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GIACOMO LEOPARDI
LE FASI DEL
PESSIMISMO
LEOPARDIANO
IL PESSIMISMO DI
LEOPARDI
Il pessimismo filosofico di Leopardi ha le sue origini nel materialismo del Settecento
(d'Holbach, sensismo di Condillac) derivato diretto dal razionalismo propugnato
dall'illuminismo, dall'atomismo greco e dal pessimismo mostrato da alcuni autori
antichi, come Omero e Lucrezio, con qualche influsso del romanticismo.
Il pessimismo filosofico
Il pessimismo storico.
Leopardi con gli anni allarga la sua riflessione, tendendo a valutare che la felicità degli altri è
solo apparente, che la vita umana non ha uno scopo per il quale valga la pena di lottare, e
che tutti gli uomini sono condannati all'infelicità terrena. Afferma che essi vivevano in uno
stato di felicità, per quanto illusoria, solo nell'età primitiva, quando vivevano nello stato di
natura, non condizionati dall'incivilimento dovuto alla ragione, ma vollero uscire da questo
stato di beata ignoranza per mettersi alla ricerca del vero. La ragione fece evolvere l'uomo e
rivelò la vanità delle pie illusioni, scoprì il male, il dolore e l'angoscia.
Esso presenta alcune analogie con il contemporaneo pensiero di Schopenhauer e con
l'esistenzialismo successivo, a partire da Nietzsche, anche per la ricerca di un senso
nascosto dell'esistenza, che pure è avvertito come inesistente, la sfida titanico-romantica al
Fato in nome della propria nobiltà intellettuale e d'animo, e la sensibilità acuta per la
precarietà e la fragilità dell'essere umano, dei viventi preda di una feroce selezione
naturale, e in generale di ogni cosa esistente.
IL PESSIMISMO INDIVIDUALE
Il pessimismo individuale prende forma quando Leopardi, fin da
piccolo, si sente privo della gioia di vivere che vede negli altri.
Questa contrapposizione emerge, ad
esempio, nel canto La sera del dì di festa
Le esperienze dell'adolescenza e della
prima giovinezza lo conducono a pensare
che la vita sia stata spietata con lui, ma
che altri possono essere felici
(pessimismo personale o soggettivo,
detto anche pessimismo psicologico).
La natura in Leopardi
«La natura non ci ha solamente dato il desiderio della felicità, ma il bisogno; vero bisogno,
come quel di cibarsi. Perché chi non possiede la felicità, è infelice, come chi non ha di che
cibarsi, patisce di fame. Or questo bisogno ella ci ha dato senza la possibilità di
soddisfarlo, senza nemmeno aver posto la felicità nel mondo. Gli animali non han più di
noi, se non il patir meno; così i selvaggi: ma la felicità nessuno.» (Zibaldone)
Il pessimismo è "cosmico" perché
il dolore colpisce ogni essere vivente,
comprese piante e animali.
IL PESSIMISMO COSMICO
Il nichilismo leopardiano
«Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.»
(A se stesso, vv. 9-10)
I CANTI PISANO-RECANATESI O GRANDI IDILLI (1828-1830)
Dopo alcuni anni di silenzio poetico
Leopardi, durante il soggiorno a Pisa
nella primavera del 1828, riprese a
comporre versi. La nuova fase
creativa continua anche dopo il
ritorno a Recanati e dà vita ad
alcune delle liriche più profonde e
significative di Leopardi.
La poetica espressa in queste poesie
è ancora idillica, e la forma usata è la
canzone libera, composta da un
numero vario di strofe di diversa
lunghezza, in cui settenari ed
endecasillabi si alternano senza
seguire uno schema predeterminato,
come pure le rime e le assonanze.
La teoria del piacere
La teoria del piacere, derivata dal sensismo degli illuministi
francesi, nonché proveniente da Lucrezio ed Epicuro, sostiene
che l'uomo nella sua vita tenda sempre a ricercare un piacere
infinito come soddisfazione di un desiderio illimitato. Esso
viene cercato soprattutto grazie alla facoltà immaginativa
dell'uomo che può concepire le cose che non sono reali.
Questo pensiero trova massima espressione ne «L’infinito».
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma, sedendo e mirando, interminati
spazi di lá da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Cosí tra questa
immensitá s’annega il pensier mio;
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
L’infinito

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  • 3. IL PESSIMISMO DI LEOPARDI Il pessimismo filosofico di Leopardi ha le sue origini nel materialismo del Settecento (d'Holbach, sensismo di Condillac) derivato diretto dal razionalismo propugnato dall'illuminismo, dall'atomismo greco e dal pessimismo mostrato da alcuni autori antichi, come Omero e Lucrezio, con qualche influsso del romanticismo. Il pessimismo filosofico
  • 4. Il pessimismo storico. Leopardi con gli anni allarga la sua riflessione, tendendo a valutare che la felicità degli altri è solo apparente, che la vita umana non ha uno scopo per il quale valga la pena di lottare, e che tutti gli uomini sono condannati all'infelicità terrena. Afferma che essi vivevano in uno stato di felicità, per quanto illusoria, solo nell'età primitiva, quando vivevano nello stato di natura, non condizionati dall'incivilimento dovuto alla ragione, ma vollero uscire da questo stato di beata ignoranza per mettersi alla ricerca del vero. La ragione fece evolvere l'uomo e rivelò la vanità delle pie illusioni, scoprì il male, il dolore e l'angoscia. Esso presenta alcune analogie con il contemporaneo pensiero di Schopenhauer e con l'esistenzialismo successivo, a partire da Nietzsche, anche per la ricerca di un senso nascosto dell'esistenza, che pure è avvertito come inesistente, la sfida titanico-romantica al Fato in nome della propria nobiltà intellettuale e d'animo, e la sensibilità acuta per la precarietà e la fragilità dell'essere umano, dei viventi preda di una feroce selezione naturale, e in generale di ogni cosa esistente.
  • 5. IL PESSIMISMO INDIVIDUALE Il pessimismo individuale prende forma quando Leopardi, fin da piccolo, si sente privo della gioia di vivere che vede negli altri. Questa contrapposizione emerge, ad esempio, nel canto La sera del dì di festa Le esperienze dell'adolescenza e della prima giovinezza lo conducono a pensare che la vita sia stata spietata con lui, ma che altri possono essere felici (pessimismo personale o soggettivo, detto anche pessimismo psicologico).
  • 6. La natura in Leopardi «La natura non ci ha solamente dato il desiderio della felicità, ma il bisogno; vero bisogno, come quel di cibarsi. Perché chi non possiede la felicità, è infelice, come chi non ha di che cibarsi, patisce di fame. Or questo bisogno ella ci ha dato senza la possibilità di soddisfarlo, senza nemmeno aver posto la felicità nel mondo. Gli animali non han più di noi, se non il patir meno; così i selvaggi: ma la felicità nessuno.» (Zibaldone) Il pessimismo è "cosmico" perché il dolore colpisce ogni essere vivente, comprese piante e animali. IL PESSIMISMO COSMICO
  • 7. Il nichilismo leopardiano «Amaro e noia La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.» (A se stesso, vv. 9-10)
  • 8. I CANTI PISANO-RECANATESI O GRANDI IDILLI (1828-1830) Dopo alcuni anni di silenzio poetico Leopardi, durante il soggiorno a Pisa nella primavera del 1828, riprese a comporre versi. La nuova fase creativa continua anche dopo il ritorno a Recanati e dà vita ad alcune delle liriche più profonde e significative di Leopardi. La poetica espressa in queste poesie è ancora idillica, e la forma usata è la canzone libera, composta da un numero vario di strofe di diversa lunghezza, in cui settenari ed endecasillabi si alternano senza seguire uno schema predeterminato, come pure le rime e le assonanze.
  • 9. La teoria del piacere La teoria del piacere, derivata dal sensismo degli illuministi francesi, nonché proveniente da Lucrezio ed Epicuro, sostiene che l'uomo nella sua vita tenda sempre a ricercare un piacere infinito come soddisfazione di un desiderio illimitato. Esso viene cercato soprattutto grazie alla facoltà immaginativa dell'uomo che può concepire le cose che non sono reali. Questo pensiero trova massima espressione ne «L’infinito».
  • 10. Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma, sedendo e mirando, interminati spazi di lá da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo; ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Cosí tra questa immensitá s’annega il pensier mio; e il naufragar m’è dolce in questo mare. L’infinito