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Diritti e rovesci delle biblioteche digitali. Giornata di studio in ricordo di Marco Marandola
                          Napoli, Università degli studi di Napoli "Parthenope", Villa Doria D'Angri
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Creazione, condivisione, diritti: gli strumenti per una cultura partecipativa

Virginia Gentilini
http://nonbibliofili.splinder.com/




L'intervento intende riassumere l'evoluzione dei modi della produzione culturale a partire dalle
comunicazioni di massa fino alla produzione partecipativa resa possibile dagli strumenti di
tecnologia digitale di massa e la condivisione consentita dallo sviluppo del Web 2.0. Il modello
dello spettatore passivo novecentesco risulta superato con effetti importanti sulla definizione
stessa di alfabetismo (Henry Jenkins). L'assetto attuale della normativa sul diritto d'autore
ostacola i modi della produzione contemporanea di cultura, basata sul remix di contenuti
digitali preesistenti, così come la diffusione della produzione culturale novecentesca ancora
coperta da diritti ma non più sfruttata commercialmente, e la ricerca accademico-scientifica. Il
movimento del copyleft, in particolare con le licenze Creative Commons, offre un'alternativa a
questo impasse. Sulle licenze Creative Commons vengono forniti dati statistici relativi a tasso
di diffusione e tipologia di licenze adottate. Il concetto di conoscenza come bene comune e le
proposte di riforma del copyright avanzate da Lawrence Lessig concludono l'intervento.

Le slide relative a questo intervento sono disponibili su
http://www.slideshare.net/virna/napoli-slide-2897183


L'informazione è un bene economico immateriale, non escludibile (non ci si possono mettere
attorno barriere fisiche), non rivale (non si consuma con l'uso). E' inoltre contraddistinto da
costi di produzione molto alti a fronte di costi di riproduzione e distribuzione molto bassi.
Senza una regolazione artificiale, pertanto, il mercato dell'informazione non reggerebbe. Da ciò
nasce il regime della proprietà intellettuale, che garantisce artificialmente all'autore un diritto
di monopolio nel quale esso può scegliere di gestire i propri diritti in vario modo.
L'informazione è però anche un bene cumulativo e incrementale (la cultura si forma sempre
rielaborando il pensiero precedente), quindi i diritti riconosciuti all'autore devono avere anche
dei limiti. Ne sono degli esempi la durata di 20 anni per il brevetto per invenzione e i 70 anni
dopo la morte dell'autore nel diritto d'autore.

Nel 900, con le comunicazioni di massa, la produzione culturale diventa monopolio di categorie
professionali precise come i giornalisti, gli scrittori, i produttori cinematografici e musicali. Nel
mondo della produzione industriale si sviluppa il sistema della brevettazione, equivalente della
proprietà intellettuale per le invenzioni. La proprietà intellettuale si sviluppa per salvaguardare
questo tipo di panorama (contenuti che producono royalty, prodotti da settori altamente
professionalizzati e a volte regolati legalmente, come nel caso degli albi dei giornalisti).
Il copyright prevede che l'autore ceda una parte o tutti i diritti all'editore (nel caso dei libri),
dietro un compenso economico. Da quel momento, l'autore è titolare solo del diritto morale ad
essere riconosciuto come tale ma non può, ad esempio, ristampare copie del suo libro
autonomamente, pubblicarlo online, eccetera. Su questo si innesta il tema della gestione legale
delle copie (copy-right).
Inoltre, il copyright si costituisce come sistema opt-out, si applica cioè a chiunque pubblichi
un'opera, sia che rivendichi dei diritti su di essa o meno. Quando pubblichiamo un contenuto
sul sito della biblioteca senza specificare nulla sui diritti, questo significa automaticamente che
teniamo per noi tutti i diritti (“tutti i diritti riservati”), anche se il nostro intento sarebbe quello
di offrire i nostri contenuti ad un uso più vasto possibile. Un sistema opt-in prevederebbe
invece la protezione del diritto d'autore solo per chi ne facesse richiesta.
Con il digitale, il concetto di copia (legato al mondo della stampa) è superato. Non solo
produrre una copia è meno costoso e calano quindi i costi di distribuzione, ma in molti casi non
si può non copiare per consumare un prodotto, ad esempio per ascoltare un file di musica in
formato mp3 o per utilizzare un software di gestione di banche dati.
In secondo luogo, tecnologie digitali possono rendere l'informazione totalmente “chiusa” (come
accade quando si tiene segreto il codice sorgente di un software o si cripta un file audio)
oppure totalmente “aperta” (con i formati aperti). La chiusura limita a volte l'utilizzo dei
contenuti più di quanto facesse la stampa, portando ad una situazione paradossale in cui a
maggiori possibilità tecniche si accompagnano minori possibilità legali.
Nasce dunque in questo modo la contrapposizione fra i detentori legittimi del copyright (basato
sul modello novecentesco) che tentano di applicare il diritto d'autore nel modo più restrittivo
possibile, e un vasto e variegato movimento che può arrivare a rivendicare la pirateria
(l'infrazione del copyright) come legittima pratica politica.
Infine, il diritto deve fronteggiare un contesto internazionale, dove norme diverse si
sovrappongono e possono contraddirsi.

I modelli di distribuzione dell'informazione sono dunque oggi due.
Il primo, chiuso, rigido e accentrato, è contraddistinto dall'uso del software proprietario, del
sistema del Digital Rights Management (DRM), dell'accesso riservato e del copyright.
Il secondo, aperto, flessibile e decentrato, è rappresentato invece dal software open source, dal
modello di scambio di file P2P, dall'open access, da risorse collettive come Wikipedia, dalla
tendenza alla distribuzione gratuita dei contenuti e dal copyleft.

La storia dell'open source rappresenta una sorta di archetipo del lavoro collaborativo,
mostrando come un lavoro collettivo consentito da mezzi tecnici (i mezzi di comunicazione in
remoto), abbia a sua volta prodotto una cultura della collaborazione, in un circolo virtuoso che
ha poi rappresentato un modello economico alternativo a quello del lavoro compiuto
esclusivamente per profitto e del calcolo egoistico degli interessi individuali (economia del
dono). In alcuni progetti globali come Wikipedia troviamo oggi realizzato il senso del celebre
slogan del movimento open source “dati abbastanza occhi ogni bug viene alla luce”: il lavoro
collettivo di molti, a diversi livelli di competenza, è sempre tendenzialmente migliore di quello
svolto da pochi esperti.

A partire dagli anni '90, crollano i prezzi di software e apparecchiature per la produzione
domestica di contenuti, dalla videocamera alla macchina fotografica digitale al software per
ritoccare le immagini. Si assiste ad un diffuso fenomeno di tecnologia digitale di massa. L'uso
attivo delle tecnologie rimette nelle mani di chiunque la possibilità di produrre contenuti. Non si
è più limitati al ruolo di fruitori passivi dell'industria culturale e si entra in un mondo di
abbondanza culturale che rivela per contrasto la natura sostanzialmente “scarsa” della realtà
culturale novecentesca.

     “Che cosa succede ... quando la 'scrittura' attraverso la pellicola (o la musica, o le
     immagini, o qualunque altra forma di 'discorso professionale' nato nel XX secolo) diventa
     altrettanto democratica quanto la scrittura testuale?” (Lessig, p. 32)

Dopo il 2000, il web diventa uno strumento di comunicazione di massa, ma uno strumento di
comunicazione di massa che, a differenza di tv, cinema, radio e libri, consente l'interazione. Dal
modello di trasmissione dell'informazione uno-a-molti si passa al modello molti-a-molti. Il web
non solo consente, ma costringe all'interazione, in particolare col cosiddetto Web 2.0, che
indica infatti un insieme di tecnologie e di pratiche sociali improntate all'interazione e alla
condivisione.

Tecnologia digitale di massa e web interattivo producono una massa di produttori di contenuti
non professionali che si auto-pubblicano, senza bisogno di intermediari, e che vanno ad
aggiungersi ai produttori professionisti che usano la rete come uno degli strumenti di diffusione
delle loro opere.
La più innovativa delle pratiche 2.0 è pertanto, con ogni probabilità, quella degli UGC, gli User
Generated Content (dal post alla foto condivisa alla conversazione su un social network alla
compilazione di una voce su Wikipedia e così via). Si tratta però, tipicamente, di contenuti che
mancano del processo di validazione tradizionalmente operato dal mondo della ricerca
istituzionale col meccanismo della peer review fra esperti e dell'editoria col meccanismo del
filtro alla pubblicazione.
Tale nuova situazione apre le porte a visioni che vanno dall'entusiasmo al pessimismo totali. Da
un lato si sottolineano i valori dell'attivismo, della democratizzazione del sapere,
dell'autoformazione e quindi di una nuova forma di peer review fra pari. Al modello tradizionale
dell'autorità si sostituisce quello di una credibilità acquisita sul campo, i cui unici giudici sono il
pubblico indistinto dei lettori. Dall'altro lato è possibile sottolineare i rischi di superficialità di un
simile sapere “amatoriale”, rifacendosi al concetto di autorità riconosciuta in modo tradizionale,
gerarchica e definita socialmente da passaggi precisi (una carriera accademica, un certo
numero di pubblicazioni eccetera).

Di fronte al crollo del modello dello spettatore passivo del '900, sociologi come Henry Jenkins
(in Cultura convergente) formulano diverse ipotesi interessanti, quali l'idea che si formino
nuovi rapporti fra cultura mainstream e cultura “amatoriale”, che la cultura partecipativa possa
essere vista come una ripresa della cultura popolare, fino ad una nuova definizione di
alfabetismo:

      “Proprio come non abbiamo mai considerato 'alfabeta' qualcuno che sappia leggere ma
      non scrivere, allo stesso modo non possiamo concepire che qualcuno sia, per così dire,
      medialfabeta se può solo consumare ma non ha alcuna possibilità di espressione.”
      (Jenkins, p. 180)

Esemplare in questo senso la vicenda (oggetto di uno dei casi di studio di Cultura convergente)
delle fanfiction fiorite intorno ad Harry Potter, e della battaglia legale da parte degli editori
contro i siti che ospitavano questo nuovo genere di produzione letteraria gestiti da bambini e
ragazzi.

Riprendendo i termini mutuati dall'informatica di Lawrence Lessig in Remix, quello a cui si
assiste è il passaggio dal una cultura Read/Only (RO) ad una cultura Read/Write (RW). Una
cultura di lettura-e-scrittura, cioè che non si limiti all'uso passivo dei contenuti ma che preveda
la possibilità di una loro rielaborazione, si collega direttamente al concetto che fornisce il titolo
all'opera di Lessig, il remix, la ricombinazione di parti di opere altrui consentita dalla facilità di
copia, campionamento e modifica dei contenuti digitali. Ognuno di questi generi di operazioni,
però, produce invariabilmente infrazioni al copyright:

      “ … l'atto stesso della 'riscrittura' in un contesto digitale genera una copia; tale copia fa
      scattare la legge sul copyright. Una volta scattata, la legge richiede una licenza o
      l'invocazione giustificata del fair use. Le licenze sono rare; giustificare l'invocazione del
      fair use costa molti soldi. Per definizione, l'utilizzo in chiave RW viola le legge sul diritto
      d'autore. La cultura RW, pertanto, è presumibilmente illegale.” (Lessig, p. 71)

Se la 'scrittura' diventa illegale, riprendendo le parole di Jenkins e la sua definizione di cosa
significhi oggi essere medialfabeti, saremmo dunque tutti tenuti ad essere analfabeti per legge.

Si aggiunge a ciò il tema della cultura RO protetta dal copyright, ma che non produce più
royalty come, ad esempio, quella massa di libri che il copyright protegge ma che nessun
editore ha un interesse commerciale a ripubblicare:

      “Che cosa accadrebbe al 97% della cultura del XX secolo che non viene sfruttata
      commercialmente, se fosse disponibile per chiunque, pronta per essere annotata,
      remixata, comparata, compilata, riveduta, riedita, collegata in una molteplicità di archivi
      o usata per la creazione di opere di consultazione multimediali?” (James Boyle, p. 150
      Ostrom)

Sul fronte del lavoro di ricerca accademica, i principi su cui si basa la scienza occidentale (il
confronto e la critica fra pari consentiti dalla libera espressione delle idee) sono stati messi in
pericolo dal fenomeno della crescita dei prezzi delle riviste scientifiche, i cui editori applicano
un modello nato per i contenuti che producono royalty (come i prodotti di Hollywood) a
contenuti che non sono nati per generare profitto. In contrasto a ciò nasce il movimento open
access che cerca nuovi modelli di pubblicazione dei risultati della ricerca scientifica.

Ma, andando oltre il mondo dell'open access, nell'ambito della ricerca scientifica ci sono altri
esempi di nuove pratiche di condivisione dei contenuti che ripropongono il concetto di
“abbastanza occhi per trovare ogni bug”. Ne è un esempio il caso della ricercatrice italiana
Ilaria Capua, che dopo aver decodificato il codice genetico del virus dell'aviaria ha deciso di
depositarlo a disposizione della comunità scientifica su GenBank, deposito open di sequenze di
DNA a disposizione di tutti i laboratori del mondo, anziché su di un database ad accesso
limitatissimo controllato dall'Organizzazione Mondiale della Sanità.

Il copyright e, più in generale, il modello “chiuso” sembrano perciò rivelarsi inadatti sia al
mondo degli User Generated Content (modello della cultura RW), sia ai contenuti della cultura
tradizionale non più oggetto di interessi commerciali diretti (cultura RO), sia al mondo della
ricerca accademica e scientifica.

In risposta a tale situazione nasce il movimento del copyleft, che indica in senso generico un
movimento culturale basato sull'idea dell'open access, dell'open source, degli open data e della
fruizione libera nato nella comunità internazionale degli informatici (da Richard Stallman a
Linus Torvalds e molti altri). In senso legale, invece, il termine indica un modello di gestione
dei diritti d'autore basato su licenze con le quali l'autore indica ai fruitori che la sua opera può
essere utilizzata liberamente, nel rispetto di alcune condizioni essenziali.

I primi esempi di licenze copyleft furono creati per il software nel contesto del progetto GNU.
GNU, nato negli anni '80, aveva per scopo la creazione di un sistema operativo completamente
libero. Si trattava per definizione di un lavoro collettivo, in cui senza l'apporto di moltissimi
programmatori distribuiti nel mondo non si sarebbe arrivati ad alcun risultato utile. Era perciò
necessario che il codice fosse aperto (cioè leggibile e modificabile da tutti), e anche che ogni
ulteriore aggiunta restasse aperta, in un circolo virtuoso all'infinito.
Per garantire queste condizioni furono create le licenze GNU GPL (General Public License) per
le condizioni generali del software, GNU LGPL (Lesser General Public License) che permette di
integrare software libero all'interno di software proprietario e GNU FDL (Free Documentation
License) che, nata per la documentazione relativa al software, è stata poi estesa alla
documentazione in generale. Con licenza GNU FDL sono ad esempio stati licenziati i contenuti
di Wikipedia fino a tempi molto recenti.
Col moltiplicarsi dei contenuti digitali, è diventato però chiaro che occorrevano licenze
specifiche per materiale di tipo documentario come testo e immagini. Occorreva inoltre un
modo semplice e facilmente comprensibile a chiunque di scegliere una licenza e dichiararla.
A questo scopo è nato il progetto Creative Commons, il più diffuso fra i progetti che si
occupano di offrire un'alternativa legale gestibile agli abusi del modello del copyright.
Creative Commons è un'associazione senza scopo di lucro creata nel 2001 negli Stati Uniti da
Lawrence Lessig, studioso di diritto d'autore. Suo scopo principale è compilare testi di licenze
già pronti, accompagnati da una versione deed, cioè sintetica e facilmente comprensibile anche
grazie ad un'adeguata presentazione grafica, dei contenuti della licenza.
La diffusione internazionale del progetto spiega perché esistano versioni “unported” delle
licenze, che vengono create per il sistema legale anglosassone, e versioni “ported” adattate ai
singoli contesti nazionali.

Le licenze CC sono espresse in 3 modi:

1.un codice legale (la licenza vera e propria)
2.un deed leggibile dagli umani (un sommario della licenza in linguaggio semplificato)
3.un codice digitale (una traduzione della licenza leggibile dalle macchine, che fa sì che i
motori di ricerca o altri agenti software possano identificare le opere CC a seconda dei loro
termini d'uso. In sostanza, il sito CC crea un codice HTML da incollare nel sito in cui è
pubblicata l'opera).

Uno dei vantaggi del sistema Creative Commons consiste nella modularità delle condizioni che
riconosce nelle sue licenze. Le condizioni a cui si vuol far sottostare la propria opera possono
cioè essere scelte una per una, combinando a seconda delle necessità la condizione di
attribuzione della paternità dell'opera (BY, Attribution), il suo utilizzo libero ma non a scopi
commerciali (NC, Non-Commercial), la proibizione di trarre opere derivate dall'opera che si
licenzia (ND, No Derivative Works), e l'imposizione di licenziare i contenuti derivanti
dall'utilizzo dell'opera sotto un'identica licenza (SA, Share Alike).
A queste condizioni si aggiunge la nuova licenza CC0 1.0 Universal1, che consente a scienziati,
educatori, artisti e produttori di contenuti in genere di rinunciare completamente ai diritti legati
al copyright, compresi i diritti morali di attribuzione (chi è l'autore). In questo modo il
contenuto è immediatamente disponibile per chiunque senza limitazioni, come nel caso del
pubblico dominio. Mentre il pubblico dominio contrassegna le opere i cui diritti di copyright
sono scaduti, CC0 permette di fare qualcosa di simile prima che i diritti riconosciuti dalle varie
e diverse legislazioni nazionali siano scaduti. Non in tutte le giurisdizioni è infatti facile situare
un'opera nel pubblico dominio per libera scelta dell'autore, in questo modo si ha un'alternativa
il più vicino possibile a quella del pubblico dominio.
Mentre le altre licenze CC fanno sì che “alcuni” diritti (e non tutti) siano riservati, CC0 arriva al
“nessun” diritto riservato.

La licenza CC0 si distingue inoltre da:

•Public Domain Dedication and Certification (“PDDC”) elaborata da Creative Commons, che
serve per uno scopo diverso, cioè certificare che un'opera è già di pubblico dominio. Mentre
questa certificazione si applica agli USA, non con altrettanta certezza si applica negli altri
paesi. CC0 vuole invece essere una soluzione per ogni giurisdizione.

•Public Domain Dedication and License (“PDDL”) elaborata da Open Data Commons (progetto
della Open Knowledge Foundation), che si applica solo alle banche dati e ai dati in esse
contenute. CC0 si applica a qualsiasi tipo di contenuto (articoli, opere artistiche, banche dati,
eccetera).

Esempi di utilizzo di licenze Creative Commons si riscontrano da parte di istituzioni pubbliche,
sia in senso “passivo”, ovvero di riutilizzo di materiali prodotti altrove2, sia in senso “attivo”,
con la scelta di licenziare le proprie pagine web con licenze libere3.

Flickr costituisce una delle piattaforme di condivisione globale in cui le licenze Creative
Commons sono molto utilizzate, sia in chiave personale-amatoriale, sia in chiave professionale
da parte di fotografi professionisti che la utilizzano per pubblicizzare il proprio lavoro.
Quest'ultimo caso rappresenta anche l'esempio dell'emergere di nuovi modelli di business
basati sull'abbinamento di offerta gratuita e contenuti o servizi con valore aggiunto a
pagamento.

Molto ricco il panorama della produzione musicale con licenze libere, a partire da CC Mixter4,
sito di condivisione che si apre a collaborazioni col mondo extra-musicale come nel caso di The
White Cube della Ram Galleri, galleria d'arte contemporanea di Oslo, spazio espositivo per il
quale è stato lanciato su CC Mixter un “concorso di idee” per la sonorizzazione. Il progetto si
chiama The White Cube Remix Project5, e in meno di un mese dal lancio ha ottenuto la
composizione di quasi un centinaio di tracce audio originali.

Numerose anche le piattaforme per la condivisione di video e podcast che favoriscono la
possibilità di utilizzare licenze aperte, come ad esempio blip.tv6.



1 http://creativecommons.org/choose/zero
2 Vedi ad es. l'utilizzo di immagini sul sito di Biblioteca Salaborsa in bibliografie per la
  promozione come http://www.bibliotecasalaborsa.it/bibliografie/20870.
3 Vedi ad es. i contenuti online prodotti da Salaborsa (http://www.bibliotecasalaborsa.it >
  xml-rss > metadata > license).
4 http://ccmixter.org/
5 http://thewhitecube.info/
6 http://blip.tv/
Ci sono inoltre progetti paralleli dedicati a particolari campi, come Science Commons per la
ricerca scientifica, in particolare in campo biomedico. I suoi scopi sono: “promuovere l'accesso
libero alle pubblicazioni scientifiche, sviluppare modelli di licenza standard per facilitare un
accesso più ampio all'informazione scientifica ed esplorare modi per accrescere la condivisione
dei dati scientifici” (Charles M. Schweik, p. 314 Ostrom).

Nel 2009, infine, Wikipedia ha deciso di adottare come primarie le licenze Creative Commons,
in particolare la versione CC-BY-SA, per favorire il riutilizzo e l'interoperabilità dei suoi
contenuti con la massa di contenuti nel frattempo prodotta online e pubblicata sotto licenza
Creative Commons.

Dati statistici sulla diffusione delle licenze CC sono disponibili su almeno due fonti.
La prima, CC Monitor7, è un wiki che contiene dati statistici, grafici, ricerche e studi
sull'adozione a livello mondiale delle licenze, con l'intento di diventare un punto di riferimento
per la comunità degli utilizzatori, i ricercatori e la stampa. I dati costituiscono una stima e sono
stati raccolti attraverso il motore di ricerca Yahoo. Il totale, puramente indicativo e aggiornato
a novembre 2009, arriva a 207.514.390 licenze a livello mondiale (comprendendo quindi le
licenze unported e ported). Le licenze italiane ammontano invece al numero di 8.804.446,
portando il paese al secondo posto dopo la Spagna nella classifica dei 52 paesi che
maggiormente adottano questo tipo di licenze8.
Oltre ai dati puramente quantitativi è interessante considerare il cosiddetto freedom score dei
vari paesi, ovvero il tasso di liberalità delle licenze calcolate su una scala 1-6 che va dalla
massima alla minima quantità di diritti riservati9.
Nella classifica dei 52 paesi, l'Italia si piazza considerevolmente in basso nella classifica degli
utilizzatori di licenze più liberali, con un freedom score di 2,26 a fronte di una media mondiale
di 3,46.

La seconda fonte di dati è CC Metrics10 , che giunge ad una stima piuttosto diversa11 (350
milioni di licenze stimate a fine 2009) ma che può essere interessante per mostrare i tassi di
crescita del fenomeno, molto sostenuti.

In Italia il gruppo che si occupa delle licenze CC è rappresentata da studiosi che fanno capo al
Dipartimento di studi giuridici dell'Università di Torino per gli aspetti legali e allo IEIIT-CNR
(Istituto di Elettronica e di Ingegneria dell'Informazione e delle Telecomunicazioni) di Torino
per gli aspetti tecnico-informatici. I suoi coordinatori sono stati dapprima il giurista Marco
Ricolfi, e attualmente l'ingegnere Juan Carlos De Martin, mostrando la peculiare caratteristica
del gruppo, più interdisciplinare di quelli presenti in altri paesi. Le prime licenze ported italiane
sono state presentate nel 2004, mentre viene annunciato come molto vicino il rilascio della
versione ported italiana 3.0, con novità importanti soprattutto rispetto al cosiddetto “diritto sui
generis” europeo che copre i contenuti delle banche dati.

In conclusione, si può ricordare come la ricerca economica si sia recentemente focalizzata
sull'idea della conoscenza come bene comune, in particolare con l'opera di Elinor Ostrom e
Charlotte Hess.
Quello di commons, di beni comuni, è un concetto che nasce dall'analisi economica e sociale di

7 http://monitor.creativecommons.org/Main_Page
8 Va sottolineato che nella classifica dei vari paesi non vengono conteggiate le licenze
   unported, con l'evidente conseguenza che essa non tiene praticamente conto delle licenze
   utilizzate negli USA.
9 Lo score viene conteggiato attribuendo i seguenti valori: BY 6, BY-SA 4,5, BY-ND 3, BY-NC
   4, BY-NC-SA 2,5 e BY-NC-ND 1. Fonte: Cheliotis.
10 http://wiki.creativecommons.org/Metrics
11 I motivi della differenza relativa alle stime possono essere numerosi: ad esempio il numero
   delle licenze calcolate dipende da come è scritto il codice delle risorse online e da come
   funziona il motore di ricerca che le censisce (ad es. una licenza unica per blog o per post,
   per singolo testo e immagini o per ognuno di essi, ecc. Non esistendo un registro ufficiale
   delle licenze, ci si può solo affidare ai motori di ricerca i cui algoritmi di funzionamento non
   sono completamente noti. Infine, la cifra più alta è la somma raccolta da Yahoo e Flickr
   mentre la più bassa proviene dal solo Yahoo.
modelli di gestione di risorse fisiche naturali come i terreni di pascolo e le acque di pesca, che
venivano gestiti in maniera collettiva al di fuori sia della proprietà individuale, sia di quella
statale. A partire dagli anni '90 tale concetto ha cominciato ad essere applicato all'informazione
digitale distribuita.

     “Storicamente, in Europa i commons configuravano zone agricole condivise, pascoli e
     foreste che, nel corso di cinque secoli, furono recintate da proprietari terrieri e dallo
     Stato, imponendo l’abolizione dei diritti comuni. La storia delle 'recinzioni' è una storia di
     privatizzazione, di ricchi contro poveri, di élite contro masse popolari. Quella che
     raccontiamo è la storia del «secondo movimento di enclosure», ... che ha comportato la
     recinzione degli «intangibili beni comuni della mente», attraverso la rapida espansione
     dei diritti di proprietà intellettuale.” (Charlotte Hess e Elinor Ostrom, p. 16 Ostrom)

La maggior parte dei beni comuni naturali sono finiti ed esauribili. Invece,

     “I beni comuni della scienza, della comunità accademica e della cultura sono in primo
     luogo di natura sociale e 'informazionale'. Tendono a coinvolgere beni non 'rivali', che
     molte persone possono usare e condividere senza per questo deteriorare la risorsa.”
     (David Bollier, p. 39 Ostrom)

Con un tipico effetto “di rete”, anzi, il valore di questi beni aumenta all'aumentare delle
persone che partecipano (per esempio all'estensione di una rete telefonica, a sviluppare un
software open source, alla letteratura scientifica e così via).

     “All'alba del XXI secolo, le nuove tecnologie hanno trasformato il modo in cui gli studenti
     apprendono, i docenti insegnano, gli studiosi ricercano e i bibliotecari distribuiscono le
     risorse per la ricerca. Ma le stesse tecnologie che consentono un accesso illimitato a
     queste risorse condivise al contempo le 'recintano', e dunque limitano le opzioni
     informative e il libero flusso delle idee. Di conseguenza, molte risorse accademiche che in
     passato erano disponibili attraverso le biblioteche sono oggi 'recintate', non più disponibili
     nel bene comune dove in passato erano apertamente condivise.” (Nancy Kranich, p. 83
     Ostrom)

Sono inoltre di recente state avanzate da parte di Lawrence Lessig, uno dei fondatori di
Creative Commons, alcune riflessioni e proposte che intendono aprire la strada ad una visione
matura della proprietà intellettuale, in un'ottica di “lotta contro gli estremismi associati al
diritto d'autore” (Lessig, p. 239).
Per “estremismi” si intendono sia gli abusi dell'industria culturale nel mantenere uno status quo
difensivo degli interessi consolidati, sia la posizione potenzialmente “ideologica” propria delle
pratiche P2P e di alcune frange del movimento copyleft. Rispettivi esempi di tale situazione
fortemente oppositiva sono costituiti da un lato dalla recente decisione del ministro della
cultura Bondi di imporre una tassa a favore della SIAE su qualsiasi supporto di memoria
digitale, dal cellulare all'hard disk. Tale scelta costringerà qualunque utilizzatore di supporti, a
prescindere dall'uso che intende farne, a pagare preventivamente per finanziare un compenso
agli aventi diritti che si presume verranno non rispettati (una sorta di presunzione
generalizzata di colpevolezza). Dall'altro lato, il freedom score piuttosto basso delle licenze
Creative Commons adottate in Italia può costituire un esempio di adozione “ideologica”, non
del tutto consapevole ed informata, del copyleft.

Nell'ottica di far cessare la guerra – priva di soluzioni - delle lobby dell'industria culturale
contro i moderni pirati digitali, Lessig rileva come

     “... il punto fondamentale di cui prendere atto è che la creatività RW non fa concorrenza
     al mercato delle opere creative che vengono remixate, né lo indebolisce. Questi due
     mercati si complementano, non si fanno concorrenza.” (Lessig, p. 33)

Seguono dunque alcune proposte di riforma del copyright da parte di Lessig:

•“Deregolamentare la creatività amatoriale”: ciò servirebbe a depenalizzare un utilizzo di
materiali che non produce comunque una possibile fonte di guadagno per le grandi industrie
culturali (Hollywood non può fare soldi dal video fatto in casa dal ragazzino utilizzando
spezzoni di Guerre Stellari, così come gli editori di Harry Potter non sono in grado di ottenere
ricavi dalle fanfiction).

•“Diritti chiari”: un sistema opt-in (che preveda la protezione del diritto d'autore solo per chi ne
faccia richiesta) invece di uno opt-out come quello attuale dovrebbe essere preso in
considerazione. O, quantomeno, si potrebbe pensare ad un sistema di protezione automatica,
ma solo per un periodo limitato, dopo il quale spetterebbe all'autore prorogare la protezione.
“Se per il detentore del copyright non vale la pena, dopo 14 anni, di compiere qualche piccolo
passo per registrare le proprie opere, non dovrebbe valere la pena per il governo di minacciare
un procedimento giudiziario per tutelare la proprietà stessa.” (p. 214)

•“Semplificare”: “dato che la legge sul diritto d'autore è fatta in modo tale da regolamentare
Sony e vostro figlio di 15 anni, un sistema che immagina che ogni utilizzo sia esaminato da
una torma di avvocati è talmente inadeguato da risultare criminale. Se la legge deve rivolgersi
anche a vostro figlio, deve farlo in modo tale che lui possa capirla.” (p. 217)

•“Decriminalizzare la copia”: il copyright dovrebbe smettere di regolamentare la produzione di
copie a favore di una regolamentazione degli utilizzi. La distribuzione pubblica o commerciale,
ad esempio, sono utilizzi diversi da quelli puramente amatoriali.

•“Decriminalizzare il file sharing”: “autorizzando perlomeno quello non commerciale attraverso
l'imposizione di una tassa che permetta di corrispondere royalty ragionevoli agli artisti di cui
vengano condivise le opere, oppure autorizzando una semplice procedura di cessione di una
licenza globale grazie a cui gli utenti possano acquistare, a poco prezzo, il diritto di condividere
liberamente i file.” (p. 220)

In conclusione,

      “I beni comuni elevano gli individui verso un ruolo superiore a quello di meri consumatori,
      spostando l'attenzione verso i loro diritti, le loro esigenze e responsabilità in quanto
      cittadini” (Nancy Kranich, p. 97 Ostrom)


Riferimenti bibliografici e citazioni:

La conoscenza come bene comune: dalla teoria alla pratica, a cura di Charlotte Hess e Elinor
Ostrom, Milano, Bruno Mondadori, 2009

Lawrence Lessig, Remix: il futuro del copyright (e delle nuove generazioni), Milano, Etas, 2009

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altri strumenti CC, Viterbo, Stampa alternativa/Nuovi equilibri, 2008
http://www.stampalternativa.it/liberacultura/books/cc-manuale.pdf

Giorgos Cheliotis et al., Taking Stock of the Creative Commons Experiment: Monitoring the Use
of Creative Commons Licenses and Evaluating Its Implications for the Future of Creative
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http://web.si.umich.edu/tprc/papers/2007/805/CreateCommExp.pdf

Henry Jenkins, Cultura convergente, Milano, Apogeo, 2007


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  • 1. Diritti e rovesci delle biblioteche digitali. Giornata di studio in ricordo di Marco Marandola Napoli, Università degli studi di Napoli "Parthenope", Villa Doria D'Angri 28 gennaio 2010 Creazione, condivisione, diritti: gli strumenti per una cultura partecipativa Virginia Gentilini http://nonbibliofili.splinder.com/ L'intervento intende riassumere l'evoluzione dei modi della produzione culturale a partire dalle comunicazioni di massa fino alla produzione partecipativa resa possibile dagli strumenti di tecnologia digitale di massa e la condivisione consentita dallo sviluppo del Web 2.0. Il modello dello spettatore passivo novecentesco risulta superato con effetti importanti sulla definizione stessa di alfabetismo (Henry Jenkins). L'assetto attuale della normativa sul diritto d'autore ostacola i modi della produzione contemporanea di cultura, basata sul remix di contenuti digitali preesistenti, così come la diffusione della produzione culturale novecentesca ancora coperta da diritti ma non più sfruttata commercialmente, e la ricerca accademico-scientifica. Il movimento del copyleft, in particolare con le licenze Creative Commons, offre un'alternativa a questo impasse. Sulle licenze Creative Commons vengono forniti dati statistici relativi a tasso di diffusione e tipologia di licenze adottate. Il concetto di conoscenza come bene comune e le proposte di riforma del copyright avanzate da Lawrence Lessig concludono l'intervento. Le slide relative a questo intervento sono disponibili su http://www.slideshare.net/virna/napoli-slide-2897183 L'informazione è un bene economico immateriale, non escludibile (non ci si possono mettere attorno barriere fisiche), non rivale (non si consuma con l'uso). E' inoltre contraddistinto da costi di produzione molto alti a fronte di costi di riproduzione e distribuzione molto bassi. Senza una regolazione artificiale, pertanto, il mercato dell'informazione non reggerebbe. Da ciò nasce il regime della proprietà intellettuale, che garantisce artificialmente all'autore un diritto di monopolio nel quale esso può scegliere di gestire i propri diritti in vario modo. L'informazione è però anche un bene cumulativo e incrementale (la cultura si forma sempre rielaborando il pensiero precedente), quindi i diritti riconosciuti all'autore devono avere anche dei limiti. Ne sono degli esempi la durata di 20 anni per il brevetto per invenzione e i 70 anni dopo la morte dell'autore nel diritto d'autore. Nel 900, con le comunicazioni di massa, la produzione culturale diventa monopolio di categorie professionali precise come i giornalisti, gli scrittori, i produttori cinematografici e musicali. Nel mondo della produzione industriale si sviluppa il sistema della brevettazione, equivalente della proprietà intellettuale per le invenzioni. La proprietà intellettuale si sviluppa per salvaguardare questo tipo di panorama (contenuti che producono royalty, prodotti da settori altamente professionalizzati e a volte regolati legalmente, come nel caso degli albi dei giornalisti). Il copyright prevede che l'autore ceda una parte o tutti i diritti all'editore (nel caso dei libri), dietro un compenso economico. Da quel momento, l'autore è titolare solo del diritto morale ad essere riconosciuto come tale ma non può, ad esempio, ristampare copie del suo libro autonomamente, pubblicarlo online, eccetera. Su questo si innesta il tema della gestione legale delle copie (copy-right). Inoltre, il copyright si costituisce come sistema opt-out, si applica cioè a chiunque pubblichi un'opera, sia che rivendichi dei diritti su di essa o meno. Quando pubblichiamo un contenuto sul sito della biblioteca senza specificare nulla sui diritti, questo significa automaticamente che teniamo per noi tutti i diritti (“tutti i diritti riservati”), anche se il nostro intento sarebbe quello di offrire i nostri contenuti ad un uso più vasto possibile. Un sistema opt-in prevederebbe invece la protezione del diritto d'autore solo per chi ne facesse richiesta.
  • 2. Con il digitale, il concetto di copia (legato al mondo della stampa) è superato. Non solo produrre una copia è meno costoso e calano quindi i costi di distribuzione, ma in molti casi non si può non copiare per consumare un prodotto, ad esempio per ascoltare un file di musica in formato mp3 o per utilizzare un software di gestione di banche dati. In secondo luogo, tecnologie digitali possono rendere l'informazione totalmente “chiusa” (come accade quando si tiene segreto il codice sorgente di un software o si cripta un file audio) oppure totalmente “aperta” (con i formati aperti). La chiusura limita a volte l'utilizzo dei contenuti più di quanto facesse la stampa, portando ad una situazione paradossale in cui a maggiori possibilità tecniche si accompagnano minori possibilità legali. Nasce dunque in questo modo la contrapposizione fra i detentori legittimi del copyright (basato sul modello novecentesco) che tentano di applicare il diritto d'autore nel modo più restrittivo possibile, e un vasto e variegato movimento che può arrivare a rivendicare la pirateria (l'infrazione del copyright) come legittima pratica politica. Infine, il diritto deve fronteggiare un contesto internazionale, dove norme diverse si sovrappongono e possono contraddirsi. I modelli di distribuzione dell'informazione sono dunque oggi due. Il primo, chiuso, rigido e accentrato, è contraddistinto dall'uso del software proprietario, del sistema del Digital Rights Management (DRM), dell'accesso riservato e del copyright. Il secondo, aperto, flessibile e decentrato, è rappresentato invece dal software open source, dal modello di scambio di file P2P, dall'open access, da risorse collettive come Wikipedia, dalla tendenza alla distribuzione gratuita dei contenuti e dal copyleft. La storia dell'open source rappresenta una sorta di archetipo del lavoro collaborativo, mostrando come un lavoro collettivo consentito da mezzi tecnici (i mezzi di comunicazione in remoto), abbia a sua volta prodotto una cultura della collaborazione, in un circolo virtuoso che ha poi rappresentato un modello economico alternativo a quello del lavoro compiuto esclusivamente per profitto e del calcolo egoistico degli interessi individuali (economia del dono). In alcuni progetti globali come Wikipedia troviamo oggi realizzato il senso del celebre slogan del movimento open source “dati abbastanza occhi ogni bug viene alla luce”: il lavoro collettivo di molti, a diversi livelli di competenza, è sempre tendenzialmente migliore di quello svolto da pochi esperti. A partire dagli anni '90, crollano i prezzi di software e apparecchiature per la produzione domestica di contenuti, dalla videocamera alla macchina fotografica digitale al software per ritoccare le immagini. Si assiste ad un diffuso fenomeno di tecnologia digitale di massa. L'uso attivo delle tecnologie rimette nelle mani di chiunque la possibilità di produrre contenuti. Non si è più limitati al ruolo di fruitori passivi dell'industria culturale e si entra in un mondo di abbondanza culturale che rivela per contrasto la natura sostanzialmente “scarsa” della realtà culturale novecentesca. “Che cosa succede ... quando la 'scrittura' attraverso la pellicola (o la musica, o le immagini, o qualunque altra forma di 'discorso professionale' nato nel XX secolo) diventa altrettanto democratica quanto la scrittura testuale?” (Lessig, p. 32) Dopo il 2000, il web diventa uno strumento di comunicazione di massa, ma uno strumento di comunicazione di massa che, a differenza di tv, cinema, radio e libri, consente l'interazione. Dal modello di trasmissione dell'informazione uno-a-molti si passa al modello molti-a-molti. Il web non solo consente, ma costringe all'interazione, in particolare col cosiddetto Web 2.0, che indica infatti un insieme di tecnologie e di pratiche sociali improntate all'interazione e alla condivisione. Tecnologia digitale di massa e web interattivo producono una massa di produttori di contenuti non professionali che si auto-pubblicano, senza bisogno di intermediari, e che vanno ad aggiungersi ai produttori professionisti che usano la rete come uno degli strumenti di diffusione delle loro opere. La più innovativa delle pratiche 2.0 è pertanto, con ogni probabilità, quella degli UGC, gli User Generated Content (dal post alla foto condivisa alla conversazione su un social network alla compilazione di una voce su Wikipedia e così via). Si tratta però, tipicamente, di contenuti che
  • 3. mancano del processo di validazione tradizionalmente operato dal mondo della ricerca istituzionale col meccanismo della peer review fra esperti e dell'editoria col meccanismo del filtro alla pubblicazione. Tale nuova situazione apre le porte a visioni che vanno dall'entusiasmo al pessimismo totali. Da un lato si sottolineano i valori dell'attivismo, della democratizzazione del sapere, dell'autoformazione e quindi di una nuova forma di peer review fra pari. Al modello tradizionale dell'autorità si sostituisce quello di una credibilità acquisita sul campo, i cui unici giudici sono il pubblico indistinto dei lettori. Dall'altro lato è possibile sottolineare i rischi di superficialità di un simile sapere “amatoriale”, rifacendosi al concetto di autorità riconosciuta in modo tradizionale, gerarchica e definita socialmente da passaggi precisi (una carriera accademica, un certo numero di pubblicazioni eccetera). Di fronte al crollo del modello dello spettatore passivo del '900, sociologi come Henry Jenkins (in Cultura convergente) formulano diverse ipotesi interessanti, quali l'idea che si formino nuovi rapporti fra cultura mainstream e cultura “amatoriale”, che la cultura partecipativa possa essere vista come una ripresa della cultura popolare, fino ad una nuova definizione di alfabetismo: “Proprio come non abbiamo mai considerato 'alfabeta' qualcuno che sappia leggere ma non scrivere, allo stesso modo non possiamo concepire che qualcuno sia, per così dire, medialfabeta se può solo consumare ma non ha alcuna possibilità di espressione.” (Jenkins, p. 180) Esemplare in questo senso la vicenda (oggetto di uno dei casi di studio di Cultura convergente) delle fanfiction fiorite intorno ad Harry Potter, e della battaglia legale da parte degli editori contro i siti che ospitavano questo nuovo genere di produzione letteraria gestiti da bambini e ragazzi. Riprendendo i termini mutuati dall'informatica di Lawrence Lessig in Remix, quello a cui si assiste è il passaggio dal una cultura Read/Only (RO) ad una cultura Read/Write (RW). Una cultura di lettura-e-scrittura, cioè che non si limiti all'uso passivo dei contenuti ma che preveda la possibilità di una loro rielaborazione, si collega direttamente al concetto che fornisce il titolo all'opera di Lessig, il remix, la ricombinazione di parti di opere altrui consentita dalla facilità di copia, campionamento e modifica dei contenuti digitali. Ognuno di questi generi di operazioni, però, produce invariabilmente infrazioni al copyright: “ … l'atto stesso della 'riscrittura' in un contesto digitale genera una copia; tale copia fa scattare la legge sul copyright. Una volta scattata, la legge richiede una licenza o l'invocazione giustificata del fair use. Le licenze sono rare; giustificare l'invocazione del fair use costa molti soldi. Per definizione, l'utilizzo in chiave RW viola le legge sul diritto d'autore. La cultura RW, pertanto, è presumibilmente illegale.” (Lessig, p. 71) Se la 'scrittura' diventa illegale, riprendendo le parole di Jenkins e la sua definizione di cosa significhi oggi essere medialfabeti, saremmo dunque tutti tenuti ad essere analfabeti per legge. Si aggiunge a ciò il tema della cultura RO protetta dal copyright, ma che non produce più royalty come, ad esempio, quella massa di libri che il copyright protegge ma che nessun editore ha un interesse commerciale a ripubblicare: “Che cosa accadrebbe al 97% della cultura del XX secolo che non viene sfruttata commercialmente, se fosse disponibile per chiunque, pronta per essere annotata, remixata, comparata, compilata, riveduta, riedita, collegata in una molteplicità di archivi o usata per la creazione di opere di consultazione multimediali?” (James Boyle, p. 150 Ostrom) Sul fronte del lavoro di ricerca accademica, i principi su cui si basa la scienza occidentale (il confronto e la critica fra pari consentiti dalla libera espressione delle idee) sono stati messi in pericolo dal fenomeno della crescita dei prezzi delle riviste scientifiche, i cui editori applicano un modello nato per i contenuti che producono royalty (come i prodotti di Hollywood) a
  • 4. contenuti che non sono nati per generare profitto. In contrasto a ciò nasce il movimento open access che cerca nuovi modelli di pubblicazione dei risultati della ricerca scientifica. Ma, andando oltre il mondo dell'open access, nell'ambito della ricerca scientifica ci sono altri esempi di nuove pratiche di condivisione dei contenuti che ripropongono il concetto di “abbastanza occhi per trovare ogni bug”. Ne è un esempio il caso della ricercatrice italiana Ilaria Capua, che dopo aver decodificato il codice genetico del virus dell'aviaria ha deciso di depositarlo a disposizione della comunità scientifica su GenBank, deposito open di sequenze di DNA a disposizione di tutti i laboratori del mondo, anziché su di un database ad accesso limitatissimo controllato dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. Il copyright e, più in generale, il modello “chiuso” sembrano perciò rivelarsi inadatti sia al mondo degli User Generated Content (modello della cultura RW), sia ai contenuti della cultura tradizionale non più oggetto di interessi commerciali diretti (cultura RO), sia al mondo della ricerca accademica e scientifica. In risposta a tale situazione nasce il movimento del copyleft, che indica in senso generico un movimento culturale basato sull'idea dell'open access, dell'open source, degli open data e della fruizione libera nato nella comunità internazionale degli informatici (da Richard Stallman a Linus Torvalds e molti altri). In senso legale, invece, il termine indica un modello di gestione dei diritti d'autore basato su licenze con le quali l'autore indica ai fruitori che la sua opera può essere utilizzata liberamente, nel rispetto di alcune condizioni essenziali. I primi esempi di licenze copyleft furono creati per il software nel contesto del progetto GNU. GNU, nato negli anni '80, aveva per scopo la creazione di un sistema operativo completamente libero. Si trattava per definizione di un lavoro collettivo, in cui senza l'apporto di moltissimi programmatori distribuiti nel mondo non si sarebbe arrivati ad alcun risultato utile. Era perciò necessario che il codice fosse aperto (cioè leggibile e modificabile da tutti), e anche che ogni ulteriore aggiunta restasse aperta, in un circolo virtuoso all'infinito. Per garantire queste condizioni furono create le licenze GNU GPL (General Public License) per le condizioni generali del software, GNU LGPL (Lesser General Public License) che permette di integrare software libero all'interno di software proprietario e GNU FDL (Free Documentation License) che, nata per la documentazione relativa al software, è stata poi estesa alla documentazione in generale. Con licenza GNU FDL sono ad esempio stati licenziati i contenuti di Wikipedia fino a tempi molto recenti. Col moltiplicarsi dei contenuti digitali, è diventato però chiaro che occorrevano licenze specifiche per materiale di tipo documentario come testo e immagini. Occorreva inoltre un modo semplice e facilmente comprensibile a chiunque di scegliere una licenza e dichiararla. A questo scopo è nato il progetto Creative Commons, il più diffuso fra i progetti che si occupano di offrire un'alternativa legale gestibile agli abusi del modello del copyright. Creative Commons è un'associazione senza scopo di lucro creata nel 2001 negli Stati Uniti da Lawrence Lessig, studioso di diritto d'autore. Suo scopo principale è compilare testi di licenze già pronti, accompagnati da una versione deed, cioè sintetica e facilmente comprensibile anche grazie ad un'adeguata presentazione grafica, dei contenuti della licenza. La diffusione internazionale del progetto spiega perché esistano versioni “unported” delle licenze, che vengono create per il sistema legale anglosassone, e versioni “ported” adattate ai singoli contesti nazionali. Le licenze CC sono espresse in 3 modi: 1.un codice legale (la licenza vera e propria) 2.un deed leggibile dagli umani (un sommario della licenza in linguaggio semplificato) 3.un codice digitale (una traduzione della licenza leggibile dalle macchine, che fa sì che i motori di ricerca o altri agenti software possano identificare le opere CC a seconda dei loro termini d'uso. In sostanza, il sito CC crea un codice HTML da incollare nel sito in cui è pubblicata l'opera). Uno dei vantaggi del sistema Creative Commons consiste nella modularità delle condizioni che riconosce nelle sue licenze. Le condizioni a cui si vuol far sottostare la propria opera possono
  • 5. cioè essere scelte una per una, combinando a seconda delle necessità la condizione di attribuzione della paternità dell'opera (BY, Attribution), il suo utilizzo libero ma non a scopi commerciali (NC, Non-Commercial), la proibizione di trarre opere derivate dall'opera che si licenzia (ND, No Derivative Works), e l'imposizione di licenziare i contenuti derivanti dall'utilizzo dell'opera sotto un'identica licenza (SA, Share Alike). A queste condizioni si aggiunge la nuova licenza CC0 1.0 Universal1, che consente a scienziati, educatori, artisti e produttori di contenuti in genere di rinunciare completamente ai diritti legati al copyright, compresi i diritti morali di attribuzione (chi è l'autore). In questo modo il contenuto è immediatamente disponibile per chiunque senza limitazioni, come nel caso del pubblico dominio. Mentre il pubblico dominio contrassegna le opere i cui diritti di copyright sono scaduti, CC0 permette di fare qualcosa di simile prima che i diritti riconosciuti dalle varie e diverse legislazioni nazionali siano scaduti. Non in tutte le giurisdizioni è infatti facile situare un'opera nel pubblico dominio per libera scelta dell'autore, in questo modo si ha un'alternativa il più vicino possibile a quella del pubblico dominio. Mentre le altre licenze CC fanno sì che “alcuni” diritti (e non tutti) siano riservati, CC0 arriva al “nessun” diritto riservato. La licenza CC0 si distingue inoltre da: •Public Domain Dedication and Certification (“PDDC”) elaborata da Creative Commons, che serve per uno scopo diverso, cioè certificare che un'opera è già di pubblico dominio. Mentre questa certificazione si applica agli USA, non con altrettanta certezza si applica negli altri paesi. CC0 vuole invece essere una soluzione per ogni giurisdizione. •Public Domain Dedication and License (“PDDL”) elaborata da Open Data Commons (progetto della Open Knowledge Foundation), che si applica solo alle banche dati e ai dati in esse contenute. CC0 si applica a qualsiasi tipo di contenuto (articoli, opere artistiche, banche dati, eccetera). Esempi di utilizzo di licenze Creative Commons si riscontrano da parte di istituzioni pubbliche, sia in senso “passivo”, ovvero di riutilizzo di materiali prodotti altrove2, sia in senso “attivo”, con la scelta di licenziare le proprie pagine web con licenze libere3. Flickr costituisce una delle piattaforme di condivisione globale in cui le licenze Creative Commons sono molto utilizzate, sia in chiave personale-amatoriale, sia in chiave professionale da parte di fotografi professionisti che la utilizzano per pubblicizzare il proprio lavoro. Quest'ultimo caso rappresenta anche l'esempio dell'emergere di nuovi modelli di business basati sull'abbinamento di offerta gratuita e contenuti o servizi con valore aggiunto a pagamento. Molto ricco il panorama della produzione musicale con licenze libere, a partire da CC Mixter4, sito di condivisione che si apre a collaborazioni col mondo extra-musicale come nel caso di The White Cube della Ram Galleri, galleria d'arte contemporanea di Oslo, spazio espositivo per il quale è stato lanciato su CC Mixter un “concorso di idee” per la sonorizzazione. Il progetto si chiama The White Cube Remix Project5, e in meno di un mese dal lancio ha ottenuto la composizione di quasi un centinaio di tracce audio originali. Numerose anche le piattaforme per la condivisione di video e podcast che favoriscono la possibilità di utilizzare licenze aperte, come ad esempio blip.tv6. 1 http://creativecommons.org/choose/zero 2 Vedi ad es. l'utilizzo di immagini sul sito di Biblioteca Salaborsa in bibliografie per la promozione come http://www.bibliotecasalaborsa.it/bibliografie/20870. 3 Vedi ad es. i contenuti online prodotti da Salaborsa (http://www.bibliotecasalaborsa.it > xml-rss > metadata > license). 4 http://ccmixter.org/ 5 http://thewhitecube.info/ 6 http://blip.tv/
  • 6. Ci sono inoltre progetti paralleli dedicati a particolari campi, come Science Commons per la ricerca scientifica, in particolare in campo biomedico. I suoi scopi sono: “promuovere l'accesso libero alle pubblicazioni scientifiche, sviluppare modelli di licenza standard per facilitare un accesso più ampio all'informazione scientifica ed esplorare modi per accrescere la condivisione dei dati scientifici” (Charles M. Schweik, p. 314 Ostrom). Nel 2009, infine, Wikipedia ha deciso di adottare come primarie le licenze Creative Commons, in particolare la versione CC-BY-SA, per favorire il riutilizzo e l'interoperabilità dei suoi contenuti con la massa di contenuti nel frattempo prodotta online e pubblicata sotto licenza Creative Commons. Dati statistici sulla diffusione delle licenze CC sono disponibili su almeno due fonti. La prima, CC Monitor7, è un wiki che contiene dati statistici, grafici, ricerche e studi sull'adozione a livello mondiale delle licenze, con l'intento di diventare un punto di riferimento per la comunità degli utilizzatori, i ricercatori e la stampa. I dati costituiscono una stima e sono stati raccolti attraverso il motore di ricerca Yahoo. Il totale, puramente indicativo e aggiornato a novembre 2009, arriva a 207.514.390 licenze a livello mondiale (comprendendo quindi le licenze unported e ported). Le licenze italiane ammontano invece al numero di 8.804.446, portando il paese al secondo posto dopo la Spagna nella classifica dei 52 paesi che maggiormente adottano questo tipo di licenze8. Oltre ai dati puramente quantitativi è interessante considerare il cosiddetto freedom score dei vari paesi, ovvero il tasso di liberalità delle licenze calcolate su una scala 1-6 che va dalla massima alla minima quantità di diritti riservati9. Nella classifica dei 52 paesi, l'Italia si piazza considerevolmente in basso nella classifica degli utilizzatori di licenze più liberali, con un freedom score di 2,26 a fronte di una media mondiale di 3,46. La seconda fonte di dati è CC Metrics10 , che giunge ad una stima piuttosto diversa11 (350 milioni di licenze stimate a fine 2009) ma che può essere interessante per mostrare i tassi di crescita del fenomeno, molto sostenuti. In Italia il gruppo che si occupa delle licenze CC è rappresentata da studiosi che fanno capo al Dipartimento di studi giuridici dell'Università di Torino per gli aspetti legali e allo IEIIT-CNR (Istituto di Elettronica e di Ingegneria dell'Informazione e delle Telecomunicazioni) di Torino per gli aspetti tecnico-informatici. I suoi coordinatori sono stati dapprima il giurista Marco Ricolfi, e attualmente l'ingegnere Juan Carlos De Martin, mostrando la peculiare caratteristica del gruppo, più interdisciplinare di quelli presenti in altri paesi. Le prime licenze ported italiane sono state presentate nel 2004, mentre viene annunciato come molto vicino il rilascio della versione ported italiana 3.0, con novità importanti soprattutto rispetto al cosiddetto “diritto sui generis” europeo che copre i contenuti delle banche dati. In conclusione, si può ricordare come la ricerca economica si sia recentemente focalizzata sull'idea della conoscenza come bene comune, in particolare con l'opera di Elinor Ostrom e Charlotte Hess. Quello di commons, di beni comuni, è un concetto che nasce dall'analisi economica e sociale di 7 http://monitor.creativecommons.org/Main_Page 8 Va sottolineato che nella classifica dei vari paesi non vengono conteggiate le licenze unported, con l'evidente conseguenza che essa non tiene praticamente conto delle licenze utilizzate negli USA. 9 Lo score viene conteggiato attribuendo i seguenti valori: BY 6, BY-SA 4,5, BY-ND 3, BY-NC 4, BY-NC-SA 2,5 e BY-NC-ND 1. Fonte: Cheliotis. 10 http://wiki.creativecommons.org/Metrics 11 I motivi della differenza relativa alle stime possono essere numerosi: ad esempio il numero delle licenze calcolate dipende da come è scritto il codice delle risorse online e da come funziona il motore di ricerca che le censisce (ad es. una licenza unica per blog o per post, per singolo testo e immagini o per ognuno di essi, ecc. Non esistendo un registro ufficiale delle licenze, ci si può solo affidare ai motori di ricerca i cui algoritmi di funzionamento non sono completamente noti. Infine, la cifra più alta è la somma raccolta da Yahoo e Flickr mentre la più bassa proviene dal solo Yahoo.
  • 7. modelli di gestione di risorse fisiche naturali come i terreni di pascolo e le acque di pesca, che venivano gestiti in maniera collettiva al di fuori sia della proprietà individuale, sia di quella statale. A partire dagli anni '90 tale concetto ha cominciato ad essere applicato all'informazione digitale distribuita. “Storicamente, in Europa i commons configuravano zone agricole condivise, pascoli e foreste che, nel corso di cinque secoli, furono recintate da proprietari terrieri e dallo Stato, imponendo l’abolizione dei diritti comuni. La storia delle 'recinzioni' è una storia di privatizzazione, di ricchi contro poveri, di élite contro masse popolari. Quella che raccontiamo è la storia del «secondo movimento di enclosure», ... che ha comportato la recinzione degli «intangibili beni comuni della mente», attraverso la rapida espansione dei diritti di proprietà intellettuale.” (Charlotte Hess e Elinor Ostrom, p. 16 Ostrom) La maggior parte dei beni comuni naturali sono finiti ed esauribili. Invece, “I beni comuni della scienza, della comunità accademica e della cultura sono in primo luogo di natura sociale e 'informazionale'. Tendono a coinvolgere beni non 'rivali', che molte persone possono usare e condividere senza per questo deteriorare la risorsa.” (David Bollier, p. 39 Ostrom) Con un tipico effetto “di rete”, anzi, il valore di questi beni aumenta all'aumentare delle persone che partecipano (per esempio all'estensione di una rete telefonica, a sviluppare un software open source, alla letteratura scientifica e così via). “All'alba del XXI secolo, le nuove tecnologie hanno trasformato il modo in cui gli studenti apprendono, i docenti insegnano, gli studiosi ricercano e i bibliotecari distribuiscono le risorse per la ricerca. Ma le stesse tecnologie che consentono un accesso illimitato a queste risorse condivise al contempo le 'recintano', e dunque limitano le opzioni informative e il libero flusso delle idee. Di conseguenza, molte risorse accademiche che in passato erano disponibili attraverso le biblioteche sono oggi 'recintate', non più disponibili nel bene comune dove in passato erano apertamente condivise.” (Nancy Kranich, p. 83 Ostrom) Sono inoltre di recente state avanzate da parte di Lawrence Lessig, uno dei fondatori di Creative Commons, alcune riflessioni e proposte che intendono aprire la strada ad una visione matura della proprietà intellettuale, in un'ottica di “lotta contro gli estremismi associati al diritto d'autore” (Lessig, p. 239). Per “estremismi” si intendono sia gli abusi dell'industria culturale nel mantenere uno status quo difensivo degli interessi consolidati, sia la posizione potenzialmente “ideologica” propria delle pratiche P2P e di alcune frange del movimento copyleft. Rispettivi esempi di tale situazione fortemente oppositiva sono costituiti da un lato dalla recente decisione del ministro della cultura Bondi di imporre una tassa a favore della SIAE su qualsiasi supporto di memoria digitale, dal cellulare all'hard disk. Tale scelta costringerà qualunque utilizzatore di supporti, a prescindere dall'uso che intende farne, a pagare preventivamente per finanziare un compenso agli aventi diritti che si presume verranno non rispettati (una sorta di presunzione generalizzata di colpevolezza). Dall'altro lato, il freedom score piuttosto basso delle licenze Creative Commons adottate in Italia può costituire un esempio di adozione “ideologica”, non del tutto consapevole ed informata, del copyleft. Nell'ottica di far cessare la guerra – priva di soluzioni - delle lobby dell'industria culturale contro i moderni pirati digitali, Lessig rileva come “... il punto fondamentale di cui prendere atto è che la creatività RW non fa concorrenza al mercato delle opere creative che vengono remixate, né lo indebolisce. Questi due mercati si complementano, non si fanno concorrenza.” (Lessig, p. 33) Seguono dunque alcune proposte di riforma del copyright da parte di Lessig: •“Deregolamentare la creatività amatoriale”: ciò servirebbe a depenalizzare un utilizzo di
  • 8. materiali che non produce comunque una possibile fonte di guadagno per le grandi industrie culturali (Hollywood non può fare soldi dal video fatto in casa dal ragazzino utilizzando spezzoni di Guerre Stellari, così come gli editori di Harry Potter non sono in grado di ottenere ricavi dalle fanfiction). •“Diritti chiari”: un sistema opt-in (che preveda la protezione del diritto d'autore solo per chi ne faccia richiesta) invece di uno opt-out come quello attuale dovrebbe essere preso in considerazione. O, quantomeno, si potrebbe pensare ad un sistema di protezione automatica, ma solo per un periodo limitato, dopo il quale spetterebbe all'autore prorogare la protezione. “Se per il detentore del copyright non vale la pena, dopo 14 anni, di compiere qualche piccolo passo per registrare le proprie opere, non dovrebbe valere la pena per il governo di minacciare un procedimento giudiziario per tutelare la proprietà stessa.” (p. 214) •“Semplificare”: “dato che la legge sul diritto d'autore è fatta in modo tale da regolamentare Sony e vostro figlio di 15 anni, un sistema che immagina che ogni utilizzo sia esaminato da una torma di avvocati è talmente inadeguato da risultare criminale. Se la legge deve rivolgersi anche a vostro figlio, deve farlo in modo tale che lui possa capirla.” (p. 217) •“Decriminalizzare la copia”: il copyright dovrebbe smettere di regolamentare la produzione di copie a favore di una regolamentazione degli utilizzi. La distribuzione pubblica o commerciale, ad esempio, sono utilizzi diversi da quelli puramente amatoriali. •“Decriminalizzare il file sharing”: “autorizzando perlomeno quello non commerciale attraverso l'imposizione di una tassa che permetta di corrispondere royalty ragionevoli agli artisti di cui vengano condivise le opere, oppure autorizzando una semplice procedura di cessione di una licenza globale grazie a cui gli utenti possano acquistare, a poco prezzo, il diritto di condividere liberamente i file.” (p. 220) In conclusione, “I beni comuni elevano gli individui verso un ruolo superiore a quello di meri consumatori, spostando l'attenzione verso i loro diritti, le loro esigenze e responsabilità in quanto cittadini” (Nancy Kranich, p. 97 Ostrom) Riferimenti bibliografici e citazioni: La conoscenza come bene comune: dalla teoria alla pratica, a cura di Charlotte Hess e Elinor Ostrom, Milano, Bruno Mondadori, 2009 Lawrence Lessig, Remix: il futuro del copyright (e delle nuove generazioni), Milano, Etas, 2009 Simone Aliprandi, Creative Commons: manuale operativo. Guida all'uso delle licenze e degli altri strumenti CC, Viterbo, Stampa alternativa/Nuovi equilibri, 2008 http://www.stampalternativa.it/liberacultura/books/cc-manuale.pdf Giorgos Cheliotis et al., Taking Stock of the Creative Commons Experiment: Monitoring the Use of Creative Commons Licenses and Evaluating Its Implications for the Future of Creative Coomons and for Copyright Law, 2007 http://web.si.umich.edu/tprc/papers/2007/805/CreateCommExp.pdf Henry Jenkins, Cultura convergente, Milano, Apogeo, 2007 Si ringraziano: Federico Morando, Creative Commons Italia Pulpolux http://www.flickr.com/photos/pulpolux/