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L’equipe multiprofessionale fra esigenze dei pazienti
e richieste istituzionali
Francesco Benincasa
PREMESSA
Questo contributo pieno di punti interrogativi pone più problemi di quanti ne risolva; vuole rendere esplicite
preoccupazioni vaghe ed inespresse che contribuiscono a creare una resistenza al cambiamento che si
vorrebbe introdurre nella organizzazione della medicina generale. Intendo porre una serie di incognite che
precedano le innovazioni future nella speranza che anticipare le difficoltà costituisca una salvaguardia contro
gli insuccessi.
Ho focalizzato l’ attenzione sui bisogni sostanziali delle persone che si rivolgono al proprio curante e mi
sono proposto di fare una sorta di elenco di errori evitabili che hanno in passato contribuito all’ insuccesso di
altre forme organizzative; il mio tentativo ha quindi lo scopo di evitare che le future equipe
multiprofessionali diventino rapidamente un impianto burocratico che fraintende le necessità dei pazienti.
Farò riferimento quasi esclusivo all’attività on demand, dando per scontato che l’attività di iniziativa si
rivolga a bisogni ben codificati di stampo strettamente clinico.
IL PRESUPPOSTO: IL PENSIERO POPOLAZIONALE
Il presupposto da cui prendo le mosse è il pensiero popolazionale Darwiniano secondo cui ogni individuo è
unico.
Esso si fonda sull’osservazione del carattere irripetibile di tutti gli esseri del mondo organico, sottolinea
come ogni individuo di una riproduzione sessuata sia differente da tutti. Ogni persona è il risultato della sua
costituzione genetica in relazione con l’ambiente.
Per il pensiero popolazionale, non esistono individui tipici, i valori medi calcolati per campioni sono
astrazioni. E’ la variazione in quanto tale a costituire l'aspetto veramente significativo delle popolazioni.
Per un clinico ogni individuo malato rappresenta un’espressione unica della sua malattia, ciascuno esprime la
propri soggettività, frutto dello sviluppo neuroembriologico e dei processi di selezione neuronici avvenuti nel
suo cervello.
LA BOTTEGA DEL VECCHIO MEDICO E L’IPERMERCATO: LO STATO ATTUALE ED UN
POSSIBILE FUTURO
Gli ipermercati sono stati la grande novità commerciale negli anni ’80. Anche il cittadino più distaccato ha
vissuto la sua prima esperienza all’ipermercato con un misto di apprensione, curiosità disorientamento. Un
unico posto per acquistare ogni oggetto possibile: segnaletica chiara, la democratica possibilità di reclamare
o restituire l’articolo imperfetto, l’angolo per i bambini, luci, suoni , colori, efficienza, chiarezza delle
etichette, banco informazioni, foglietto per i suggerimenti: niente di più funzionale e liberale.
Una vera manna per alcuni, un vero tormento per altri.
Con il tempo ci si accorge che il luogo è adatto agli acquisti di chi sa in partenza che cosa desidera, anzi cosa
è necessario, ma il più delle volte –ad esempio a proposito di articoli per il bricolage- pochi sanno qual è
l’articolo più adatto per il lavoro da svolgere. Nel reparto ferramenta si ha di fronte ogni ben di dio, viti,
bulloni, tasselli di ogni misura e genere che si acquistano affidandosi alle istruzioni o alle etichette per alcuni
indecifrabili. Al banco informazioni, dopo una infinita coda, un addetto indaffarato degnandovi di
un’occhiata vi spiegherà sfottente che le istruzioni per voi indecifrabili, sono “a prova di intellettuale”. Se si
è convinti di aver letto bene l’etichetta, si porta a casa a volte ciò che necessita, ma di frequente l’oggetto
resterà un inutile orpello nella cassetta degli attrezzi.
Il tentativo di restituire l’incauto acquisto avverrà dopo un’altra lunga coda, tre scontrini di storno, una
fattura da rifare, un paio di resi da registrare.
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Dietro casa di tutti c’è invece una piccola rivendita di ferramenta discretamente disordinata, ma con
materiale di prima qualità. Non si deve avere fretta, ma quando c’è un problema o si cerca una soluzione, il
negoziante consiglia, spiega, fa persino il disegnino, propone qualche alternativa illustrando i pro e i contro
dei materiali, delle applicazioni, dei costi.
Se qualcosa non va, si ritorna ed il bottegaio cambia il pezzo, lo adatta, lo modifica, lo aiuta a diventare
esclusivo.
Quando un musicista ha bisogno di uno strumento con una sonorità particolare o ha bisogno di modificare
qualche caratteristica del suo prezioso ed artigianale strumento si rivolge ad un liutaio che, ascoltate le
necessità particolari di quell’esecutore, modificherà lo strumento fino ad ottenere il risultato desiderato. Ciò
consentirà all’artista di esprimere al meglio il personale modo di sentire il pezzo musicale che esguirà. Uno
strumento di fabbricazione industriale andrà bene per un principiante che non è in grado di esprimere il
colore e la raffinatezza di un pezzo, ma che ad un certo punto, con il miglioramento della tecnica e
dell’espressività, sentirà l’esigenza di qualcosa di esclusivo per sé.
Anche il supermercato del mobile fornisce un elemento standard efficace, efficiente, rapido da montare,
piacevole alla vista e al tatto, funzionale, ma se si desidera qualcosa di speciale, che sia una sedia di bambù o
un pezzo di artigianato, si preferiscono le preziose imperfezioni del lavoro artigianale che tutti apprezzano e
ricercano quando acquistano un gioiello, una stampa, un libro antico, un qualunque oggetto che si vuole resti
unico.
Al ristorante è lo stesso: da una parte i grandi locali dedicati alle comitive ed alle cerimonie, dall’altra i
piccoli locali silenziosi dove il cliente è noto, dove è possibile adattare il piatto al gusto di ognuno, dove si
può parlare con il proprietario e chiedergli cosa c’è di buono.
Certo, quando in una grande struttura alberghiera c’è un capo cameriere attento, è un bel risultato. Quando è
capace di fare il suo lavoro, egli riconosce le persone, ricorda qualcosa di ciascuno di loro, cerca di adattare
ad ognuno una struttura che rischierebbe di essere tanto vasta quanto impersonale. Resta il fatto che
nonostante i suoi sforzi, per quanto egli faccia, il cibo è buono ma è standard, con un gusto che rassomiglia
sempre a qualcosa che si è già mangiato altrove o in passato nello stesso posto.
La maggior parte degli studi dei medici di famiglia è strutturato come un ristorante a conduzione familiare: ci
sono molte carenze e non sempre si tratta delle sublimi imperfezioni dell’artigiano. Hanno l’apparenza di
piccole aziende in cui si tira avanti la baracca, dove i ruoli di ciascuno sono definiti e chiari: uno fa il medico
ed un’altra persona (quando c’è) accoglie i pazienti e si occupa di ritirare e consegnare le prescrizioni
croniche. In questa dimensione artigianale, i pazienti assegnano spontaneamente funzioni di sostegno, di
consolazione, di incoraggiamento sia al curante che al collaboratore di studio. L’organizzazione è quasi
nulla, i tempi di attesa difficili da accettare, ma il rispetto dei limiti, dei ruoli, della individualità dei soggetti
è massimo.
Seppure siano evidenti i gravi limiti organizzativi di una simile struttura, le innovazioni che aleggiano
potrebbero gettare l’ombra di un ambulatorio-ipermercato fatto di spazi e studi impersonali, architetture
distanti e ripetitive in cui le persone vanno e vengono, parlano con segretarie burocratizzate protette da alti
banconi di reception, dove il medico diventa un’entità frettolosa che entra ed esce da una porta al fondo di un
corridoio irraggiungibile, dove si ottengono esclusivamente prestazioni conformate ai protocolli, dove si
raggiungono procedure tanto efficaci quanto efficienti quanto anonime. Tre caratteristiche che ripropongono
sotto nuova forma la sostanza di una piccola struttura ospedaliera.
Mentre si delineano i contorni di tale inquietante cambiamento, si assiste sempre più spesso a solerti ma goffi
tentativi da parte dei medici che lavorano da soli, di trasformarsi da bottega artigiana a ipermercato senza le
modifiche strutturali necessarie. I colleghi tentano di applicare protocolli ai singoli pazienti, si sforzano di
tenere sotto un controllo di tipo artigianale le proprie prescrizioni, si propongono di pianificare i propri
interventi con un minimo di razionalità
QUEL CHE STA SUCCEDENDO
Si tratta di tentativi spontaneisti che avvengono in un contesto generale di cui cercherò di delineare le
caratteristiche salienti.
E’ ormai assodato ed irreversibile che vi debba essere da parte della medicina generale un passaggio dalla
clinica dell’individuo ad una clinica di popolazione, tuttavia questo mutamento avviene in una quadro
globale di liquidità delle patologie (Gori), di una loro flessibilità legata alla continua ridefinizione dei valori
normali. Si materializzano mensilmente epidemie e screening (ipertrofia prostatica, calvizie, psoriasi, colon
irritabile, disfunzione erettile, carie, miopia…), vengono escogitate patologie da adattare all’esistenza di
farmaci in cerca di utilizzo, è sempre più confusa la linea di demarcazione tra normalità e patologia, diventa
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via via più disagevole distinguere la prescrizione terapeutica da quella cosmetica. È possibile inventare
sintomi e sindromi di cui chiunque possa sentirsi affetto e proporre il farmaco ad hoc.
Tutti questi fenomeni insidiosi rendono impossibile comprendere di cosa e quanto soffrono davvero i
pazienti: l’inflazione classificatoria e l’invasione dei protocolli hanno trasferito l’attenzione del curante verso
un impossibile ideale di salute predefinita da altri a cui il medico di famiglia corre dietro arrancando.
Altre agenzie hanno la funzione di individuare target il cui unico scopo è confermare le persone nelle
convinzioni che già possiedono per vendere loro i prodotti indispensabili al raggiungimento della salute e
della eterna felicità. Diviene impossibile capire i reali bisogni delle persone, laddove la pratica clinica si
orienti verso prescrizioni schematiche anziché alla osservazione attenta dei sintomi con la stessa
considerazione riservata ai segni clinici. L’applicazione di un risultato standard scientificamente riconosciuto
alla situazione problematica di ogni singolo individuo, deve essere un esito auspicabile, non imperativo.
Sempre più spesso è invece richiesto di raggiungere un obbiettivo prefissato, uguale per tutti con il rischio di
trascurare il contesto del singolo soggetto.
Pressati dalla necessità di rivolgersi all’insieme degli assistiti per ottenere risultati che riguardino la salute
dell’intera popolazione, i medici di famiglia compiono ingenui sforzi per aderire ai protocolli, raggiungere
gli obbiettivi validati dalla ricerca internazionale: LDL al di sotto dei 100, emoglobina glicata al di sotto del
6,5, curva da carico per tutti coloro che hanno una glicemia a digiuno lievemente alterata e così via.
Ne risulta uno spostamento dell’attenzione dalla parola del paziente al risultato, uno slittamento dal sintomo
soggettivo al valore numerico ideale, la tendenza a fare diagnosi in base a rigidi schemi classificatori, la
somministrazione di farmaci perché lo impongono le linee guida. Il rapporto con il singolo viene
decontestualizzato senza che tuttavia si riesca a raggiungere un efficace risultato in termini di salute di
popolazione.
Si vive la sensazione globale di un surplus e di uno sfoggio di tecnologia accompagnata da scarsa o nulla
elaborazione scientifica.
EQUIPE MULTIPROFESSIONALE E BISOGNI
I cambiamenti organizzativi dovrebbero basarsi su una analisi dei bisogni: varrebbe la pena riflettere sul fatto
che poco o nulla si sa sui motivi per cui una persona prende la decisione di rivolgersi al proprio medico o
quali siano le tappe della approvazione microsociale antecedenti la decisione di consultare una struttura
sanitaria. Una simile analisi potrebbe fornire reali informazioni circa le reali esigenze della gente che al
giorno d’oggi possiede una percezione del suo stato di salute mediamente peggiore di quanto non avvenisse
quando le condizioni erano davvero inferiori a quelle attuali.
Attraverso la conservazione dello stato fisico le persone cercano la felicità, ma c’è il rischio molto concreto
che manipolazioni o deformazioni concettuali conducano ad un modello di salute in cui la soggettività rischia
di andare perduta attraverso depersonalizzazione, livellamento, massificazione.
I medici spesso travolti da questa onda inarrestabile, vanno incontro non ai bisogni reali, ma alle difese
nevrotiche degli individui e ai loro bisogni indotti.
È innegabile che in campo sanitario - come in altri campi- sia in atto un usa e getta compulsivo, avido,
insaziabile e svalutante, dove regna una grande confusione tra ciò che è essenziale e ciò che non lo è, tra
bisogno e desiderio, tra vero e falso. L’enfasi sulla corporeità rappresenta l’unica via per provare emozioni
attraverso un uso eccessivo delle sensazioni o all’opposto, attraverso il tentativo spasmodico di conservare
con modalità ossessive uno stato di salute esteticamente perfetto ed immarcescibile. Questa azione è
energicamente sostenuta dal marketing sanitario attraverso l’ intensificazione delle illusioni irrealistiche dei
pazienti, per i quali diventa quasi impossibile rinunciare alle chimere di onnipotenza e immortalità.
Se si vuole fare il tentativo di rivolgersi ai bisogni profondi, non si può fare a meno di prendere in
considerazione la cosiddetta Agenda Segreta del paziente (Perini).
Con questa espressione si vogliono definire i bisogni inespressi, non quelli squisitamente medici, quanto
piuttosto quei bisogni impliciti manifestati come disagi, malesseri, patimenti indefiniti, richieste
apparentemente incongrue che nella pratica quotidiana condizionano pesantemente nel bene e nel male la
decisione clinica.
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Il bisogno di identità
Uno dei fatti che caratterizzano il nostro modo di vivere è il possesso o il consumo dei beni: sono essi che
conferiscono contenuto allo stile di vita. Gli individui sentono di appartenere ad un gruppo in base ai prodotti
che consumano o che possiedono. L’orologio da polso, l’automobile, l’abito, il telefono portatile, qualunque
oggetto comunica uno status e lo definisce; consumo e fruizione diventano profonde esperienze emotive
attraverso cui gli oggetti assumono un valore simbolico che conta molto più del valore d’uso.
Il marketing conferma l’ esistenza e la bontà della scelta di vita attuata attraverso l’acquisto degli oggetti
attraverso il meccanismo del target, capace di rafforzare le persone nella convinzione di essere ciò che
desiderano apparire. La collettività viene divisa in categorie a seconda dell'appartenenza a questo o a quel
campione di persone, finalizzato alla vendita o alla pubblicizzazione di una qualche merce: appartenere ad un
target fa sentire un’ identità più forte.
Sciaguratamente è sempre più consueto che l’identità cominci a costruirsi dall’infanzia attraverso il possesso
di oggetti che qualificano il proprietario e ne definiscono il potere nei suoi rapporti personali e sociali. In
seguito la ricerca dell'identità assume l’ aspetto svilito dello shopping compulsivo, dei reality show senza
pudori, dello spasmodico bisogno di appartenere ad un gruppo (Argentieri).
Per ciò che riguarda l’aspetto sanitario, il consumo di accurate analisi di laboratorio, di accertamenti
strumentali, di farmaci, di procedure destinate a procrastinare qualunque segno del tempo o a mantenere una
sfrenata efficienza fisica, diventano una necessità, una sorta di status symbol irrinunciabile che qualifica
contemporaneamente l’efficienza della medicina moderna e la posizione sociale del paziente. Identità deboli
e diffuse vengono definite dalla cura ossessiva del corpo perché per loro il vero bene merce, la merce da
acquistare e consumare in maggiore quantità è la percezione di sé.
Il marketing sanitario cerca di riconoscere un bisogno emergente attraverso l’uso del pensiero laterale
(pensiero creativo non sequenziale) per stabilire quale prodotto debba essere proposto e a chi.
Anche il consumatore/paziente deve accettare di farsi incasellare in un gruppo dalle caratteristiche ben
definite dove la soggettività è completamente persa di fronte a bisogni imposti o gabellati dal mercato. Così
quella che potrebbe essere uguaglianza, appartenenza ad un gruppo di pazienti affetti da uno stesso problema
e distinti dalla propria individualità, si trasforma in una omologazione muta e conformista che incentiva un
comunitarismo regressivo. Si impara ad aver bisogno di ciò che viene offerto, a sentire il bisogno di ciò che
si possiede tanto da non poterne più fare a meno. Che si tratti di un oggetto o di un farmaco o di una
procedura di laboratorio, ogni offerta del mercato è tanto più raffinata quanto più è in grado di produrre
bisogni che si moltiplicano.
La civile abitudine di trasformare i problemi privati in questioni pubbliche cade in disuso mentre si sviluppa
il concetto che la felicità privata sia garanzia di felicità pubblica; ancora, si assiste alla nascita ed alla crescita
di un consumatore/paziente autocentrato, narcisista, disimpegnato, competitivo, non interessato alla cultura.
Eppure il vessillo di questo paziente consumatore deve necessariamente essere il sorriso in quanto
espressione emotiva prevalente nella moderna cultura dell’acquisto: l’allegria è funzionale sia alla
produzione che al consumo mentre sentirsi infelici provoca senso di colpa e costringe a trovare una
giustificazione alla propria condizione esistenziale
Il bisogno di vincere la paura
In un mondo globalizzato, anche la percezione del rischio è totale e suscita un sentimento di angoscia
diffuso; ciascuno prova la sensazione di essere di fronte ad un rischio indeterminato, percepisce paure
imprecise, mobili, elusive, modificabili, difficili da identificare e collocare. Ogni notizia che percorre il
globo viene fornita attraverso una comunicazione di urgenza e di emergenza che non può lasciare
indifferenti. Si struttura così una paura diffusa, una paura liquida (Bauman) che orienta il comportamento
dopo aver modificato la percezione del mondo.
La società vive quindi paure spesso irrazionali che contribuiscono a determinare perdita della fiducia,
riduzione di aspettative da parte delle istituzioni ed una frammentazione delle relazioni sociali. Il timore di
essere vulnerabili dipende più dalla mancanza di fiducia nelle difese che dall’entità delle minacce effettive.
Le paure tendono così a trasferirsi dalle cause principali ad obiettivi accidentali, vengono scaricate su
obiettivi vicini, visibili, a portata di mano, che sembrino facili da gestire; la salute è l’obbiettivo principale su
cui viene dislocata la paura diffusa della nostra collettività.
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Il bisogno di istantaneita’ e illimitatezza
Il futuro è quindi percepito come una minaccia oscura da un individuo caratterizzato dalla tendenza
all’illimitatezza e all’insicurezza: solo l'istantaneità è in grado di orientare le sue esperienze. La promessa di
una soluzione rapida si raggiunge tramite l’annullamento dello scarto tra il desiderio e l’incertezza della sua
realizzazione. Egli cerca un beneficio immediato e illimitato per vincere una sensazione di panico
assolutamente insopportabile, ha necessità di credere che la scienza in genere e la medicina in particolare,
goda di possibilità illimitate, affascinanti e seduttrici. Una medicina onnipotente che gratifichi
immediatamente i desideri ed elimini subito qualunque forma di sofferenza.
E’ un individuo che ha la pretesa (l'illusione) di gratificare sé stesso ed il suo gruppo di appartenenza
affidandosi esclusivamente alla forza di attrazione dei consumi ritenendo che più farmaci si assumono e
prima si guarisce, più esami si fanno e più si avrà la certezza di essere sano.
Il bisogno di essere controllati
Gli individui che sto cercando di descrivere -ai quali tutti noi almeno in parte assomigliamo- hanno un
paradossale bisogno di essere controllati e fanno parte di quella schiera crescente di soggetti soprannominati
worried well : sono coloro i quali vogliono più salute quando non sono malati e meno interventi clinici anche
se sono malati.
E’ possibile che si chiudano individualmente in angosce ipocondriache, che si affidino a medicine alternative
o a pratiche non chiaramente codificate, oppure che cerchino attraverso pratiche esoteriche o spiritualistiche
di raggiungere quel benessere totale da loro vagheggiato, ma arduo da raggiungere. In alternativa sono
persone che richiedono regole di vita alla medicina, che vi si affidano per possedere un libretto di istruzioni
verso la salute e la felicità.
L’apparato sanitario assumono allora il ruolo di agenti sociali, si prestano a politiche di controllo e mettono
in atto strategie allarmistiche che permettono di esercitare un potere di controllo totale..
Il bisogno di beni di conforto
Attraverso il consumo sanitario si ricerca salute, sicurezza e identità stabile, eppure è dimostrato anche
attraverso correlati neurofisiologici, che gli aumenti di consumo producono infelicità e frustrazione le quali
spingono a loro volta verso altri consumi (Kahneman). Addirittura, i miglioramenti delle circostanze
oggettive non producono effetti reali duraturi sul benessere delle persone (Paradosso di Easterlin), ed anzi
Kahneman ha descritto meccanismi di treadmill secondo cui: 1) la soddisfazione conseguente all'acquisto di
un nuovo bene di consumo, dopo un miglioramento temporaneo ritorna rapidamente al livello precedente 2)
ibeni di consumo hanno effetti “posizionali”. Ad esempio la mia nuova auto mi appare straordinaria fino a
che non scopro che il mio vicino di casa ne ha acquistato una molto più lussuosa della mia.
Nell’ambito medico, accade spesso che farmaci me-too assumano un ruolo insostituibile sulla base delle
capacità pubblicitarie dell’azienda o che nuove tecnologie rimpiazzino completamente il ruolo insostituibile
della clinica. Secondo Scitovsky, i beni di conforto che ci sembrano indispensabili riducono la pena, il
fastidio, il disagio, mentre i beni di stimolazione più difficili da raggiungere ma più duraturi (rapporti umani,
abilità artistiche, interessi culturali), sono creativi e spesso gratuiti. Uno squilibrato consumo di beni di
comfort crea fenomeni di dipendenza e maggiore scontentezza.
Nondimeno, l’attività di consumare non sarebbe uno scherzo, ma un esercizio complesso che implica scelte
di vita, uso del tempo e di energia, investimento di conoscenza e informazione, senso della propria identità.
Riassunto
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Si è sostenuto che l’agenda segreta del paziente, i veri suoi bisogni, sono caratterizzati da paura, ricerca o
conferma di identità attraverso un consumo di risorse sanitarie, richiesta di soluzioni rapide e indolori
(istantaneità, immediatezza, beni di conforto), scarsa resilienza, dipendenza dall’esperto e accettazione
acritica di regole. Elementi per la maggior parte inconsapevoli, che hanno un ruolo determinante nell’agenda
del paziente e che ovviamente determinano l’agenda del medico.
Una soddisfazione acritica e regressiva di questi bisogni da parte dell’equipe multi professionale
riprodurrebbe e riproporrebbe schemi funzionali allo status quo e tutti i limiti di altre istituzioni.
CONSERVARE IL RAPPORTO A DUE
L’aziendalizzazione dello studio medico va valutata sia sotto il profilo organizzativo sia sotto il profilo del
lavoro in gruppo. Al medico verrebbero alleggerite le incombenze burocratiche e gli si affiderebbe
esclusivamente la parte più incontaminata della professione; verrebbe cancellato il vecchio modo di lavorare
nel corso del quale il medico di famiglia ha eseguito mansioni che in altri contesti vengono svolte da altri
professionisti, fino al punto da aver perso di vista quali siano le vere, uniche attribuzioni di un clinico.
In un ospedale sarebbe impensabile che un professionista consegni ricette a domicilio, misuri pressioni,
esegua vaccinazioni o medicazioni, eppure questa elasticità del ruolo è entrata a far parte di una caratteristica
di domesticità, elemento che ha reso il medico di famiglia più vicino alla gente, che ha reso comprensibile il
suo gesto liturgico, umanizzato il rito, ridotto le distanze tra il sacerdote e il fedele rivelando nei sondaggi
che il medico di famiglia resta una figura rassicurante e preferita.
La contrapposizione tra la bottega artigiana e l’ipermercato va superata: negli ipermercati ci hanno provato
attraverso la creazione di una figura che assista il cliente nelle sue scelte: il giovane addetto con il grembiule
giallo non si fermerà tra uno scaffale e l’altro per dirvi se la punta da trapano che state scegliendo è adatta al
muro di mattoni pieni che dovete forare. Sarà gentile ma deve andare, si comporterà proprio come gli
specialisti e i medici nelle corsie ospedaliere.
Circondati da altre figure professionali (segretarie e infermiere) anche il medico di famiglia delegherà a loro
l’onere delle informazioni? Avrà anche lui sempre qualcosa di più importante da fare che non rispondere alle
domande dei pazienti? Diverrà meno raggiungibile? Si riprodurrà in ogni ambulatorio l’atmosfera ed i
rapporti tipici di ogni struttura sanitaria plasmata sul modello ospedaliero?
Un mutamento strutturale deve prevedere il mantenimento di una dimensione a due nel rapporto clinico e
deve impedire che il rapporto curante-paziente possa diventare facilmente ed impunemente intercambiabile
come se qualunque paziente fosse un paziente qualsiasi, qualunque medico un medico sostituibile, qualunque
ambulatorio un luogo indifferente. Si deve mantenere un rapporto intimo con i pazienti anche in un contesto
di lavoro di gruppo: si deve lavorare con l’individuo mentre si sviluppa una contemporanea azione sulla
popolazione.
Il medico di famiglia dovrebbe mantenere le caratteristiche di animale domestico dove il concetto di
domesticità sottolinei la facilità di comunicazione, di accesso ad una dimensione confidenziale e familiare.
I RISCHI DI UN NUOVO MODELLO ORGANIZZATIVO: EVITARE UN NUOVO GOLEM
Al rischio di burocratizzazione si è accennato più sopra attraverso l’immagine di banconi da reception
invalicabili, posti a barriera tra il paziente ed un medico sempre meno accessibile.
In una nuova struttura multiprofessionale c’è anche il pericolo che i compiti vengano ritualizzati e che le
procedure vengano svolte in maniera ossessiva come avviene in strutture organizzative più vaste.
Nel lavoro d’equipe c’è il rischio di mettere in atto una delega, attraverso l’affidamento ad altri, del compito
a volte gravoso di mantenere i rapporti con i pazienti; alcuni ritengono che un nuovo modello organizzativo
debba proprio servire a demandare funzioni ad altre figure professionali.
E’ evidente l’ulteriore possibilità che avvenga una confusione di ruoli e mansioni, che non sia
immediatamente chiaro chi deve fare cosa, anche per l’inveterata abitudine del medico di famiglia di
occuparsi di qualunque compito.
Una netta scissione dei ruoli creerebbe una artificiosa separazione nella percezione delle persone, ne
frammenterebbe l’unitarietà costringendole a rivolgersi a differenti responsabili per ciascun settore della loro
salute (il medico, l’infermiera, l’impiegata, il fisioterapista etc.).
Ecco perché sottolineare la necessità di mantenere una figura unificante nel medico dell’individuo.
La gente chiede oggi al medico le stesse cose che chiedeva trent’anni fa: le chiede con maggiore insistenza,
ne chiede una quantità maggiore, crede di sapere di cosa ha bisogno, ma se il curante fa emergere problemi,
instilla dubbi, propone una visione critica, diventa esattamente come quell’esperto bottegaio di cui si parlava
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in precedenza e non lo scaffale di un ipermercato dove basta servirsi da soli seguendo i consigli della TV.
Una innovativa e più efficiente organizzazione dovrà prendersi l’impegno di mantenere nel cliente un
atteggiamento critico nei confronti della merce che gli si vende impedendo che prevalgano le ragioni del
mercato a quelle della salute del consumatore. L’equipe multi professionale potrà mantenere la gaiezza
querula del consumatore acritico colludendo con i bisogni indotti, oppure identificare e correggere in modo
rigoroso i suoi soggettivi problemi di salute.
Fare coesistere un’organizzazione efficientistica di stampo aziendale con uno spirito dedicato al singolo non
è probabilmente così difficile, eppure va attentamente studiata perché i cambiamenti logistici non possono
piovere dall’alto, quando d’improvviso qualcuno si accorge che bisogna modificare gli assetti.
I molteplici mutamenti di recente proposti (UMG, Case della Salute) sembrano legati più al bisogno di
ridimensionare la spesa che non a reali necessità dei cittadini: non si dica che il problema principale della
sanità italiana sia la riduzione dei codici bianchi nei PS e nemmeno ci si illuda che un decreto legge o un
nuovo assetto organizzativo renda i medici italiani più disponibili nei confronti dei pazienti, né che la
vicinanza tra colleghi messi di punto in bianco a lavorare in gruppo, possa migliorare automaticamente la
qualità della prestazione.
L’equipe multiprofessionale costituirà per la sua forma e la sua organizzazione, una piccola istituzione. Il
paziente dovrà rapportarsi ad una moltitudine di figure professionali che faranno parte di un unico apparato.
Esso costituirà una struttura ed una difesa per tutti coloro che vi lavoreranno.
Per quanto minuscola, l’istituzione rappresenterà una disposizione apparentemente unitaria e monolitica con
la quale fare i conti. Non si tratterà più di negoziare con la singola persona del medico in un rapporto uno a
uno, quanto piuttosto di rapportarsi con un organismo impersonale e collettivo che potrà essere vissuto come
accogliente e protettivo o al contrario, come una struttura inospitale e minacciosa alla quale sottomettersi.
L’equipe potrà proporre in prevalenza il consumo di beni di conforto sanitario superflui e dispendiosi
attraverso la collusione e la remissività di personale che fraintende i bisogni, oppure al contrario, suggerire e
fornire beni di stimolazione attraverso un atteggiamento negoziale che utilizzi la co-costruzione di senso ed
un atteggiamento di coinvolgimento-implicazione per ogni scelta clinica che viene proposta e portata a
termine con il paziente.
DARE SIGNIFICATO AL LAVORO DI GRUPPO
Cosa è un gruppo
Per non disfare la compagine o mantenere una prestazione professionale su un crinale pericoloso e
sdrucciolevole è indispensabile considerare i meccanismi in gioco.
Un gruppo costituisce qualcosa di diverso rispetto alla somma dei suoi componenti: nella sua etimologia la
parola significava nodo, indica una struttura che si compone e che non è facile sciogliere; chi vi appartiene
accentua la definizione di sé e la propria identità sociale riducendo un poco quella individuale.
Un gruppo di lavoro è una struttura profondamente diversa da un gruppo di amici che pensano di poter
lavorare assieme sulla base della loro precedente conoscenza personale.
Mi si conceda un esempio banale ma illuminante: fare una vacanza in barca con amici è un’esperienza in
grado di rafforzare un rapporto o di distruggerlo. Quando ci si trova in una situazione diversa dalla realtà
quotidiana, in cui le scelte, le preferenze, le abitudini di ciascuno devono essere soddisfatte in accordo con
gli altri, quando lo spazio è ridotto e la prossimità fisica esagerata, possono scatenarsi dinamiche distruttive.
Analogamente, un gruppo di lavoro non può costituirsi ingenuamente e spontaneamente dall’oggi al domani
senza correre il rischio di stimolare profondi conflitti che prima o poi vengono a galla minando l’intera
organizzazione. Non si dimentichi che rivalità e competizione fanno parte della vita dei gruppi e che possono
avere una funzione sia vivacizzante che fortemente distruttiva.
Tre definizioni della struttura gruppale:
1) Un gruppo è un tutto dinamico basato sull’interdipendenza e sulla percezione di un destino comune
2) E’ un insieme di persone che ritiene di far parte di un gruppo
3) Un gruppo esiste quando due o più persone definiscono sé stessi come membri e quando la sua esistenza
viene riconosciuta da almeno un’altra persona
I gruppi si formano attraverso un processo di categorizzazione cognitiva attraverso la quale si stabilisce un
dentro in cui vengono accentuate le somiglianze ed un fuori in cui vengono sottolineate le differenze. Il
bisogno di affiliazione assomiglia all’esigenza di attaccamento, esiste un bisogno di appartenenza che nasce
dalla propensione istintiva ad avere relazioni: accanto a questa, si trova una dialettica tra la necessità di
associarsi e quella di sentirsi unici.
La realtà gruppale costituita da norme, regole, convenzioni, rassicura la maggioranza dei suoi membri
riducendo la sensazione di incertezza nelle azioni e nelle opinioni. Per di più l’appartenenza ad un gruppo
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che gode di buona fama fa sentire supportati e sostenuti attraverso un incremento dell’autostima; per
chiunque vi entri, l’obbiettivo è la propria crescita, cioè l’ingresso a pieno titolo in una struttura in cui non ci
sia bisogno di annullare sé stesso.
La coesione favorisce la formazione di un insieme, ma solo se le persone si piacciono riescono ad essere
coese. Secondo un altro punto di vista la coesione si formerebbe in seguito alla formazione del gruppo.
Lavorare tra amici è un fatto immediato mentre un gruppo di lavoro necessita di attenzione, preparazione,
tempo.
In una organizzazione bisogna distinguere la sua struttura sociale dalla sua cultura (Jaques): la prima
comprende l’insieme dei ruoli occupati dalle persone ed il modo in cui i ruoli sono strutturati in una
gerarchia. Per cultura si intende le norme e le abitudini, i divieti non scritti che caratterizzano una
organizzazione. In un gruppo vale la metafora dei porcospini: bisogna cercare la giusta distanza che permetta
di sentirsi al caldo senza pungersi reciprocamente.
E’ necessario che si analizzino i reali vantaggi di un lavoro associato non solo in termini economico-
finanziari o fiscali, ma anche in termini di vantaggi professionali per i clinici e per gli utenti.
Il team di lavoro costituisce un piccolo insieme dentro la quale ciascun individuo si differenzia dagli altri e
ha necessità o pretese differenti. Lavorare in gruppo implica un lavoro di gruppo: riunioni, definizioni di
obbiettivi, valutazione dei problemi insorti, attenzione alle dinamiche sotterranee legate a stati di ansia,
paura, aggressività, invidia.
Ruoli e gerarchie nel gruppo
In un gruppo, ciascun membro deve assumere un ruolo in modo da poter svolgere una attività in base alle
richieste che provengono dagli altri attraverso un principio regolatore condiviso.
E’ necessario che vi sia una figura che con chiarezza svolga la funzione del leader: egli non deve avere la
funzione di colui che pensa per gli altri, ma la responsabilità di stimolare gli altri al pensiero ed all’ attività,
le funzioni di una guida che sappia elaborare progetti desiderabili per gli altri e che sia capace di
preoccuparsi (Perini).
Una democrazia chiara non può fare a meno di una inequivocabile leadership senza la quale prende piede un
assemblearismo confuso dentro il quale rischiano di svilupparsi leader nascosti o poteri occulti. Per un
gruppo una democrazia spontaneista costituisce un pericolo perché i ruoli restano mal definiti dietro un
apparente egualitarismo che finisce per provocare un impiego incongruente e inefficace delle risorse.
Quando manca trasparenza o la struttura è confusa, quando un incarico appare oscuro, se i ruoli sono incerti,
se la struttura gerarchica e le decisioni sono incoerenti, i membri del gruppo sono ansiosi, confusi, dubbiosi,
diffidenti. Un leader manifesto ed una limpida struttura dell’autorità rappresentano ancora il modo migliore
per dirigere un gruppo di lavoro evitando populismo e dispotismo (Perini).
Gruppo ed emozioni
E’ facile che nei gruppi che lavorano nell’ambito sanitario si realizzino meccanismi di difesa contro le
angosce generate dal contatto costante con la sofferenza: possono verificarsi meccanismi di scissione,
isolamento e spersonalizzazione nelle relazioni. Può accadere che i pazienti vengano trattati come numeri,
per difendersi si attua un distacco dalle loro problematiche, i sentimenti vengono negati, si delega ai
superiori per evitare le responsabilità, si finisce di volta in volta per idealizzare o svalutare la dirigenza.
Ogni gruppo di lavoro ha sempre due obbiettivi: uno dichiarato che consiste nel raggiungere i suoi compiti
razionali ed una seconda finalità che consiste nel produrre difese contro le angosce. Tutto ciò che si svolge in
un ambito lavorativo (guadagno di denaro, raggiungimento di potere, esercizio della creatività,
conseguimento di risultati) è connesso a fondamentali questioni di natura affettiva ed emotiva.
Agli elementi descritti che sono comuni a tutte le attività, si deve sommare un aspetto specifico di chi lavora
in ambito sanitario: a livello manifesto si persegue la promozione della salute, ma ad un livello più profondo
ci si fa carico di quelle paure generali implicite che sono legate all’invecchiamento, all’invalidità, alla perdita
di autonomia e che vengono percepite da tutti coloro che hanno bisogno del medico. Se le difese messe in
atto per controllare le emozioni vengono lasciate a se stesse, creano molti problemi e mettono in forse il
compito principale del gruppo.
I pazienti, da parte loro, fanno fantasie riguardo l’organizzazione, la personalità dei singoli e le relazioni
all’interno del gruppo di lavoro. Nessun membro dello staff ne è immune; ciascuno scopre che le aspettative
del paziente riguardano anche lui, che l’intero gruppo è oggetto di speranze, di timori, critiche, proiezioni.
Il ruolo professionale viene quindi sempre affiancato anche da un ruolo assistenziale che non va respinto e di
cui è necessario rendersi consapevoli.
9
CONCLUSIONI
I cambiamenti organizzativi debbono sempre presupporre una solida teoria che li sostenga, debbono avere un
significato volto alla esecuzione di un compito e non ad una modificazione formale del modo di lavorare.
Bisogna prender atto che spesso il necessario non è sufficiente; si rischia di credere che tutto sia sotto
controllo attraverso la razionalità delle strutture, le accurate analisi, le statistiche, le eccellenti elaborazioni
teoriche.
Invece per attuare una innovazione, oltre che fissare obbiettivi realistici, bisogna anche tenere presente gli
elementi nascosti che possono influenzare il comportamento dei membri del gruppo di lavoro.
In via preliminare ma soprattutto nel corso dell’azione, va effettuato un esame dei bisogni irrazionali che
possono influire pesantemente nella vita di una organizzazione e riconoscere le distorsioni cognitive che
possono impedire il funzionamento dei modelli gestionali proposti.
Come abbiamo visto, una nuova organizzazione della medicina generale è carica di implicazioni
problematiche tra le quali spiccano quelle relative al lavorare in associazione. Unire alcune persone in uno
stesso luogo con lo scopo di farle lavorare assieme non vuol dire automaticamente creare uno staff: per
tenere in funzione un gruppo bisogna ricevere una formazione continua che renda consapevoli delle
sotterranee inevitabili dinamiche, dei meccanismi adattivi aggressivi o regressivi che avvengono al suo
interno.
E’ inoltre indispensabile che tra i membri dello staff si pongano le basi per una sostanziale chiarezza di
rapporti e scambi di informazione costanti. La conoscenza della individualità di ciascun paziente e dei suoi
bisogni reali deve essere una risorsa condivisa tra tutti i membri dell’equipe per raggiungere una sintesi tra
una qualità artigianale ed una efficienza aziendale attraverso cui si mantenga trasparenza e scambio continuo
di informazioni.
Se mi è concesso riprendere una similitudine di ambito commerciale, sono un buon esempio di questa sintesi
i piccoli supermercati dove rimangono attivi il banco della carne, quello della panetteria o quello della
verdura, dove un addetto offre i prodotti a seconda delle preferenze personali dell’acquirente: un pane più
cotto, un frutto meno maturo.
Ho sostenuto che i bisogni reali sono spesso inespressi e che a volte si nascondono sotto l’aspetto di bisogni
di salute con i quali quasi mai coincidono.
Queste necessità rappresentano in realtà bisogni di cura che non hanno tanto una base antropologica quanto
una base biologica: operano a partire dall’infanzia per tutta la vita degli individui attraverso i legami
personali, affettivi e sociali (attaccamento, rispecchiamento) ed hanno precisi correlati neurofisiologici.
Le strutture multiprofessionali dovranno trovare equilibrio tra accoglienza ed efficienza perché accoglienza,
accudimento e attenzione riflessiva da parte dell’intera equipe, sono elementi terapeutici fondamentali che
soddisfano in gran parte il bisogno di cura delle persone.
Tra gli elementi irrinunciabili in un nuovo assetto, l’ accoglienza va perseguita e coltivata assieme alla
disponibilità ad accompagnare nei percorsi sanitari e alla mediazione analitica tra le ragioni della tecnologia,
i rischi della medicalizzazione e le esigenze del singolo individuo.
Attraverso la creazione di un lavoro d’equipe e l’attivazione di una medicina dedicata alla popolazione, si
intende facilitare il lavoro del medico di famiglia e renderlo più efficace attraverso la separazione
dell’ambito dedicato al singolo e di quello dedicato all’insieme dei pazienti, ma si deve mettere in atto anche
un dispositivo di impegno e dedizione alla persona, che deve rafforzare il tradizionale compito di intervento
e sollecitudine del curante.
Ciò che a prima vista potrebbe essere interpretato come la proposta di un atteggiamento sentimentale e
sdolcinato, soddisferebbe -se sostenuto da autentica partecipazione emotiva- uno dei bisogni più profondi
delle persone che si rivolgono ad un professionista per essere curate. Ancora una volta ricordo come i
risultati delle ricerche sui neuroni mirror consentono di attribuire sempre maggiore significato ai correlati
neurali dell’empatia.
Il pensiero popolazionale darwiniano da cui ho preso le mosse, sottolinea le differenze, enfatizza le
caratteristiche del singolo, costringe alla resa dei conti: fare coesistere la proverbiale variabilità prescrittiva
del medico di famiglia con la necessità di aderire ai protocolli diagnostico-terapeutici definitivamente
validati dalla medicina basata sulle prove di efficacia.
Si tratta di unificare e non di separare: una organizzazione in cui vi sia una divisione dei compiti e del lavoro
deve prevedere una permanente chiarezza riguardo le figure di riferimento, le quali devono essere in grado di
scambiare informazioni tra loro e possedere per ciascun soggetto una conoscenza condivisa della sua
specificità. Insisto nel sostenere che ogni membro dello staff dovrebbe essere in grado di distinguere il
singolo individuo, le sue peculiari caratteristiche e le sue uniche esigenze in modo da renderselo sempre
riconoscibile come persona e come paziente.
10
Il modello multiprofessionale delle cure primarie deve prevedere un acrobatismo strutturale, attraverso il
quale ciascun membro del gruppo, a suo modo e nell’ambito di ruoli definiti, sappia considerare il paziente
un individuo irripetibile da seguire con attenzione nei suoi bisogni reali e a cui togliere le illusioni indotte dal
mercato.
Ciascuno per sé e tutti come gruppo, dovrebbero essere in grado di cogliere significati, metafore, segnali
corporei, influenze del contesto nelle decisioni e nelle richieste dell’utente.
Lavorare genera emozioni che è necessario non solo conoscere, ma anche padroneggiare per potersi
difendere efficacemente e con pochi costi da una loro possibile azione negativa. Esse possono diventare una
guida al comportamento del gruppo e venire canalizzate al servizio di uno scopo preciso. Da questa attività
può derivare la capacità di dare valore di esperienza all’azione, di apprendere dall’esperienza e di riflettere
nel corso dell’azione, acquisendo consapevolezza di sé e raggiungendo la capacità di reggere le emozioni
altrui.
Si è visto come la sfida in atto consiste nel coniugare una medicina di popolazione con una medicina della
persona, ma prima che un’organizzazione si rinnovi è necessario riflettere sulle trasformazioni concettuali
che stanno alla radice del cambiamento. Orientarsi al paziente significa prima di ogni altra cosa valutarne
realisticamente i bisogni.
Non ci si può accontentare di una novità logistica da riempire solo a posteriori di contenuti culturali o
concettuali. Ritengo infatti che in mancanza di una accurata analisi che preceda il cambiamento, l’intera
struttura correrebbe il rischio di vacillare ed un meraviglioso contenitore resterebbe irreparabilmente vuoto.
11
BIBLIOGRAFIA
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Narrazioni di Salute e Malattia. Una fondazione neurobiologica della Soggettività in medicina
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di Studi Semiotici - XXXII Congresso. Spoleto - Chiostro San Nicolò 29 ottobre - 1 novembre 2004
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Wednesday, July 09, 2008

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La mappatura dei bisogni - seconda parte (Giorgio Visentin)
La mappatura dei bisogni - seconda parte (Giorgio Visentin)La mappatura dei bisogni - seconda parte (Giorgio Visentin)
La mappatura dei bisogni - seconda parte (Giorgio Visentin)
 

L’equipe: esigenze dei pazienti e istituzionali (testo) (Francesco Benincasa)

  • 1. 1 L’equipe multiprofessionale fra esigenze dei pazienti e richieste istituzionali Francesco Benincasa PREMESSA Questo contributo pieno di punti interrogativi pone più problemi di quanti ne risolva; vuole rendere esplicite preoccupazioni vaghe ed inespresse che contribuiscono a creare una resistenza al cambiamento che si vorrebbe introdurre nella organizzazione della medicina generale. Intendo porre una serie di incognite che precedano le innovazioni future nella speranza che anticipare le difficoltà costituisca una salvaguardia contro gli insuccessi. Ho focalizzato l’ attenzione sui bisogni sostanziali delle persone che si rivolgono al proprio curante e mi sono proposto di fare una sorta di elenco di errori evitabili che hanno in passato contribuito all’ insuccesso di altre forme organizzative; il mio tentativo ha quindi lo scopo di evitare che le future equipe multiprofessionali diventino rapidamente un impianto burocratico che fraintende le necessità dei pazienti. Farò riferimento quasi esclusivo all’attività on demand, dando per scontato che l’attività di iniziativa si rivolga a bisogni ben codificati di stampo strettamente clinico. IL PRESUPPOSTO: IL PENSIERO POPOLAZIONALE Il presupposto da cui prendo le mosse è il pensiero popolazionale Darwiniano secondo cui ogni individuo è unico. Esso si fonda sull’osservazione del carattere irripetibile di tutti gli esseri del mondo organico, sottolinea come ogni individuo di una riproduzione sessuata sia differente da tutti. Ogni persona è il risultato della sua costituzione genetica in relazione con l’ambiente. Per il pensiero popolazionale, non esistono individui tipici, i valori medi calcolati per campioni sono astrazioni. E’ la variazione in quanto tale a costituire l'aspetto veramente significativo delle popolazioni. Per un clinico ogni individuo malato rappresenta un’espressione unica della sua malattia, ciascuno esprime la propri soggettività, frutto dello sviluppo neuroembriologico e dei processi di selezione neuronici avvenuti nel suo cervello. LA BOTTEGA DEL VECCHIO MEDICO E L’IPERMERCATO: LO STATO ATTUALE ED UN POSSIBILE FUTURO Gli ipermercati sono stati la grande novità commerciale negli anni ’80. Anche il cittadino più distaccato ha vissuto la sua prima esperienza all’ipermercato con un misto di apprensione, curiosità disorientamento. Un unico posto per acquistare ogni oggetto possibile: segnaletica chiara, la democratica possibilità di reclamare o restituire l’articolo imperfetto, l’angolo per i bambini, luci, suoni , colori, efficienza, chiarezza delle etichette, banco informazioni, foglietto per i suggerimenti: niente di più funzionale e liberale. Una vera manna per alcuni, un vero tormento per altri. Con il tempo ci si accorge che il luogo è adatto agli acquisti di chi sa in partenza che cosa desidera, anzi cosa è necessario, ma il più delle volte –ad esempio a proposito di articoli per il bricolage- pochi sanno qual è l’articolo più adatto per il lavoro da svolgere. Nel reparto ferramenta si ha di fronte ogni ben di dio, viti, bulloni, tasselli di ogni misura e genere che si acquistano affidandosi alle istruzioni o alle etichette per alcuni indecifrabili. Al banco informazioni, dopo una infinita coda, un addetto indaffarato degnandovi di un’occhiata vi spiegherà sfottente che le istruzioni per voi indecifrabili, sono “a prova di intellettuale”. Se si è convinti di aver letto bene l’etichetta, si porta a casa a volte ciò che necessita, ma di frequente l’oggetto resterà un inutile orpello nella cassetta degli attrezzi. Il tentativo di restituire l’incauto acquisto avverrà dopo un’altra lunga coda, tre scontrini di storno, una fattura da rifare, un paio di resi da registrare.
  • 2. 2 Dietro casa di tutti c’è invece una piccola rivendita di ferramenta discretamente disordinata, ma con materiale di prima qualità. Non si deve avere fretta, ma quando c’è un problema o si cerca una soluzione, il negoziante consiglia, spiega, fa persino il disegnino, propone qualche alternativa illustrando i pro e i contro dei materiali, delle applicazioni, dei costi. Se qualcosa non va, si ritorna ed il bottegaio cambia il pezzo, lo adatta, lo modifica, lo aiuta a diventare esclusivo. Quando un musicista ha bisogno di uno strumento con una sonorità particolare o ha bisogno di modificare qualche caratteristica del suo prezioso ed artigianale strumento si rivolge ad un liutaio che, ascoltate le necessità particolari di quell’esecutore, modificherà lo strumento fino ad ottenere il risultato desiderato. Ciò consentirà all’artista di esprimere al meglio il personale modo di sentire il pezzo musicale che esguirà. Uno strumento di fabbricazione industriale andrà bene per un principiante che non è in grado di esprimere il colore e la raffinatezza di un pezzo, ma che ad un certo punto, con il miglioramento della tecnica e dell’espressività, sentirà l’esigenza di qualcosa di esclusivo per sé. Anche il supermercato del mobile fornisce un elemento standard efficace, efficiente, rapido da montare, piacevole alla vista e al tatto, funzionale, ma se si desidera qualcosa di speciale, che sia una sedia di bambù o un pezzo di artigianato, si preferiscono le preziose imperfezioni del lavoro artigianale che tutti apprezzano e ricercano quando acquistano un gioiello, una stampa, un libro antico, un qualunque oggetto che si vuole resti unico. Al ristorante è lo stesso: da una parte i grandi locali dedicati alle comitive ed alle cerimonie, dall’altra i piccoli locali silenziosi dove il cliente è noto, dove è possibile adattare il piatto al gusto di ognuno, dove si può parlare con il proprietario e chiedergli cosa c’è di buono. Certo, quando in una grande struttura alberghiera c’è un capo cameriere attento, è un bel risultato. Quando è capace di fare il suo lavoro, egli riconosce le persone, ricorda qualcosa di ciascuno di loro, cerca di adattare ad ognuno una struttura che rischierebbe di essere tanto vasta quanto impersonale. Resta il fatto che nonostante i suoi sforzi, per quanto egli faccia, il cibo è buono ma è standard, con un gusto che rassomiglia sempre a qualcosa che si è già mangiato altrove o in passato nello stesso posto. La maggior parte degli studi dei medici di famiglia è strutturato come un ristorante a conduzione familiare: ci sono molte carenze e non sempre si tratta delle sublimi imperfezioni dell’artigiano. Hanno l’apparenza di piccole aziende in cui si tira avanti la baracca, dove i ruoli di ciascuno sono definiti e chiari: uno fa il medico ed un’altra persona (quando c’è) accoglie i pazienti e si occupa di ritirare e consegnare le prescrizioni croniche. In questa dimensione artigianale, i pazienti assegnano spontaneamente funzioni di sostegno, di consolazione, di incoraggiamento sia al curante che al collaboratore di studio. L’organizzazione è quasi nulla, i tempi di attesa difficili da accettare, ma il rispetto dei limiti, dei ruoli, della individualità dei soggetti è massimo. Seppure siano evidenti i gravi limiti organizzativi di una simile struttura, le innovazioni che aleggiano potrebbero gettare l’ombra di un ambulatorio-ipermercato fatto di spazi e studi impersonali, architetture distanti e ripetitive in cui le persone vanno e vengono, parlano con segretarie burocratizzate protette da alti banconi di reception, dove il medico diventa un’entità frettolosa che entra ed esce da una porta al fondo di un corridoio irraggiungibile, dove si ottengono esclusivamente prestazioni conformate ai protocolli, dove si raggiungono procedure tanto efficaci quanto efficienti quanto anonime. Tre caratteristiche che ripropongono sotto nuova forma la sostanza di una piccola struttura ospedaliera. Mentre si delineano i contorni di tale inquietante cambiamento, si assiste sempre più spesso a solerti ma goffi tentativi da parte dei medici che lavorano da soli, di trasformarsi da bottega artigiana a ipermercato senza le modifiche strutturali necessarie. I colleghi tentano di applicare protocolli ai singoli pazienti, si sforzano di tenere sotto un controllo di tipo artigianale le proprie prescrizioni, si propongono di pianificare i propri interventi con un minimo di razionalità QUEL CHE STA SUCCEDENDO Si tratta di tentativi spontaneisti che avvengono in un contesto generale di cui cercherò di delineare le caratteristiche salienti. E’ ormai assodato ed irreversibile che vi debba essere da parte della medicina generale un passaggio dalla clinica dell’individuo ad una clinica di popolazione, tuttavia questo mutamento avviene in una quadro globale di liquidità delle patologie (Gori), di una loro flessibilità legata alla continua ridefinizione dei valori normali. Si materializzano mensilmente epidemie e screening (ipertrofia prostatica, calvizie, psoriasi, colon irritabile, disfunzione erettile, carie, miopia…), vengono escogitate patologie da adattare all’esistenza di farmaci in cerca di utilizzo, è sempre più confusa la linea di demarcazione tra normalità e patologia, diventa
  • 3. 3 via via più disagevole distinguere la prescrizione terapeutica da quella cosmetica. È possibile inventare sintomi e sindromi di cui chiunque possa sentirsi affetto e proporre il farmaco ad hoc. Tutti questi fenomeni insidiosi rendono impossibile comprendere di cosa e quanto soffrono davvero i pazienti: l’inflazione classificatoria e l’invasione dei protocolli hanno trasferito l’attenzione del curante verso un impossibile ideale di salute predefinita da altri a cui il medico di famiglia corre dietro arrancando. Altre agenzie hanno la funzione di individuare target il cui unico scopo è confermare le persone nelle convinzioni che già possiedono per vendere loro i prodotti indispensabili al raggiungimento della salute e della eterna felicità. Diviene impossibile capire i reali bisogni delle persone, laddove la pratica clinica si orienti verso prescrizioni schematiche anziché alla osservazione attenta dei sintomi con la stessa considerazione riservata ai segni clinici. L’applicazione di un risultato standard scientificamente riconosciuto alla situazione problematica di ogni singolo individuo, deve essere un esito auspicabile, non imperativo. Sempre più spesso è invece richiesto di raggiungere un obbiettivo prefissato, uguale per tutti con il rischio di trascurare il contesto del singolo soggetto. Pressati dalla necessità di rivolgersi all’insieme degli assistiti per ottenere risultati che riguardino la salute dell’intera popolazione, i medici di famiglia compiono ingenui sforzi per aderire ai protocolli, raggiungere gli obbiettivi validati dalla ricerca internazionale: LDL al di sotto dei 100, emoglobina glicata al di sotto del 6,5, curva da carico per tutti coloro che hanno una glicemia a digiuno lievemente alterata e così via. Ne risulta uno spostamento dell’attenzione dalla parola del paziente al risultato, uno slittamento dal sintomo soggettivo al valore numerico ideale, la tendenza a fare diagnosi in base a rigidi schemi classificatori, la somministrazione di farmaci perché lo impongono le linee guida. Il rapporto con il singolo viene decontestualizzato senza che tuttavia si riesca a raggiungere un efficace risultato in termini di salute di popolazione. Si vive la sensazione globale di un surplus e di uno sfoggio di tecnologia accompagnata da scarsa o nulla elaborazione scientifica. EQUIPE MULTIPROFESSIONALE E BISOGNI I cambiamenti organizzativi dovrebbero basarsi su una analisi dei bisogni: varrebbe la pena riflettere sul fatto che poco o nulla si sa sui motivi per cui una persona prende la decisione di rivolgersi al proprio medico o quali siano le tappe della approvazione microsociale antecedenti la decisione di consultare una struttura sanitaria. Una simile analisi potrebbe fornire reali informazioni circa le reali esigenze della gente che al giorno d’oggi possiede una percezione del suo stato di salute mediamente peggiore di quanto non avvenisse quando le condizioni erano davvero inferiori a quelle attuali. Attraverso la conservazione dello stato fisico le persone cercano la felicità, ma c’è il rischio molto concreto che manipolazioni o deformazioni concettuali conducano ad un modello di salute in cui la soggettività rischia di andare perduta attraverso depersonalizzazione, livellamento, massificazione. I medici spesso travolti da questa onda inarrestabile, vanno incontro non ai bisogni reali, ma alle difese nevrotiche degli individui e ai loro bisogni indotti. È innegabile che in campo sanitario - come in altri campi- sia in atto un usa e getta compulsivo, avido, insaziabile e svalutante, dove regna una grande confusione tra ciò che è essenziale e ciò che non lo è, tra bisogno e desiderio, tra vero e falso. L’enfasi sulla corporeità rappresenta l’unica via per provare emozioni attraverso un uso eccessivo delle sensazioni o all’opposto, attraverso il tentativo spasmodico di conservare con modalità ossessive uno stato di salute esteticamente perfetto ed immarcescibile. Questa azione è energicamente sostenuta dal marketing sanitario attraverso l’ intensificazione delle illusioni irrealistiche dei pazienti, per i quali diventa quasi impossibile rinunciare alle chimere di onnipotenza e immortalità. Se si vuole fare il tentativo di rivolgersi ai bisogni profondi, non si può fare a meno di prendere in considerazione la cosiddetta Agenda Segreta del paziente (Perini). Con questa espressione si vogliono definire i bisogni inespressi, non quelli squisitamente medici, quanto piuttosto quei bisogni impliciti manifestati come disagi, malesseri, patimenti indefiniti, richieste apparentemente incongrue che nella pratica quotidiana condizionano pesantemente nel bene e nel male la decisione clinica.
  • 4. 4 Il bisogno di identità Uno dei fatti che caratterizzano il nostro modo di vivere è il possesso o il consumo dei beni: sono essi che conferiscono contenuto allo stile di vita. Gli individui sentono di appartenere ad un gruppo in base ai prodotti che consumano o che possiedono. L’orologio da polso, l’automobile, l’abito, il telefono portatile, qualunque oggetto comunica uno status e lo definisce; consumo e fruizione diventano profonde esperienze emotive attraverso cui gli oggetti assumono un valore simbolico che conta molto più del valore d’uso. Il marketing conferma l’ esistenza e la bontà della scelta di vita attuata attraverso l’acquisto degli oggetti attraverso il meccanismo del target, capace di rafforzare le persone nella convinzione di essere ciò che desiderano apparire. La collettività viene divisa in categorie a seconda dell'appartenenza a questo o a quel campione di persone, finalizzato alla vendita o alla pubblicizzazione di una qualche merce: appartenere ad un target fa sentire un’ identità più forte. Sciaguratamente è sempre più consueto che l’identità cominci a costruirsi dall’infanzia attraverso il possesso di oggetti che qualificano il proprietario e ne definiscono il potere nei suoi rapporti personali e sociali. In seguito la ricerca dell'identità assume l’ aspetto svilito dello shopping compulsivo, dei reality show senza pudori, dello spasmodico bisogno di appartenere ad un gruppo (Argentieri). Per ciò che riguarda l’aspetto sanitario, il consumo di accurate analisi di laboratorio, di accertamenti strumentali, di farmaci, di procedure destinate a procrastinare qualunque segno del tempo o a mantenere una sfrenata efficienza fisica, diventano una necessità, una sorta di status symbol irrinunciabile che qualifica contemporaneamente l’efficienza della medicina moderna e la posizione sociale del paziente. Identità deboli e diffuse vengono definite dalla cura ossessiva del corpo perché per loro il vero bene merce, la merce da acquistare e consumare in maggiore quantità è la percezione di sé. Il marketing sanitario cerca di riconoscere un bisogno emergente attraverso l’uso del pensiero laterale (pensiero creativo non sequenziale) per stabilire quale prodotto debba essere proposto e a chi. Anche il consumatore/paziente deve accettare di farsi incasellare in un gruppo dalle caratteristiche ben definite dove la soggettività è completamente persa di fronte a bisogni imposti o gabellati dal mercato. Così quella che potrebbe essere uguaglianza, appartenenza ad un gruppo di pazienti affetti da uno stesso problema e distinti dalla propria individualità, si trasforma in una omologazione muta e conformista che incentiva un comunitarismo regressivo. Si impara ad aver bisogno di ciò che viene offerto, a sentire il bisogno di ciò che si possiede tanto da non poterne più fare a meno. Che si tratti di un oggetto o di un farmaco o di una procedura di laboratorio, ogni offerta del mercato è tanto più raffinata quanto più è in grado di produrre bisogni che si moltiplicano. La civile abitudine di trasformare i problemi privati in questioni pubbliche cade in disuso mentre si sviluppa il concetto che la felicità privata sia garanzia di felicità pubblica; ancora, si assiste alla nascita ed alla crescita di un consumatore/paziente autocentrato, narcisista, disimpegnato, competitivo, non interessato alla cultura. Eppure il vessillo di questo paziente consumatore deve necessariamente essere il sorriso in quanto espressione emotiva prevalente nella moderna cultura dell’acquisto: l’allegria è funzionale sia alla produzione che al consumo mentre sentirsi infelici provoca senso di colpa e costringe a trovare una giustificazione alla propria condizione esistenziale Il bisogno di vincere la paura In un mondo globalizzato, anche la percezione del rischio è totale e suscita un sentimento di angoscia diffuso; ciascuno prova la sensazione di essere di fronte ad un rischio indeterminato, percepisce paure imprecise, mobili, elusive, modificabili, difficili da identificare e collocare. Ogni notizia che percorre il globo viene fornita attraverso una comunicazione di urgenza e di emergenza che non può lasciare indifferenti. Si struttura così una paura diffusa, una paura liquida (Bauman) che orienta il comportamento dopo aver modificato la percezione del mondo. La società vive quindi paure spesso irrazionali che contribuiscono a determinare perdita della fiducia, riduzione di aspettative da parte delle istituzioni ed una frammentazione delle relazioni sociali. Il timore di essere vulnerabili dipende più dalla mancanza di fiducia nelle difese che dall’entità delle minacce effettive. Le paure tendono così a trasferirsi dalle cause principali ad obiettivi accidentali, vengono scaricate su obiettivi vicini, visibili, a portata di mano, che sembrino facili da gestire; la salute è l’obbiettivo principale su cui viene dislocata la paura diffusa della nostra collettività.
  • 5. 5 Il bisogno di istantaneita’ e illimitatezza Il futuro è quindi percepito come una minaccia oscura da un individuo caratterizzato dalla tendenza all’illimitatezza e all’insicurezza: solo l'istantaneità è in grado di orientare le sue esperienze. La promessa di una soluzione rapida si raggiunge tramite l’annullamento dello scarto tra il desiderio e l’incertezza della sua realizzazione. Egli cerca un beneficio immediato e illimitato per vincere una sensazione di panico assolutamente insopportabile, ha necessità di credere che la scienza in genere e la medicina in particolare, goda di possibilità illimitate, affascinanti e seduttrici. Una medicina onnipotente che gratifichi immediatamente i desideri ed elimini subito qualunque forma di sofferenza. E’ un individuo che ha la pretesa (l'illusione) di gratificare sé stesso ed il suo gruppo di appartenenza affidandosi esclusivamente alla forza di attrazione dei consumi ritenendo che più farmaci si assumono e prima si guarisce, più esami si fanno e più si avrà la certezza di essere sano. Il bisogno di essere controllati Gli individui che sto cercando di descrivere -ai quali tutti noi almeno in parte assomigliamo- hanno un paradossale bisogno di essere controllati e fanno parte di quella schiera crescente di soggetti soprannominati worried well : sono coloro i quali vogliono più salute quando non sono malati e meno interventi clinici anche se sono malati. E’ possibile che si chiudano individualmente in angosce ipocondriache, che si affidino a medicine alternative o a pratiche non chiaramente codificate, oppure che cerchino attraverso pratiche esoteriche o spiritualistiche di raggiungere quel benessere totale da loro vagheggiato, ma arduo da raggiungere. In alternativa sono persone che richiedono regole di vita alla medicina, che vi si affidano per possedere un libretto di istruzioni verso la salute e la felicità. L’apparato sanitario assumono allora il ruolo di agenti sociali, si prestano a politiche di controllo e mettono in atto strategie allarmistiche che permettono di esercitare un potere di controllo totale.. Il bisogno di beni di conforto Attraverso il consumo sanitario si ricerca salute, sicurezza e identità stabile, eppure è dimostrato anche attraverso correlati neurofisiologici, che gli aumenti di consumo producono infelicità e frustrazione le quali spingono a loro volta verso altri consumi (Kahneman). Addirittura, i miglioramenti delle circostanze oggettive non producono effetti reali duraturi sul benessere delle persone (Paradosso di Easterlin), ed anzi Kahneman ha descritto meccanismi di treadmill secondo cui: 1) la soddisfazione conseguente all'acquisto di un nuovo bene di consumo, dopo un miglioramento temporaneo ritorna rapidamente al livello precedente 2) ibeni di consumo hanno effetti “posizionali”. Ad esempio la mia nuova auto mi appare straordinaria fino a che non scopro che il mio vicino di casa ne ha acquistato una molto più lussuosa della mia. Nell’ambito medico, accade spesso che farmaci me-too assumano un ruolo insostituibile sulla base delle capacità pubblicitarie dell’azienda o che nuove tecnologie rimpiazzino completamente il ruolo insostituibile della clinica. Secondo Scitovsky, i beni di conforto che ci sembrano indispensabili riducono la pena, il fastidio, il disagio, mentre i beni di stimolazione più difficili da raggiungere ma più duraturi (rapporti umani, abilità artistiche, interessi culturali), sono creativi e spesso gratuiti. Uno squilibrato consumo di beni di comfort crea fenomeni di dipendenza e maggiore scontentezza. Nondimeno, l’attività di consumare non sarebbe uno scherzo, ma un esercizio complesso che implica scelte di vita, uso del tempo e di energia, investimento di conoscenza e informazione, senso della propria identità. Riassunto
  • 6. 6 Si è sostenuto che l’agenda segreta del paziente, i veri suoi bisogni, sono caratterizzati da paura, ricerca o conferma di identità attraverso un consumo di risorse sanitarie, richiesta di soluzioni rapide e indolori (istantaneità, immediatezza, beni di conforto), scarsa resilienza, dipendenza dall’esperto e accettazione acritica di regole. Elementi per la maggior parte inconsapevoli, che hanno un ruolo determinante nell’agenda del paziente e che ovviamente determinano l’agenda del medico. Una soddisfazione acritica e regressiva di questi bisogni da parte dell’equipe multi professionale riprodurrebbe e riproporrebbe schemi funzionali allo status quo e tutti i limiti di altre istituzioni. CONSERVARE IL RAPPORTO A DUE L’aziendalizzazione dello studio medico va valutata sia sotto il profilo organizzativo sia sotto il profilo del lavoro in gruppo. Al medico verrebbero alleggerite le incombenze burocratiche e gli si affiderebbe esclusivamente la parte più incontaminata della professione; verrebbe cancellato il vecchio modo di lavorare nel corso del quale il medico di famiglia ha eseguito mansioni che in altri contesti vengono svolte da altri professionisti, fino al punto da aver perso di vista quali siano le vere, uniche attribuzioni di un clinico. In un ospedale sarebbe impensabile che un professionista consegni ricette a domicilio, misuri pressioni, esegua vaccinazioni o medicazioni, eppure questa elasticità del ruolo è entrata a far parte di una caratteristica di domesticità, elemento che ha reso il medico di famiglia più vicino alla gente, che ha reso comprensibile il suo gesto liturgico, umanizzato il rito, ridotto le distanze tra il sacerdote e il fedele rivelando nei sondaggi che il medico di famiglia resta una figura rassicurante e preferita. La contrapposizione tra la bottega artigiana e l’ipermercato va superata: negli ipermercati ci hanno provato attraverso la creazione di una figura che assista il cliente nelle sue scelte: il giovane addetto con il grembiule giallo non si fermerà tra uno scaffale e l’altro per dirvi se la punta da trapano che state scegliendo è adatta al muro di mattoni pieni che dovete forare. Sarà gentile ma deve andare, si comporterà proprio come gli specialisti e i medici nelle corsie ospedaliere. Circondati da altre figure professionali (segretarie e infermiere) anche il medico di famiglia delegherà a loro l’onere delle informazioni? Avrà anche lui sempre qualcosa di più importante da fare che non rispondere alle domande dei pazienti? Diverrà meno raggiungibile? Si riprodurrà in ogni ambulatorio l’atmosfera ed i rapporti tipici di ogni struttura sanitaria plasmata sul modello ospedaliero? Un mutamento strutturale deve prevedere il mantenimento di una dimensione a due nel rapporto clinico e deve impedire che il rapporto curante-paziente possa diventare facilmente ed impunemente intercambiabile come se qualunque paziente fosse un paziente qualsiasi, qualunque medico un medico sostituibile, qualunque ambulatorio un luogo indifferente. Si deve mantenere un rapporto intimo con i pazienti anche in un contesto di lavoro di gruppo: si deve lavorare con l’individuo mentre si sviluppa una contemporanea azione sulla popolazione. Il medico di famiglia dovrebbe mantenere le caratteristiche di animale domestico dove il concetto di domesticità sottolinei la facilità di comunicazione, di accesso ad una dimensione confidenziale e familiare. I RISCHI DI UN NUOVO MODELLO ORGANIZZATIVO: EVITARE UN NUOVO GOLEM Al rischio di burocratizzazione si è accennato più sopra attraverso l’immagine di banconi da reception invalicabili, posti a barriera tra il paziente ed un medico sempre meno accessibile. In una nuova struttura multiprofessionale c’è anche il pericolo che i compiti vengano ritualizzati e che le procedure vengano svolte in maniera ossessiva come avviene in strutture organizzative più vaste. Nel lavoro d’equipe c’è il rischio di mettere in atto una delega, attraverso l’affidamento ad altri, del compito a volte gravoso di mantenere i rapporti con i pazienti; alcuni ritengono che un nuovo modello organizzativo debba proprio servire a demandare funzioni ad altre figure professionali. E’ evidente l’ulteriore possibilità che avvenga una confusione di ruoli e mansioni, che non sia immediatamente chiaro chi deve fare cosa, anche per l’inveterata abitudine del medico di famiglia di occuparsi di qualunque compito. Una netta scissione dei ruoli creerebbe una artificiosa separazione nella percezione delle persone, ne frammenterebbe l’unitarietà costringendole a rivolgersi a differenti responsabili per ciascun settore della loro salute (il medico, l’infermiera, l’impiegata, il fisioterapista etc.). Ecco perché sottolineare la necessità di mantenere una figura unificante nel medico dell’individuo. La gente chiede oggi al medico le stesse cose che chiedeva trent’anni fa: le chiede con maggiore insistenza, ne chiede una quantità maggiore, crede di sapere di cosa ha bisogno, ma se il curante fa emergere problemi, instilla dubbi, propone una visione critica, diventa esattamente come quell’esperto bottegaio di cui si parlava
  • 7. 7 in precedenza e non lo scaffale di un ipermercato dove basta servirsi da soli seguendo i consigli della TV. Una innovativa e più efficiente organizzazione dovrà prendersi l’impegno di mantenere nel cliente un atteggiamento critico nei confronti della merce che gli si vende impedendo che prevalgano le ragioni del mercato a quelle della salute del consumatore. L’equipe multi professionale potrà mantenere la gaiezza querula del consumatore acritico colludendo con i bisogni indotti, oppure identificare e correggere in modo rigoroso i suoi soggettivi problemi di salute. Fare coesistere un’organizzazione efficientistica di stampo aziendale con uno spirito dedicato al singolo non è probabilmente così difficile, eppure va attentamente studiata perché i cambiamenti logistici non possono piovere dall’alto, quando d’improvviso qualcuno si accorge che bisogna modificare gli assetti. I molteplici mutamenti di recente proposti (UMG, Case della Salute) sembrano legati più al bisogno di ridimensionare la spesa che non a reali necessità dei cittadini: non si dica che il problema principale della sanità italiana sia la riduzione dei codici bianchi nei PS e nemmeno ci si illuda che un decreto legge o un nuovo assetto organizzativo renda i medici italiani più disponibili nei confronti dei pazienti, né che la vicinanza tra colleghi messi di punto in bianco a lavorare in gruppo, possa migliorare automaticamente la qualità della prestazione. L’equipe multiprofessionale costituirà per la sua forma e la sua organizzazione, una piccola istituzione. Il paziente dovrà rapportarsi ad una moltitudine di figure professionali che faranno parte di un unico apparato. Esso costituirà una struttura ed una difesa per tutti coloro che vi lavoreranno. Per quanto minuscola, l’istituzione rappresenterà una disposizione apparentemente unitaria e monolitica con la quale fare i conti. Non si tratterà più di negoziare con la singola persona del medico in un rapporto uno a uno, quanto piuttosto di rapportarsi con un organismo impersonale e collettivo che potrà essere vissuto come accogliente e protettivo o al contrario, come una struttura inospitale e minacciosa alla quale sottomettersi. L’equipe potrà proporre in prevalenza il consumo di beni di conforto sanitario superflui e dispendiosi attraverso la collusione e la remissività di personale che fraintende i bisogni, oppure al contrario, suggerire e fornire beni di stimolazione attraverso un atteggiamento negoziale che utilizzi la co-costruzione di senso ed un atteggiamento di coinvolgimento-implicazione per ogni scelta clinica che viene proposta e portata a termine con il paziente. DARE SIGNIFICATO AL LAVORO DI GRUPPO Cosa è un gruppo Per non disfare la compagine o mantenere una prestazione professionale su un crinale pericoloso e sdrucciolevole è indispensabile considerare i meccanismi in gioco. Un gruppo costituisce qualcosa di diverso rispetto alla somma dei suoi componenti: nella sua etimologia la parola significava nodo, indica una struttura che si compone e che non è facile sciogliere; chi vi appartiene accentua la definizione di sé e la propria identità sociale riducendo un poco quella individuale. Un gruppo di lavoro è una struttura profondamente diversa da un gruppo di amici che pensano di poter lavorare assieme sulla base della loro precedente conoscenza personale. Mi si conceda un esempio banale ma illuminante: fare una vacanza in barca con amici è un’esperienza in grado di rafforzare un rapporto o di distruggerlo. Quando ci si trova in una situazione diversa dalla realtà quotidiana, in cui le scelte, le preferenze, le abitudini di ciascuno devono essere soddisfatte in accordo con gli altri, quando lo spazio è ridotto e la prossimità fisica esagerata, possono scatenarsi dinamiche distruttive. Analogamente, un gruppo di lavoro non può costituirsi ingenuamente e spontaneamente dall’oggi al domani senza correre il rischio di stimolare profondi conflitti che prima o poi vengono a galla minando l’intera organizzazione. Non si dimentichi che rivalità e competizione fanno parte della vita dei gruppi e che possono avere una funzione sia vivacizzante che fortemente distruttiva. Tre definizioni della struttura gruppale: 1) Un gruppo è un tutto dinamico basato sull’interdipendenza e sulla percezione di un destino comune 2) E’ un insieme di persone che ritiene di far parte di un gruppo 3) Un gruppo esiste quando due o più persone definiscono sé stessi come membri e quando la sua esistenza viene riconosciuta da almeno un’altra persona I gruppi si formano attraverso un processo di categorizzazione cognitiva attraverso la quale si stabilisce un dentro in cui vengono accentuate le somiglianze ed un fuori in cui vengono sottolineate le differenze. Il bisogno di affiliazione assomiglia all’esigenza di attaccamento, esiste un bisogno di appartenenza che nasce dalla propensione istintiva ad avere relazioni: accanto a questa, si trova una dialettica tra la necessità di associarsi e quella di sentirsi unici. La realtà gruppale costituita da norme, regole, convenzioni, rassicura la maggioranza dei suoi membri riducendo la sensazione di incertezza nelle azioni e nelle opinioni. Per di più l’appartenenza ad un gruppo
  • 8. 8 che gode di buona fama fa sentire supportati e sostenuti attraverso un incremento dell’autostima; per chiunque vi entri, l’obbiettivo è la propria crescita, cioè l’ingresso a pieno titolo in una struttura in cui non ci sia bisogno di annullare sé stesso. La coesione favorisce la formazione di un insieme, ma solo se le persone si piacciono riescono ad essere coese. Secondo un altro punto di vista la coesione si formerebbe in seguito alla formazione del gruppo. Lavorare tra amici è un fatto immediato mentre un gruppo di lavoro necessita di attenzione, preparazione, tempo. In una organizzazione bisogna distinguere la sua struttura sociale dalla sua cultura (Jaques): la prima comprende l’insieme dei ruoli occupati dalle persone ed il modo in cui i ruoli sono strutturati in una gerarchia. Per cultura si intende le norme e le abitudini, i divieti non scritti che caratterizzano una organizzazione. In un gruppo vale la metafora dei porcospini: bisogna cercare la giusta distanza che permetta di sentirsi al caldo senza pungersi reciprocamente. E’ necessario che si analizzino i reali vantaggi di un lavoro associato non solo in termini economico- finanziari o fiscali, ma anche in termini di vantaggi professionali per i clinici e per gli utenti. Il team di lavoro costituisce un piccolo insieme dentro la quale ciascun individuo si differenzia dagli altri e ha necessità o pretese differenti. Lavorare in gruppo implica un lavoro di gruppo: riunioni, definizioni di obbiettivi, valutazione dei problemi insorti, attenzione alle dinamiche sotterranee legate a stati di ansia, paura, aggressività, invidia. Ruoli e gerarchie nel gruppo In un gruppo, ciascun membro deve assumere un ruolo in modo da poter svolgere una attività in base alle richieste che provengono dagli altri attraverso un principio regolatore condiviso. E’ necessario che vi sia una figura che con chiarezza svolga la funzione del leader: egli non deve avere la funzione di colui che pensa per gli altri, ma la responsabilità di stimolare gli altri al pensiero ed all’ attività, le funzioni di una guida che sappia elaborare progetti desiderabili per gli altri e che sia capace di preoccuparsi (Perini). Una democrazia chiara non può fare a meno di una inequivocabile leadership senza la quale prende piede un assemblearismo confuso dentro il quale rischiano di svilupparsi leader nascosti o poteri occulti. Per un gruppo una democrazia spontaneista costituisce un pericolo perché i ruoli restano mal definiti dietro un apparente egualitarismo che finisce per provocare un impiego incongruente e inefficace delle risorse. Quando manca trasparenza o la struttura è confusa, quando un incarico appare oscuro, se i ruoli sono incerti, se la struttura gerarchica e le decisioni sono incoerenti, i membri del gruppo sono ansiosi, confusi, dubbiosi, diffidenti. Un leader manifesto ed una limpida struttura dell’autorità rappresentano ancora il modo migliore per dirigere un gruppo di lavoro evitando populismo e dispotismo (Perini). Gruppo ed emozioni E’ facile che nei gruppi che lavorano nell’ambito sanitario si realizzino meccanismi di difesa contro le angosce generate dal contatto costante con la sofferenza: possono verificarsi meccanismi di scissione, isolamento e spersonalizzazione nelle relazioni. Può accadere che i pazienti vengano trattati come numeri, per difendersi si attua un distacco dalle loro problematiche, i sentimenti vengono negati, si delega ai superiori per evitare le responsabilità, si finisce di volta in volta per idealizzare o svalutare la dirigenza. Ogni gruppo di lavoro ha sempre due obbiettivi: uno dichiarato che consiste nel raggiungere i suoi compiti razionali ed una seconda finalità che consiste nel produrre difese contro le angosce. Tutto ciò che si svolge in un ambito lavorativo (guadagno di denaro, raggiungimento di potere, esercizio della creatività, conseguimento di risultati) è connesso a fondamentali questioni di natura affettiva ed emotiva. Agli elementi descritti che sono comuni a tutte le attività, si deve sommare un aspetto specifico di chi lavora in ambito sanitario: a livello manifesto si persegue la promozione della salute, ma ad un livello più profondo ci si fa carico di quelle paure generali implicite che sono legate all’invecchiamento, all’invalidità, alla perdita di autonomia e che vengono percepite da tutti coloro che hanno bisogno del medico. Se le difese messe in atto per controllare le emozioni vengono lasciate a se stesse, creano molti problemi e mettono in forse il compito principale del gruppo. I pazienti, da parte loro, fanno fantasie riguardo l’organizzazione, la personalità dei singoli e le relazioni all’interno del gruppo di lavoro. Nessun membro dello staff ne è immune; ciascuno scopre che le aspettative del paziente riguardano anche lui, che l’intero gruppo è oggetto di speranze, di timori, critiche, proiezioni. Il ruolo professionale viene quindi sempre affiancato anche da un ruolo assistenziale che non va respinto e di cui è necessario rendersi consapevoli.
  • 9. 9 CONCLUSIONI I cambiamenti organizzativi debbono sempre presupporre una solida teoria che li sostenga, debbono avere un significato volto alla esecuzione di un compito e non ad una modificazione formale del modo di lavorare. Bisogna prender atto che spesso il necessario non è sufficiente; si rischia di credere che tutto sia sotto controllo attraverso la razionalità delle strutture, le accurate analisi, le statistiche, le eccellenti elaborazioni teoriche. Invece per attuare una innovazione, oltre che fissare obbiettivi realistici, bisogna anche tenere presente gli elementi nascosti che possono influenzare il comportamento dei membri del gruppo di lavoro. In via preliminare ma soprattutto nel corso dell’azione, va effettuato un esame dei bisogni irrazionali che possono influire pesantemente nella vita di una organizzazione e riconoscere le distorsioni cognitive che possono impedire il funzionamento dei modelli gestionali proposti. Come abbiamo visto, una nuova organizzazione della medicina generale è carica di implicazioni problematiche tra le quali spiccano quelle relative al lavorare in associazione. Unire alcune persone in uno stesso luogo con lo scopo di farle lavorare assieme non vuol dire automaticamente creare uno staff: per tenere in funzione un gruppo bisogna ricevere una formazione continua che renda consapevoli delle sotterranee inevitabili dinamiche, dei meccanismi adattivi aggressivi o regressivi che avvengono al suo interno. E’ inoltre indispensabile che tra i membri dello staff si pongano le basi per una sostanziale chiarezza di rapporti e scambi di informazione costanti. La conoscenza della individualità di ciascun paziente e dei suoi bisogni reali deve essere una risorsa condivisa tra tutti i membri dell’equipe per raggiungere una sintesi tra una qualità artigianale ed una efficienza aziendale attraverso cui si mantenga trasparenza e scambio continuo di informazioni. Se mi è concesso riprendere una similitudine di ambito commerciale, sono un buon esempio di questa sintesi i piccoli supermercati dove rimangono attivi il banco della carne, quello della panetteria o quello della verdura, dove un addetto offre i prodotti a seconda delle preferenze personali dell’acquirente: un pane più cotto, un frutto meno maturo. Ho sostenuto che i bisogni reali sono spesso inespressi e che a volte si nascondono sotto l’aspetto di bisogni di salute con i quali quasi mai coincidono. Queste necessità rappresentano in realtà bisogni di cura che non hanno tanto una base antropologica quanto una base biologica: operano a partire dall’infanzia per tutta la vita degli individui attraverso i legami personali, affettivi e sociali (attaccamento, rispecchiamento) ed hanno precisi correlati neurofisiologici. Le strutture multiprofessionali dovranno trovare equilibrio tra accoglienza ed efficienza perché accoglienza, accudimento e attenzione riflessiva da parte dell’intera equipe, sono elementi terapeutici fondamentali che soddisfano in gran parte il bisogno di cura delle persone. Tra gli elementi irrinunciabili in un nuovo assetto, l’ accoglienza va perseguita e coltivata assieme alla disponibilità ad accompagnare nei percorsi sanitari e alla mediazione analitica tra le ragioni della tecnologia, i rischi della medicalizzazione e le esigenze del singolo individuo. Attraverso la creazione di un lavoro d’equipe e l’attivazione di una medicina dedicata alla popolazione, si intende facilitare il lavoro del medico di famiglia e renderlo più efficace attraverso la separazione dell’ambito dedicato al singolo e di quello dedicato all’insieme dei pazienti, ma si deve mettere in atto anche un dispositivo di impegno e dedizione alla persona, che deve rafforzare il tradizionale compito di intervento e sollecitudine del curante. Ciò che a prima vista potrebbe essere interpretato come la proposta di un atteggiamento sentimentale e sdolcinato, soddisferebbe -se sostenuto da autentica partecipazione emotiva- uno dei bisogni più profondi delle persone che si rivolgono ad un professionista per essere curate. Ancora una volta ricordo come i risultati delle ricerche sui neuroni mirror consentono di attribuire sempre maggiore significato ai correlati neurali dell’empatia. Il pensiero popolazionale darwiniano da cui ho preso le mosse, sottolinea le differenze, enfatizza le caratteristiche del singolo, costringe alla resa dei conti: fare coesistere la proverbiale variabilità prescrittiva del medico di famiglia con la necessità di aderire ai protocolli diagnostico-terapeutici definitivamente validati dalla medicina basata sulle prove di efficacia. Si tratta di unificare e non di separare: una organizzazione in cui vi sia una divisione dei compiti e del lavoro deve prevedere una permanente chiarezza riguardo le figure di riferimento, le quali devono essere in grado di scambiare informazioni tra loro e possedere per ciascun soggetto una conoscenza condivisa della sua specificità. Insisto nel sostenere che ogni membro dello staff dovrebbe essere in grado di distinguere il singolo individuo, le sue peculiari caratteristiche e le sue uniche esigenze in modo da renderselo sempre riconoscibile come persona e come paziente.
  • 10. 10 Il modello multiprofessionale delle cure primarie deve prevedere un acrobatismo strutturale, attraverso il quale ciascun membro del gruppo, a suo modo e nell’ambito di ruoli definiti, sappia considerare il paziente un individuo irripetibile da seguire con attenzione nei suoi bisogni reali e a cui togliere le illusioni indotte dal mercato. Ciascuno per sé e tutti come gruppo, dovrebbero essere in grado di cogliere significati, metafore, segnali corporei, influenze del contesto nelle decisioni e nelle richieste dell’utente. Lavorare genera emozioni che è necessario non solo conoscere, ma anche padroneggiare per potersi difendere efficacemente e con pochi costi da una loro possibile azione negativa. Esse possono diventare una guida al comportamento del gruppo e venire canalizzate al servizio di uno scopo preciso. Da questa attività può derivare la capacità di dare valore di esperienza all’azione, di apprendere dall’esperienza e di riflettere nel corso dell’azione, acquisendo consapevolezza di sé e raggiungendo la capacità di reggere le emozioni altrui. Si è visto come la sfida in atto consiste nel coniugare una medicina di popolazione con una medicina della persona, ma prima che un’organizzazione si rinnovi è necessario riflettere sulle trasformazioni concettuali che stanno alla radice del cambiamento. Orientarsi al paziente significa prima di ogni altra cosa valutarne realisticamente i bisogni. Non ci si può accontentare di una novità logistica da riempire solo a posteriori di contenuti culturali o concettuali. Ritengo infatti che in mancanza di una accurata analisi che preceda il cambiamento, l’intera struttura correrebbe il rischio di vacillare ed un meraviglioso contenitore resterebbe irreparabilmente vuoto.
  • 11. 11 BIBLIOGRAFIA 1. Amaral OB (2006) Defining Disease in the Information Age. PLoS Med 3(7): e317 doi:10.1371/journal.pmed.0030317 2. Argentieri S.: L’ambiguità. Einaudi, Torino, 2008 3. Barus-Michel J,.Enriquez E., Lèvy A. : Dizionario di psicosociologia. Cortina, Milano, 2005 4. Bassetti R: Contro il target. Bollati Boringhieri, Torino, 2008. 5. Bauman Z.: Paura liquida. Laterza, Bari, 2008. 6. Bernabè S., Benincasa F.- Danti G.: Il giudizio clinico in medicina generale. Utet, Torino, 1998. 7. Bernabè S, Benincasa F: Medicina generale : la clinica bussa alla porta della neurobiologia, Keiron, 10 /2002 8. Bernabè S, Benincasa F, Danti G: Il Sintomo e il Discorso della Salute. Le Rappresentazioni e le Narrazioni di Salute e Malattia. Una fondazione neurobiologica della Soggettività in medicina generale. Atti del convegno “Il discorso della salute - testi, pratiche, culture” - Associazione Italiana di Studi Semiotici - XXXII Congresso. Spoleto - Chiostro San Nicolò 29 ottobre - 1 novembre 2004 9. Benincasa F, Bernabè S: Individuo e popolazione in medicina generale, documento non pubblicato, 10. Bion W.R.: Esperienze nei gruppi, Armando, Roma, 1979. 11. Diamond F.: How to manage the worried well in Manged Care June 2003. 12. Easterlin, R: Per una migliore teoria del benessere soggettivo, in Bruni, L. e Porta, PL : Felicità ed economia, a cura di, Guerini & Associati, Milano, 2004. 13. Michael Fitzpatrick, Tiranny of Health, Routledge 2001 14. Freidson E: La dominanza medica, Angeli, Milano, 2002 15. Gori R: Terapie molli cercano disperatamente patologie flessibili in Psicoterapie e Scienze Umane, Volume XLII 2008 (pp. 41-60) 16. Hinshelwood R D: Cosa accade nei gruppi, Cortina, Milano,1989. 17. Jaques E: Sistemi sociali come difesa contro l’ansia persecutoria e depressiva, in Klein M, Heimann P, Money Kyrle R (a cura di), in Nuove vie della Psicoanalisi. Il Saggiatore, Milano, 1966. 18. Kahneman, D. : Felicità oggettiva, in Bruni e Porta (2004). 19. Kernberg O: Le relazioni nei gruppi. Cortina, Milano, 1999 20. Kets De Vries M: L'organizzazione nevrotica. Cortina, Milano, 1992 21. Kets De Vries M: L'organizzazione irrazionale. Cortina, Milano, 2001 22. Moynihan R.: Too much medicine? Almost certainly BMJ. 2002 April 13; 324(7342): 859–860. 23. Moynihan R, Henry D (2006) The Fight against Disease Mongering: Generating Knowledge for Action. PLoS Med 3(4): e191 doi:10.1371/journal.pmed.0030191 24. Neri C, Selvaggi L: Gruppo (2) in : Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psiconalalisi, neuroscienze, Einaudi, Torino, 2006. 25. Perini M: L’organizzazione nascosta, Angeli, Milano, 2007 26. Schön Donald A.: Il professionista riflessivo, Dedalo, Bari, 1993 27. Scitovsky T.: Economia senza gioia. Città Nuova, Roma, 2007. 28. Voci A: Gruppo (1) in: Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psiconalalisi, neuroscienze, Einaudi, Torino, 2006. 29. Wolfe A: Hedonic Man. The new economics and the pursuit of happiness. The New Republic Wednesday, July 09, 2008