1. Il Talento, ce n’è per tutti1
BY MARCO.DILULLO · AGOSTO 26, 2010 · EMAIL THIS POST · PRINT THIS POST · SCRIVI UN COMMENTO
TAGGATO COME DIVERSITY MANAGEMENT, EMPLOYER BRANDING, HR, HR BUSINESS PROPOSITION, PERFORMANCE, TALENT
REDEMPTION,TALENTO
Author: marco.dilullo (2 Articles)
Management Consultant, Trainer&Coach. Specializzato in marketing, comunicazione d'impresa e analisi organizzativa e strategica.
Ha la passione per l'arte, il teatro ed lo sviluppo delle persone
Spesso in azienda si sente parlare di persone ad “alto potenziale”, con nomi spesso
diversi tra loro: high flyers, top performers etc etc..
Aldilà del linguaggio utilizzato quando si parla di talenti si fa quasi sempre
riferimento ad un gruppo ristretto di persone che dovrebbero contribuire al successo
dell’azienda più di altre, perchè “dotate” di capacità e potenzialità eccellenti, che
portano sempre, o quasi sempre, a delle performance superiori.
Per questo motivo tali gruppi ricevono numerose attenzioni: corsi di formazione tagliati sulle loro specifiche esigenze,
percorsi di carriera ad-hoc, assegni fuori busta etc… si comincia a parlare insomma di talent redemption…
Capita allora spesso di ottenere un effetto boomerang, oltre che inutile, anche deleterio per l’organizzazione.
Per quale motivo? Per diverse ragioni, ma cerco di sintetizzarle:
1. la performance organizzativa non è sempre data dalla somma delle performance individuali e spesso non
c’è sufficiente analisi e controllo degli elementi che hanno contribuito a migliorare le performance stesse;
2. un sistema di valutazione delle performance eccessivamente sbilanciato sui talenti alimenta spesso la
creazione di una elite chiusa, con conseguenti problemi interni a livello di clima, integrazione e
organizzazione;
3. può accadere che i “low performers” (tutti gli altri), proprio perchè ricevono meno stimoli e
riconoscimenti riducano la loro produttività e generino una maggiore conflittualità interna.
In sostanza credo che qualsiasi sistema di talent redemption abbia in se un peccato originario, che è quello di mettere
le performance al centro di qualsiasi discussione in merito, piuttosto che la persona ed il suo potenziale.
Mettere le persone al centro delle organizzazioni non vuol dire utilizzare la politica del bastone e della carota
rispetto a performance prestabilite a tavolino, ma significa ad esempio iniziare ad utilizzare dei sistemi di valutazione
del potenziale.
Questa omissione viene spesso giustificata dalla mancanza di fondi, ma a ben vedere la vera ragione è frequentemente
una cultura organizzativa poco sensibile a questi temi, per ragioni che nulla hanno a che fare con una sana crescita del
business, oggi più che mai da centrare sullo sviluppo delle persone, soprattutto in un contesto critico e altamente
competitivo come quello attuale, nel quale fiducia, creatività, innovazione etc rappresentano le principali leve da
smuovere per avere successo.
1
Articolo pubblicato su: http://www.amcservices.it/2010/08/piu-talento-per-tutti/
1
2. Ma d’altronde coltivare il talento delle persone è una cosa, riconoscerlo e valorizzarlo è un altra.
Se pensiamo però che, secondo quel che dice molta letteratura, il talento risiede in ogni individuo, ed in particolare
nelle attività che svolgiamo con minor sforzo o con più passione, allora la questione è prettamente culturale, con
ricadute sul piano organizzativo, e a cascata su quello economico, anche generale.
Sono del parere che ognuno di noi ha almeno un potenziale talento, che sfrutta solo in minima parte, per paura,
pigrizia, o a causa di ambienti a lui sfavorevoli.
Parte delle responsabilità ricadono dunque sui vertici, che primi fra tutti dovrebbero dare il buon esempio e gestire
adeguatamente le persone.
In che modo? oltre a implementare dei sistemi di valutazione del potenziale agevolando la mobilità interna e il
confronto cross-funzionale ad esempio. Non è un caso a mio avviso che la mobilità del lavoro in Italia (sia dentro
che fuori l’azienda) sia lenta come il nostro Pil.
Inoltre sarebbe bene promuovere e gestire adeguatamente le diversità, linfa vitale, fonte inesauribile di ricchezza in
qualsiasi contesto. Lo sanno bene le grandi multinazionali che fanno del “Diversity Management uno dei driver della
loro “Hr business proposition”.
Gli Hr manager dovrebbero quindi astenersi da politiche di employer branding [1] se queste non sono sostenute dalla
prova dei fatti, ovvero da un equilibrata gestione sia degli high che dei low performers, e dunque da una gestione
globale del benessere organizzativo nel suo insieme.
La coerenza è d’altronde è una virtù che vale sia per le persone che per le organizzazioni.
________________________________________
[1] Quando si parla di employer branding, si fa riferimento a quel nucleo di attività indirizzate alla creazione di
un’immagine aziendale coerente con l’identità dell’azienda stessa intesa come luogo di lavoro, in maniera tale da
attrarre e fidelizzare le risorse di talento
Riferimenti bibliografici :
• Amendola, 2004 (2004) “Employer branding: sviluppare un’efficace strategia di marketing per attrarre talenti” n.2
giugno, 2004, Direzione del Personale, Miscellanea
• Jaoui H., (2000) La creatività: istruzioni per l’uso, Franco Angeli, Milano
2