Il paper analizza i cambiamenti organizzativi conseguenti all'introduzione in azienda dell'intelligenza artificiale (AI). La struttura del documento è articolata in 2 parti: nella prima è proposto un nuovo modello organizzativo, basato sulla visione della struttura organizzativa come un mercato multilaterale ad alta produzione di esternalità, nella seconda, invece, sono spiegate le funzionalità di una piattaforma di AI, basata si IBM Watson, che rappresenta l'HUB attraverso cui gestire le esternalità prodotte dall'organizzazione. La piattaforma, esistente e operativa, è il primo esempio di utilizzo di un protocollo di AI italiano dedicato alla gestione delle interazioni organizzative nell'ottica di creare protocolli di service automation.
L'ai come piattaforma abilitante le interazioni organizzative
1. 1
Service automation e struttura organizzativa:
Un esempio applicativo basato su una
piattaforma di AI.
F. Leondini1
, M. De Angelis2
.
Novembre 2018
1
Consigliere di Amministrazione Birra Castello SpA e Docente al Master in Trade Management dei Consumi Fuori Casa
alla LUISS Business School.
2
Docente di Marketing alla LUISS University e direttore del Master.
2. 2
Abstract.
Portare all’interno dell’azienda le logiche che governano i processi B2C,
interpretando i rapporti B2B interni come la nuova frontiera del B2C, è la proposta di questo
lavoro. L’idea di fondo è quella di reinterpretare la struttura organizzativa come un insieme
di processi, e non di funzioni, attivi in mercati multilaterali e operanti secondo le logiche del
“Service Design Thinking” per arrivare a:
1. Realizzare modelli di service automation basati su piattaforme governate da
protocolli di AI,
2. Semplificare i processi di apprendimento interni, per aumentare l’efficienza
dell’organizzazione;
3. Fluidificare le comunicazioni interorganizzative per aumentare sia l’efficacia dei
processi che le competenze interne.
I processi, che si avvalgono dell’operato delle diverse funzioni, sono incentivati ad
attivarsi da un HUB di AI con funzioni di piattaforma di comunicazione efficiente e neutrale.
L’HUB opera attraverso l’interpretazione di linguaggi naturali e su comunicazioni
destrutturate. Il risultato finale del processo, che si pone come sintesi operativa del lavoro
delle diverse funzioni coinvolte, diventa da un lato il parametro di valutazione del lavoro
svolto, dall’altro contribuisce in modo sostanziale ad attribuire senso ai compiti da eseguire.
Si tratta, quindi, di un’impostazione che si basa sulle teorie dei sistemi organizzativi e che
pensa a meccanismi di coordinamento e controllo gestiti attraverso “loose coupling”.
L’obiettivo finale è quello di dimostrare, attraverso un caso concreto, che diventare
una “Digital Company” è possibile ma, altrettanto, per diventarlo è necessario liberarsi degli
ultimi rigurgiti concettuali del secolo breve.
Il presente lavoro costituisce una sintesi di una serie di riflessioni nate in seno al
Master in Trade Management dei Consumi Fuori Casa tenuto alla LUISS Business School per
AFDB.
3. 3
1. Premessa:
“Ogni azienda sarà una digital company!” Tatiana Rizzante, amministratrice di Reply,
chiudeva in questo modo l’Xchange 2015, ma quanti, tra coloro che stavano applaudendo in
sala, avevano capito davvero il significato di quell’affermazione?
Una domanda intrigante e che rappresenta anche il punto di partenza di questo
documento. Cercare di approfondire, oggi, come lo sviluppo tecnologico possa influire sulla
struttura organizzativa significa accettare il cambiamento non solo nelle sue componenti
esterne, ma anche, e forse soprattutto, nei suoi stessi elementi istitutivi: gli esseri umani.
Se l’atto di organizzare è un atto istitutivo del reale3, lo sviluppo di meccanismi
organizzativi rappresenta il fondamento della gnoseologia di impresa. Comprendere, quindi,
come le organizzazioni non solo “conoscono”, ma addirittura “imparano” e, quindi, come un
insieme di regole possa arrivare ad avere una sua vita intellettuale autonoma, ancorchè in
parte derivata dagli attori che ne sono parte integrante, non è solo una sfida culturale
stimolante ma, ben più concretamente, rappresenta la frontiera turneriana4 che le imprese
sono chiamate ad inseguire per mantenere la propria capacità di strutturare, conoscere e
interpretare il reale.
La costruzione di una nuova “Logica Trascendentale”5, da un punto di vista
metodologico, deve tener conto di almeno tre diversi contesti:
a. Il primo riferito alla deriva tecnologica, e segnatamente quella digitale;
b. Il secondo pertinente alle dinamiche sociali, con particolare riferimento alle
organizzazioni;
c. Il terzo riguardante il “Service Design Thinking” applicato, però, ai processi organizzativi
interni e non, come si è soliti fare, alla riformulazione di servizi per i clienti dell’impresa.
Queste sono le basi metodologiche su cui si è impostato lo studio che utilizza, come
attivatore di processo, la teoria dei mercati multilaterali.
Il documento si sviluppa secondo cinque diverse parti che prevedono:
1. Un’analisi sommaria dei contesti tecnologici;
2. Una visione dei contesti organizzativi;
3. Le modalità con cui il Service Design Thinking diventa elemento di progettazione
organizzativa;
4. Le interrelazioni tra la struttura e un Hub costituito da una piattaforma di AI;
5. Un caso concreto di realizzazione di quanto proposto.
3
Weick, K. E., Organizzare. La psicologia sociale dei processi organizzativi, ISEDI, Utet Libreria, 1993.
4
Turner, F. J., The Significance of the Frontier in American History, American Historical Association, 1893.
5
Kant, I., Critica della Ragion Pura, a cura di Gentile, G., Lombardo Radice, G., Laterza, 2005.
4. 4
2. Il contesto tecnologico.
Velocità di diffusione, semplicità di utilizzo ed economie di adozione planetarie
rappresentano le caratteristiche di fondo della deriva tecnologica odierna. Questi andamenti,
sorretti da una architettura infrastrutturale pervasiva, hanno creato una società interconnessa
ma, soprattutto, ipercomplessa6 in cui i flussi di comunicazione si sovrappongono in un continuo
accavallarsi dialettico che fatica a pervenire ad una sintesi.
Da quanto sopra risulta evidente come il mondo delle imprese non possa ignorare gli
impatti che la tecnologia ha non solo sotto il profilo produttivo, elemento acquisito perché di
semplice quantificazione lineare, ma, soprattutto, sotto l’aspetto organizzativo. Da questo
punto di vista si è assistito, e ancora si assiste, ad un errore grossolano, ma nella cui tentazione
è assai facile cadere, di inversione logica tra mezzi e fini.
Se, infatti, appare oggi assodato che la tecnologia sia solo un insieme di protocolli
standard ed elettricità che serve per abilitare servizi di varia natura, e non un agire di per sé
dotato di senso e fine, rimane, in questa visione, il seme pericoloso del fraintendimento, e il
rischio di dotare di senso una piattaforma in quanto tale è ancora elevato. Questo perché
spesso la creazione di un protocollo tecnologico diventa la base insostituibile per realizzare e
dare concretezza ad una serie di processi che, altrimenti, semplicemente non sarebbero. Da
questa visione derivano una serie di impostazioni organizzative che anziché semplificare i
processi li iperstrutturano. La tecnologia come “addendum” organizzativo a cui adattare prassi
invalse, la nascita del “Digital Management” come nuova funzione organizzativa o, infine, la
riduzione dell’innovazione a mera modalità tecnica con fini specifici, sono tra i più diffusi
fraintendimenti organizzativi.
Prima di proporre una soluzione al problema è d’obbligo mettersi d’accordo sui termini
della questione e, in particolare, definire operativamente ciò di cui si sta trattando. Da un punto
di vista strettamente semantico con il termine di “tecnologia digitale” ci si riferisce, nel
linguaggio comune e in questo documento, a tutte quelle tecnologie che si basano o sulla
diffusione pervasiva tra gli utenti anche non specializzati, o che, pur riferendosi ad utenti
specifici, sono in grado di rendere accessibili una, o più, serie di informazioni prima quasi
impossibili da ottenere. Il rischio, espresso più sopra, di disaggregare le funzionalità prostetiche
della tecnologia digitale in favore di una tassonomia analitica dei singoli componenti perdendo,
così, la funzione sistemica propria delle piattaforme tecnologiche, porta a considerare queste
tecnologie come una sovrastruttura funzionale al modello di business precedente o, nella
migliore delle ipotesi, come una scorciatoia efficiente finalizzata alla proposta di nuovi prodotti
o servizi. Lo snodo logico di questo loop vertiginoso sta nel riconoscere l’essenza organizzativa
della comunicazione7 riscoperta sia nelle sue radici etimologiche, di cum-munus “ricompensa
comune”, che moderne quale funzione principale delle tecnologie digitali. In questo senso è
possibile sostenere che “digitale” è un modo di intendere l’organizzazione aziendale che si
6
Dominici, P., La comunicazione nella società ipercomplessa. Condividere la conoscenza per governare il mutamento.,
Franco Angeli, 2005.
7
Dominici, P., Comunicazione e produzione sociale di conoscenza: nuovi scenari per le organizzazioni complesse, in
“Rivista trimestrale di scienza dell’amministrazione, vol. III, anno 2013, Franco Angeli.
5. 5
radica, ampliandola, nella teoria dei sistemi organizzativi. Si tratta di una modalità interpretativa
della struttura organizzativa attraverso la quale rivedere completamente l’operare dell’impresa,
ed è per questo che qualsiasi interpretazione di tipo funzionale diventa riduttiva. Si tratta, in
fondo, di prendere coscienza delle caratteristiche ad un tempo sincretiche e fusive proprie delle
piattaforme digitali che, da un punto di vista strettamente sistemico, si estrinsecano in:
- Un trasferimento strutturato di informazioni dall’Offerta alla Domanda (riduzione delle
asimmetrie informative);
- Una semplificazione della struttura dei Canali (riduzione delle asimmetrie organizzative);
- Una gestione delle esternalità positive e negative (governo degli effetti prodotti
dall’ecosistema organizzativo).
Se, a questo punto, si incardinano le tecnologie digitali nella teoria dei sistemi
organizzativi, e nello specifico si inizia a parlare di ecosistema economico anziché di filiera,
diventa possibile sostenere che le caratteristiche strutturali di queste piattaforme sono in
grado di espletare i propri compiti anche in modo indipendente dai vincoli o dalle
sollecitazioni esterne. Questo perché i processi di apprendimento hanno natura continua e
iterativa, e quindi implicano azioni retrospettive e retroattive. Detto altrimenti la tecnologia
digitale ha vivificato la struttura organizzativa e non tanto attraverso una sua azione
istitutiva, quanto piuttosto per una elevatissima accelerazione dei processi di comunicazione
che sostengono altrettanti processi organizzativi.
A questo punto appare quanto mai necessario allargare la definizione di “ambiente”
riferendosi con ciò non solo a quanto è esterno all’azienda, ma incorporando nel lessema
anche le dinamiche interne. Da qui la necessità di riscrivere non solo le logiche di formazione
dei ricavi, viste come il risultato tra l’interazione di una struttura data con un ambiente
incerto, ma anche i modelli di creazione del valore, interpretati come continui scambi
bidirezionali tra due piattaforme eraclitee, la struttura organizzativa e l’ambiente esterno,
che agiscono in un contesto di simbiotico che non per questo ne annulla l’indipendenza.
6. 6
3. Il contesto organizzativo.
L’atto di organizzare ha in sé la volontà di ridurre la complessità in un insieme di casi
e procedure chiuse. Finchè la Società permetteva di essere vista per sezioni definite, e la
difficoltà era solo quella di identificarne i vettori di segmentazione, una visione strettamente
gerarchica della struttura era quanto di meglio si potesse progettare. Più le variabili
organizzative erano dettagliate, più era possibile definire una casistica precisa di risposte
semi automatiche per gestire i diversi momenti del reale, percepito come esterno, ignoto e,
spesso, ostile. Anche in quel contesto comunicare significava organizzare8 solo che, fino a
quindici anni fa, si era in presenza di un flusso di comunicazioni ordinato, sequenziale,
strutturato e alfabetico.
Il cambio del modello sociale, cui inevitabilmente è seguito quello comunicativo, non
ha reso meno vero il legame tra comunicazione e organizzazione, ma ne ha richiesto, e ne
richiede, una totale riscrittura. Ma, se è chiaro che il comunicare è comburente
dell’organizzare, e qui è richiesta un’attenzione tutta grammaticale perché ciò che è vero
per i verbi non può essere di per se stesso traslato con lo stesso contenuto di veridicità nei
corrispondenti sostantivi9, è importante definire bene quale sia la funzione fondamentale
dell’organizzare.
Simmetricamente all’equazione Comunicare=Organizzare, è possibile sostenere10
che Organizzare=Attribuzione di Senso (alle azioni e agli stimoli ricevuti). In altre parole,
organizzare “corrisponde a dare senso ai flussi di esperienza”11. Poiché ci muoviamo in un
sistema sociale sempre più destrutturato è evidente che l’attribuzione di senso, sostenuta
dai continui stimoli comunicativi, ha caratteristiche altrettanto aperte e, soprattutto,
istitutive del reale. Se, infatti, è vero che il “senso” può emergere quasi automaticamente
dal flusso di comunicazione, non altrettanto si può dire del “significato” che, invece, ha
natura abduttiva e, quindi, implica uno sforzo interpretativo, base del processo
gnoseologico dell’organizzazione.
Avrebbe, però, poco significato concentrare l’analisi sui meccanismi di
apprendimento interno trascurando le interazioni con l’ambiente esterno. È, infatti, sulla
base dei processi conoscitivi che l’organizzazione definisce le azioni nei confronti
dell’esterno, dell’altro da sé, che per effetto di queste è “attivato”12 (enacted) e che, di
conseguenza, diviene attante del processo di apprendimento.
Se è vero che “come posso sapere che cosa penso finchè non vedo che cosa dico?”13,
è altrettanto vero che gli attori del 21° secolo sono “sensation seekers”14 e, quindi,
richiedono un accoppiamento stretto tra vista e pensiero. La conseguenza è che devono
essere ripensati i meccanismi di coordinamento e di controllo dell’agire organizzativo. La
8
Dominici, P., Non solo tecnologia… complessità e imprevedibilità dei sistemi organizzativi, Il Sole24 Nova, 12.08.15.
9
Costa, G., Gubitta, P., Pittino, D., Organizzazione aziendale. Mercati, gerarchie e convenzioni, Mc Graw Hill, 2014.
10
Weick, K. E., Senso e significato nell’organizzazione, Raffaello Cortina, 1997.
11
Bartezzaghi, E., L’organizzazione dell’impresa, ETAS, 2010.
12
Weick, K. E., Processi di attivazione nelle organizzazioni, in Zan, S., “Logiche di azione organizzativa”, Il Mulino,
Bologna, 1998.
13
Arvidsson, A, Giordano, A, a cura di, Societing reloaded, Egea, 2013.
14
Fabris, GP., Societing, Egea, 2008.
7. 7
soluzione è nei “loose coupling”15, nei “legami deboli”, che garantiscono un’enciclopedia
cognitiva comune ma, contemporaneamente, lasciano ai processi di sintesi dialettica il
raggiungimento di una condivisione sociale di senso.
I vantaggi di un modello di controllo e coordinamento a legami deboli sono
evidenti16:
- Permette ai sotto-sistemi di un’organizzazione di perdurare nel tempo;
- È un sensibile meccanismo di percezione dell’ambiente;
- Facilita gli adattamenti locali a circostanze specifiche;
- Garantisce una maggiore adattabilità ai cambiamenti esterni;
- Permette di isolare un eventuale problema di un sotto-sistema;
- Facilita l’autonomia e l’autodeterminazione degli attori;
- Riduce le possibilità di conflitti, a vantaggio dei costi di coordinamento.
Si tratta, a questo punto, di inquadrare bene il percorso culturale che deve fare da
attivatore di processo. In un contesto economico in cui i beni hanno perso la loro materialità
per costituirsi come universo semiotico, le organizzazioni devono svincolarsi dal valore d’uso
dei processi per accentuarne le componenti di servizio. È il “Service Design Thinking” che,
con sempre maggiore insistenza, sta proponendosi come la nuova “Linea Mason-Dixon”: un
tratto di penna (di cultura d’impresa, in questo caso) che stabilisce non tanto una frontiera,
quanto piuttosto un confine.
15
Weick, K. E., Le organizzazioni scolastiche come sistemi a legame debole, in Zan, S., “Logiche di azione
organizzativa”, Il Mulino, Bologna, 1998.
16
Weick, K.E., Le organizzazioni scolastiche come sistemi a legame debole, in Zan, S., “Logiche di azione organizzativa”,
Il Mulino, Bologna, 1998.
8. 8
4. Il Service Design Thinking.
“If you would ask ten people what service design is, you would end up with eleven
different answers, at least.”17 Per fortuna, ai fini di questo lavoro, non occorre dare una
definizione precisa del “service design thinking”. Parlare, infatti, di competizione sui servizi
implica, quasi sempre, predisporsi mentalmente alla revisione dei rapporti tra impresa e
mercato, non dimenticando che “il servizio è sintassi organizzativa”18 prima ancora che
elemento di negoziazione.
Partendo, dunque, da una visione organizzativa dei servizi, e quindi impostata sull’analisi
dei processi interni alla struttura, è possibile iniziare a ripensare tutti i processi interni con
una logica completamente diversa. Non si tratta di vedere le diverse funzioni, o business
unit, come “clienti interni”, i cui rapporti sono regolati da politiche complicate di transfer
pricing, ma di intendere l’intera azienda come un mercato multilaterale, organizzato per
processi, nel quale, in base al contributo richiesto dal processo specifico alle singole
funzioni, si individuano parti sussidiate e parti sussidiarie. In altre parole, disegnare una
struttura organizzativa per definizione orientata al servizio significa concepire tutta l’azienda
come un insieme di ecosistemi interoperabili, e non più come una serie di funzioni
coordinate gerarchicamente.
Un mercato bilaterale, o multilaterale in questo caso, “is market thus roughly defined as
markets in which one or several platforms enable interactions between end-users and try to
get the two sides “on board” by appropriately charging each side”.19 Pertanto, da un punto
di vista metodologico, vedere la struttura organizzativa attraverso le lenti del service design
significa, per definizione, sostituire le piattaforme di competenze verticali con un flusso di
comunicazioni che interessa tutte le funzioni attanti il processo sottostante. Detto
altrimenti, la struttura organizzativa si flette al suo interno, raggruppando competenze
condivise e guardando all’efficienza del processo nel suo complesso, più che a quella della
funzione specifica (Fig.1).
17
AA.VV., This is service design thinking, BIS Publishers, 2017.
18
The European House-Ambrosetti, Service data driven, Working Paper del Service Forum 25.10.2017.
19
Carnevale-Maffè, C.A., Ruffoni, G., Two sided markets: models and business cases, Working Paper, SDA Bocconi
School of Management, Febbraio 2009.
F1
F2
F1
Fn
Fig. 1 Il Processo organizzativo
Processoorganizzativo
9. 9
Impostare la struttura in termini di processi permette di coordinare
l’organizzazione attraverso una serie di legami deboli che attribuiscono senso
all’agire d’impresa, sviluppando l’imprenditorialità latente degli attori, negoziando
continuamente il punto di equilibrio tra “efficienza economica ed efficacia
esperienziale”.20
Così progettata la struttura consente di esprimere molto bene le sinergie
olistiche dei sistemi e, nel particolare (Fig. 2):
o Gratificazione degli operatori che contribuiscono a dare un senso alle azioni che il
gruppo di lavoro svolge;
o Realizzazione di processi di educazione alla complessità dei fenomeni;
o Attuazione di meccanismi di controllo sociale diretti;
o Aumento delle economie di scopo: non basta “fare il proprio lavoro”, occorre che
tutti lo facciano.
Figura 2. I vantaggi di una struttura service designed.21
20
Zanardelli, R., in un interessante scambio di vedute su Linkedin.
21
AA.VV., This is service design thinking, BIS Publishers, 2017.
10. 10
5. HUB e gestione delle esternalità.
In una struttura organizzata per processi ad esecuzione simultanea, e non sequenziale,
ogni funzione è chiamata ad intervenire contemporaneamente, in misura diversa e con
modalità partecipative, a tutte le attività in esecuzione, secondo una logica di tempo reale
vero e proprio e non di time sharing.
Impostare un’organizzazione per processi, infatti, significa procedere come nella
programmazione “ad eventi” in cui, seguendo la logica fuzzy, un programma (processo)
probabilmente esegue un’operazione restando, poi, in attesa delle interazioni utente
(risposte funzionali) successive sulla base delle quali stabilire i passi operativi seguenti.
Sempre utilizzando la sintassi dell’ICT, in una struttura organizzativa impostata per
processi ogni singola funzione è un “oggetto” definito da:
a. Proprietà: open DB da scambiare;
b. Metodi: istruzioni operative e modalità di realizzazione.
In questo contesto, però, anche il singolo processo, che pure è intimamente connesso ad
un evento, va visto, a sua volta, come un oggetto definito da un insieme di dati (proprietà)
che scambia con l’esterno (cliente) e con l’interno (funzioni) e di protocolli operativi
(metodi). Non si tratta di immaginare una meccanizzazione dei processi, che per quanto
“intelligente” sarebbe sempre alienante, ma di facilitare le relazioni inter(intra)organizzative
incoraggiando scelte, e conseguenti assunzioni di responsabilità, personali. Su questo punto,
pur con finalità diverse, è intervenuto anche il Regolatore con la definizione di uno standard
(ISO 9241-210) che norma lo “human-centred design process for interactive systems” (già
ISO 13407). Si tratta, è vero, di una normativa che nasce al di fuori dell’ambito strettamente
organizzativo, ma che permette di ipotizzare la creazione di uno standard ISO-UNI anche per
i processi organizzativi di una struttura “service designed”. Il “design thinking”, in altre
parole, se condotto con rigore ed attenzione, non solo può, ma deve, uscire dall’ambito
oscuro di una sorta di subcultura oscillante tra contesti Nerd e neo-bohemien propri di una
visione romantica, ma completamente decontestualizzata, dei processi di innovazione, per
rivendicare il proprio diritto ad essere considerato espressione razionale di una rilettura in
chiave moderna dei processi aziendali nel loro complesso.
Avere abbandonato una struttura lineare, basata sulla logica classica e su meccanismi di
coordinamento e di controllo gerarchici, in favore di un’impostazione fuzzy, gestita da loose
coupling e fortemente adattiva, pone due ordini di problemi:
a. Il recupero di efficienza;
b. Il mantenimento dell’efficacia.
Per quanto riguarda il recupero di efficienza è importante avere ben chiaro che “Quando
si ricerca l’efficienza, la strada più semplice è la riduzione dei costi. Non solo è la via più
semplice, ma dà ritorni immediati. Nel “service” la strada della riduzione dei costi non solo è
la meno nobile, ma anche quella che assicura il risultato peggiore nel lungo termine ed è
11. 11
garanzia di perdita nella qualità del servizio erogato.”22 Ne deriva che in un’organizzazione
service designed il recupero dell’efficienza va impostato non tanto sulla riduzione dei costi,
quanto piuttosto su un ripensamento dei processi finalizzato all’automazione delle attività a
basso valore aggiunto.
Mantenere l’efficacia in una struttura per definizione vocata alla serendipità è un
compito a cui va dedicata la massima attenzione, perché il rischio è che l’intera
organizzazione sfugga di mano finendo con il “parlare d’altro”. Ed è proprio nei meccanismi
regolatori di questo “parlare” organizzativo che si trova la soluzione al bilanciamento tra
necessità economiche (efficienza) ed esperienziali (efficacia). La soluzione ai problemi di
efficienza e di efficacia va ricercata nella realizzazione di un HUB che funga da comburente
dei processi organizzativi, interpretati come vere e proprie piattaforme di servizi.
Così definito, l’HUB diventa il luogo di transito più efficiente dei flussi informativi
interfunzionali che trovano il loro completamento nei processi che li integrano, attribuendo
loro il senso dell’agire organizzativo. Se, infatti, vediamo l’intera organizzazione come un
mercato multilaterale ad alta produzione di esternalità, in cui vale l’equazione
Comunicare=Organizzare, l’HUB ha la funzione di distribuire efficientemente le
comunicazioni e, proprio per questo, di esercitare un presidio fondamentale sull’efficacia dei
singoli processi afferenti; in sintesi l’HUB è una piattaforma dotata di intelligenza artificiale
(AI). I motivi che spingono verso lo sviluppo e l’utilizzo di una piattaforma di AI per attivare e
gestire i processi organizzativi derivano dalle caratteristiche costitutive della piattaforma
stessa.
Il primo attributo è l’efficienza intesa, contemporaneamente, come:
1. Potenza di calcolo e scalabilità, entrambe garantite da una gestione in cloud;
2. Velocità operativa e capacità di gestire la complessità, garantite dagli algoritmi nativi.
La velocità e il volume, infatti, delle interazioni interne ed esterne sono tali, anche in
organizzazioni relativamente semplici, da richiedere continui supporti (Fig. 3)23.
22
The European House-Ambrosetti, Service data driven, Working Paper del Service Forum, 25.10.2017.
23
Gigante, F., IBM® Cloud and Cognitive, Working Paper Aprile 2018.
12. 12
La seconda caratteristica è la capacità di gestire le esternalità prodotte dal sistema.
L’ecosistema organizzativo, per il solo fatto di funzionare, crea interrelazioni e, nel
comunicare, può accrescere o distruggere conoscenze. Il controllo di questi “processi
laterali” si sostanzia nel governo delle esternalità. Le esternalità possono essere cross side
che, nel caso in esame, si identificano con i flussi informativi interfunzionali, che transitano
attraverso l’HUB, e che divengono patrimonio del processo a cui si riferiscono (fig. 4), o
same side che sono costituite dai flussi informativi intrafunzionali che, transitando
attraverso l’HUB, ritornano all’emittente con un contenuto informativo arricchito (Fig.5).
Figura 3. La distribuzione delle richieste e gli stati di attenzione.
Figura 4. La struttura delle esternalità cross side
13. 13
La gestione delle esternalità si fonda sull’analisi dei parametri di rilevanza e
attenzione. L’eliminazione delle ridondanze informative, il traffico di broadcasting nel gergo
delle reti, è funzione dell’efficienza dell’HUB. In questo caso, la rilevanza è data dalla
frequenza informativa della funzione organizzativa ponderata per l’importanza di
quest’ultima nel completamento del processo; l’attenzione è misurata dalla velocità con cui,
all’interno della funzione, si espleta il compito affidato. Precisamente, la rilevanza genera
esternalità cross side, l’attenzione same side.
Il terzo elemento dell’HUB è la neutralità intesa come “when end users on the two
sides of the market act independently”.24 Questa definizione permette di sottolineare due
aspetti importanti:
1. Nella struttura proposta gli “end users” non sono solo i terzi esterni, ma anche, e
soprattutto, i componenti dell’organizzazione. In questo contesto il nuovo B2C è
il B2B perché la scommessa non è replicare un “modello fordista 4.0”, ma
attivare (enact) 25ambienti, situazioni e intelligenze diffuse e condivise. Solo così
l’organizzazione aziendale può divenire stimolo di crescita dell’impresa.
2. L’indipendenza delle azioni ha necessità di coordinamento, non di coercizione.
Questo significa che il controllo assomiglia assai più ad una maieutica
organizzativa che al monologo del sergente Gerheim26. Quello che si perde in
tempo di coordinamento lo si recupera nella partecipazione e nella passione
all’esecuzione dei compiti assegnati.
Il quarto componente dell’HUB è costituito dalla capacità di integrare due dei tre
ordini di controlli27 e, precisamente quelli di:
- Secondo ordine, definiti dalle procedure e dai programmi di routine;
24
Carnevale-Maffè, C.A., Ruffoni, G., Two sided markets: models and business cases, Working Paper, SDA Bocconi
School of Management, Febbraio 2009.
25
Weick, K. E., Processi di attivazione nelle organizzazioni, in Zan, S., “Logiche di azione organizzativa”, Il Mulino,
Bologna, 1998.
26
Hasford, G., Nato per uccidere, Bompiani 1987.
27
Spina, A., Senso e significato nell’organizzazione, UniSalerno, 2006.
Figura 5. La struttura delle esternalità same side.
14. 14
- Terzo ordine, relativi ai controlli sulle premesse e che rappresentano il punto di contatto
tra decisioni organizzative e attribuzione di senso alle azioni;
lasciando, e questo è un aspetto importante, quelli di primo ordine, pertinenti alla
supervisione diretta, all’intervento umano.
15. 15
6. La nascita di Cognitive Operation Assistant (COA): una proposta concreta.
Basata su tecnologia IBM Watson, COA è una piattaforma di dialogo che permette, attraverso
l’utilizzo del linguaggio naturale, di interagire automaticamente con software ERP utilizzando
differenti modalità di accesso e diverse tipologie di dispositivi.
COA è, quindi, una proposta concreta di HUB, così come prospettato più sopra, che,
attraverso una gestione efficiente del flusso di informazioni, riduce la latenza organizzativa ed
attiva processi di diffusione delle responsabilità operative in un’ottica di processo e non di
funzione (Fig.6). Il presupposto progettuale di COA è quello di riscrivere le modalità di
interazione tra Uomo e Macchina, realizzando un wetware interoperabile e aperto.
Figura 6: Architettura di COA.
Al momento gli ambiti applicativi di COA sono stati circoscritti a (Fig. 7):
Figura 7: Le skill di COA.
Per esemplificare le modalità operative di COA si è scelto un caso di resa merce piena da
parte di un cliente. Il caso è interessante perchè:
1. Coinvolge diverse funzioni, in questo caso sono interessate:
16. 16
a. Il customer care,
b. La logistica in e out bound,
c. La direzione vendite.
2. è semplice e utilizzato frequentemente, così da non cadere nell’eccezionalità creata ad
usum proprium. La frequenza, poi, permette di testare la gestione della distribuzione di
richieste (cfr. fig.3).
3. è diffuso, possiede i requisiti di scalabilità e non è proprio di una specifica attività o
settore.
4. Presenta sufficiente complessità da avere tempi di attraversamento organizzativo
farraginosi e modalità di comunicazione in linguaggio naturale e, quindi, destrutturato.
5. Ha un alto valore aggiunto sia per il front end (clienti) che per il back end (struttura)
organizzativi.
6. Presenta una, o più, funzioni automatizzabili.
7. è interoperabile con qualsiasi sistema gestionale completo.
Le piattaforme utilizzate sono state:
1. IBM® Watson® per l’HUB di AI,
2. Gnosis®, ERP su base SmeUp® per il software gestionale.
Gli archivi interessati alla gestione del processo sono stati:
1. Anagrafico clienti;
2. Scadenzario clienti completo e a partite;
3. Anagrafico del magazzino prodotti finiti;
4. Anagrafico venditori;
5. Situazione in tempo reale della giacenza del magazzino prodotti finiti;
6. Archivio bollefatture emesse;
7. Archivio ordini a fornitori in corso.
La descrizione operativa analitica di un processo di reso merce è riassunta nella Fig. 8:
Figura 8: Analisi del processo di resa merce piena o non conforme.
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L’obiettivo di COA è quello di rendere più fluido il flusso informativo
- Rispettando tutti i controlli (parametrizzabili dall’utente),
- Interrogando il sistema gestionale partendo da un testo naturale,
- Mantenendo l’univocità residenziale degli archivi operativi.
In sintesi quanto rappresentato in Fig. 9 che riassume bene le interazioni tra COA e le singole
funzioni interessate al processo:
Figura 9: Interazioni tra COA e sistema gestionale per le verifiche di congruità della richiesta.
Da un punto di vista wetware, e quindi delle interazioni con l’utente, in Figg.10 e 11 sono
riportati gli screenshot del dialogo gestito con due diverse modalità di accesso: mail e mobile.
Figura 10: Interazione COA-Utente via mail
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Figura 11: Interazione COA-Utente via mobile.
In chiusura non resta che cercare di misurare i benefici strutturali indotti da COA. Le
misurazioni che seguono vogliono essere una prima serie di proxy quantitative per dare conto
dell’efficienza e dell’efficacia procedurale di COA. In questa sede, anche per la mancanza di
rilevazioni consistenti, non si è stati in grado, per contro, di definire i parametri afferenti agli impatti
organizzativi.
La Fig. 12 evidenzia i risultati raggiunti in termini di corretto compimento del processo nel
suo complesso e, di conseguenza, può essere presa come base per definire anche una nuova serie
di parametri di incentivazione non più vincolati alla corretta esecuzione della funzione, bensì al
buon fine dell’intero processo.
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7. Conclusioni.
Giunti in chiusura non resta che provare a ricondurre a sistema i principali spunti di
riflessione emersi in questo studio, consapevoli che sarebbe velleitario anche solo pensare
di aver trattato l’argomento in maniera esaustiva.
Una prima considerazione riguarda la fattibilità. Pur prendendo in esame un
processo apparentemente banale, ma molto diffuso e con pesanti ripercussioni sulla
reputazione aziendale, si è dimostrato che esiste la possibilità di integrare protocolli basati
su AI e processi gestionali interni. L’aver realizzato un caso concreto, però, ha implicazioni
che vanno oltre la singola messa in gestione e, nello specifico, permettono di:
1. Ipotizzare un’estensione a tutti i diversi processi già oggi espressi in linguaggio
naturale;
2. Destrutturare le comunicazioni Uomo-Macchina passando da videate di sistema,
che prevedono un periodo di istruzione, a interazioni in linguaggio naturale
abbattendo i costi di apprendimento (aumento dell’efficienza);
3. Sviluppare piattaforme di apprendimento e di sviluppo di competenze interne,
fluidificando i passaggi del “sapere professionale” (aumento dell’efficacia).
Una seconda riflessione va fatta sulla natura dell’HUB. Vedere, infatti, l’HUB come un
chatbot interno significa non cogliere a fondo la natura di comburente processuale che,
nell’ipotesi organizzativa proposta, ne costituisce la caratteristica fondamentale. Impostare
un’organizzazione per processi, e non per funzioni, significa immaginare l’azienda come un
mercato multilaterale che, per funzionare, ha bisogno di una piattaforma efficiente di
gestione delle comunicazioni; cioè un HUB basato su protocolli di AI (fig. 13)28.
28
Gigante, F., IBM® Cloud and Cognitive, Working Paper Aprile 2018.
Figura 13: L’HUB di una struttura organizzata per processi.
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La terza conclusione, che deriva da quanto sopra e che è propria di una visione
“service design”, ha come conseguenza quella di interpretare l’interazione organizzativa
come la nuova frontiera del B2C. Riuscire, infatti, ad impostare processi che presuppongano
meccanismi di coordinamento fortemente decentrati, cercando di interfacciare quanto più
possibile la complessità del reale, significa lasciare che l’attribuzione di senso dell’agire
organizzativo sia opera dei sottosistemi strutturali e, in ultima analisi, dei singoli operatori.
Esattamente come avviene nel mercato, dove l’ultimo arbitro è il clienteconsumatore.
Vedere negli scambi B2B la nuova frontiera del B2C significa rovesciare i concetti cardine di
progettazione organizzativa, accettando che la complessità non possa essere ridotta ad una
casistica ordinata gerarchicamente, ma debba riferirsi a soluzioni aperte governate da
consapevolezza e responsabilità individuali; concetto che, va sottolineato, è diverso
dall’anomia, o dall’anarchia, organizzativa.
Un quarto spunto di riflessione è legato all’impostazione organizzativa per processi.
Focalizzare l’attenzione sui processi, anziché sulle funzioni, permette di aumentare le
interazioni con l’ambiente esterno, che diventa parte sussidiata di un mercato multilaterale
promosso dall’organizzazione stessa attraverso l’HUB, senza cadere nell’autoreferenzialità
Fig. 4). In altri termini, è possibile immaginare che l’interesse della struttura sarà quello di
aumentare il numero di processi, coinvolgendo le terze parti esterne (stakeholders in senso
lato) nel contribuire fattivamente al miglioramento continuo delle prestazioni aziendali.
Questo passaggio, che è culturale prima che tecnico, ripropone la necessità di sviluppare un
“Service Design Thinking” organizzativo che parta dalle basi della struttura per poi, seguendo
i processi, coinvolga il mercato. In questo senso l’allargamento delle competenze coinvolte
nei vari processi diventa la base per sviluppare una dinamica organizzativa effettivamente
orientata al servizio, in cui il prodotto fisico diventa un accessorio funzionale il cui valore è
anzitutto esperienziale. In altri termini, si tratta di prendere consapevolezza che le
performance di un’azienda dipenderanno anche, e sempre di più, dalla qualità dei suoi
algoritmi più che dalle classi di resistenza dei suoi bulloni, la cui efficienza è data per
scontata.
L’integrazione dell’AI nelle organizzazioni può diventare un elemento di
semplificazione nel percorso di avvicinamento ad una logica di “service”. Il presente
documento vuole da un lato dare un contributo operativo, dimostrando che la strada è
percorribile, dall’altro sollecitare la discussione su un tema che, a parere di chi scrive,
rappresenta una delle questioni più importanti su cui le aziende dovranno confrontarsi nel
prossimo futuro.
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