sentenza impugnata circa l’erronea interpretazione delle norme di
legge ed in ordine alla mancata declaratoria di eccesso ed abuso di potere dell’ordinanza sindacale per
erronea interpretazione ed applicazione di norme di legge.
Con l’appello in esame, chiedeva l’accoglimento del ricorso di primo grado.
Si costituiva la parte appellata chiedendo il rigetto dell’appello.
All’udienza pubblica del 12 novembre 2013 la causa veniva trattenuta in decisione.
Diritto
Ritiene il Collegio che l’appello sia infondato.
Infatti, come ha già chiarito la giurisprudenza di questo Consiglio, in base agli artt. 216-217 t.u. sanitario
(r.d. 27 luglio 1934, n. 1265), non modificati ma ribaditi dall'art. 32 d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 e
dall'art. 32, comma 3, l. 28 dicembre 1978, n. 833, spetta al Sindaco, all'uopo ausiliato dalla struttura
sanitaria competente, il cui parere tecnico ha funzione consultiva ed endoprocedimentale, la valutazione
della tollerabilità, o meno, delle lavorazioni provenienti dalle industrie cosiddette "insalubri", l'esercizio
della cui potestà potendo avvenire in ogni tempo e potendo esplicarsi mediante l'adozione, in via
cautelare, di interventi finalizzati ad impedire la continuazione o l'evolversi di attività aventi carattere di
pericolosità (per esempio, esalazioni, scoli, rifiuti, ecc., specie se riguardanti l'allevamento di animali).
Rientra, quindi, nei poteri del Sindaco, ex art. 216 t.u. sanitario r.d. 27 luglio 1934, n. 1265 ingiungere
ad un'impresa, che esercita un'industria cosiddetta "insalubre", di presentare un progetto preordinato ad
eliminare un temuto pericolo alla sanità pubblica e di mettere in funzione l'impianto entro un dato
termine, anche sulla scorta del parere all'uopo reso dalla struttura sanitaria competente, senza che ciò
implichi di per sé alcun difetto di motivazione o d'eccesso di potere.
Inoltre, in base agli art. 216 e 217 t.u. l. sanitaria, il Sindaco è titolare di un'ampia potestà di valutazione
della tollerabilità o meno delle lavorazioni provenienti dalle industrie, classificate "insalubri" e può
estrinsecarsi con l'adozione in via cautelare di interventi finalizzati ad impedire la continuazione o
l'evolversi di attività che presentano i caratteri di possibile pericolosità, per effetto di esalazioni, scoli e
rifiuti, specialmente riguardanti gli allevamenti, ciò per contemperare le esigenze di pubblico interesse
con quelle pur rispettabili dell'attività produttiva.
Peraltro, come ha già sancito questo Consiglio (Consiglio di Stato, sez. V, 19 aprile 2005, n. 1794), gli
art. 216 e 217 r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, conferiscono al Comune ampi poteri in materia di industrie
insalubri, anche prescindendo da situazioni di emergenza e dall'autorizzazione a suo tempo rilasciata, a
condizione però che siano dimostrati, da congrua e seria istruttoria, gli inconvenienti igienici e che si sia
vanamente tentato di eliminarli; nel caso di specie, in riferimento all’ampia ed articolata relazione
dell’ASL, sussistono le condizioni individuate dalla giurisprudenza predetta per l’esercizio del potere
cautelativo qui in contestazione.
La tesi dell’appellante secondo la quale l’allevamento di animali de qua, per le deiezioni e l’impatto
ambientale che produce, può essere oggetto di catalogazione come industria insalubre soltanto ove abbia
caratteristiche, appunto, industriali per la quantità dei capi e per il ciclo produttivo a cui essi sono
sottoposti, è smentita dal fatto che, in generale, l'allevamento di animali è considerato dalle norme del
testo unico delle leggi sanitarie industria insalubre di prima classe e, pertanto, ai sensi dell'art. 216 t.u.
27 luglio 1934, n. 1265, l'allevamento deve comunque essere isolato nelle campagne e tenuto lontano da
abitazioni (cfr., anche, Consiglio di Stato, sez. V, 17 aprile 2002, n. 2008).
Pertanto, non è sostenibile, sulla scorta dell’orientamento giurisprudenziale surriferito, la tesi secondo cui
la nozione di allevamento di animali sarebbe stata utilizzata per i grandi allevamenti che forniscono
all’industria alimentare la materia prima per le lavorazioni di prodotti alimentari.
Peraltro, proprio perché si è in presenza di una stalla di bovini con meno di venti capi, ovvero una tipica
stalla rurale, condotta dal coltivatore diretto unitamente alla propria personale piccola azienda rurale, è
stato consentita la prosecuzione dell’attività, con il solo onere di rispettare una serie di prescrizioni
concrete, emanate dalla competente autorità tecnica sanitaria (come afferma lo stesso appellante in
memoria), per consentire una conciliazione fra le esigenze igienico-sanitarie e le esigenze socio-
economiche, anch’esse di indubbia valenza e natura pubblica, prescrizioni da ritenersi ragionevoli e
compatibile con il potere di ordinanza come sopra descritto.
Tali prescrizioni, che sono state il frutto di un’attività amministrativa posteriore agli atti oggetto del
presente giudizio, non possono ritenersi inficianti di questi ultimi, poiché logicamente e ragionevolmente
il Comune ha in primis disposto in via cautelare la chiusura della stalla per bovini ubicata in un fabbricato
sito nella Frazione di Seppio di Pioraco, a tutela della salute e sulla base di un’idonea istruttoria (parere
della competente struttura sanitaria); in seconda battuta, esaurita l’impellenza cautelativa, ha emanato
una serie di atti successivi per consentire comunque il mantenimento dell’attività agricola, in modo
soddisfacente per le parti.
Per quanto riguarda l’atto 16.11.1999 dell’ASL n. 10 di Camerino, in base al quale non si sarebbero
rilevate esalazioni maleodoranti o accumulo di letame tali da creare inconveniente, si deve rilevare che,
posteriormente l’AUSL ha fatto ulteriori e più approfonditi accertamenti (note prot. n. 4873/ISP del
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all’impugnato provvedimento sindacale n. 84-98.
Per quanto riguarda, infine, le argomentazioni dell’appellante in ordine alla situazione urbanistico-
abitativo, il Collegio rileva che l’intervenuta variazione della destinazione urbanistica delle aree su cui
insiste la stalla per cui è causa, posta con il Piano di Fabbricazione del 1980, sconfessa la tesi secondo cui
la stalla in oggetto non insisterebbe nel Centro abitato del Comune, anche in considerazione del fatto che,
in assenza di impugnazione del predetto Piano di Fabbricazione, è inconfigurabile un diritto acquisito circa
il mantenimento di un’attività imprenditoriale, peraltro dichiarata insalubre e dannosa dall’Autorità
sanitaria.
Inoltre, nel verbale d’ispezione del 15.1.1997, prot. n. 4837/ISP (ASL n. 10 di Camerino) in atti, non
risultano dettati ulteriori accorgimenti per rendere compatibile la stalla con l’insediamento abitativo, ma si
è ritenuta “in funzione della destinazione residenziale, commerciale ed alberghiera della zona”,
l’impossibilità di mantenere in esercizio la stalla e la relativa concimaia all’interno del centro abitato.
Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni, l’appello deve essere respinto, in quanto
infondato.
Le spese di lite del presente grado di giudizio possono essere compensate, sussistendo giusti motivi.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello
come in epigrafe proposto, lo respinge.
Compensa le spese del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

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News doc maggio 2020
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Cd s 6264 2013

  • 1. Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 12 novembre - 27 dicembre 2013, n. 6264 Presidente Pajno – Estensore Lotti Fatto Il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche, con la sentenza n. 1654 dell’11 dicembre 2000, ha respinto il ricorso proposto dall’attuale appellante per l’annullamento dell’ordinanza 26 settembre 1998 con la quale era stata ordinata l’immediata chiusura della stalla per bovini ubicata in un fabbricato sito nella Frazione di Seppio di Pioraco. Il TAR fondava la sua decisione rilevando, sinteticamente, che la circostanza che l’immobile adibito a stalla (ed a magazzino) fosse stato realizzato quando la destinazione della zona era agricola e che solo nel 1980 il piano di fabbricazione aveva reso possibile un’edificabilità di tipo residenziale non poteva costituire motivo per giustificare la gestione di una stalla di bovini, di una porcilaia e di un letamaio a stretto ridosso di altre abitazioni, poiché l’allevamento di bestiame rappresenta di per sé attività potenzialmente pericolosa per la salute pubblica ed è ricompresa nell’elenco delle industrie o lavorazioni insalubri di prima classe di cui all’art.216 R.D. 27 luglio 1934, n.1265 (e classificazione decreto del Ministero della Sanità 5 settembre 1994 che ha sostituito il D.M. 19 novembre 1981). Pertanto, per il TAR, indipendentemente dall’essere localizzate o meno in zona agricola, dette industrie insalubri, in forza dell’art. 216 T.U.L.S., devono essere tenute lontane dalle abitazioni e pertinente era, dunque, il richiamo nel provvedimento all’art. 30 del regolamento comunale d’igiene che si conforma ad una fonte d’ordine sopraordinata. Infine, per il TAR, non si poteva pretendere che l’Amministrazione attendesse il verificarsi di una situazione di danno concreto per la salute pubblica, essendo sufficiente, per configurare il presupposto dell’urgenza, una situazione di pericolo non fronteggiabile adeguatamente e tempestivamente con misure ordinarie; tale situazione di pericolo era, nella specie, obiettivamente esistente ed era stata attestata dall’A.U.S.L. n.10 nelle relazioni richiamate nell'atto impugnato. L’appellante contestava la sentenza del TAR deducendo vari profili: - Illegittimità e contraddittorietà della sentenza impugnata in ordine alla mancata declaratoria di eccesso ed abuso di potere dell’ordinanza sindacale circa l’erronea valutazione dei fatti materiali; Illegittimità e contraddittorietà della sentenza impugnata circa l’erronea interpretazione delle norme di legge ed in ordine alla mancata declaratoria di eccesso ed abuso di potere dell’ordinanza sindacale per erronea interpretazione ed applicazione di norme di legge; - Illegittimità e contraddittorietà della sentenza impugnata circa l’erronea interpretazione delle norme di legge ed in ordine alla mancata declaratoria di eccesso ed abuso di potere dell’ordinanza sindacale per erronea interpretazione ed applicazione di norme di legge. Con l’appello in esame, chiedeva l’accoglimento del ricorso di primo grado. Si costituiva la parte appellata chiedendo il rigetto dell’appello. All’udienza pubblica del 12 novembre 2013 la causa veniva trattenuta in decisione. Diritto Ritiene il Collegio che l’appello sia infondato. Infatti, come ha già chiarito la giurisprudenza di questo Consiglio, in base agli artt. 216-217 t.u. sanitario (r.d. 27 luglio 1934, n. 1265), non modificati ma ribaditi dall'art. 32 d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 e dall'art. 32, comma 3, l. 28 dicembre 1978, n. 833, spetta al Sindaco, all'uopo ausiliato dalla struttura sanitaria competente, il cui parere tecnico ha funzione consultiva ed endoprocedimentale, la valutazione della tollerabilità, o meno, delle lavorazioni provenienti dalle industrie cosiddette "insalubri", l'esercizio della cui potestà potendo avvenire in ogni tempo e potendo esplicarsi mediante l'adozione, in via cautelare, di interventi finalizzati ad impedire la continuazione o l'evolversi di attività aventi carattere di pericolosità (per esempio, esalazioni, scoli, rifiuti, ecc., specie se riguardanti l'allevamento di animali). Rientra, quindi, nei poteri del Sindaco, ex art. 216 t.u. sanitario r.d. 27 luglio 1934, n. 1265 ingiungere ad un'impresa, che esercita un'industria cosiddetta "insalubre", di presentare un progetto preordinato ad eliminare un temuto pericolo alla sanità pubblica e di mettere in funzione l'impianto entro un dato termine, anche sulla scorta del parere all'uopo reso dalla struttura sanitaria competente, senza che ciò implichi di per sé alcun difetto di motivazione o d'eccesso di potere. Inoltre, in base agli art. 216 e 217 t.u. l. sanitaria, il Sindaco è titolare di un'ampia potestà di valutazione
  • 2. della tollerabilità o meno delle lavorazioni provenienti dalle industrie, classificate "insalubri" e può estrinsecarsi con l'adozione in via cautelare di interventi finalizzati ad impedire la continuazione o l'evolversi di attività che presentano i caratteri di possibile pericolosità, per effetto di esalazioni, scoli e rifiuti, specialmente riguardanti gli allevamenti, ciò per contemperare le esigenze di pubblico interesse con quelle pur rispettabili dell'attività produttiva. Peraltro, come ha già sancito questo Consiglio (Consiglio di Stato, sez. V, 19 aprile 2005, n. 1794), gli art. 216 e 217 r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, conferiscono al Comune ampi poteri in materia di industrie insalubri, anche prescindendo da situazioni di emergenza e dall'autorizzazione a suo tempo rilasciata, a condizione però che siano dimostrati, da congrua e seria istruttoria, gli inconvenienti igienici e che si sia vanamente tentato di eliminarli; nel caso di specie, in riferimento all’ampia ed articolata relazione dell’ASL, sussistono le condizioni individuate dalla giurisprudenza predetta per l’esercizio del potere cautelativo qui in contestazione. La tesi dell’appellante secondo la quale l’allevamento di animali de qua, per le deiezioni e l’impatto ambientale che produce, può essere oggetto di catalogazione come industria insalubre soltanto ove abbia caratteristiche, appunto, industriali per la quantità dei capi e per il ciclo produttivo a cui essi sono sottoposti, è smentita dal fatto che, in generale, l'allevamento di animali è considerato dalle norme del testo unico delle leggi sanitarie industria insalubre di prima classe e, pertanto, ai sensi dell'art. 216 t.u. 27 luglio 1934, n. 1265, l'allevamento deve comunque essere isolato nelle campagne e tenuto lontano da abitazioni (cfr., anche, Consiglio di Stato, sez. V, 17 aprile 2002, n. 2008). Pertanto, non è sostenibile, sulla scorta dell’orientamento giurisprudenziale surriferito, la tesi secondo cui la nozione di allevamento di animali sarebbe stata utilizzata per i grandi allevamenti che forniscono all’industria alimentare la materia prima per le lavorazioni di prodotti alimentari. Peraltro, proprio perché si è in presenza di una stalla di bovini con meno di venti capi, ovvero una tipica stalla rurale, condotta dal coltivatore diretto unitamente alla propria personale piccola azienda rurale, è stato consentita la prosecuzione dell’attività, con il solo onere di rispettare una serie di prescrizioni concrete, emanate dalla competente autorità tecnica sanitaria (come afferma lo stesso appellante in memoria), per consentire una conciliazione fra le esigenze igienico-sanitarie e le esigenze socio- economiche, anch’esse di indubbia valenza e natura pubblica, prescrizioni da ritenersi ragionevoli e compatibile con il potere di ordinanza come sopra descritto. Tali prescrizioni, che sono state il frutto di un’attività amministrativa posteriore agli atti oggetto del presente giudizio, non possono ritenersi inficianti di questi ultimi, poiché logicamente e ragionevolmente il Comune ha in primis disposto in via cautelare la chiusura della stalla per bovini ubicata in un fabbricato sito nella Frazione di Seppio di Pioraco, a tutela della salute e sulla base di un’idonea istruttoria (parere della competente struttura sanitaria); in seconda battuta, esaurita l’impellenza cautelativa, ha emanato una serie di atti successivi per consentire comunque il mantenimento dell’attività agricola, in modo soddisfacente per le parti. Per quanto riguarda l’atto 16.11.1999 dell’ASL n. 10 di Camerino, in base al quale non si sarebbero rilevate esalazioni maleodoranti o accumulo di letame tali da creare inconveniente, si deve rilevare che, posteriormente l’AUSL ha fatto ulteriori e più approfonditi accertamenti (note prot. n. 4873/ISP del 15.1.1997, prot. n. 859/ISP del 3.3.1997 e prot n. 3543/ISP del 18.8.1999), prodromici rispetto all’impugnato provvedimento sindacale n. 84-98. Per quanto riguarda, infine, le argomentazioni dell’appellante in ordine alla situazione urbanistico- abitativo, il Collegio rileva che l’intervenuta variazione della destinazione urbanistica delle aree su cui insiste la stalla per cui è causa, posta con il Piano di Fabbricazione del 1980, sconfessa la tesi secondo cui la stalla in oggetto non insisterebbe nel Centro abitato del Comune, anche in considerazione del fatto che, in assenza di impugnazione del predetto Piano di Fabbricazione, è inconfigurabile un diritto acquisito circa il mantenimento di un’attività imprenditoriale, peraltro dichiarata insalubre e dannosa dall’Autorità sanitaria. Inoltre, nel verbale d’ispezione del 15.1.1997, prot. n. 4837/ISP (ASL n. 10 di Camerino) in atti, non risultano dettati ulteriori accorgimenti per rendere compatibile la stalla con l’insediamento abitativo, ma si è ritenuta “in funzione della destinazione residenziale, commerciale ed alberghiera della zona”, l’impossibilità di mantenere in esercizio la stalla e la relativa concimaia all’interno del centro abitato.
  • 3. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni, l’appello deve essere respinto, in quanto infondato. Le spese di lite del presente grado di giudizio possono essere compensate, sussistendo giusti motivi. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello come in epigrafe proposto, lo respinge. Compensa le spese del presente grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.