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TRASFORMAZIONI SOCIALI ALLA BASE DEL FENOMENO DEL
“LUSSO IN AFFITTO”
Nell’ultimo decennio, parallelamente a una crescente crisi economica che ha coinvolto gran parte
del mondo occidentale, abbiamo assistito all’espansione di un particolare fenomeno destinato non
solo ad acquisire un ruolo sempre più centrale nella società dei consumi, ma anche a cambiare gran
parte delle abitudini e dei comportamenti d’acquisto messi in atto dal consumatore moderno: il
lusso in affitto.
Che si tratti di vestiti costosi o borse firmate, piuttosto che di case di lusso, barche, sfarzose opere
d’arte o perfino jet, la pratica dell’affitto, soprattutto per quanto riguarda i beni di lusso, sta infatti
conoscendo un vero e proprio incremento che, se interpretato correttamente come segnale
emblematico del cambiamento sociale in atto, non solo lascia intuire un sempre più profondo
bisogno da parte di consumatori comuni di accedere a momentanee ed esclusive esperienze di lusso,
ma è anche lampante testimonianza di un fondamentale passaggio psichico e sociale da un’era
incentrata sul piacere del possesso permanente, a una caratterizzata da un più fugace e transitorio
godimento legato al solo accesso temporaneo a beni e servizi.
Obiettivo dell’elaborato è quindi approfondire l’emergere di questo fenomeno, non solo analizzando
i dati del mercato e i casi specifici che lo caratterizzano, ma prima di tutto ancorando la discussione
su un solido terreno di argomentazioni socio-psicologiche in grado di isolare, nel vasto insieme di
trasformazioni sociali alle quali siamo quotidianamente soggetti, alcuni fattori che ci sembrano
determinanti per spiegare la duplice espansione da una parte del fenomeno dell’affitto, e dall’altra,
più in generale, di quello del lusso; questa preliminare analisi teorica ci permetterà poi di integrare i
due diversi aspetti in un’unica visione di insieme in grado di cogliere alcuni fondamentali elementi
di spiegazione riguardo alla complessità del fenomeno del lusso in affitto.
I. Dalla società del possesso all’era dell’accesso: il boom degli affitti
Chiarito dunque l’obiettivo della nostra analisi, mettiamo momentaneamente tra parentesi il
concetto di lusso, che tratteremo più avanti, e concentriamoci dunque sulla molteplicità di fattori in
grado di contribuire alla spiegazione del rapido imporsi della cultura dell’accesso, e di conseguenza
della pratica del noleggio, sul più antico e tradizionale concetto di proprietà.
Seguendo la linea argomentativa del filosofo americano Jeremy Rifkin, che nel suo fortunato “L’era
dell’accesso” (Rifkin, J., 2000) fornisce un chiaro ed esaustivo quadro delle trasformazioni sociali
in atto all’inizio di questo millennio, i cambiamenti centrali dell’epoca attuale sono la
1
smaterializzazione dei beni di consumo e il progressivo declino dell’idea di proprietà; lontano
dall’uomo dell’età moderna, fortemente inserito in un rigido tessuto sociale caratterizzato da stabili
confini spaziali e dalla presenza di forti istituzioni politiche e religiose in grado di fornire a tutti una
solida ed univoca chiave interpretativa della realtà, l’uomo dell’età post-moderna, privo di questi
punti di riferimento e precipitato in un clima sociale di perenne incertezza, ha trovato nell’emergere
della tecnologia, e in particolar modo di internet, un potente strumento non solo per ridurre le
distanze con l’alterità, ma anche per individuare nuovi modelli di riferimento e possibili risposte
alle insicurezze quotidiane. In questo contesto in rapida trasformazione, nel quale gli spazi fisici e
concreti cedono inevitabilmente il posto a network e mondi virtuali, la priorità delle persone si è
spostata dall’accumulo di beni di proprietà, il cui ruolo era quello di affermare il sé in uno spazio
tangibile e visibile da tutti, all’accumulo di esperienze, ideali e beni astratti determinanti per
presentare ed esibire la propria identità in un mondo virtuale e in una complessa rete di relazioni
informatiche.
Il sé, da struttura monolitica e immutabile che incide sulla realtà circostante grazie all’utilizzo di
beni concreti, è diventato un’entità frammentata e flessibile, che plasma se stessa ad ogni incontro
con la realtà e che trova il suo senso in una auto-riaffermazione continua tramite diverse esperienze:
spostando così il focus dell’esistenza del sé dalla stabilità del mondo concreto alla flessibilità del
mondo della rete, la priorità non è più possedere, bensì accedere1
. Che si tratti di accesso alla rete
informatica, piuttosto che a una pluralità di informazioni o di idee, “la cultura dell’accesso”, nel
suo più profondo significato di libertà e possibilità per ogni individuo e in ogni momento di entrare
e uscire in ogni spazio rimanendovi comunque connessi, ha portato non solo a una progressiva
smaterializzazione di molti beni di consumo, spesso rimpiazzati dalla commercializzazione di
esperienze in grado di definire i confini di un sé mutabile, ma anche, ed è ciò che più ci interessa, a
una profonda svalutazione del concetto di proprietà, rimpiazzato dal più flessibile e mutevole ideale
di affitto: perché legarsi perennemente a un bene se quel che conta è accedervi liberamente?
Allontanandosi dal mito della materialità e aderendo all’ideale di movimento continuo, l’individuo
di oggi ritiene dunque fondamentale e prioritario non legarsi definitivamente a nulla, lasciandosi
libero, in ogni momento di accedere a tutto; nei comportamenti di consumo, così come nel livello di
attenzione posto nelle cose, prevale così l’atteggiamento teso a sperimentare e ascoltare più cose
contemporaneamente, evitando di spendere le proprie energie e il proprio tempo solo ed
esclusivamente su un’unica entità.
1
<<Negli anni a venire, si comincerà a pensare alla vita economica più in termini di accesso a servizi e a esperienze e
meno in termini di possesso di beni, segnando la fine dell’epoca della proprietà e dando il via all’era dell’accesso>>
(Rifkin, 2000, p.105)
2
Focalizzarsi su un’informazione, costruire una stabilità, possedere per sempre un bene, sono tutti
atteggiamenti che, sinonimi dello “stare fermi”, vengono percepiti come minacce in grado di
tagliare fuori l’individuo dai ritmi frenetici della rete informatica. Il legame stabile e definitivo
lascia dunque il posto a una serie di fugaci contatti con l’alterità, destinati molto probabilmente a
rimanere su un livello più superficiale.
Quanto questo atteggiamento sia esclusivamente rimandabile all’egemonia della cultura
dell’accesso e quanto sia anche in parte legato anche ad una sottostante e diffusa paura della
stabilità relazionale, e di tutti gli impegni che ne conseguono, non è facile a dirsi; possiamo però in
questo contesto provare a ipotizzare un legame tra la recente svalutazione della stabilità e del
relativo concetto di proprietà e il ciclo consumistico dell’usa e getta che ha caratterizzato la società
in cui abbiamo vissuto negli ultimi anni.
È infatti innegabile, in quest’ottica, che l’emergere della società dei consumi sia andato di pari
passo, e non casualmente, con lo sviluppo e la promozione di un’ideale di cambiamento continuo: è
stato infatti fatto di tutto per inculcare nell’uomo fin dalla nascita l’idea del mondo come <<enorme
contenitore di parti di ricambio che vengono rifornite in continuazione>>2
, da una parte elogiando
la forza del cambiamento, del rinnovamento continuo e dell’ambizione che non conosce mai limiti,
e dall’altra svalutando l’instaurarsi di relazioni stabili e la capacità di accontentarsi di ciò che si
possiede; l’imperativo categorico di questa società è sempre stato il movimento continuo, e il
desiderio è ciò su cui si è fatto leva per pervenire a questo stato.
Un consumatore che si accontenta di ciò che possiede rischia infatti di portare il mercato a una fase
di stagnazione, motivo per il quale la società dei consumi si è ferocemente impegnata a stimolare
bisogni tramite un ripetuto scoraggiamento di ciò che è vecchio e usato; la pazienza è una qualità da
reprimere: ciò che non funziona va gettato immediatamente per far posto a un nuovo bene che,
nonostante sia presentato come perfetto, dopo poco tempo incapperà inesorabilmente nello stesso
destino. L’imporsi di quest’ottica di pensiero, attutita solo in parte negli ultimi due anni da un
inesorabile clima di austerità, ha però inevitabilmente portato i suoi frutti, incrementando il ciclo
consumistico a scapito di una fissità relazionale. Non stupisce, dunque, che anche questi fattori
possano avere avuto come estrema conseguenza la svalutazione del concetto di proprietà e la
sostituzione con la più flessibile pratica dell’affitto: dato che legarsi a un bene significa doverlo
sostituire in tempi sempre più brevi, tanto vale noleggiarlo.
Sembra dunque evidente che la simultaneità fra il raggiungimento del culmine del ciclo
consumistico, con la conseguente svalutazione della stabilità, e l’ingresso nell’era dell’accesso, con
2
Bauman, Z., (2006), p. 24.
3
il relativo scoraggiamento della proprietà, abbia rappresentato un potente mix in grado di stimolare
la creazione di una società estremamente dinamica e sfuggevole, impaurita dal legame fisso e
stimolata dalla provvisorietà dell’accesso, che trova nell’affitto la sua naturale estrinsecazione.
Concludiamo questa prima parte di analisi evidenziando la relazione fra la diffusione sempre più
capillare del fenomeno del noleggio e la grave crisi economica che stiamo affrontando: se da una
parte è infatti innegabile che l’attuale situazione del mercato del lavoro imponga precarietà e
flessibilità incoraggiando soprattutto i più giovani ad un maggiore nomadismo e a un minore
legame con il territorio e la proprietà, ad avvantaggiare la scelta di affittare piuttosto che acquistare
gioca anche la crisi in sé, non solo per una mera questione di minore disponibilità di risorse
finanziarie, ma anche perché proprio questa maggiore povertà aumenta la paura di sbagliare ogni
investimento, incentivando così gli individui a forme di affitto che gli garantiscono, a differenza
degli acquisti, la possibilità di tornare indietro sulle proprie decisioni.
Il fenomeno dell’affitto in tempo di crisi, rimandato qui sopra a una dimensione di provvisorietà e
fugacità, trova allo stesso tempo un suo valore positivo per quanto riguarda l’ambiente e la
sostenibilità ad esso connessa, temi che trovano ampio riscontro nei dibattiti degli ultimi anni, a tutti
i livelli. Affittare un bene significa infatti risparmiare risorse, nella misura in cui si produce di
meno, economizzando fattori produttivi, ripetendo più volte, e per più persone, l’utilizzo del
medesimo bene; basti pensare in questo caso al debutto del fenomeno “car sharing”, che permette a
più persone, in base alle loro esigenze, di usufruire della medesima auto, risparmiando così i costi
legati alla benzina, implicando così nello stesso tempo un minore impatto ambientale. Lo stesso
discorso, può essere fatto per qualunque altro tipo di bene in affitto, a partire dai gioielli (con
conseguente risparmio rispetto al depauperamento ambientale dovuto alle operazioni di estrazione
delle materie prime implicate) fino alle pellicce, passando per le abitazioni (affittare una stessa casa,
in località turistiche, implica infatti evitare un fenomeno di cementificazione selvaggia legato alla
costruzione di abitazioni destinate alla vendita). In quest’ottica, il fenomeno dell’affitto può quindi
essere inteso nella sua accezione più positiva, rimandando a una dimensione di salvaguardia
dell’ambiente in cui viviamo, andando così a inquadrarsi come un’esternalità positiva della grave
crisi economica oggi in atto.
Non spetta tuttavia a noi, chiaramente, formulare un giudizio di merito riguardo alla positività o
negatività di queste trasformazioni sociali; ci limitiamo dunque semplicemente a sottolineare come
gran parte dei cambiamenti in atto stia spingendo il mondo dei consumi verso una sempre più
diffusa pratica dell’affitto: concetto, questo, che ci permette di comprendere meglio anche la
crescita del fenomeno del lusso in affitto.
4
II. La società individualistica e la crescita del lusso in affitto
Approfondito il fenomeno del boom dei noleggi, concentriamoci ora sul concetto di lusso, e in
particolare sulle trasformazioni sociali in atto che stanno favorendo la crescita di questo settore,
particolarmente sorprendente soprattutto considerando la sempre più grave crisi economica che
affligge il mondo occidentale.
Un’attenta analisi del lusso ai giorni nostri non può innanzitutto prescindere dalla valutazione di un
doppio binario teorico: se infatti da una parte la crescente domanda di beni di lusso è incrementata
dalla profonda richiesta dei paesi dell’est in forte espansione come Russia e Cina, e in questo caso
rimanda quindi a una dimensione di consumo legata maggiormente alla necessità di
differenziazione sociale e di attribuzione di un elevato status, dall’altra il boom del fenomeno lusso
è dovuto in parte anche a una maggiore richiesta da parte dei paesi occidentali, la quale però fa leva
su fattori differenti e maggiormente individualistici, sicuramente da indagare con maggior cura.
Se il consumo del lusso era, ed è tuttora per molti paesi emergenti, legato esclusivamente
all’acquisizione di un maggiore prestigio sociale, e quindi fortemente finalizzato non solo a segnare
una profonda distinzione fra ceti, ma anche a esibire sfarzosamente questa differenza, le ultime
trasformazioni sociali fra le quali l’aumento della povertà e la caduta dei forti punti di riferimento
collettivi hanno ridotto notevolmente, soprattutto nel mondo occidentale, i consumi di questo tipo,
orientando il lusso verso una dimensione maggiormente individualistica e meno rivolta alla
collettività.
Venute meno le grandi ideologie e le rigide distinzioni di classe, negli ultimi decenni, infatti,
l’uomo dell’età postmoderna ha smesso di acquistare oggetti di lusso per definire il proprio status o
per affermare la propria disponibilità economica, iniziando invece a acquisire esperienze di lusso
soltanto per regalare a se stesso la percezione di essere e sentirsi importante:
“Il termine lusso muta significato. Lusso è stato da sempre sinonimo di
prodotto costoso e che conferiva prestigio. Oggi la richiesta di acquisire
maggiore prestigio, che pure è presente, non è necessariamente prioritaria. È
l’enfasi sul sé a costituire il fattore più significativo del nuovo paradigma del
lusso. Quanto il vecchio paradigma era in larga misura eterodiretto (ossia il
lusso era orientato a comunicare il proprio prestigio sociale) tanto il nuovo è
autodiretto. Trattarsi bene, concedersi il meglio, sembra essere una sorta di
imperativo generalizzato, quanto meno per quel segmento di popolazione che
non è costretto a fare i conti con consistenti e persistenti problemi di
soddisfare esigenze elementari.”3
3
Franchi, M. (2007), p.60.
5
Liberato dai grossi vincoli di distinzione sociale e riscoperto in un’ottica fortemente
individualistica, l’intero mondo dei consumi contemporaneo si muove quasi esclusivamente
inseguendo la soddisfazione edonistica dei propri piaceri personali: è in questo senso che anche nel
lusso si assiste a un processo di democratizzazione, inteso come estensione trasversale del
fenomeno e raggiungimento di un grado di diffusione indipendente dallo status sociale di partenza.
Naturalmente, dietro alla diminuzione dell’esibizione sfarzosa dei propri beni di lusso vi è anche
una questione prettamente legata alla crisi quotidiana del mondo dei consumi: lo status di
“benestante” non è più un qualcosa da mostrare vanitosamente all’interno di una società sempre più
povera, ma diventa al contrario un qualcosa da nascondere o da custodire gelosamente in una sfera
più squisitamente solipsistica; anche in questo senso, dunque, il bene e l’esperienza del lusso
diventano un qualcosa sempre meno collettivo e sempre più legato a un puro piacere personale.
Chiaramente anche il mondo del lusso non è esente dalle trasformazioni sociali viste
precedentemente e facenti riferimento alla diffusione della cultura dell’accesso: perfino il focus del
mondo del lusso si sposta quindi da una dimensione più tangibile, e legata all’oggetto materiale in
sé, quale può essere un capo d’abbigliamento o un accessorio, a una più astratta, dove quello che
conta è l’edonistico accesso all’esperienza o al servizio di lusso: è questo il caso non solo
dell’affitto di beni prestigiosi, ma anche del provvisorio godimento di momenti di lusso, come il
soggiorno in prestigiosi alberghi o l’ingresso in raffinate spa, piuttosto che dell’importanza data al
punto vendita al momento dell’acquisto del bene di lusso.
Anche il fenomeno del lusso rientra quindi in un contesto sociale dove il sé, slegato da forti radici
ontologiche e da certezze universali, si trova solo e frammentato in una serie di parti da dover
riaffermare in ogni istante grazie all’accesso a esclusive esperienze, e esibire limitatamente solo in
un network informatico il cui accesso diventa unico strumento di costruzione di un’identità sociale.
Non sorprende, dunque, che in un quadro come questo, il fenomeno del lusso in affitto trovi le
fondamenta del suo successo proprio nella capacità di interpretare i più profondi mutamenti sociali.
6

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Il lusso in affitto: basi socio-psicologiche

  • 1. TRASFORMAZIONI SOCIALI ALLA BASE DEL FENOMENO DEL “LUSSO IN AFFITTO” Nell’ultimo decennio, parallelamente a una crescente crisi economica che ha coinvolto gran parte del mondo occidentale, abbiamo assistito all’espansione di un particolare fenomeno destinato non solo ad acquisire un ruolo sempre più centrale nella società dei consumi, ma anche a cambiare gran parte delle abitudini e dei comportamenti d’acquisto messi in atto dal consumatore moderno: il lusso in affitto. Che si tratti di vestiti costosi o borse firmate, piuttosto che di case di lusso, barche, sfarzose opere d’arte o perfino jet, la pratica dell’affitto, soprattutto per quanto riguarda i beni di lusso, sta infatti conoscendo un vero e proprio incremento che, se interpretato correttamente come segnale emblematico del cambiamento sociale in atto, non solo lascia intuire un sempre più profondo bisogno da parte di consumatori comuni di accedere a momentanee ed esclusive esperienze di lusso, ma è anche lampante testimonianza di un fondamentale passaggio psichico e sociale da un’era incentrata sul piacere del possesso permanente, a una caratterizzata da un più fugace e transitorio godimento legato al solo accesso temporaneo a beni e servizi. Obiettivo dell’elaborato è quindi approfondire l’emergere di questo fenomeno, non solo analizzando i dati del mercato e i casi specifici che lo caratterizzano, ma prima di tutto ancorando la discussione su un solido terreno di argomentazioni socio-psicologiche in grado di isolare, nel vasto insieme di trasformazioni sociali alle quali siamo quotidianamente soggetti, alcuni fattori che ci sembrano determinanti per spiegare la duplice espansione da una parte del fenomeno dell’affitto, e dall’altra, più in generale, di quello del lusso; questa preliminare analisi teorica ci permetterà poi di integrare i due diversi aspetti in un’unica visione di insieme in grado di cogliere alcuni fondamentali elementi di spiegazione riguardo alla complessità del fenomeno del lusso in affitto. I. Dalla società del possesso all’era dell’accesso: il boom degli affitti Chiarito dunque l’obiettivo della nostra analisi, mettiamo momentaneamente tra parentesi il concetto di lusso, che tratteremo più avanti, e concentriamoci dunque sulla molteplicità di fattori in grado di contribuire alla spiegazione del rapido imporsi della cultura dell’accesso, e di conseguenza della pratica del noleggio, sul più antico e tradizionale concetto di proprietà. Seguendo la linea argomentativa del filosofo americano Jeremy Rifkin, che nel suo fortunato “L’era dell’accesso” (Rifkin, J., 2000) fornisce un chiaro ed esaustivo quadro delle trasformazioni sociali in atto all’inizio di questo millennio, i cambiamenti centrali dell’epoca attuale sono la
  • 2. 1 smaterializzazione dei beni di consumo e il progressivo declino dell’idea di proprietà; lontano dall’uomo dell’età moderna, fortemente inserito in un rigido tessuto sociale caratterizzato da stabili confini spaziali e dalla presenza di forti istituzioni politiche e religiose in grado di fornire a tutti una solida ed univoca chiave interpretativa della realtà, l’uomo dell’età post-moderna, privo di questi punti di riferimento e precipitato in un clima sociale di perenne incertezza, ha trovato nell’emergere della tecnologia, e in particolar modo di internet, un potente strumento non solo per ridurre le distanze con l’alterità, ma anche per individuare nuovi modelli di riferimento e possibili risposte alle insicurezze quotidiane. In questo contesto in rapida trasformazione, nel quale gli spazi fisici e concreti cedono inevitabilmente il posto a network e mondi virtuali, la priorità delle persone si è spostata dall’accumulo di beni di proprietà, il cui ruolo era quello di affermare il sé in uno spazio tangibile e visibile da tutti, all’accumulo di esperienze, ideali e beni astratti determinanti per presentare ed esibire la propria identità in un mondo virtuale e in una complessa rete di relazioni informatiche. Il sé, da struttura monolitica e immutabile che incide sulla realtà circostante grazie all’utilizzo di beni concreti, è diventato un’entità frammentata e flessibile, che plasma se stessa ad ogni incontro con la realtà e che trova il suo senso in una auto-riaffermazione continua tramite diverse esperienze: spostando così il focus dell’esistenza del sé dalla stabilità del mondo concreto alla flessibilità del mondo della rete, la priorità non è più possedere, bensì accedere1 . Che si tratti di accesso alla rete informatica, piuttosto che a una pluralità di informazioni o di idee, “la cultura dell’accesso”, nel suo più profondo significato di libertà e possibilità per ogni individuo e in ogni momento di entrare e uscire in ogni spazio rimanendovi comunque connessi, ha portato non solo a una progressiva smaterializzazione di molti beni di consumo, spesso rimpiazzati dalla commercializzazione di esperienze in grado di definire i confini di un sé mutabile, ma anche, ed è ciò che più ci interessa, a una profonda svalutazione del concetto di proprietà, rimpiazzato dal più flessibile e mutevole ideale di affitto: perché legarsi perennemente a un bene se quel che conta è accedervi liberamente? Allontanandosi dal mito della materialità e aderendo all’ideale di movimento continuo, l’individuo di oggi ritiene dunque fondamentale e prioritario non legarsi definitivamente a nulla, lasciandosi libero, in ogni momento di accedere a tutto; nei comportamenti di consumo, così come nel livello di attenzione posto nelle cose, prevale così l’atteggiamento teso a sperimentare e ascoltare più cose contemporaneamente, evitando di spendere le proprie energie e il proprio tempo solo ed esclusivamente su un’unica entità. 1 <<Negli anni a venire, si comincerà a pensare alla vita economica più in termini di accesso a servizi e a esperienze e meno in termini di possesso di beni, segnando la fine dell’epoca della proprietà e dando il via all’era dell’accesso>> (Rifkin, 2000, p.105)
  • 3. 2 Focalizzarsi su un’informazione, costruire una stabilità, possedere per sempre un bene, sono tutti atteggiamenti che, sinonimi dello “stare fermi”, vengono percepiti come minacce in grado di tagliare fuori l’individuo dai ritmi frenetici della rete informatica. Il legame stabile e definitivo lascia dunque il posto a una serie di fugaci contatti con l’alterità, destinati molto probabilmente a rimanere su un livello più superficiale. Quanto questo atteggiamento sia esclusivamente rimandabile all’egemonia della cultura dell’accesso e quanto sia anche in parte legato anche ad una sottostante e diffusa paura della stabilità relazionale, e di tutti gli impegni che ne conseguono, non è facile a dirsi; possiamo però in questo contesto provare a ipotizzare un legame tra la recente svalutazione della stabilità e del relativo concetto di proprietà e il ciclo consumistico dell’usa e getta che ha caratterizzato la società in cui abbiamo vissuto negli ultimi anni. È infatti innegabile, in quest’ottica, che l’emergere della società dei consumi sia andato di pari passo, e non casualmente, con lo sviluppo e la promozione di un’ideale di cambiamento continuo: è stato infatti fatto di tutto per inculcare nell’uomo fin dalla nascita l’idea del mondo come <<enorme contenitore di parti di ricambio che vengono rifornite in continuazione>>2 , da una parte elogiando la forza del cambiamento, del rinnovamento continuo e dell’ambizione che non conosce mai limiti, e dall’altra svalutando l’instaurarsi di relazioni stabili e la capacità di accontentarsi di ciò che si possiede; l’imperativo categorico di questa società è sempre stato il movimento continuo, e il desiderio è ciò su cui si è fatto leva per pervenire a questo stato. Un consumatore che si accontenta di ciò che possiede rischia infatti di portare il mercato a una fase di stagnazione, motivo per il quale la società dei consumi si è ferocemente impegnata a stimolare bisogni tramite un ripetuto scoraggiamento di ciò che è vecchio e usato; la pazienza è una qualità da reprimere: ciò che non funziona va gettato immediatamente per far posto a un nuovo bene che, nonostante sia presentato come perfetto, dopo poco tempo incapperà inesorabilmente nello stesso destino. L’imporsi di quest’ottica di pensiero, attutita solo in parte negli ultimi due anni da un inesorabile clima di austerità, ha però inevitabilmente portato i suoi frutti, incrementando il ciclo consumistico a scapito di una fissità relazionale. Non stupisce, dunque, che anche questi fattori possano avere avuto come estrema conseguenza la svalutazione del concetto di proprietà e la sostituzione con la più flessibile pratica dell’affitto: dato che legarsi a un bene significa doverlo sostituire in tempi sempre più brevi, tanto vale noleggiarlo. Sembra dunque evidente che la simultaneità fra il raggiungimento del culmine del ciclo consumistico, con la conseguente svalutazione della stabilità, e l’ingresso nell’era dell’accesso, con 2 Bauman, Z., (2006), p. 24.
  • 4. 3 il relativo scoraggiamento della proprietà, abbia rappresentato un potente mix in grado di stimolare la creazione di una società estremamente dinamica e sfuggevole, impaurita dal legame fisso e stimolata dalla provvisorietà dell’accesso, che trova nell’affitto la sua naturale estrinsecazione. Concludiamo questa prima parte di analisi evidenziando la relazione fra la diffusione sempre più capillare del fenomeno del noleggio e la grave crisi economica che stiamo affrontando: se da una parte è infatti innegabile che l’attuale situazione del mercato del lavoro imponga precarietà e flessibilità incoraggiando soprattutto i più giovani ad un maggiore nomadismo e a un minore legame con il territorio e la proprietà, ad avvantaggiare la scelta di affittare piuttosto che acquistare gioca anche la crisi in sé, non solo per una mera questione di minore disponibilità di risorse finanziarie, ma anche perché proprio questa maggiore povertà aumenta la paura di sbagliare ogni investimento, incentivando così gli individui a forme di affitto che gli garantiscono, a differenza degli acquisti, la possibilità di tornare indietro sulle proprie decisioni. Il fenomeno dell’affitto in tempo di crisi, rimandato qui sopra a una dimensione di provvisorietà e fugacità, trova allo stesso tempo un suo valore positivo per quanto riguarda l’ambiente e la sostenibilità ad esso connessa, temi che trovano ampio riscontro nei dibattiti degli ultimi anni, a tutti i livelli. Affittare un bene significa infatti risparmiare risorse, nella misura in cui si produce di meno, economizzando fattori produttivi, ripetendo più volte, e per più persone, l’utilizzo del medesimo bene; basti pensare in questo caso al debutto del fenomeno “car sharing”, che permette a più persone, in base alle loro esigenze, di usufruire della medesima auto, risparmiando così i costi legati alla benzina, implicando così nello stesso tempo un minore impatto ambientale. Lo stesso discorso, può essere fatto per qualunque altro tipo di bene in affitto, a partire dai gioielli (con conseguente risparmio rispetto al depauperamento ambientale dovuto alle operazioni di estrazione delle materie prime implicate) fino alle pellicce, passando per le abitazioni (affittare una stessa casa, in località turistiche, implica infatti evitare un fenomeno di cementificazione selvaggia legato alla costruzione di abitazioni destinate alla vendita). In quest’ottica, il fenomeno dell’affitto può quindi essere inteso nella sua accezione più positiva, rimandando a una dimensione di salvaguardia dell’ambiente in cui viviamo, andando così a inquadrarsi come un’esternalità positiva della grave crisi economica oggi in atto. Non spetta tuttavia a noi, chiaramente, formulare un giudizio di merito riguardo alla positività o negatività di queste trasformazioni sociali; ci limitiamo dunque semplicemente a sottolineare come gran parte dei cambiamenti in atto stia spingendo il mondo dei consumi verso una sempre più diffusa pratica dell’affitto: concetto, questo, che ci permette di comprendere meglio anche la crescita del fenomeno del lusso in affitto.
  • 5. 4 II. La società individualistica e la crescita del lusso in affitto Approfondito il fenomeno del boom dei noleggi, concentriamoci ora sul concetto di lusso, e in particolare sulle trasformazioni sociali in atto che stanno favorendo la crescita di questo settore, particolarmente sorprendente soprattutto considerando la sempre più grave crisi economica che affligge il mondo occidentale. Un’attenta analisi del lusso ai giorni nostri non può innanzitutto prescindere dalla valutazione di un doppio binario teorico: se infatti da una parte la crescente domanda di beni di lusso è incrementata dalla profonda richiesta dei paesi dell’est in forte espansione come Russia e Cina, e in questo caso rimanda quindi a una dimensione di consumo legata maggiormente alla necessità di differenziazione sociale e di attribuzione di un elevato status, dall’altra il boom del fenomeno lusso è dovuto in parte anche a una maggiore richiesta da parte dei paesi occidentali, la quale però fa leva su fattori differenti e maggiormente individualistici, sicuramente da indagare con maggior cura. Se il consumo del lusso era, ed è tuttora per molti paesi emergenti, legato esclusivamente all’acquisizione di un maggiore prestigio sociale, e quindi fortemente finalizzato non solo a segnare una profonda distinzione fra ceti, ma anche a esibire sfarzosamente questa differenza, le ultime trasformazioni sociali fra le quali l’aumento della povertà e la caduta dei forti punti di riferimento collettivi hanno ridotto notevolmente, soprattutto nel mondo occidentale, i consumi di questo tipo, orientando il lusso verso una dimensione maggiormente individualistica e meno rivolta alla collettività. Venute meno le grandi ideologie e le rigide distinzioni di classe, negli ultimi decenni, infatti, l’uomo dell’età postmoderna ha smesso di acquistare oggetti di lusso per definire il proprio status o per affermare la propria disponibilità economica, iniziando invece a acquisire esperienze di lusso soltanto per regalare a se stesso la percezione di essere e sentirsi importante: “Il termine lusso muta significato. Lusso è stato da sempre sinonimo di prodotto costoso e che conferiva prestigio. Oggi la richiesta di acquisire maggiore prestigio, che pure è presente, non è necessariamente prioritaria. È l’enfasi sul sé a costituire il fattore più significativo del nuovo paradigma del lusso. Quanto il vecchio paradigma era in larga misura eterodiretto (ossia il lusso era orientato a comunicare il proprio prestigio sociale) tanto il nuovo è autodiretto. Trattarsi bene, concedersi il meglio, sembra essere una sorta di imperativo generalizzato, quanto meno per quel segmento di popolazione che non è costretto a fare i conti con consistenti e persistenti problemi di soddisfare esigenze elementari.”3 3 Franchi, M. (2007), p.60.
  • 6. 5 Liberato dai grossi vincoli di distinzione sociale e riscoperto in un’ottica fortemente individualistica, l’intero mondo dei consumi contemporaneo si muove quasi esclusivamente inseguendo la soddisfazione edonistica dei propri piaceri personali: è in questo senso che anche nel lusso si assiste a un processo di democratizzazione, inteso come estensione trasversale del fenomeno e raggiungimento di un grado di diffusione indipendente dallo status sociale di partenza. Naturalmente, dietro alla diminuzione dell’esibizione sfarzosa dei propri beni di lusso vi è anche una questione prettamente legata alla crisi quotidiana del mondo dei consumi: lo status di “benestante” non è più un qualcosa da mostrare vanitosamente all’interno di una società sempre più povera, ma diventa al contrario un qualcosa da nascondere o da custodire gelosamente in una sfera più squisitamente solipsistica; anche in questo senso, dunque, il bene e l’esperienza del lusso diventano un qualcosa sempre meno collettivo e sempre più legato a un puro piacere personale. Chiaramente anche il mondo del lusso non è esente dalle trasformazioni sociali viste precedentemente e facenti riferimento alla diffusione della cultura dell’accesso: perfino il focus del mondo del lusso si sposta quindi da una dimensione più tangibile, e legata all’oggetto materiale in sé, quale può essere un capo d’abbigliamento o un accessorio, a una più astratta, dove quello che conta è l’edonistico accesso all’esperienza o al servizio di lusso: è questo il caso non solo dell’affitto di beni prestigiosi, ma anche del provvisorio godimento di momenti di lusso, come il soggiorno in prestigiosi alberghi o l’ingresso in raffinate spa, piuttosto che dell’importanza data al punto vendita al momento dell’acquisto del bene di lusso. Anche il fenomeno del lusso rientra quindi in un contesto sociale dove il sé, slegato da forti radici ontologiche e da certezze universali, si trova solo e frammentato in una serie di parti da dover riaffermare in ogni istante grazie all’accesso a esclusive esperienze, e esibire limitatamente solo in un network informatico il cui accesso diventa unico strumento di costruzione di un’identità sociale. Non sorprende, dunque, che in un quadro come questo, il fenomeno del lusso in affitto trovi le fondamenta del suo successo proprio nella capacità di interpretare i più profondi mutamenti sociali.
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