2. I CLIENTI ASIATICI NONVOGLIONO SOLO
IL MARCHIO, SONO DIVENTATI PIÙ COMPETENTI
DOPPIA SFIDAC’È IL MOMENTO GIUSTO PER CAMBIARE STRADA
E INVESTIRE SOLO SU SE STESSI. ESISTE UN TEMPO
IN CUI DEDICARSI COMPLETAMENTE A UN CLIENTE
E UNO PER INSEGUIRE L’INNOVAZIONE, ANCHE
IN UN SETTORE IPERTRADIZIONALE. LO SANNO BENE
LE SIGNORE DELL’OROLOGERIA MILANESE,
IL CUI MOTTO È: «NON FERMARE MAI LE LANCETTE»
DI FRANCESCO PERUGINI
U
n 2015 da incornicia-
re, con numeri forse irri-
petibili tra l’effetto Expo
e altre congiunture fa-
vorevoli. Il 2016 comin-
ciato con l’apertura di un nuovo straor-
dinario negozio, sempre nel salotto buo-
no della milanese via PietroVerri (al civi-
co 7). E ora il progetto “natalizio” di una
nuova importante boutinque – la secon-
da più grande d’Europa di Patek Philippe
– per iniziare al meglio un 2017 che pre-
vede anche il rilancio della storica botte-
ga, dove nel 1940 è iniziata l’avventura
di Pisa Orologeria. «L’importante è non
fermarsi mai», dicono Maristella – presi-
dente ed erede del fondatore Ugo, scom-
parso nel 1971 – e la figlia Chiara, attua-
le direttore generale dell’azienda. Insie-
me, nel 2012, hanno raccolto la sfida di
proseguire da sole nell’attività di famiglia,
quando la zia di Chiara ha deciso di la-
sciare l’attività.
Quali sono le impressioni dal nuovo pre-
stigioso osservatorio? Qual è stata la rea-
zione della clientela alla novità?
MARISTELLA: Dal 1940 questa via è
casa mia: per la nostra attività è stato fon-
damentale essere qui, dove dagli anni 60
si forma il gusto e si respirano le tenden-
ze internazionali. Questa struttura era il
sogno della mia vita, ci permette di se-
guire al meglio il cliente, anche se deve
andare solo nel reparto assistenza per un
cambio di cinturino. All’estero ho visto
il personale dei negozi focalizzato sulla
“missione della vendita”, noi preferiamo
dare valore al cliente: accompagnarlo,
consigliarlo, capirne le esigenze. Lascia-
re un buon ricordo, magari anche senza
concludere un affare, è importante per-
ché il passaparola è uno dei veicoli più
importanti nel nostro settore.
Ci vuole coraggio per pianificare investi-
menti così importanti in un periodo del
genere. Qual è il quadro del mercato at-
tuale in piena crisi asiatica? E come stan-
no cambiando gli acquirenti?
M: C’è stata una grande euforia a parti-
re dal 2012, e anche noi ne abbiamo be-
neficiato. Le case hanno investito mol-
to, creando una concentrazione esage-
rata. Non appena ha frenato Hong Kong,
trait d’union col mercato cinese, è suben-
trata la paura e tutti hanno rallentato, ma
era troppo tardi.
CHIARA: Non tutto è negativo, però. Par-
lando ancora di Cina, che per noi è un
mercato di riferimento, fino a pochi anni
fa i turisti chiedevano solo «un Patek», il
marchio, mentre ora sono più preparati.
Noi speriamo che si diffonda sempre di
più la cultura dell’orologio: uno straniero
che arriva con la foto del modello prefe-
rito sul telefonino sminuisce il nostro la-
voro, che è quello di informarlo, di pro-
porgli un confronto di valore. In genera-
le, c’è anche una maggiore attenzione ai
prezzi: lo sanno i clienti, ce ne siamo ac-
corti noi negozianti, ma le aziende mani-
fatturiere non lo hanno ancora compreso.
È complicato il rapporto con le case?
M: Fino agli anni 90 esisteva il rappre-
sentate, che veniva con la propria marca
e dettava un po’ tutto, ma instaurava an-
che un rapporto fiduciario. Quella figu-
ra è stata sostituita da una struttura com-
plessa, che prende ordini dalla holding,
interessata – ovviamente – più ai numeri
che alla qualità del risultato. Ci sono sta-
te anche riduzioni di marginalità: doveva-
no arginare il problema della scontistica,
con cui lottiamo dagli anni 60, ma non è
stato così. Con un’organizzazione del ge-
nere, noi dobbiamo garantirci il giusto ri-
torno economico, mentre realtà più pic-
cole, a conduzione famigliare, possono
fare politiche di prezzo differenti.
C: Dal 2009, con il massiccio arrivo di
clienti stranieri, è cambiato un po’ tut-
to. A mutare è stato soprattutto il rappor-
to con i fornitori: prima ognuno faceva il
proprio mestiere, oggi loro si propongono
anche come dealer attraverso catene mo-
nomarca. Mi spaventa questa volontà di
scavalcare i rivenditori, che in fondo sono
quelli che li hanno fatti grandi. Trattiamo
con delle potenze enormi, e la parola di
una persona può distruggere decenni di
lavoro. C’è dunque una tensione costan-
te, ma che aiuta anche a non sedersi.
Pur in un mondo tradizionale, dal sapore
antico e artigianale, state scommettendo
molto sull’innovazione. È questo il segre-
to per rimanere “puntuali”?
C: Stiamo lavorando su molti fronti per ri-
spondere alle nuove esigenze. Uno dei
progetti più importanti è quello di un ser-
vizio di vendita online assistita tramite vi-
deoconferenza. Comprare sul web è co-
modo, ma non è detto che non neces-
siti di un contatto umano. Noi cerchia-
mo di rispondere a questa esigenza va-
lorizzando il nostro personale. E poi stia-
mo aprendo ai contenuti multimedia-
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3. BP
li: i video dell’orologeria sono bellissimi,
ma spesso li vediamo solo noi operatori
durante le fiere. Quando diamo la possi-
bilità di scoprirli alle persone, rimangono
estasiate perché capiscono che cosa c’è
dentro quello che comprano. Lavoriamo
con soddisfazione anche sui social, che
ci portano il 30% degli accessi al sito. La
parte più complicata, su Facebook e In-
stagram, è fare qualcosa di originale, ma
– da italiani – abbiamo la fortuna di es-
sere naturalmente più attraenti degli altri.
Inoltre, offriamo servizi in-store: cassette
di sicurezza, un’ampia offerta di paraolo-
geria (sveglie, pendole ecc.), un archivio
di libri antichi a disposizione degli stu-
denti che preparano la tesi di laurea. Cer-
chiamo, infine, anche nuovi marchi
e stiamo provando ad avvicinarci in
modo originale alla gioielleria: il primo
passo è stato il lancio di una linea di pre-
ziosi ispirati al tema delle lancette.
La scommessa per il futuro è far appas-
sionare i giovani, i nativi digitali, all’oro-
logeria meccanica. Come si fa?
C: Gli stranieri che comprano da noi
hanno un’età media di 35 anni, gli italia-
ni molto di più. Forse c’è l’idea che l’oro-
logio si possa “rubare” ai genitori, o che
ormai sia superfluo. Noi proponiamo,
proprio per il nostro stile informale, dei
finanziamenti per gli under 35, di cui ci
accolliamo le commissioni. Organizzia-
mo anche eventi nei punti vendita, abbia-
mo aperto il nostro mondo alle universi-
tà e ai master e organizziamo visite nelle
manifatture. Ricordiamoci poi che l’oro-
logeria è il settore con il maggior nume-
ro di sponsorizzazioni, soprattutto nel-
lo sport, con Rolex, Breitling o Tag Heuer:
un investimento che va valorizzato.
Ma l’orologio da polso è ancora simbolo
di eleganza? A volte si ha l’impressione
che sia ormai un bene da nascondere…
M: Un tempo l’orologio da polso era
un’eredità o la celebrazione di un’occa-
sione, personale o sociale, da ricordare.
Quando riaprì la Scala dopo i bombarda-
menti, ci fu una corsa all’acquisto per po-
ter sfoggiare gli ultimi modelli a teatro. In
quegli anni, però, l’accessorio era un og-
getto importante per se stessi, serviva a
mostrare il proprio gusto. Proprio come
un’opera d’arte in casa: a molti sfugge,
ma chi la riconosce l’apprezza. Poi c’è
stata una fase storica in cui è diventato
status symbol da ostentare, e proprio in
quel periodo sono nati i fenomeni della
falsificazione e del riciclaggio. Ora, for-
tunatamente, stiamo tornando un po’ in-
dietro: la prova è la rinascita dell’acciaio,
che è meno attrattivo per la massa, ma è
apprezzato da chi sa che il valore si na-
sconde nel movimento e nel design.
Parlando di generazioni, com’è stato
l’avvicendamento in un’azienda dalla vo-
cazione maschile, ma divenuta da tempo
una storia tutta al femminile?
M: Da mio padre ho imparato la pas-
sione, il servizio al cliente, l’attitudine a
guardarsi in giro per cogliere le tendenze.
Con mia sorella abbiamo portato avanti
insieme la tradizione, lasciando però im-
mutato il nome Fratelli Pisa: non voleva-
mo stravolgere qualcosa che funzionava,
abbiamo fatto fatica persino ad ammo-
dernare il logo. Ora è bellissimo lavora-
re con Chiara. Sin da piccola sapeva as-
sumersi le sue responsabilità, senza che
nessuno glielo chiedesse.
C: Adolescenza a parte (ride), il rapporto
con mia madre non è stato mai conflit-
tuale. Mi ha sempre lasciato molta auto-
nomia, a differenza di quanto capita ad
amici e colleghi che, in un mondo co-
stellato di realtà famigliari, anche a 50
anni e oltre sentono ancora il fiato sul
collo dei genitori. Senza fiducia recipro-
ca, non avremmo potuto intraprendere
quest’avventura.
Dando per assodata la fiducia, quali
sono gli ingredienti di un’impresa fami-
gliare di successo?
M: La coesione. Quando mia sorella si
è ritirata, Chiara si è mostrata subito en-
tusiasta e quella è stata per me la spin-
ta maggiore. Magari vendendo l’attività ci
saremmo arricchite di più, ma ci tenevo a
tramandarle qualcosa.
C: La flessibilità per adattarsi ai cambia-
menti del mercato, ai quali noi rispon-
diamo più in fretta. Abbiamo la fortuna
di poter dare libertà di iniziativa ai colla-
boratori, anche se poi nei momenti criti-
ci mancano delle procedure standardiz-
zate di aiuto.
Serve anche un’affinità di carattere?
Quanto c’è di Maristella in Chiara?
M: In mia figlia rivedo la mia gioia di vi-
vere, l’ottimismo, la capacità di affronta-
re le difficoltà senza drammatizzare. Ho
capito di averle trasmesso questi valori
quando abbiamo subito una rapina: non
appena è finita, l’ho trovata già all’opera
per rasserenare i collaboratori, mentre io
preparavo la camomilla.
C: Da piccola ero più simile a mio pa-
dre: chiusa, lunatica. Oggi somiglio di
più a lei, sono diventata ottimista. Cre-
do di aver imparato soprattutto a non
essere impulsiva nelle situazioni delica-
te. Bisogna sempre prendersi un po’ di
tempo, per non rischiare di dire una pa-
rola sbagliata che potrebbe essere inter-
pretata male.
PUNTIAMO SU UN ECOMMERCE
“ASSISTITO”: ANCHE SUL WEB C’È
BISOGNO DI CONTATTO UMANO
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