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Facoltà di Scienze della Comunicazione
L’industria culturale in Italia:
il caffè letterario
di Davide Trebbi
Relatore: Correlatore:
Prof. Mario Morcellini Dott.Giovanni Ciofalo
Anno Accademico
2006-2007
2
3
Indice
1. L’industria culturale in Italia 5
1.1 Possibili definizioni 9
1.2 Enrico Caruso e la nascita dell’industria culturale
italiana
13
1.3 Lo sviluppo dell’industria culturale in Italia 15
1.4 Intellettuali o produttori culturali? 19
1.5 Comunicazione, media e consumo culturale in Italia 22
1.6 L’accesso culturale: Rifkin e la new economy 25
1.7 Nuovi archetipi umani e realtà virtuali 26
1.8 Nuove tecnologie e immaginario collettivo 28
2. I caffé letterari 35
2.1 Cultura al Caffé: dalla Mittel Europa all’Italia del Sud 39
2.2 Caffè storici d’Italia 41
2.3 Pasolini al Caffè: il Caffé Rosati in piazza del Popolo a
Roma
48
2.4 La Roma dei Caffé Letterari 51
2.5 Verso Praga 66
2.6 Sviluppi futuri 68
3. Lettere Caffè: il primo franchising della cultura 69
3.1 Le origini: dal 1999 ad oggi 73
3.2 Lettere caffè: tradizione e progressismo 76
3.3 We make the standard: Bill Gates al caffé letterario 77
3.4 Organizzazione e piani di sviluppo 78
3.5 L’esclusiva territoriale e il network 81
3.6 Manifesto dei Network Culturali Europei 82
3.7 I servizi offerti e il Know How 86
3.8 Il target 86
3.9 Vantaggi e valore aggiunto 87
3.10 Direzione artistica: il palinsesto culturale del caffè 88
3.11 Audience: fidelizzazione e strategia 90
3.12 Scouting network 92
4. Dialoghi al caffé 93
4.1 Musica d’autore: Claudio Lolli, autobiografia industriale 98
4.2 Cinema: Pierluigi Ferrari, un giorno da Leone 105
4
4.3 Stampa: Massimo Bucchi, la finestra sul cortile 110
4.4 Scrittura: Enza Li Gioi, amici di penna 116
5. Appendice 125
6. Bibliografia 129
5
CAPITOLO PRIMO
L’industria culturale in Italia
6
7
Si ritiene che esista un’industria culturale quando beni e servizi culturali sono
prodotti e riprodotti, immagazzinati e distribuiti con criteri industriali e
commerciali, cioè su larga scala e in conformità a strategie basate su
considerazioni economiche piuttosto che strategie concernenti lo sviluppo
culturale1
.
1
. Unesco, 1982, in “Classici resistenti al tempo”, M.Stazio, Il Mediaevo Italiano a cura di Mario
Morcellini, Carocci, 2005, pag.145
8
9
1.1 Possibili definizioni
Un’industria culturale è un industria che produce beni culturali. Più in
generale si preferisce parlare di industrie culturali, al plurale, includendovi
anche le industrie dell’intrattenimento o dell’informazione. A ben vedere
queste definizioni riguardano profondamente la società occidentale o Nord
del mondo, industriale appunto; individuando un inizio storico di queste
nuove industrie nel momento in cui l’opera d’arte diviene riproducibile e
quindi diffondibile su larga scala 2
. “Il mercato dell’arte e della cultura si
trova a confrontarsi con le nuove possibilità offerte da forme sempre più
raffinate di riproducibilità tecnica, e gli intellettuali cominciano a sentirsi
minacciati nel loro ruolo di fari guida della società”3
. La produzione di beni
culturali su larga scala viene analizzata per la prima volta dalla Scuola di
Francoforte che, delineando le caratteristiche di cultura di massa,
differenzia questo tipo di industria dalla più spontanea e diretta arte
popolare in genere. Storicamente i primi studi francofortesi a cura di
Adorno e Horkheimer corrispondono all’affermazione del capitalismo
monopolistico in Europa e negli Stati Uniti e alle prime definizioni di
media power4
. La critica marxista alla produzione di beni, ripresa dalla
Scuola di Francoforte, tende ad individuare le motivazioni profonde
nell’accumulo del capitale non per mezzo di decisioni creative o politiche
prese da singoli artisti o imprenditori illuminati ma piuttosto come
2
. Cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966
3
. Da: http://www.industriaculturale.it
4
. Storicamente questo tipo di studi analizzano i metodi con cui i maggiori totalitarismi europei
dell’epoca, Fascismo e Nazismo, organizzano il loro consenso attraverso i media di mass e
principalmente la radio e il cinematografo.
10
manipolazione del desiderio e del perseguimento di un profitto. Il termine
“industria culturale” viene usato da Horkheimer e Adorno nella "Dialettica
dell'Illuminismo” del 1942, in cui è illustrata “la trasformazione del
progresso culturale nel suo contrario”, sulla base di analisi di fenomeni
sociali caratteristici della società americana tra gli anni Trenta e Quaranta.
Negli appunti precedenti la stesura si usava il termine “cultura di massa”,
sostituita poi con “industria culturale per eliminare l'interpretazione di ciò
che tratti di una cultura che nasce spontaneamente dalle masse stesse, come
una forma contemporanea di arte popolare”5
.
Il mercato di massa impone standardizzazione e organizzazione: i gusti del
pubblico e i suoi bisogni impongono stereotipi di bassa qualità. Succede
però che in questo circolo di manipolazione e di bisogno che ne deriva, che
l'unità del sistema si stringe sempre di più. Sotto le differenze, rimane
l'identità di fondo: quella del dominio che l'industria culturale persegue
sugli individui: "ciò che di continuamente nuovo essa offre non è che il
rappresentarsi in forme sempre diverse di un qualcosa di eguale" (Adorno,
1967). La macchina dell'industria culturale determina essa stessa il
consumo ed esclude tutto ciò che è nuovo, che si configura come rischio
inutile, avendo eletto a primato l'efficacia dei suoi prodotti attraverso la
creazione di nuovi tipi di consumatori con sempre maggiori bisogni da
soddisfare e altrettanti nuovi e sempre nuovi bisogni da creare.
Le industrie culturali, con le loro continue e rinnovate promesse di
soddisfacimento di questi bisogni, dal ludico all’ideologico, creano nei
consumatori la sensazione spesso reale e realizzabile del pieno ma
5
. Adorno, 1967
11
momentaneo soddisfacimento degli stessi. Il risultato inevitabile è la
creazione di eterni consumatori. Per ottenere un risultato così totalizzante,
oltre all’offerta di un prodotto c’è la necessità di veicolare un messaggio
pubblicitario che accompagni il prodotto in vendita e colmi i vuoti reali di
un prodotto finale spesso fittizio e temporalmente delineato.
Gli stessi produttori di beni culturali diventano anche i diffusori tecnologici
degli stessi: la Sony produce apparecchi per ascoltare musica, masterizzarla
e quant’altro e al tempo stesso è tra le maggiori case discografiche (major)
del mondo; un esempio evidente di come le industrie culturali siano un vero
e proprio sistema con una profonda unità strutturale.
Il pubblico viene svincolato dalla precedente definizione di folla e comincia
a definire i suoi gusti, i suoi orientamenti culturali che andranno
gradualmente ad alimentare anche i profitti dei produttori di cultura.
Dicono ancora Adorno e Horkheimer a proposito dei prodotti dell' industria
culturale: “[…]sono fatti in modo che la loro apprensione adeguata esige
bensì prontezza di intuito, doti di osservazione, competenza specifica, ma
anche da vietare addirittura l'attività mentale dello spettatore, se questi non
vuol perdere i fatti che gli passano rapidamente davanti” (Horkheimer -
Adorno, 1947). Costruiti apposta per un consumo distratto, non
impegnativo, questi prodotti riflettono, in ognuno di loro, il modello del
meccanismo economico che domina il tempo del lavoro e quello del non-
lavoro. “Lo spettatore non deve lavorare di testa propria: il prodotto
prescrive ogni reazione: non per il suo contesto oggettivo- che si squaglia
appena si rivolge alla facoltà pensante- ma attraverso i segnali. Ogni
12
connessione logica, che richieda fiuto intellettuale, viene
scrupolosamente evitata”6
.
A questo proposito Morin7
, nel suo L’esprit du temps 8
, mette in
evidenza la lacerante contraddizione tra le nuove esigenze tecniche
che creano standard culturali e la natura soggettiva del consumo
culturale che ne segue; infatti Morin ritiene che la dialettica tra il
sistema di produzione culturale e i bisogni culturali dei consumatori
6
. Horkheimer - Adorno,1947
7
. Edgar Morin, sociologo e antropologo francese. Nasce l’8 luglio del 1921 a Parigi, figlio unico di una
coppia di ebrei di origini spagnole. In realtà il suo cognome era Nahum: Morin è il cognome che
prenderà dalla sua prima moglie, conosciuta durante la militanza antifascista. Durante la formazione
scolastica si appassiona alla letteratura e al cinema, ma vede nascere anche il suo interesse per la
filosofia e la politica. Sarà proprio la grande passione per la politica a spingerlo ad iscriversi al Partito
Comunista Francese nella seconda guerra mondiale, e a partecipare in prima linea alla Resistenza. Finita
la guerra collabora con diversi giornali, occupandosi di tematiche politiche ma anche sociali. Nel 1950
entra al CNRS (Consiglio nazionale per la ricerca scientifica) di cui tuttora è membro, come ricercatore
nell’ambito sociologico. Nonostante il grande impegno delle ricerche, non interrompe l’attività di
giornalista: nel 1957 fonda, infatti, la rivista di politica “Arguments”, e nel 1967 la rivista
“Communication” insieme a Roland Barthes e a George Friedmann. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta
si concentra sull’esplorazione della cultura di massa, dei suoi meccanismi e dei suoi effetti
sull’individuo: tra le opere di quel periodo, I divi, pubblicato nel 1957, e Lo spirito del tempo, edito nel
1962. All’inizio degli anni ’70 le sue ricerche subiscono un cambio di tendenza, orientandosi all’analisi
del rapporto tra scienza e tecnologia, dopo essere entrato in contatto con la teoria dei sistemi, la teoria
dell’informazione e la cibernetica. In questo modo sviluppa le prime riflessioni sul pensiero complesso,
e sulla necessità di un metodo capace di ridurre la laboriosità nella conoscenza scientifica, e pubblica il
primo volume de Il metodo, la base teorica di tutto il suo lavoro negli anni seguenti. Intraprende anche
numerosi viaggi, soprattutto in America Latina, che gli permettono di entrare in contatto con diverse
culture, ma soprattutto con i risvolti negativi della scienza, del capitalismo e della sempre crescente
occidentalizzazione della cultura. Nel 1982 pubblica Scienza con coscienza, in cui presenta i limiti, le
possibilità e le responsabilità sociali della scienza. Nel corso degli anni ’90 concentra la sua riflessione
sull’educazione, in particolare pone l’attenzione sulla necessità di “educare all’era planetaria”. Secondo
Morin, la formazione scolastica attuale è incapace di fornire gli strumenti necessari a comprendere la
complessità del presente; la soluzione risiede in un’ educazione multidisciplinare, perché solo attraverso
una visione che comprenda le varie sfumature del mondo contemporaneo si potranno abbattere i confini
creati dalla scienza e dall’economia, per poter così giungere ad un “umanesimo planetario”.Il suo
grande impegno nel campo della formazione lo porta a ricevere, nel 1998, l’incarico di presiedere il
Comitato scientifico per la riforma dei saperi da parte del Ministro dell’Educazione
francese.Attualmente è presidente dell’Associazione per il pensiero complesso di Parigi e dell’Agenzia
europea della cultura dell’UNESCO.
8
. 1962, tradotto poi in Italia col titolo: “L’Industria culturale”, Meltemi, 2002
13
è il vero problema nello studio dell’industria culturale.9
Morin tende
a ridimensionare il ruolo della cultura alta contrapposto alla cultura
di massa; egli non manca di evidenziare l’egemonia valoriale degli
Stati Uniti, primi produttori di beni culturali industriali, e il fatto che
la cultura di massa sia cultura dei consumi e infine, che essa tenda ad
essere media nella sua aspirazione e ispirazione, quindi a tagliar fuori
coloro che sono materialmente troppo poveri, o spiritualmente troppo
ricchi per i sogni che produce. La cultura di massa e la cultura
industriale, rimangono per Morin, l’unico grande terreno di
comunicazione tra classi sociali e culture diverse, l’unico esempio di
cultura universale della storia dell’umanità”10
.
1.2 Enrico Caruso e la nascita dell’industria culturale italiana
Nel 1902, Fred e Will Gaisberg, si trovano in Italia per registrare, per conto
della loro azienda Gramophone & Typewriter Co., la voce di papa Leone
XIII. L’11 Marzo dello stesso anno, durante una rappresentazione della
Germania di Franchetti11
, debutta al teatro La Scala di Milano, il
ventinovenne Enrico Caruso, tenore molto stimato dal pubblico teatrale
italiano dell’epoca. I fratelli Gaisberg, affascinati dalle doti tecniche del
giovane artista italiano, decidono di provare a registrare la sua voce su
grammofono Berliner12
.
9
. Edgar Morin, “L’esprit du temps, 1962
10
. http://www.industriaculturale.it
11
. Alberto Franchetti , compositore, 1860-1942
12
. Emile Berliner inventore del grammofono e fondatore della sopra citata Gramophone & Typewriter
Co.; cfr. L’industria culturale in Italia, Michele Sorice, Editori Riuniti, Roma, 1998
14
Il disco realizzato dai due fratelli americani e interpretato da Caruso,
accompagnato al pianoforte da Salvatore Cottone, sarà un successo
commerciale di dimensioni prima europee e poi mondiali. Questo
avvenimento, tanto fortuito quanto epocale potrebbe essere considerato
come l’inizio dell’industria discografica di massa; il primo caso di bene
culturale diffuso su larga scala, distribuito e stampato per un vasto
pubblico. Per quanto riguarda l’Italia, possiamo individuare altri casi di
prodotti culturali diffusi su larga scala come ad esempio il “Pinocchio” di
Collodi13
.
Il nascente processo di industrializzazione culturale in Italia14
, può
riscontrasi in molteplici eventi quali: la nascita a Milano del primo grande
magazzino di abiti confezionati Aux Villes d’Italie (1877) oppure la
creazione della Fiat di Torino nel 1899. “…l’automobile è un bene simbolo,
connesso alla percezione sociale della cultura e dei suoi miti 15
”. Ancora, la
fondazione della Siae (Società italiana autori ed editori) nel 1882 al fine di
tutelare il diritto d’autore delle nuove opere in distribuzione sul territorio
nazionale. La cultura moderna e la sua nascita simbolica. Secondo Alberto
Abbruzzese, è possibile individuare nella grande Esposizione Universale di
Parigi del 1900; all’interno di questa importante esposizione la merce non
solo assume una dimensione spettacolare ma viene anche scenicamente
rappresentata.
La nascente industria culturale italiana passa anche attraverso le grandi
messe in scena di opere quali l’“Aida” di Giuseppe Verdi che registra fino a
13
. Le avventure di Pinocchio, storia di un burattino, Carlo Collodi, 1881
14
. Michele Sorice, L’industria culturale in Italia, Editori Riuniti, Roma, 1998, pag. 12
15
40.00016
spettatori paganti nell’Arena di Verona nel 1913. Già nel 1912
poi, l’Italia si presentava come grande esportatrice di prodotti
cinematografici17
. Grazie a nuove tecnologie e alla diffusione su larga scala
di prodotti culturali, il Novecento registra per la prima volta anche la
scoperta di un pubblico, finalmente vasto e conseguentemente di massa.
1.3 Lo sviluppo dell’industria culturale in Italia
Il percorso classico è: aumento della scolarizzazione, diffusione di massa
della stampa periodica e quotidiana, diffusione della radio, poi del cinema,
poi della televisione. Da noi invece la diffusione di massa della radio, del
cinema e soprattutto della televisione precedono l’aumento della
scolarizzazione.18
Questa osservazione preliminare del caso italiano ci permette di individuare
ulteriori specificità del nostro paese e analizzare le tappe fondamentali
dello sviluppo tecnologico e mediale del sistema culturale italiano.
Importante è il ruolo che la televisione generalista ha avuto in Italia,
“all’inizio degli anni ’50 […] l’Italia si connota per un’offerta culturale
nuova fondata sull’azione e sul carisma dei mezzi di comunicazione. Si
determina uno scenario sociale caratterizzato da valori, aspirazioni e stili di
vita sostanzialmente condivisi a livello di massa […] in cui i media e gli
apparati culturali si rinnovano a livello di diffusione e prestigio rispetto allo
16
. L’Arena di Verona all’epoca poteva contenere al massimo 21.500 spettatori. I 40.000 di cui parlò la
stampa denotano la grande attenzione che spettacoli del genere cominciavano a destare anche all’interno
della stampa italiana.
17
. E’ del 1909 la fondazione a Milano della Federazione Cinematografica.
18
. G. Bechelloni, F. Rositi, Il sistema delle comunicazioni di massa in Italia, in “Problemi
dell’informazione”, I, 1977, pag. 35
16
snaturamento del periodo fascista, finendo per interpretare precipuamente
la spinta alla modernizzazione. Essi, anzi, diventano i più importanti
diffusori e ripetitori delle mete socioculturali collettivamente condivise”19
.
Politicizzazione e lottizzazione dei media italiani sono state le principali
cause di contraddizioni interne e di sviluppi irregolari nei rapporti tra potere
politico, comunicazione e società. Questo sconcertante errore dell’intera
classe politica (di ogni tendenza e partito) portò al tentativo di mantenere il
controllo della Rai sulle trasmissioni nazionali e di favorire una dispersione
di piccole emittenti locali. Il risultato fu una mancanza di norme chiare, che
non impedì lo sviluppo di reti nazionali private, ma ne perse il controllo. La
situazione di “duopolio” risultante è quella che conosciamo, con tutte le
conseguenze su cui si continua a discutere. Compreso il predominio di un
“generalismo” appiattito che non favorisce lo sviluppo di qualità più
precise e più adatte alle esigenze di un pubblico molto meno “omogeneo”
di come lo si immagina secondo i cliché della “cultura di massa”.
Dal dopoguerra fino agli anni Settanta, il sistema televisivo in Italia riflette
perfettamente il sistema industriale presente nel paese: da un modello
spiccatamente taylorista-keynesiano20
, si passa, grazie anche al
19
. Mario Morcellini in “Il Mediaevo italiano, proposte di analisi per l’industria culturale”, Carocci,
2005, I, 1.7, pag. 35. I processi politici che guidano in Italia lo sviluppo dei nuovi media sono allo
stesso tempo, emancipatori e dirigisti, definendone la storica fragilità in termini di sviluppo
socioculturale e modernizzazione. La scarsa propulsività interna agli apparati e conseguentemente i
limiti culturali, industriali e aziendali dei dirigenti italiani hanno condizionato negativamente e
frammentato ulteriormente lo sviluppo di industrie culturali omogenee nel nostro paese. Il cinema e la
radio prima e la Tv poi, hanno sempre risentito in Italia, dei profondi limiti e obblighi imposti dal
sistema di governo (con costanti tagli di spessa pubblica nei campi maggiori della cultura) e dalla
sfiducia remunerativa nelle imprese culturali.
20
. Riscontrabile in industrie come la Fiat, beneficiata, secondo politiche keynesiane, dal continuo
intervento statale col risultato di ottenere di fatto consolidate posizioni nel mercato nazionale nonché
una pressoché totale assenza di concorrenza e quindi un monopolio di fatto. Parallelamente la
televisione nazionale (Rai), si ritrova in una posizione di dominanza assoluta e col finanziamento
“pubblico” tramite un canone radiotelevisivo che gli italiani pagano per poterne usufruire come
spettatori.
17
cambiamento della domanda da parte del pubblico, ad un modello di
consumo più personalizzato. Il consumo mediale privato, diventa così la
nuova frontiera delle nuove emittenti televisive locali, di medie e piccole
dimensioni, che grazie al fondamentale apporto economico derivato dalle
sponsorizzazioni private, riescono a soddisfare nuove fasce di pubblico. Gli
investimenti pubblicitari, col passare del tempo, si rivolgeranno sempre più
nei confronti di ambiti meno generalisti e più dedicati , privilegiando
prodotti personalizzati (narrowcasting). I progressivi sviluppi tecnologici
porteranno, dagli anni Novanta in poi, a concezioni e creazioni di palinsesti
sempre più personalizzati fino ad arrivare al sistema pay-tv che consente
all’utente di decidere la sua dieta televisiva, sia per gli orari di fruizione sia
per le modalità di consumo del prodotto televisivo: stabilendo una scaletta
personale della propria programmazione su schermo. Il fondamentale
passaggio dai media di massa (mass media) ai personale media (prima fra
tutto il personal computer) ridefinisce un nuovo ruolo della televisione, che
pur rimanendo il media più radicato e ancora più diffuso, deve fare i conti
con le nuove tecnologie e quando possibile, integrarle.
Possiamo individuare tre fasi fondamentali riguardanti il ruolo e lo sviluppo
del mezzo televisivo in Italia: la prima, rappresentata da una Tv generalista,
attraverso un monopolio pubblico che dura di fatto fino al 197521
; la
seconda, definibile come neotelevisione , passaggio tra vecchi e nuovi
linguaggi, caratterizzata da nuove strategie di consumi e dalla presenza di
un iniziale mercato pubblicitario; la terza e attuale fase, post-televisione,
contraddistinta dal passaggio e dall’aggiornamento di un media ormai
21
. Nel 1975 viene creata una Commissione di vigilanza parlamentare sulla Rai e concessi nuovi spazi
ad emittenti private di medie e piccole dimensione. La creazione di questa Commissione rappresenta,
almeno formalmente, la fine di un uso strumentale del mezzo televisivo da parte dei governi in carica
18
vecchio come la televisione in favore di nuovi media, interattivi e virtuali
(es. Internet)22
. Più che di multimedialità, in Italia, si potrebbe parlare, dagli
anni cinquanta in poi, di progressiva intermedialità tra vecchi e nuovi
sistemi di comunicazione: radio e Tv prima; Internet, telefonia mobile e
nuove tecnologie dagli anni Novanta in poi.
“I poveri di media alla periferia dell’impero mediatico” in Italia da Nord a
Sud, vanno ad ampliare la cosiddetta fascia di “classe media
radiotelevisiva”, poco affine ai nuovi media e consumatrice dei media
storicamente testati e approfonditi dai più (radio,tv e stampa). Possiamo
inoltre suddividere la storia dell’industria culturale italiana in due grandi
fasi storiche: la prima contraddistinta dall’avvento del regime fascista e
dalla seguente ricostruzione post-bellica; la seconda orientata invece verso
il mercato e le sue logiche produttive. La prima fase denota un
atteggiamento pedagogico nella produzione di cultura, lo scopo principale,
e non solo in Italia, è l’acculturazione delle masse e la necessità di un
livellamento della società secondo un sistema propagandistico. La seconda
fase, passando da un sistema “artigianale” di produzione, approda ad un
nuovo media system per conquistare un mercato sempre maggiore. In Italia
non si è mai sviluppata la televisione “via cavo”, che in altri paesi ha avuto
una larga diffusione. I motivi sono vari, ma il principale è uno: quando
stava per aprirsi la possibilità della diffusione “via cavo” in Italia, fu scelto
invece di “liberalizzare” le trasmissioni “via etere”. Un’improvvisa crescita
del numero di canali disponibili distolse l’attenzione dalle possibilità che
avrebbe offerto lo sviluppo di aree “cablate” (che in altri paesi sono state,
parecchi anni fa, anche il primo strumento di accesso alle trasmissioni
22
.Cfr. L’industria culturale, tracce di immagini di un privilegio, A. Abruzzese, D. Borrelli, Carocci,
Roma, 2001, pag. 224
19
satellitari). Anche nella ricezione delle trasmissioni dai satelliti l’Italia è in
forte ritardo. Ora la situazione si sa evolvendo, ma ovviamente è troppo
presto per poter fare ipotesi o previsioni su come si svilupperà nei prossimi
anni. La televisione a cinquecento o mille canali è ormai da tempo una
concreta possibilità tecnica. Se si realizzasse permetterebbe un
cambiamento radicale dei comportamenti. Ognuno potrebbe scegliere il
programma che vuole, all’ora che preferisce. Ma la televisione
“generalista” è radicata nelle abitudini ( più di chi produce la televisione
che di chi la guarda). Produrre e organizzare i contenuti necessari per una
televisione più selettiva, che offra a ciascuno una larga libertà di scelta, è
un’impresa molto impegnativa. Ciò che la tecnologia permetterebbe di
realizzare in tempi brevi probabilmente si farà attendere ancora per
parecchi anni.
1.4 Intellettuali o produttori culturali?
Per la sensibilità moderna e contemporanea, il termine “intellettuale”,
diffuso soprattutto in area germanica, sin dai primi decenni del secolo XIX,
ma che avrà fortuna soprattutto dal 1898 con il cosiddetto caso Dreyfus23
in
Francia, evoca l’immagine di un professionista della cultura (scrittore,
23
. Dreyfus (1894-1906) fu il primo clamoroso caso politico-giudiziario scoppiato nella Francia della
Terza repubblica. Nel 1894 Alfred Dreyfus (Mulhouse 1859 - Parigi 1935), ufficiale di origine ebraica
impiegato presso il ministero della Guerra, fu accusato di aver rivelato segreti relativi alla difesa
all'addetto militare tedesco a Parigi. Arrestato in ottobre, dopo un giudizio sommario Dreyfus fu
degradato e condannato alla deportazione a vita nell'isola del Diavolo (Caienna). L'opinione pubblica
francese, travolta da un'ondata di antisemitismo, dimenticò il caso finché nel 1896, il comandante G.
Picquart, nuovo responsabile dell'ufficio informazioni del ministero, riaprì le indagini, persuaso della
colpevolezza di un altro ufficiale francese, Esterhazy. Questi però nonostante la debolezza delle prove a
carico di Dreyfus, venne scagionato dal consiglio di guerra (1898), mentre il governo Méline subiva
passivamente le laceranti polemiche che dividevano i francesi in due correnti d'opinione: i dreyfusards
(intellettuali, socialisti, radicali e repubblicani antimilitaristi) e gli antidreyfusards (la destra
nazionalista, antisemita e clericale).
20
politologo, sociologo, filosofo) che stabilisce con il potere un rapporto
dialettico (di opposizione o di connivenza) e che a vario titolo si fa
portavoce di istanze dominanti o marginali dell’opinione pubblica, di cui
viene considerato parte integrante e talvolta guida o ispiratore.
Si tratta dunque di una nozione inconcepibile se non in presenza di diffusi
mezzi di comunicazione (è inizialmente connessa alla stampa giornalistica)
e non di rado esposta, soprattutto da parte dei conservatori, ad una
connotazione denigratoria o quantomeno ironica24
.
Per dirla con Abruzzese, gli intellettuali: “[…]possono parlare a nome del
Principe o contro la sua volontà, ma fanno comunque parte di un unico
sistema di potere, sono parte dei suoi conflitti”25
.
Di fronte ai mutamenti sociali gli intellettuali hanno bisogno, per poter
divulgare le proprie idee, di “potenti casse di risonanza”, di mezzi di
comunicazione che diano visibilità al loro “appeal intellettuale”; risulta
evidente e necessaria dunque, una distinzione tra l’intellettuale che si
occupa di scuola, università e società contrapposto o differenziato
dall’intellettuale che opera nel campo dello spettacolo, delle tv e della
stampa. In Italia gli intellettuali “puri”, che potremmo definire accademici,
hanno dimostrato una scarsa influenza sociale dovuta alla cronica
debolezza ed incoerenza del sistema italiano nell’armonizzare il mondo
della ricerca scientifica con quello degli apparati pubblici e privati.
Diversamente la comunità degli appartenenti al mondo della scrittura,
24
.Intellettuali e teorie sull’industria culturale camminano lungo l’asse che va dalle posizioni più critiche
a quelle maggiormente integrate, tra coloro che hanno considerato la condivisione sempre più ampia
della cultura come un’operazione fittizia atta a illudere e magari ottundere le masse e coloro che invece
hanno salutato con favore la democratizzazione della cultura, anche se il prezzo da pagare era un
adattamento della cultura stessa ai suoi nuovi destinatari.
25
. Alberto abruzzese, Intellettuale versus industria culturale, in “Il Mediaevo italiano, a cura di Mario
Morcellini, Carocci, 2005, 4.14, pag. 122.
21
giornalisti delle carta stampata, critici professionisti, hanno trovato una loro
maggiore autorevolezza proprio però non discostandosi da uno dei media
più radicati nel paese quale appunto è la carta stampata.
La stampa, contrassegnata da ampi spazi di approfondimento, ha
rappresentato storicamente il luogo di incontro di idee e intellettuali, sui
maggiori argomenti di attualità ma anche su questioni più ampie26
. Il
dibattito culturale, ospitato nelle pagine di quotidiani e settimanali, ha reso
possibile l’esistenza e la divulgazione di idee ed opinioni che altrimenti si
sarebbero mal adattate al mezzo televisivo, basato e regolato sulla news.
Intellettuali come Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia o Umberto Eco,
raramente hanno eletto come mezzo di diffusione delle proprie idee il
mezzo televisivo, giudicato spesso livellato su canoni culturali di massa
scadenti.
26
. Prima della seconda guerra mondiale in Italia c’erano 66 quotidiani, con una “tiratura” complessiva
di 4.600.000 copie. Il Corriere della Sera, che nel 1920 era arrivato a 750.000 copie, negli anni ’40 ne
stampava 500.000 (è ancora al primo posto fra i quotidiani in Italia, con una tiratura di quasi 900.000
copie e una diffusione di oltre 700.000).Nel dopoguerra il numero di testate crebbe rapidamente, fino a
136, per poi scendere a 111 nel 1952, a 96 nel 1961 e a 75 nel 1975. La diffusione dei quotidiani
cresceva poco – o addirittura diminuiva. La “tiratura” complessiva nel 1975 era di 6.251.000 copie
rispetto a 6.341.000 nel 1965. Nello stesso periodo la diffusione (copie vendute) era scesa da 4.765.000
a 4.415.000.Da allora la situazione non è molto cambiata. Il numero di testate è di nuovo aumentato (ce
ne sono circa 180 – ma molte che erano indipendenti oggi fanno parte di grossi gruppi editoriali). La
diffusione, come vedremo più avanti, alla fine degli anni ’80 aveva superato i sei milioni di copie, ma
dal 1994 rimane più bassa. In rapporto alla popolazione è inferiore ai livelli d’anteguerra. L’Italia era ed
è fra i paesi più arretrati in Europa per diffusione e lettura della stampa quotidiana. Il problema è noto e
ampiamente dibattuto. Ma quella che continua a mancare è una soluzione.Un fatto nuovo è la
diffusione, in alcune città, di giornali distribuiti gratuitamente nelle stazioni delle metropolitane e in
altri luoghi “frequentati”. Dal primo uscito a Roma nel 1999 si è arrivati alla diffusione in dieci città
italiane (con tre testate a Milano e Roma, due a Bologna, Firenze, Napoli e Padova, una a Bari, Torino,
Venezia e Verona). Si riempie così, in parte, lo spazio lasciato vuoto dal mancato sviluppo in Italia dei
quotidiani “popolari” e dall’estinzione dei “pomeridiani”. Il numero di copie stampate è rilevante:
secondo le dichiarazioni degli editori nel 2003 sarebbe arrivato a due milioni. Ma il fenomeno è limitato
ad alcune aree urbane, raggiunge solo sporadicamente quella parte poco attiva della popolazione che è
meno abituata alla lettura – e non incide molto sulla situazione complessiva della stampa. È anche
aumentato il numero dei periodici “gratuiti”, diffusi in diversi canali, ma con un effetto marginale sulla
diffusione totale e sulla lettura.
Fonte dati: Censis
22
Il paradosso, aggiunge Abruzzese, è che “in Italia è la pubblicità televisiva
– vero e proprio anticristo per gli intellettuali – a far sopravvivere la
stampa, e dunque è la ricchezza dei consumi a fornire mezzi di espressione
alle culture scritte”.
Gli intellettuali si dispongono, secondo quanto detto finora, su vari livelli di
interazione con l’industria culturale: li si troverà fermi su una posizione di
critica radicale, esterna e inconciliabile rispetto al sistema di produzione
culturale moderno; oppure come veri e propri produttori culturali,
impegnati dall’interno dell’industria stessa al fine di veicolare al meglio il
prodotto o la nuova idea da commercializzare; “lavoro intellettuale e
routine produttiva” si discostano sempre più e la figura di intellettuale puro,
nella nuova industria e new media, viene sostituita con quella di “creativo”.
1.5 Comunicazione, media e consumo culturale in Italia
Per analizzare l’impatto che i media tradizionali e i nuovi media hanno
avuto sulla società italiana dall’inizio del XI secolo ad oggi potremmo
ricorrere ad una preliminare definizione di modernizzazione intesa come
“l’insieme dei processi economici, sociali e culturali che hanno trasformato
le società europee ed occidentali negli ultimi tre secoli, tanto da poter
parlare di dicotomia società tradizionale/società moderna”.27
Il mutamento socio - culturale verificatosi conseguentemente alla
diffusione di nuovi media sul territorio nazionale ha portato con se anche
nuovi fenomeni di socializzazione, fornendo strumenti ideali per questo
scopo interrelazionale a fronte di un indebolimento del ruolo storico e
27
. Mario Morcellini in “Il Mediaevo italiano”, l’impatto della comunicazione nel caso italiano, Carocci,
2005, 1.2, pag. 17.
23
fondante della famiglia. In tutto il mondo occidentale, le nuove tecnologie
hanno anche contribuito all’atomizzazione della società: la
rappresentazione del sé in uno schermo (attraverso chat rooms, mondi
virtuali come Second Life28
,ecc) dimostra forse il massimo impatto, sia
negativo sia radicale, che le nuove tecnologie informatiche fanno registrare
sulla società dei nuovi “pubblici”.La centralità del consumo culturale
afferma progressivamente l’importanza e il nuovo valore che il tempo
libero va ad assumere in un contesto in cui il consumatore culturale vive la
sua intera vita diviso tra “lavoro organizzato” e “tempo libero organizzato”,
in questo caso da altri. Per questo concetto si faccia riferimento al paragrafo
1.6 di questo capitolo, a proposito delle teorie sull’accesso esposte da J.
Rifkin.
Dal dopoguerra ad oggi, gli italiani hanno modificato significativamente i
loro interessi culturali e il conseguente consumo culturale. La quota di
reddito destinata alla ricreazione e all’intrattenimento in genere, dalla
cultura allo spettacolo risulta maggiore verso gli anni ’80 rispetto alla spesa
destinata al tempo libero registrata durante gli anni ’50. La produzione di
una cultura di massa a costi minori ha sicuramente facilitato tale processo
28. Second Life è una comunità virtuale tridimensionale online creata nel 2003 dalla società americana
Linden Lab. Il sistema fornisce ai suoi utenti (definiti "residenti") gli strumenti per aggiungere al
"mondo virtuale" di Second Life nuovi contenuti grafici: oggetti, fondali, fisionomie dei personaggi,
contenuti audiovisivi, ecc. La peculiarità del mondo di Second Life è quella di lasciare agli utenti la
libertà di usufruire dei diritti d'autore sugli oggetti che essi creano, che possono essere venduti e
scambiati tra i "residenti" utilizzando una moneta virtuale (il Linden Dollar) che può essere convertito
in veri dollari americani. Attualmente partecipano alla creazione del mondo di Second Life oltre 6
milioni di utenti di tutto il pianeta (dato 11 maggio 2007), e ciò che distingue "Second Life" dai normali
giochi 3D online è che ogni personaggio che partecipa alla "seconda vita" corrisponde ad un reale
giocatore. Gli incontri tra personaggi all'interno del mondo virtuale si configurano dunque come reali
scambi tra esseri umani attraverso la mediazione "figurata" degli avatar. L'iscrizione è gratuita, anche se
è obbligatorio essere maggiorenni. Per costruire e vendere oggetti all'interno di "Second Life", inoltre,
occorre comprare aree di terreno nel mondo virtuale di Second Life.
24
rendendo accessibili alle masse intrattenimenti precedentemente elitari (ad
es. il teatro).Se da una parte il cinema, dagli anni ’20 in poi ha subito una
costante discesa nei consumi e nelle risorse individuali ad esso destinato,
altri settori hanno aumentato la loro audience e i loro ricavi: ad esempio,
durante gli anni ’90, gli spettacoli dal vivo ( musica, teatro,ecc) e lo sport,
hanno rappresentato il vero settore di crescita nei consumi culturali. I
cosiddetti trattenimenti hanno raggiunto negli anni ’90, un terzo del
consumo culturale nazionale.
Nel caso italiano, l’industria culturale, è definita storicamente e nella sua
specificità dalla “disparità di ritmo e di rilevanza rispetto ad altri settori
dello sviluppo industriale come quello automobilistico o degli
elettrodomestici”. Più che di industria culturale definita come sistema, in
Italia si potrebbe parlare di apparati di produzione eterogenei, dal cinema
alla tv, scarsamente convergenti e basati su piccole imprese se non da
gestioni familiari. Questa particolarità tutta italiana ha indubbiamente
favorito un certo tipo di cinema, ad esempio la commedia all’italiana,
basata non su grandi budget di investimento ma sulla presenza di maschere
(da Totò a Massimo Troisi, da Roberto Benigni a Carlo Verdone) in grado
di colmare frizioni e lacune del sistema industrial-culturale italiano. Fino
agli anni ’80 si può parlare, in Italia, di artigianato culturale più che di
industria vera e propria. Si distingue per risorse e professionalità in campo
la televisione che nel corso degli ultimi cinquant’anni ha saputo mantenere
invariato il suo appeal mediatico: è forse l’unico media che abbia da
sempre seguito e assecondato i gusti del pubblico ed in particolare del
pubblico italiano. Di fronte ad una stampa in continua parabola
discendente, sia per copie vendute che per qualità di lettori, la Tv, grazie
25
anche alla sua diffusione capillare sul territorio nazionale, ha mantenuto alti
i suoi standard di fruizione da parte degli italiani, mantenendo un ruolo
centrale nei consumi mediali quotidiani, da parte dei più giovani come dei
più anziani.
1. 6 L’accesso culturale: Rifkin e la new economy
All'inizio del terzo millennio l'impatto delle nuove tecnologie sta
cambiando radicalmente la struttura della società e il nostro modo di vivere.
Nella «Fine del lavoro», Jeremy Rifkin sottolineava l'urgenza di trovare
quanto prima una risposta al problema, generato dall'informatizzazione, del
«lavoro umano inutilizzato». Nell'«Era dell'accesso», Rifkin delinea gli
scenari di un futuro imminente in cui le idee e le conoscenze sono i
principali generatori di ricchezza, in cui per la prima volta nella storia
moderna il possesso di beni materiali viene considerato un limite alla
capacità di adeguarsi al cambiamento e ogni genere di bene, servizio o
conoscenza (dall'informazione all'intrattenimento, all'istruzione) deve
essere acquistato o preso in affitto. Gran parte delle funzioni una volta
risolte in ambito sociale e culturale vengono così sostituite da rapporti
economici e quasi tutte le attività diventano esperienze a pagamento. Rifkin
analizza le strutture organizzative dell'economia delle reti e i meccanismi
dell'informazione caratteristici dell'era postmoderna, evidenziando i rischi e
le opportunità che si prospettano per lo sviluppo della società e
l'emancipazione dell'uomo nel ventunesimo secolo. Da un lato il potere dei
“nuovi tiranni” del progresso, i più grandi e importanti provider
internazionali, destinati a gestire l'accesso a ogni attività e a controllare la
26
vita di ciascuno di noi in una società dove si accresce il divario tra chi è
“connesso” e chi non lo è; dall'altro la possibilità di una maggiore
diffusione della conoscenza, della democrazia e del benessere, e
l'affrancamento dalla “schiavitù” del lavoro.
1.7 Nuovi archetipi umani e realtà virtuali
“L'uomo nuovo del ventunesimo secolo è profondamente diverso da coloro
che l' hanno preceduto, nonni e genitori borghesi dell'era industriale: si
trova a suo agio trascorrendo parte della propria esistenza nei mondi
virtuali del ciberspazio, ha familiarità con i meccanismi dell'economia delle
reti, è meno interessato ad accumulare cose di quanto lo sia a vivere
esperienze divertenti ed eccitanti, cambia maschera con rapidità per
adattarsi a qualsiasi nuova situazione (reale o simulata)”29
. Lo psicologo
Robert J. Lifton ha definito questa nuova generazione “proteiforme” :
uomini e donne cresciuti nei common-interest developments30
, la cui salute
è gestita dal servizio sanitario, che utilizzano automobili in leasing,
acquistano on-line, si aspettano di ottenere software gratuitamente, ma sono
disposti a pagare per servizi aggiuntivi e aggiornamenti. Vivono in un
mondo di stimoli sonori che durano sette secondi, sono abituati all'accesso
rapido alle informazioni, hanno una soglia d'attenzione labile, sono più
spontanei che riflessivi. Pensano a se stessi come a giocatori più che a
lavoratori e preferiscono essere considerati creativi piuttosto che
29
. J.Rifkin, L’era dell’accesso, Mondatori, 2000
30
. Le comunità residenziali battezzate common-interest developments (CID) residenti di un CID hanno
ciascuno la proprietà di un lotto abitativo, e condividono quella di tutte le aree comuni all’interno del
CID: parchi, strade, centri di ricreazione, negozi. Il consiglio amministrativo dei CID delibera su molte
materie, dall’urbanistica alle norme di condotta. Se l’attuale tasso di crescita si manterrà nel tempo, i
CID potrebbero progressivamente rivaleggiare con le amministrazioni locali.
27
industriosi. Sono cresciuti in un mondo di occupazione just-in-time31
e sono
abituati a incarichi temporanei. Anzi, le loro vite, in generale, sono segnate
da un grado di mobilità e di precarietà maggiore, sono meno radicate di
quelle dei loro genitori. Sono più «terapeutici» che ideologici e pensano più
in termini di immagini che di parole: sono meno abili nella composizione di
frasi, ma superiori nell'elaborazione di dati elettronici. Sono più emotivi
che analitici. Ritengono che Disney World e Club Med siano «veri»,
considerano i centri commerciali pubbliche piazze e non distinguono fra
sovranità del consumatore e democrazia. Il loro mondo è più fluido,
segnato da confini più sfumati. Sono cresciuti a ipertesti, link fra siti Web e
anelli di feedback, e hanno una percezione della realtà più sistemica e
partecipativa che lineare e obiettiva. Pensano al mondo come a un
palcoscenico e alla propria vita come a una serie di rappresentazioni
teatrali. Cambiano in continuazione, a ogni passaggio fondamentale della
propria esistenza sperimentando stili di vita sempre nuovi. Questi uomini e
queste donne non sono interessati alla storia, bensì ossessionati dalla moda
e dallo stile. Questi uomini nuovi stanno iniziando a lasciarsi alle spalle la
proprietà: il loro mondo - un mondo di reti, gatekeepers e connettività -
comincia appena a essere dominato da eventi iper-reali e da esperienze
istantanee. Ciò che conta è l'accesso: non essere connessi è la morte. Sono i
31. Just in time (spesso abbreviato in JIT), espressione inglese che significa "giusto/appena in tempo", è
un insieme di metodologie tese a migliorare il processo produttivo, cercando di ottimizzare non tanto la
produzione quanto le fasi a monte, di alleggerire al massimo le scorte di materie prime e di semilavorati
necessari alla produzione. In pratica si tratta di coordinare i tempi di effettiva necessità dei materiali
sulla linea produttiva con la loro acquisizione e disponibilità nel segmento del ciclo produttivo e nel
momento in cui debbono essere utilizzati.
28
primi esseri umani a vivere in quella che lo storico Arnold Toynbee ha
definito età postmoderna. Questa nuova era contrasta decisamente con l'età
moderna, in cui i rapporti proprietari e il possesso informavano ogni
transazione economica e definivano la quasi totalità delle interazioni
sociali: le distinzioni nell'età postmoderna sono relative più all'accesso che
al possesso. L'età postmoderna è legata a una nuova fase del capitalismo,
fondata sulla mercificazione del tempo, della cultura e delle esperienze,
mentre le epoche precedenti coincisero con fasi basate sulla mercificazione
della terra e delle risorse, lo sfruttamento del lavoro, la produzione di merci
e servizi di base. Baudrillard32
sostiene che viviamo nel mondo
immaginario dello schermo, dell'interfaccia e delle reti. Tutte le nostre
macchine sono schermi, noi stessi siamo diventati schermi e l'interazione
fra uomini è diventata interattività fra schermi. Insomma, è come se già
vivessimo in un' allucinazione «estetica» della realtà.
1.8 Nuove tecnologie e immaginario collettivo
Una definizione preliminare: “la convergenza di dati continui in una
rappresentazione numerica prende il nome di
digitalizzazione”.33
Convergenza di dati e modularizzazione degli stessi
rappresentano il punto focale del sistema di funzionamento di tutte le nuove
tecnologie in uso. E di convergenza dei media, si può parlare anche
affrontando la questione dal punto di vista dell’immagine che gli individui
hanno delle nuove tecnologie. Definire l’immaginario collettivo richiederà
32
. Jean Baudrillard, critico e teorico della post-modernità.
33
. Lev Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Olivares, 2002. titolo originale: The language of New
Media, Massachussets Institute of Technology, 2001. Par. 2.1. I principi ispiratori dei nuovi media.
Rappresentazione numerica, pag. 47.
29
alcune, ma necessarie, chiarificazioni. Potremmo definire immaginario
collettivo: un insieme di simboli e concetti presenti nella memoria e
nell'immaginazione di una molteplicità di individui facenti parte di una
certa comunità, anche virtuale. La consapevolezza, da parte di tutti questi
individui, di condividere questi simboli rafforza il senso di appartenenza
alla comunità stessa. Spesso queste rappresentazioni fantastiche della realtà
arrivano a trascendere dalle stesse circostanze che le hanno prodotte nel
mondo reale e ad acquistare la forza e la suggestione del mito, diventando
le icone di un'intera fase della storia di un popolo. É significativo notare
come la visione di queste “entità immaginarie” sia spesso di tipo
“trasversale” (o convergente), nel senso che esse sono percepite ed
accettate come patrimonio comune, indipendentemente dagli orientamenti
religiosi, politici e culturali degli individui che fanno parte della comunità.
Un ruolo sempre più importante nella formazione e nella rielaborazione
dell'immaginario collettivo è svolto dai moderni mezzi di comunicazione di
massa, che rendono accessibili, su scala planetaria, le informazioni e le
immagini. Di conseguenza le dimensioni delle comunità che possono
condividere un comune patrimonio simbolico divengono sempre più vaste,
ed al concetto di "popolo" (o community) si sostituisce gradualmente
quello di villaggio globale. Dunque le nuove tecnologie hanno il grande
merito di consentire la costruzione collettiva di un universo comune di
significati.
L’intelligenza collettiva costituisce un nuovo spazio antropologico in cui,
grazie alle nuove tecnologie, tutti i saperi umani possono essere
democraticamente condivisi in un’ottica di etica dell’ospitalità ed estetica
dell’invenzione (esiste, infatti, un’architettura del ciberspazio).
30
L'immaginario collettivo nasce quando una infrastruttura mediatica
trasmette e ripete una stessa immagine per milioni di volte, producendo un
luogo comune, una allucinazione consensuale intorno ad uno stesso oggetto
(che poi è declinato e comunicato attraverso altri vettori, dal passaparola al
cinema). Nel caso del medium televisivo questa trasmissione seriale di
milioni di immagini è molto più letale, perché avviene nello stesso istante.
Altra cosa è invece l'immaginario di rete, che funziona in modo interattivo
e non istantaneo, per il quale parliamo di immaginario connettivo.
L'immaginario è quindi la trasmissione collettiva seriale di una stessa
immagine attraverso media diversi. Parafrasando Goebbels, è come una
bugia ripetuta milioni di volte che diventa discorso pubblico, conversazione
quotidiana, verità. L'immaginario collettivo è in definitiva questo luogo
dove si incrociano media e desiderio, dove una stessa immagine ripetuta un
milione di volte modifica contemporaneamente milioni di corpi, inscrive il
piacere, la speranza, la paura. A questo proposito, le tesi di De Kerckhove
riguardo al problema dell’intelligenza connettiva34
affermano che: “ La
mente umana può fare molto di più di quello che fa e le nuove tecnologie la
stimoleranno a fare di più , a fare meglio, a fare cose differenti e nuove”.35
Come ha dichiarato lo stesso De Kerckhove nel 1999: “Da Internet è nata
una forma di intelligenza nuova”.
L’intelligenza nuova di cui parla De Kerckhove, trova i suoi fondamenti
anche nelle caratteristiche basilari dei nuovi media definite in:
digitalizzazione, convergenza e personalizzazione. Nuove tecnologie e
34
. De Kerckhove, Derrick (1991), Brainframes.Technology, Mind And Business, Bosch &; Keuning,
Utrecht, trad. it. Brainframes. Mente, tecnologia, mercato, Baskerville, Bologna, 1993
35
D. De Kerckhove, Ve lo posso garantire io, in Internet non ci si perde, Telema 4, primavera 1996
31
quindi nuovi media conducono al superamento di alcune barriere
apparentemente insormontabili quali il passaggio dal formato analogico
(senza soluzione di continuità) al formato digitale (discreto per sua stessa
natura: 1,0,1,0 e così all’infinito). I “vecchi” media del nostro immaginario
collettivo ci riconducono a pratiche di consumo separate tra loro. Il
telefono, la televisione e il personal computer convergono o almeno
dovrebbero attraverso la rivoluzione digitale, in un unico dispositivo
digitale e multimediale. I dispositivi comunicativi che consentiranno questa
convergenza sono in parte affermati e in parte in via di definizione. Il primo
e fondamentale passaggio sarà quello dell’abbandono, o del diverso uso,
dei mezzi di comunicazione di massa per approdare ad un uso personale e
dedicato. Afferma Alberto Marinelli: “In realtà un sistema mediale
integrato capace di assicurare prestazioni di questo tipo esiste già: è la rete
Internet, con i software di navigazione che fanno riferimento al personal
computer e ai protocolli di comunicazione sviluppati in ambiente web, che
si stanno espandendo in aree contigue dal punto di vista tecnologico
(dispositivi wireless e mobile, tv digitale via cavo, satellitare e terrestre)”.36
La possibilità di accedere a dispositivi digitali di vario tipo è poi connesso
al grado di sviluppo tecnologico di ciascun paese: per quanto riguarda
l’Italia secondo le previsioni dell’European Information Technology
Observatory, il futuro prossimo vedrà il nostro paese in coda, per
tecnologie e velocità di trasferimento dati digitali, nelle classifiche dei paesi
Europei e comunque del “Nord del mondo”.
Per dirla con Morcellini: “Senza assumere una visione retorica o
taumaturgica dei media come naturalmente democratici e progressisti,
36
. In “Il Mediaevo italiano, Verso il futuro. Internet e la convergenza”,Carocci, 2005, Cap. 19, par.
19.1, pag. 398.
32
resta il fatto che essi attivano una serie infinita e persino sfuggente di effetti
psicologici, culturali e sociali”37
. Un’osservazione questa che risulta
riscontrabile anche nel caso italiano. In Italia, dagli anni ’50 in poi la
centralità della televisione nei consumi culturali e mediatici degli italiani,
ha fortemente rallentato lo sviluppo tecnologico del paese. Una nuova
multimedialità comunicativa e il suo apporto culturale rappresentano un
driver di mutamento necessario e imprescindibile. Le trasformazioni
qualitative e di standard tecnico hanno portato sia in Italia che in Europa ad
un progressivo indebolimento dei media generalisti per definizione (Radio
e tv), a favore di una multimedialità di fatto: si è passati da una concezione
originaria e di base di multimedialità (uso combinato di radio, tv e stampa)
ad una seconda fase contraddistinta dal consumo di media generalisti
abbinati al consumo di intrattenimenti dal vivo, fino ad arrivare alla terza
fase che potremmo definire di multimedialità evoluta che senza escludere i
media pre-esistenti, si indirizza su nuovi media (internet, telefonia mobile,
tv digitale, ecc).
“Tutti i navigatori e i fruitori del digitale provengono, infatti, dall’ “esercito
del generalismo”: proprio per questo è difficile che essi possano troncare i
contatti con la mappa dei media tradizionali”.38
L’intermedialità tra nuovi e vecchi mezzi di comunicazione in Italia, trova
le sue principali cause di rallentamento anche nell’età degli utilizzatori di
nuovi media e nella capacità di telecomunicazione della Rete nazionale:
scarsa diffusione di reti basate su comunicazione per mezzo di fibra ottica o
scarsa diffusione di pc/pro-famiglia sul territorio nazionale. Ci si trova di
37
. Mario Morcellini in “Il Mediaevo italiano”, mutamento all’italiana, Carocci, 2005, 1.9.2, pag. 44
38
. Il Mediaevo italiano, Mediaevo vs tecnoevo. Il mondo dei consumi culturali, M.Morcellini e
M.Gavrila, par. 3.1, pag. 73, Carocci, 2005.
33
fronte ad un panorama italiano che vede, da una parte, un gran numero di
analfabeti informatici e, quasi in contrapposizione, dall’altra parte un
numero discreto ma in crescita di esploratori tecnologici.
34
35
CAPITOLO SECONDO
I caffé letterari
36
Quel tavolo del Caffè Garibaldi [a Trieste], sotto il municipio, tra le sette e le nove
di sera degli anni che seguirono all'altra guerra - scrive Giani Stuparich39
pensando al fratello Carlo e all'amico Scipio Slataper che dalla guerra non erano
tornati - è passato alla storia. Trieste non ebbe forse mai un affiatamento di spiriti
così vasto.
39
. cfr. Al Caffè con Stuparich in Enrico Falqui, Caffè letterari, Roma, Canesi, 1962
38
39
2.1 Cultura al Caffè: dalla Mittel Europa all’Italia del Sud
Stuparich costruisce una suggestiva carrellata dei clienti abituali del
Garibaldi fra i quali spiccano i nomi di Julius Kugy, definito spirito
europeo, e di James Joyce, uno spirito universale. Accanto a questi illustri
stranieri non mancavano certo gli italiani, anzi i triestini: primo fra tutti
Italo Svevo che "sapeva fondere con la sua animata e spiritosa socievolezza
- spiega Stuparich - la compagnia del Caffè Garibaldi. [...] Svevo sapeva
conquistare persino Saba: ed era, specie in quegli anni, non facile impresa.
Saba s'iniziava allora al freudismo, con tutti gli alti e bassi di una
nevrastenia scontrosa e patita, che solo più tardi doveva trovare nei "misteri
freudiani" il suo centro di sollievo. Svevo, in certo qual modo aveva già
disciolto il freudismo nell'ironia, nella sua ironia."40
Questo gruppo di amici, gli assidui del Caffè Garibaldi, erano così legati al
locale che, quando venne chiuso fecero secessione e si spostarono in massa
al vicino Bar Nazionale 41
.
Alla compagnia si aggiunsero presto alcuni amici occasionali come il
matematico e musicista Guido Voghera, Silvio Pittoni, fratello del deputato
socialista, il pittore klimtiano Timmel e Roberto, Bobi Bazlen, per citarne
soltanto alcuni.
"Il caffè è l'unico luogo in cui si può veramente scrivere: si è soli, con carta
e penna e tutt'al più i due o tre libri di cui si ha bisogno in quel momento -
40
. Il cognato di Italo Svevo, Veneziani, era stato in analisi presso Freud per risolvere problemi di
dipendenza dalla morfina e di omosessualità. A sua volta Joyce, all’epoca anch’egli residente a Trieste,
venne a contatto con la psicanalisi proprio attraverso lo stesso Svevo.
41
. In Piazza dell’Unità, sempre a Trieste.
40
spiega Claudio Magris 42
- abbandonati a se stessi e costretti a far conto
soltanto su se stessi, a raccogliere le proprie energie e dosarle con misura; il
tavolino su cui si poggia il foglio diviene la tavola di un naufrago, cui ci si
aggrappa, mentre la familiare armonia che ci circonda si svuota, diviene
l'incerta cavità del mondo, nel quale la scrittura si addentra, perplessa e
ostinata."
Sono parole scritte pensando al Caffè Tommaseo (dopo la ristrutturazione
dell'edificio che lo ospita, compiuta fra il 1984 e il 1986 dalle Generali) ma
sedendo a un tavolino del Caffè San Marco, il preferito da Magris che gli
dedica il primo capitolo dei suoi Microcosmi (Milano, Garzanti, 1997). "Il
San Marco è un vero Caffè, periferia della storia contrassegnata dalla
fedeltà conservatrice e dal pluralismo liberale dei suoi frequentatori. [...] Al
San Marco trionfa - osserva Magris - vitale e sanguigna, la varietà."43
Magris pensa al Caffè come a un luogo del disincanto dove si ripete
immutato e al tempo stesso nuovo, uno spettacolo già visto in cui ognuno
riesce forse a ritrovare se stesso. Anche Magris, come Stuparich, ricorda i
tanti nomi di intellettuali che si sono fermati a discutere, a scrivere e a
vivere qualche ora in questo Caffè: fra i tanti nomi spicca quello di Giorgio
Voghera (figlio di Guido), conosciuto per gli studi sull'ebraismo e sulla
psicanalisi.44
42
. Claudio Magris, scrittore e germanista; Cfr. Utopia e disincanto. Storie, speranze, illusioni del
moderno, Claudio Magris, Garzanti, 2001
43
. Claudio Magris, Microcosmi, Garzanti, Milano, 1997
44
. Giorgio Voghera, pubblicazioni e studi: Gli anni della psicanalisi (1980), Nostra Signora Morte
(1983), Carcere a Giaffa (1985), Quaderno d'Israele (1986). Di lui alcuni dicono che sia l'autore del
romanzo Il segreto, pubblicato nel 1961 da Einaudi come romanzo di "anonimo triestino" (con
prefazione di Linuccia Saba); Giorgio Voghera ha sempre smentito, sostenendo che l'autore di tale
romanzo è in realtà suo padre Guido Voghera. [Per completare il labirinto: l'unica opera ufficialmente
edita di Guido Voghera è Pamphlet postumo: Etica e Politica da Hegel ai Grandi Dittatori, con una
biografia scritta da Giorgio e una presentazione di Aurelia Gruber Benco (Edizioni Umana, 1967).]
41
2.2 Caffè storici d’Italia
Trieste
Le prime Botteghe da caffè vennero aperte a Trieste nella seconda metà del
Settecento, probabilmente seguendo l'esempio degli omonimi locali
veneziani decantati dal Goldoni, ma assumendo immediatamente
un'inconfondibile impronta viennese negli arredi e nei servizi offerti.
La prima Caffetteria di cui si hanno notizie fin dal 1768 era quella di
Benedetto Capano, sita in contrada Bottari (ora via San Nicolò). Ad essa
veniva concessa l'esclusiva della vendita di “Acque fredde e calde, the,
caffè, cioccolata, limonate, sorbetti ed acque sciroppate" e la possibilità di
tenere “Bigliardi da soldo e cuocere biscotterie” con la raccomandazione,
però, di non permettere nel locale” scandali, ritrovi sospetti e giochi, e di
contribuire alle quiete e alla morigeratezza”. Dì li in avanti le botteghe di
caffè si moltiplicarono in una Trieste che era cresciuta di popolo e di
fortuna.45
Emporio mitteleuropeo, ogni colonia (tedesca, greca, svizzera) aveva un
proprio luogo d'incontro: così i tedeschi frequentavano il Caffè Stella
Polare, i levantini il Caffè Griot. Con il passare del tempo, lo spirito
cosmopolita della città propose caratterizzazioni diverse da quelle
nazionaliste, con Caffè spiccatamente politici, quelli per ufficiali e alti
funzionari austriaci, quelli della borghesia, degli uomini d'affari e sempre
più numerosi i Caffè letterari. Ad imitazione dei Caffè parigini nascono
anche i primi concerti, le prime esposizioni pittoriche, le camere da gioco,
45
. Fonte: A.I.A.T. Agenzia di Informazione e di Accoglienza Turistica di Trieste
42
le sale biliardo, e la sempre più ricca presenza di giornali italiani, tedeschi,
inglesi e francesi. Contribuiscono a questo continuo progresso le assidue
presenze di letterati di fama mondiale: così al Caffè Pirona è certa quella di
James Joyce, ai Portici di Chiozza, centro allora dell'irredentismo triestino,
quella di Italo Svevo, all'Antico Caffè San Marco Umberto Saba e molti
altri.
Nel corso del tempo Trieste, forse insieme alla sola Vienna, ha saputo
conservare alcune vestigia del suo passato che, per quanto antiche, sono
quanto mai ancora vive.
Continuando così in un percorso ideale fino ad arrivare al Caffè
Tommaseo, il Caffè degli Specchi nella splendida cornice di Piazza Unità,
il Tergesteo, la Stella Polare, il Torinese, il Caffè Pirona, l'Antico Caffè San
Marco. Tutti in grado di rievocare più di un secolo di storia cittadina
attraverso vicende che raccontano di irredentismo, cultura, invasioni,
letteratura, libertà.
Ma al contempo perfettamente inseriti nella realtà del XXI secolo e come
cent'anni fa in sintonia con i volubili desideri dei propri clienti.
Il Caffè Tommaseo
Il Caffè Tommaseo è, indubbiamente, uno fra i più antichi Caffè di Trieste.
Sito in quella che allora si chiamava piazza dei Negozianti, fu aperto nel
1830 da un padovano, Tomaso Marcato, che gli diede il proprio nome,
Caffè Tomaso. Il locale divenne subito meta preferita di artisti e
commercianti e, nel 1848, venne ribattezzato, in onore dello scrittore e
patriota dalmata Tommaseo. A testimoniare il legame fra il Caffè e quel
fondamentale momento storico c'è una lapide fatta apporre dall'Istituto
43
nazionale per la storia del Risorgimento, ove si legge: "Da questo Caffè
Tommaseo, nel 1848, centro del movimento nazionale, si diffuse la fiamma
degli entusiasmi per la libertà italiana".
Dopo l'uccisione di Guglielmo Oberdan che segnò il trionfo della reazione
austriaca, il locale prudentemente riprese il nome originario che mantenne
fino al 1918, fino a quel fatidico 3 novembre che portò Trieste all'Italia e
permise al Caffè di chiamarsi nuovamente Tommaseo. Il Marcato, grande
appassionato d'arte, si preoccupò di abbellire il locale affidando l'incarico
delle decorazioni al pittore Giuseppe Gatteri e facendo venire, direttamente
del Belgio, una serie di specchiere, con le quali tappezzò tutte le pareti. Il
Caffè, ritrovo di artisti, letterati e uomini d'affari ospitava spesso mostre e
concerti; va ricordata una personale dedicata a Giuseppe Bernardino Bison
e i concerti che venivano proposti il giovedì dall'orchestra del Teatro
comunale e il sabato dalla banda. Fra le specialità offerte dal Caffè Tomaso
c'era il gelato, introdotto in città proprio dal Marcato che, sensibile alle
innovazioni, volle anche dotare il caffè di illuminazione a gas: correva il
1844 ed era il momento in cui in città si facevano i primi esperimenti
pubblici. Una curiosità emersa dagli archivi del locale è che, con un
contratto di acquisto, stilato il 29 settembre del 1830 pare ne fosse entrata
in possesso la contessa Lipomana, nome sotto il quale si nascondeva
nientemeno che Carolina Bonaparte, la vedova di Gioacchino Murat. Altro
fatto degno di nota è che l'edificio che ospita il locale è, dal 7 aprile 1954,
tutelato come monumento storico e artistico, sorte che divide con altri caffè
prestigiosi, un nome per tutti il Caffè Greco a Roma, in via Condotti. Fra
gli altri proprietari del caffè merita di essere ricordata la signora Nerina
Madonna Punzo che si preoccupò non solo di mantenere intatto l'aspetto
44
originario del locale, ma si improvvisò anche editrice di un giornale
periodico “Lettere da un antico caffè” che voleva farsi portavoce di idee e
dibattiti letterari ed artistici. Restaurato e rinnovato nel dicembre 1997 nel
segno dell'originaria tradizione dei Caffè Viennesi, dalla nuova Società
proprietaria del Caffè.
Il Caffè San Marco
Il 3 gennaio 1914 viene inaugurato il Caffè San Marco, sorto là dove un
tempo c'era la Latteria Centrale Trifolium, divenne presto luogo di ritrovo
di lettori di quotidiani, giocatori di biliardo, nonché giovani irredentisti e
laboratorio per la preparazione di passaporti falsi che sarebbero serviti ai
patrioti antiaustriaci per scappare in Italia. L'attività del Caffè fu
bruscamente interrotta il 23 maggio 1915 quando una pattuglia austriaca
devastò il locale. Fra i diversi proprietari che si alternarono nella gestione
del Caffè meritano di essere ricordati, oltre al primo Marco Lovrinivich, le
sorelle Stock che Claudio Magris definisce "minute e inesorabili"46
.
Il Caffè, più volte restaurato grazie alla munificenza delle Assicurazioni
Generali, si presenta oggi, dopo la riapertura del 16 giugno 1997, con
l'immutato e suggestivo aspetto di sempre. Le maschere ammiccano ancora
dall'alto, sopra il bancone di legno intarsiato, opera - spiega ancora Magris -
della rinomata falegnameria Cante. Alcune maschere sono attribuite al
pittore viennese Timmel, che sfogava al Caffè la propria fatica di vivere. In
effetti tutto il Caffè segue lo stile della Secessione viennese che, abbinato
allo stile floreale, gli conferisce un'incredibile suggestione. Interessanti
sono i nudi dipinti sui medaglioni alle pareti, pare da Napoleone Cozzi un
46
. Cfr. Microcosmi, Milano, Garzanti, 1997, cap. 1
45
"decoratore alpinista scrittore e irredentista" e da Ugo Flumiani "pittore -
spiega Magris - di acque increspate." I nudi sono infatti la metafora dei
fiumi friulani, ma anche istriani e dalmati che si perdono nell'Adriatico, il
mare di Venezia e quindi di San Marco. Di grande effetto le innumerevoli
foglie di caffè che rappresentano una costante nella decorazione con il loro
ripetersi ossessivo e al tempo stesso rassicurante. Ci sono i tavolini di
marmo con la gamba di ghisa che si eleva su un piedistallo sorretto da
zampe di leone, quel leone di San Marco, voluto dal primo proprietario non
tanto per celebrare il proprio nome quanto per simboleggiare italianità e
irredentismo. Molto amato dagli scacchisti, per la particolare disposizione
dei tavolini, il Caffè si presenta - osserva Magris - come una scacchiera
dove gli avventori sono costretti a muoversi come il cavallo.
Caffè Pasticceria Pirona
Frequentatore assiduo del caffè, tra gli altri fu James Joyce, il quale
assaporando i raffinati dolci di tipo austriaco, ma soprattutto degustando i
pregiati vini, progettò qui il suo "Ulisse".
Caffè degli Specchi
La data di nascita del Caffè degli Specchi fu il 1839; suo fondatore e primo
gestore fu il greco Nicolò Priovolo. Il locale venne ospitato al pianterreno
di Palazzo Stratti in quella Piazza Grande (dal 1918 Piazza dell'Unità
d'Italia) che rappresentava ieri e continua ad essere oggi il cuore della città.
Per questa sua particolare posizione, il Caffè degli Specchi diventò subito
un avamposto privilegiato per seguire tutte le vicende storico, politico,
46
economiche e culturali della città di Trieste. La metà dell'Ottocento
rappresentò, oltre che un interessante periodo di sviluppo economico,
l'inizio di quelle che sarebbero state le esaltanti lotte per la conquista
dell'italianità di Trieste e il Caffè degli Specchi sarebbe presto diventato un
covo di irredentisti. In quegli anni il Caffè degli Specchi cambiò molti
gestori e subì notevoli trasformazioni. Dopo Nicolò Priovolo, la direzione
del locale passò a due caffettieri di professione, Antonio Cesareo e
Vincenzo Carmelich che se ne sarebbero occupati per oltre cinquant'anni
(1884-1945). Nel secondo dopoguerra il Caffè degli Specchi e l'intero
Palazzo Stratti vennero requisiti dagli alleati anglo-americani. Da quel
momento, all'interno del locale vennero collocate le insegne della Royal
Navy (la marina britannica) e ai triestini non accompagnati fu fatto divieto
di frequentare il Caffè. Nel 1953 la gestione del locale fu affidata al
bergamasco Angelo Asperi, che chiuse i battenti nel 1967 per avviare
alcune opere di restauro. Tra l'altro un primo ripristino del Caffè era già
stato fatto nel 1933. Ultimato nel 1969 il rinnovo, di cui si fecero carico le
Assicurazioni Generali, proprietarie di Palazzo Stratti, il Caffè riaprì gestito
dalla società Hausbrandt, storica casa di tostatura fondata a Trieste nel
1892. Infine nel 1990, la gestione passò all' attuale Società che, con l'ultima
totale ristrutturazione del 2000 ne disegnò l'attuale fisionomia.
Il Caffè Tergesteo
Il Caffè Tergesteo fin dal 1863 si trovava di fronte allo storico Teatro
Lirico G. Verdi con tavolini all'aperto. Classico luogo di incontro e
passaggio cittadino, frequentato di giorno da uomini d'affari della vicina
Borsa e di sera dall'elite culturale della città, oggi è situato, invece,
47
all'interno della Galleria omonima, che da Piazza Verdi porta a Piazza della
Borsa. Dopo i lavori di restauro, per ricreare l'atmosfera di “fin de siècle”,
dell'originale, purtroppo, è rimasto ben poco. Da notare le vetrate colorate
che raffigurano episodi della storia triestina. Ad esso Saba dedicò una lirica
raccolta nel Canzoniere ("Caffè Tergeste... tu concili l'italo e lo slavo, a
tarda notte, lungo il tuo bigliardo").
Caffè Stella Polare
La nascita del Caffè Stella Polare, nel primo stabile sito di fianco al Canale
di Ponte Rosso che arrivava fino alla Chiesa di Sant'Antonio, risale al 1865.
Lo dirigeva Antonio Carmelich, ma nel 1910 la gestione passò a Riccardo
Leipziger e Mario Sbisà. All'inizio del 1904 il vecchio stabile sul Canale
venne abbattuto per far posto all'attuale palazzo. Allora il Caffè Stella
Polare fu sistemato, in via provvisoria, in un padiglione di legno e gesso,
sistemato di fronte alla Chiesa di Sant'Antonio Nuovo. Nel novembre di
quell'anno, al piano superiore dell'edificio, venne allestita una grande
mostra postuma del pittore Umberto Veruda, scomparso il 29 agosto dello
stesso anno. In seguito il Caffè Stella Polare venne definitivamente
sistemato al n. 6 di Piazza Sant'Antonio dove tuttora si trova. Il 23 maggio
del 1915 il locale subì una devastazione ad opera di dimostranti anti-
italiani, ma riuscì a superare anche questo brutto momento. A seguito di
tale negativa esperienza il gestore espose nelle sue sale un eloquente
cartello: "Qui non si parla di politica né di alta strategia". Il Caffè era nato
come tipico locale austro-ungarico con le classiche decorazioni di stucchi e
specchi che, seppur rovinate, si possono ammirare ancora oggi. Nel
momento del suo massimo splendore e con la sua posizione strepitosa dalla
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quale abbracciava quattro vie, presentava un bancone in legno di ciliegio ed
era dotato di sale da biliardo, sale per le riunioni e per la lettura; frequentato
da negozianti ed intellettuali della colonia tedesca e da moltissimi letterati
sia triestini che stranieri.
Venezia
Il Caffè Florian, inaugurato il 29 dicembre 1720 sotto i portici delle
Procuratie Nuove in Piazza San Marco, può a ragione definirsi un simbolo
della città. Da 280 anni, infatti, il Florian svolge la sua attività quotidiana di
Caffè, meta di Veneziani, Italiani e stranieri che ne apprezzano l'ambiente e
il servizio impeccabile. Spesso, accanto all'affezionata clientela
internazionale, può capitare di incontrare personalità del mondo della
cultura, dello spettacolo e del jet set. Per coloro che desiderano un "ricordo
tangibile" della loro permanenza al Florian sono disponibili raffinati
prodotti che testimoniano il gusto e la storia del Caffè. Le estati del Florian
sono arricchite anche della presenza dell'orchestrina, secondo una
tradizione ormai quasi secolare. Inoltre, pur restando legato alla tradizione,
il locale organizza manifestazioni culturali di alto livello e di grande
attualità, in particolare nel settore dell'arte contemporanea.
2.3 Pasolini al Caffè: il Caffè Rosati in piazza del Popolo a Roma
Ricorda Ugo Pirro: “Al Caffè Rosati negli anni Cinquanta incontravi Pier
Paolo Pasolini ed Elsa Morante, ma anche tanti giovani pittori e cineasti,
tutti immersi in un clima di vivacità culturale che, solo a distanza di anni,
riesco ad apprezzare appieno”. Pirro, vincitore di due Oscar per Indagine su
49
un cittadino al di sopra di ogni sospetto e Il giardino dei Finzi Contini,
mette a confronto gli anni Cinquanta e i tempi di oggi. E aggiunge: "Abito
in centro da tempo, a pochi metri da Piazza del Popolo. Prima stavo a
Vigna Clara e, nonostante la distanza, la sera andavo sempre a Piazza del
Popolo. Ci si vedeva al Caffè Rosati, non c´era bisogno di dire niente, non
usavamo certo il telefono per metterci d´accordo. Ci incontravamo lì e
decidevamo cosa fare. Agli inizi, nell’immediato dopoguerra, i soldi erano
pochi, dormivo in camere ammobiliate e spesso non ordinavo nemmeno un
bicchier d’acqua da Rosati. Mi sedevo ai tavoli e parlavo con gli amici, tutti
artisti, sceneggiatori, produttori e cineasti. I camerieri me lo permettevano
perché mi conoscevano e il clima che si respirava era di grande familiarità.
Parlavamo molto di cinema, naturalmente, ma anche di arte perché
amavamo la compagnia dei pittori che frequentavano Rosati. La gente di
cinema si incontrava anche dietro Via dell´Oca, nella sede dell´Anac,
l’associazione degli autori di cinema, in quegli anni molto autorevole. Qui
si discuteva delle due grandi fazioni di registi e sceneggiatori: i drammatici
e i comici. Io ero un drammatico. Ci sentivamo diversi da loro, c´era una
rivalità, artistica non umana, verso gli esponenti del comico. Non ci
convincevano, eccezion fatta per uno: Totò, il principe. Attore e mimo
eccezionale, troppo penalizzato da sceneggiature scadenti. Lui non
frequentava Piazza del Popolo, aveva ritmi di lavoro serrati, era una
persona isolata, schiva. Noi invece avevamo l´allegria e la vivacità della
gioventù, organizzavamo feste indimenticabili. Come una rimasta storica in
Via Margutta, durante la quale lo scultore Consagra conobbe la moglie,
incredula turista americana stupita dal nostro carattere festoso ed
internazionale. Con il passare degli anni migliorò la situazione finanziaria e
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cominciammo a mangiare almeno una volta al giorno nelle osterie del
centro: da Otello alla Concordia, dal Re degli amici, da Cesaretto in Via
della Croce, e soprattutto da Menghi in via Flaminia, che faceva credito a
tutti sfamando così molti artisti spiantati”.
“Il punto di partenza – conclude - rimaneva però sempre Rosati. Lì
dibattevamo e scrivevamo soggetti, trattamenti e intere sceneggiature. E lì
restammo fino a quando non fummo costretti ad andare via: fu dopo i
tragici fatti del Circeo. I giovani di destra dai quali provenivano gli
assassini di Rosaria Lopez e i violentatori di Donatella Colasanti, che si
riunivano a Piazza Euclide, migrarono verso Piazza del Popolo in seguito
alle pressioni delle forze dell´ordine che controllavano i luoghi di ritrovo
dei pariolini di destra. Noi artisti, considerati nemici perché in larga parte
di sinistra, scegliemmo, come nuovo punto di incontro, il Baretto in Via
dell´Oca. Furono anni intensi, fatti da persone e luoghi unici. Piazza del
Popolo nel frattempo ha visto grandi comizi, manifestazioni e concerti ma
non è più tornata ad essere quello che era. Durante anni '60, Roma era in
continua ebollizione, un eden profano dove sogno e realtà marciavano
fianco a fianco. All'euforia generale si abbandonavano molti giovani, rapiti
dal fuoco sacro dell'arte. Tra loro Angeli, Festa, Schifano, soprannominati
da Plinio de Martiis, «i maestri del dolore, perché erano sempre vestiti di
nero, con la puzza sotto il naso e l'aria stanca e annoiata». I tre si vedevano
al Caffè Rosati di piazza del Popolo, luogo privilegiato del dibattito
culturale e amato dalla bohème nostrana. Nella Roma degli anni '60, luoghi
di ritrovo erano anche la libreria Al Ferro di Cavallo, o La Tartaruga di de
Martiis, gallerista «da tartufo» e inviato speciale di quel mondo. Altra sede
storica, Palazzo Taverna, che ospitava gli «Incontri internazionali d'arte»,
51
voluti dalla padrona di casa Graziella Lonardi Buontempo, con la
partecipazione di critici, artisti e intellettuali: da Pier Paolo Pasolini ad
Alberto Moravia, presidente dell'Associazione, a Giulio Carlo Argan.
2.4. La Roma dei Caffé Letterari
Parlare dei caffè letterari a Roma nell’antico caffè
Greco [qui a sinistra, l'ingresso dell'antico Caffè
Greco a Roma] è anche ricollegarsi alla idea
dell’Europa e della sua grande tradizione culturale
dei secoli scorsi. Nel 2000, essa può rinascere
grazie alla Comunità europea, che stabilisce un
rapporto unitario tra i Paesi e gli Stati del
continente. [...]
George Steiner, studioso di fama internazionale, ha scritto in un libro
pubblicato dal Nexus Institute di Amsterdam, definito da Mario Vargas
Llosa “ingegnoso e provocatorio”, che “L’Europa è i suoi caffè, quelli che i
francesi chiamano cafés. Dal locale di Lisbona amato da Fernando Pessoa
ai cafés di Odessa frequentati dai gangster di Isaac Babel. Dai caffè di
Copenhagen, quelli di fronte ai quali passava Kirkegaard nel suo
meditabondo girovagare fino a quelli di Palermo. Non si trovano caffè
atipici a Mosca, che è già la periferia dell’Asia. Ce ne sono pochissimi in
Inghilterra, dopo una fugace moda nel Diciottesimo secolo. Non ce ne sono
nell’America del Nord, con l’eccezione dell’avamposto francese di New
52
Orleans. Basta disegnare una mappa dei caffè, ed ecco gli indicatori
essenziali dell’ idea di Europa’”. Da questo punto di vista, l’antico caffè
Greco di Roma è proprio l’esempio italiano
della tesi di Steiner e cioè del rapporto vivo tra
la cultura europea e alcuni dei suoi più celebri
rappresentanti che lo hanno frequentato e lo
frequentano ancora oggi. Ma in verità tutti i
caffè romani, che si possono definire letterari,
sono stati e sono le sedi di incontri tra scrittori
ed artisti italiani e stranieri. In un certo periodo
della seconda metà del Novecento, hanno avuto
quasi lo stesso ruolo di redazioni di giornali o
delle case di produzione cinematografiche. Soprattutto, sono stati i centri
dove si è svolta e si è manifestata per alcuni anni quella “società della
conversazione” che caratterizzava il secolo d’oro francese del Settecento e
che in qualche modo è proseguita fino alla metà degli anni Sessanta in
Italia, a Roma. Per anni, dal Cinquanta in poi, per esempio si andava da
Rosati o da Canova in piazza del Popolo dove letterati e artisti si
incontravano per parlare anche di lavoro: quante idee di libri, di
sceneggiature di film, quante discussioni che finivano allora sui giornali
sulle tendenze artistiche e letterarie sono nate qui.
Il Caffè Greco di via Condotti, dove si affollano oggi i protagonisti del
turismo di massa è stato fino alla seconda metà del Novecento il punto di
ritrovo dei poeti, scrittori e artisti italiani. Ogni mattina andava a bere il
cappuccino Giorgio De Chirico, il quale soleva dire che “il Caffè Greco è
l’unico posto dove ci si può sedere e aspettare la fine del mondo”. C’è una
53
celebre fotografia degli anni Quaranta dove si vedono seduti quasi in posa
ai tavolini, Goffredo Petrassi, Mirko, Pericle Fazzini, Mario Soldati Mafai,
Carlo Levi, Afro, Renzo Vespignani, Vitaliano Brancati, Sandro Penna,
Lea Padovani, Orson Welles, Orfeo Tamburi, Ennio Flaiano, Libero De
Libero, Aldo Palazzeschi. “C’eravamo un po’ tutti - ricorda il pittore
Renato Guttuso - e ci andava anche Moravia”. Il Caffè Greco è uno dei più
antichi caffè d’Europa insieme al Procope di Parigi e al caffè Florian di
Venezia. Il suo aspetto non era molto differente da quello odierno, come si
può vedere da un acquerello del 1852 del pittore Passini conservato ad
Amburgo [e dal dipinto di Vladimir Petinow riprodotto qui a sinistra]. Ha
mantenuto le stesse caratteristiche nell’arredo e nei tavolini ricoperti da
marmi antichi, nelle salette piene di opere d’arte, foto e oggetti che
testimoniano della sua storia. Re, regine, marajà, scrittori, poeti,
compositori, attori, cantanti, persino capi pellerossa e cowboy come il
celebre Buffalo Bill ne sono stati assidui frequentatori.
Fondato nel 1760 da Nicola della Maddalena, forse un levantino, donde il
nome del locale riferito alla sua nazionalità greca, probabilmente esisteva
già da alcuni anni. Giacomo Casanova ricorda nelle sue memorie che nel
1743, quando era a servizio del cardinale Troiano Acquaviva (e anche della
sua bella nipote), entrò con alcuni amici romani nel “Caffè di strada
Condotta”. Ma il primo documento ufficiale risale al 1760: si tratta di una
nota del censimento di quell’anno contenuta nel “Libro dello stato delle
anime” della Parrocchia di San Lorenzo in Lucina (conservato
nell’Archivio del Vicariato) in cui risulta il nome di “Nicola di Maddalena,
greco”. La notorietà del Caffè Greco ebbe inizio nel 1779 quando cominciò
ad essere frequentato da Johann Wilhelm Tischbein, Karl Philipp Moritz in
54
compagnia del loro grande amico Wolfgang von Goethe - il quale abitava a
poca distanza al numero 20 di via del Corso. Ben presto divenne luogo
preferito d’incontri di artisti germanici, tanto che lo scrittore Johann Jakob
Wilhelm Heinse ne propose la denominazione di “Caffè Tedesco”. Il suo
successo si consolidò nel 1806 quando, a causa del blocco continentale
imposto da Napoleone per combattere gli inglesi, il prezzo del caffè salì
vertiginosamente. Tutti i caffettieri di Roma, volendo mantenere fermo il
prezzo di ogni tazza, si arrangiarono con i ceci, la soia o le castagne. Il
proprietario del Caffè Greco, al contrario, utilizzò sempre vero caffè, ma lo
servì in tazze molto più piccole (le stesse di oggi: tazzine cerchiate di
arancio servite da camerieri ancora come un tempo in frac), e raddoppiò il
prezzo. Il XIX secolo fu l’epoca d’oro del celebre locale e alle pareti sono
esposte le numerose opere di artisti italiani e stranieri che lo frequentarono,
tra cui quelle di Antonio Mancini, Ippolito Caffi, Franz Ludwig Catel,
Enrico Coleman, Massimo D’Azeglio, Angelica Kaufmann. In fondo al
locale c’è quasi “inaspettata” sia per grandezza che per bellezza la sala
rossa con pareti damascate, la statua di un fauno e sotto la finestra il divano
dove si sedeva Hans Christian Andersen. Ora vi si riuniscono varie
associazioni culturali tra cui il gruppo dei “Romanisti”, studiosi della storia
di Roma e poeti in dialetto romanesco.
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L’elenco degli avventori famosi è quasi interminabile. Del Caffè Greco
furono ospiti regnanti e principi della Chiesa quali Luigi I di Baviera e
Gioacchino Pecci, il futuro papa Luigi XIII47
. Gli scrittori e artisti stranieri
apprezzarono in modo particolare una speciale scatola in legno posta
all’entrata che permetteva di ricevere la corrispondenza. Per il suo carattere
storico, il Caffè Greco, che continua ad essere
frequentato da artisti e letterati da ogni parte
del mondo, è stato sottoposto a vincolo nel
1953 dal ministero della Pubblica Istruzione e
dichiarato monumento di interesse storico. Un
altro caffè che ha avuto una notorietà europea
perché accoglieva intellettuali ed artisti
stranieri attratti dalle bellezze della Città
eterna è il Caffè Notegen, aperto nel 1880 in
via del Babuino 159, dallo svizzero Jon
Notegen che gli ha dato il nome e che impiantò nei locali sottostanti anche
una fabrichetta di marmellata. Il periodo di maggior fama è negli anni
Trenta, quando diventò ritrovo di personalità artistiche italiane e straniere
che continuarono a frequentarlo anche nel secondo dopoguerra fino agli
anni Ottanta. Ne furono clienti: Mario Mafai, Cesare Zavattini, Ennio
Flaiano, Mino Maccari, Carlo Levi, Renato Guttuso, Schifano, Novella
47
. Tra gli scrittori stranieri: Nicolaj Gogol che a quanto si racconta vi scrisse una parte delle Anime
morte; René de Chateaubriand, Adam Mikewicz e Stendhal, che vi si recava spesso. Lo storico Ippolyte
Taine, Arthur Schopenhauer, Mark Twain, George Byron, Percy B. Shelley, che abitava poco distante, e
il giovane poeta inglese Keats, che aveva preso casa al numero 26 di piazza di Spagna dove morì . Fra
gli italiani: Carlo Goldoni, Giacomo Leopardi, Gabriele D’Annunzio. Pittori e scultori quali: Jean
Baptiste Corot, Friederich Overbeck, Antonio Canova, Orazio e Carlo Vernet, Jean A. Ingres, Berthel
Thorvaldsen, Anselm Feuerbach, Henry Regnault; numerosi musicisti, tra cui Franz Liszt, Hector
Berlioz, George Bizet, Gioacchino Rossini, Jacob Mendelssohn, Giovanni Sgambati, Arturo Sgambati,
Arturo Toscanini, Charles Gounod, Richard Wagner.
56
Parigini, Ugo Attardi. Negli ultimi anni del Novecento e fino ad oggi, dopo
un periodo di eclisse, per merito di Reto e Teresa Notegen, il caffè
promuove presentazioni di libri, mostre di artisti, dibattiti su scrittori
contemporanei e letture di poesia. Durante la prima metà del Novecento
fino alla fine della seconda guerra mondiale, il caffè più in voga tra letterati
e artisti è stato il caffè Aragno in via del Corso, oggi trasformato in una
rosticceria. Come ricorda Arnaldo Frateili che lo frequentò, e che ha scritto
un libro pubblicato da Bompiani intitolato “Dall’Aragno a Rosati”48
, nella
celebre terza saletta si riunivano scrittori e poeti come Bruno Barilli,
Giuseppe Ungaretti, Vincenzo Cardarelli, Arturo Onofri, Rosso di
Sansecondo, Umberto Fracchia. Da un loro cenacolo, sul quale posavano
uno sguardo benevolo alcune divinità maggiori o minori della nuova critica
sensibile al verbo crociano (Emilio Cecchi, Alfredo Gargiulo, Goffredo
Bellonci, ecc.) nacque la rivista Lirica che, anche in una città sorda e
distratta come Roma, contò qualche cosa se non altro come antesignana
della Ronda. Questi giovani, che coltivavano la prosa d’arte oltre alla
poesia libera dai vecchi schemi, inauguravano il gusto del “frammento” ed
erano lanciati alla scoperta delle letterature straniere. Così la letteratura
romana si sprovincializzava, tra le prime clamorose esplosioni delle bombe
futuriste.
All’Aragno nei primi anni Quaranta c’erano giornalisti che facevano la
fronda al fascismo in maniera più o meno aperta, come Mario Pannunzio,
che doveva diventare direttore prima del quotidiano “Risorgimento
liberale” poi del prestigioso settimanale “Il mondo”, con Sandro De Feo,
48
. Arnaldo Frateili: Dall'Aragno al Rosati: Ricordi di vita letteraria. Milano, Bompiani 1964
57
Ercole Patti e Mario Missiroli, celebre direttore prima del “Messaggero” e
poi del “Corriere della Sera”. Da lì, alla caduta del fascismo il 25 luglio del
‘43, Mario Pannunzio, insieme con altri giornalisti, si mosse per occupare
la redazione del “Messaggero” e far pubblicare in prima pagina la notizia
della cattura di Mussolini e della fine del regime. Tante volte nella terza
saletta c’erano stati battibecchi tra qualche gerarca fascista e gli allora
giovani giornalisti e scrittori che parlavano male del regime. Da Aragno,
negli anni del secondo dopoguerra, prima che lo storico caffè fosse ceduto
ad Alemagna, il produttore dei panettoni milanesi, si poteva incontrare
ancora Bruno Barilli che, consumando un cappuccino, scriveva su un
quaderno alcuni dei suoi versi o delle sue raffinate pagine sulla vecchia
Roma. Questi personaggi erano anche tra i frequentatori della sala da tè
Babington a Piazza di Spagna, che fu fondata nel 1893 da Isabel Cargill e
Anna Maria Babington. Queste due signorine inglesi di buona famiglia
erano venute a Roma con l’intento di aprire una sala da tè e di lettura per la
comunità anglosassone, quando ancora il tè poteva essere acquistato solo in
farmacia. Inizialmente, la sala venne aperta in via Due Macelli, ma visto il
grande successo l’anno seguente fu trasferita in piazza di Spagna nel
prestigioso palazzo adiacente alla scalinata di Trinità dei Monti. Da allora,
la sala da tè è rimasta pressoché invariata e continua a essere testimone
discreta di eventi storici e culturali. Sopravvissuta a due guerre mondiali, e
all’avvento del fast food, Babington ha ospitato famiglie reali, politici,
giornalisti e personaggi della cultura e dello spettacolo. Ancora oggi,
quando si apre la porticina a vetri con sopra disegnato un gatto nero con il
collare rosso e il campanello fa ding, ci si sente trasportati magicamente nel
sud Kensington del XIX secolo. È stata meta, prima dell’ultima guerra, di
58
nobili inglesi e di artisti di ogni nazionalità che si sono mescolati poi nel
secondo dopoguerra con molti letterati come Elsa Morante e Giorgio
Bassani e giornalisti romani. Una fine poetessa recentemente scomparsa,
Biagia Marniti, che lo frequentava nel dopoguerra è stata una delle
protagoniste della rinascita della vita culturale a Roma dove si ristampava
“La Fiera letteraria” ed era nato, nel salotto Bellonci, il gruppo degli “amici
della domenica” che ha creato nel 1947 il Premio Strega, il più prestigioso
premio letterario italiano. Ecco come la Marniti descrive l’ambiente di
Babington: “In piazza di Spagna, da Babington, continuavano ad
incontrarsi Bruno Barilli e Vincenzo Caldarelli, Giacomo Natta e Luigi
Diemoz, Bruno Fonzi e Velso Mucci che dirigeva una rivista problematica
come Il costume politico e letterario (1945-1950). Al gruppo si
aggiungevano saltuariamente Alfredo Zennaro, Biasi, Nicola Ciarletta,
Marcello Pagliero e altri giornalisti che amavano discutere vivacemente di
letteratura, di teatro e di politica. Erano intellettuali di varie tendenze:
anarchici e comunisti, socialisti, liberali e individualisti e, fra battute,
paradossi, fra notabili e antinotabili, l’intelligenza scintillava fra una tazza
di tè e, chi poteva permetterselo, un pasticcino. Si viveva di carne in
scatola, di latte, di pane raffermo, di castagnaccio, di noccioline, di olive, di
castagne arrostite e sigarette fatte a mano. Erano mesi di dignitosa povertà,
e dopo tante sofferenze e amarezze, erano densi di iniziative fluttuanti fra
gli estremi lampi di una bohème che stava per scomparire. L’unica certezza
era l’essere vivi, l’essere in buona salute. Si cercava un lavoro e si avevano
cento idee”.
59
Dice Giovanni Russo: “Posso portare sui caffè letterari romani della
seconda metà del Novecento una testimonianza personale49
,”. Non si
possono trascurare per esempio, fino agli inizi degli anni Novanta, le
lunghe serate al bar del Plaza con gli amici come il poeta Michele Parrella,
lo scrittore Piero Buttitta, l’editore Cesare De Michelis e il fratello Gianni.
Famosa è la distinzione che faceva Flaiano, a proposito degli intellettuali
che si incontravano dopo la cena, fra diambuli e nottambuli, i quali ultimi
erano quelli disposti a superare la mezzanotte. Prima di cena si andava a
prendere l’aperitivo in via Condotti al “Baretto”, che poi fu, alla fine del
Novecento, quasi di soppiatto trasformato in una boutique con grande
rammarico di giornalisti e politici che vi si incontravano, da Giorgio
Spadolini - cugino del più famoso Giovanni - a Giulia Massari, che hanno
poi scelto di rifugiarsi al bar dell’Hotel d’Inghilterra. Il sabato e la
domenica una meta letteraria per un caffé o un aperitivo prima di pranzo
erano e rimangono i caffé all’angolo tra Campo dei Fiori e piazza Farnese.
Ma il luogo principale di incontro è stato e rimane piazza del Popolo. Nel
mio libro50
c’è proprio un capitolo intitolato “Andavamo a piazza del
Popolo”, dove cito i calembours e i soprannomi che venivano appioppati ai
frequentatori di Canova e di Rosati e di cui vorrei citarne alcuni.
Da Canova o da Rosati, appena arrivato dalla provincia nel dopoguerra,
seduto al tavolo con Mazzacurati o Vincenzo Talarico o Sandro De Feo,
alcuni di quei soprannomi li ho visti nascere o li ho ascoltati dalla voce dei
protagonisti. Per esempio, il motto “mi spezzo ma non mi spiego” con cui
Mazzacurati definiva l’inflessibile critico d’arte Argan, io lo ricordo detto
49
. Cfrr. “Con Flaiano e Fellini in via Veneto - Dalla Dolce vita alla Roma di oggi” Rubbettino, 2005.
50
. ibid
60
da Flaiano a proposito di se stesso così variato: “Mi spezzo ma non
m’impiego”. E credo che la battuta “La terra ai carandini”, deformazione
dello slogan comunista “La terra ai contadini”, sia nata tra Flaiano e Mezio
nel salotto del “Mondo” frequentato dal “proprietario” Nicolò Carandini,
proprietario della tenuta di Torre in Pietra. L’epigramma di Flaiano
suonava così: Il conte Carandini fermo come Torre in Pietra che non crolla
lancia il manifesto della nuova Internazionale “Agricoltori di tutto il mondo
unitevi - la terra ai Carandini”. Mazzacurati, la sera quando usciva dal suo
studio di scultore, con la sua aria impassibile, il bel volto in apparenza
soave, si sfogava genialmente sia pure indulgendo qualche scurrilità.
Apprendo da Caruso che per esempio il “Vecchio tastamento” a proposito
del buon Ciccio Trombadori, che troneggiava da Rosati, o “La picassata
alla siciliana” per Guttuso - e trascuro altre variazioni su Picasso - sono di
Mazzacurati insieme a molti altri “calembours” e giochi di parole. Così
“L’amaro Gambarotta” per Moravia o “Il profeta del passato” per
Pannunzio, (ma era più diffuso, forse per il suo aspetto imponente e per il
suo silenzioso distacco, un altro soprannome: “Il piedone”) sono dello
stesso autore. Si potrebbe aprire - come del resto s’è aperto - un dibattito
sulla paternità dell’uno o dell’altro doppio senso di Mazzacurati, come per
esempio, a proposito di un pittore qui anonimo, il forte “Latrin lover”, e
“L’incantatore dei sergenti” per Filippo De Pisis. In un altro capitolo,
Giovanni Russo racconta l’atmosfera nel secondo dopoguerra del Caffè
Rosati: “Nel secondo dopoguerra, Rosati è stato quello che, fino alla metà
degli anni Quaranta per gli intellettuali, gli scrittori e gli artisti, erano stati
Aragno e il Caffè Greco. Tutto il mondo letterario ed artistico ruotava
intorno a questo Caffè di piazza del Popolo, anche se il suo omonimo di via
61
Veneto attirava d’inverno registi, scrittori, giornalisti e politici, da Saragat
ai produttori De Laurentis e Ponti.”
“I ritmi e le frequenze cambiavano secondo gli orari delle giornate e delle
stagioni. Si andava da Rosati a piazza del Popolo a bere l’aperitivo e le
signore della buona borghesia andavano la domenica a comprare le paste
dopo la messa, mentre negli altri giorni il pomeriggio prendevano il té”.
“Quanti soprannomi celebri sono stati
inventati da Vincenzino Talarico, da
Mazzacurati, da Flaiano, da Franco
Monicelli, sedendo ai tavolini dove
affilavano le loro linguacce prima di
disperdersi per la cena”.
“L’estate era il trionfo di Rosati. Qui, col
ponentino, la sera, fino agli inizi degli anni Settanta, dopo cena, tutti
venivano a prendere il gelato o una bibita fresca e a conversare, parlando
dell’ultimo film e del libro di Pasolini o di Bassani o di Arbasino o della
Morante, o degli avvenimenti politici interni ed internazionali, su cui si
accanivano Sandro De Feo ed Ercole Patti, anche se essi d’inverno
preferivano gli angoli raccolti, come una grotta accogliente, del Caffè di
fronte, Canova”.
“Ho nella mente come un dagherrotipo delle prime serate che ho trascorso
da Rosati in cui ricordo i vari gruppi. Alberto Moravia che con la moglie
abitava in via dell’Oca, la stradina che sbocca in Via Ripetta subito dopo
62
piazza del Popolo, ne è stato, tranne che negli ultimi anni, un frequentatore
abitualissimo. Vi faceva, per così dire, casa e bottega. E la sera insieme alla
moglie Elsa Morante, con Pasolini e con gli scrittori più giovani alle prime
armi, da Siciliano ad Arbasino, o con amici che arrivavano da Milano o da
Firenze, da Soldati a Vittorini e l’editore Bompiani, si davano
appuntamento ai tavoli di questo Caffè.
In un tavolo in prima fila, da solo o con l’amico Francalancia, sedeva il
pittore Francesco Trombadori, talvolta insieme con De Chirico, Guttuso,
Bartoli e Maccari. Dall’altra parte dei tavoli, dopo le 23 c’erano Mario
Pannunzio, Libonati, Carandini, il gruppo del “Mondo” a cui si aggregava
volentieri talvolta Rossellini, e poi veniva Fellini per vedere Flaiano.
Nasceva in quelle ore una specie di gioco di parole e di sguardi: da tavolo a
tavolo si intrecciavano discorsi. Allora Rosati chiudeva verso le una e
mezza o le due di notte ed i tavoli rimanevano fuori, e ad essi, con
Ciarletta, Bonanni, Alfredo Mezio e talvolta anche con un gruppo di
fotografi tra cui Pasquale Prunas, si arrivava fino alle tre o alle quattro a
guardare il cielo terso, quasi trasparente. Passava un vecchio con un secchio
con Coca Cola e i lupini perché il bar era chiuso e compariva di volo
Sandro Penna”. “Dopo questo dagherrotipo tra gli anni ’59 e ‘ 60 scattano
altre foto nella memoria del tempo. Simone di Beauvoir e Sartre che
stavano a parlare come due ragazzini al tavolo mentre arrivava Carlo Levi
da Villa Strohl Fern con la sua “1100” nera. E i giovani pittori, purtroppo
consumatisi nella loro vita dispendiosa, come Franco Angeli con Marina
Lante della Rovere ed il suo amico Festa, e il gallerista Plinio con Dorazio,
Turcato, Consagra, Nino Franchina, Cascella. C’era alle 19 una gran folla
nella saletta, file al telefono come ancora oggi, e si mischiavano gli
63
architetti famosi, da Luccichenti che costruì la villa della Petacci alla
Camilluccia, a Monaco, a Minciaroni”. “Altri flash con gli attori: da
Vittorio Caprioli a Franca Valeri a Carlo Mazzarella tra cinema, tv e
giornalismo, a Gassman. C’è stato un momento negli anni Sessanta in cui
accanto ad artisti e scrittori italiani c’erano famosi personaggi stranieri,
come lo scrittore svizzero Max Frisch ed il pittore olandese De Kooning
oltre a stupende ragazze, come una molto bella amica di Pollock. I flash
potrebbero continuare: forse quell’epoca di Rosati si può cogliere bene nei
versi del poeta Michele Parrella che vi veniva allora con Leonardo
Sinisgalli: “Era il tempo dei convogli e degli abbracci / Il mondo era là in
quella vecchia vetrina opaca / e tutti i nostri nomi ancora intatti / quando i
sogni nacquero e si infransero”. Da Rosati sono nati amori e progetti
televisivi, soggetti di film, inchieste giornalistiche, polemiche politiche.
Rosati è stato fino agli anni della TV un luogo cosmopolita, un centro dei
protagonisti del successo letterario ed artistico e dei giovani che vi
aspiravano.
“Certo, nel Settanta c’è stata una certa decadenza. Il pittore Bruno Caruso
racconta in un suo libretto che Flaiano e Mazzacurati incontrandosi una
sera a piazza del Popolo e voltandosi a guardare verso il Caffè affollato di
giovani sconosciuti con blue-jeans e capelli lunghi diceva: “Credono i
essere noi”. Era il periodo delle comparse dei film western all’italiana”. Tre
anni fa Rosati è stato restaurato, identico a come era prima, con i mobili
fatti rinnovare a Firenze dove erano stati costruiti. Continua Russo: “È
tornato come prima, come una volta. Roma certo è cambiata ma sarebbe
travolta se Rosati fosse trasformato in un Caffè postmoderno o alla moda.
Forse il modo migliore per dire quello che Rosati dovrebbe essere è citare
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Tesi di laurea - L'industria culturale in Italia - il caffé letterario - Davide Trebbi def. 4.7.07

  • 1. Facoltà di Scienze della Comunicazione L’industria culturale in Italia: il caffè letterario di Davide Trebbi Relatore: Correlatore: Prof. Mario Morcellini Dott.Giovanni Ciofalo Anno Accademico 2006-2007
  • 2. 2
  • 3. 3 Indice 1. L’industria culturale in Italia 5 1.1 Possibili definizioni 9 1.2 Enrico Caruso e la nascita dell’industria culturale italiana 13 1.3 Lo sviluppo dell’industria culturale in Italia 15 1.4 Intellettuali o produttori culturali? 19 1.5 Comunicazione, media e consumo culturale in Italia 22 1.6 L’accesso culturale: Rifkin e la new economy 25 1.7 Nuovi archetipi umani e realtà virtuali 26 1.8 Nuove tecnologie e immaginario collettivo 28 2. I caffé letterari 35 2.1 Cultura al Caffé: dalla Mittel Europa all’Italia del Sud 39 2.2 Caffè storici d’Italia 41 2.3 Pasolini al Caffè: il Caffé Rosati in piazza del Popolo a Roma 48 2.4 La Roma dei Caffé Letterari 51 2.5 Verso Praga 66 2.6 Sviluppi futuri 68 3. Lettere Caffè: il primo franchising della cultura 69 3.1 Le origini: dal 1999 ad oggi 73 3.2 Lettere caffè: tradizione e progressismo 76 3.3 We make the standard: Bill Gates al caffé letterario 77 3.4 Organizzazione e piani di sviluppo 78 3.5 L’esclusiva territoriale e il network 81 3.6 Manifesto dei Network Culturali Europei 82 3.7 I servizi offerti e il Know How 86 3.8 Il target 86 3.9 Vantaggi e valore aggiunto 87 3.10 Direzione artistica: il palinsesto culturale del caffè 88 3.11 Audience: fidelizzazione e strategia 90 3.12 Scouting network 92 4. Dialoghi al caffé 93 4.1 Musica d’autore: Claudio Lolli, autobiografia industriale 98 4.2 Cinema: Pierluigi Ferrari, un giorno da Leone 105
  • 4. 4 4.3 Stampa: Massimo Bucchi, la finestra sul cortile 110 4.4 Scrittura: Enza Li Gioi, amici di penna 116 5. Appendice 125 6. Bibliografia 129
  • 6. 6
  • 7. 7 Si ritiene che esista un’industria culturale quando beni e servizi culturali sono prodotti e riprodotti, immagazzinati e distribuiti con criteri industriali e commerciali, cioè su larga scala e in conformità a strategie basate su considerazioni economiche piuttosto che strategie concernenti lo sviluppo culturale1 . 1 . Unesco, 1982, in “Classici resistenti al tempo”, M.Stazio, Il Mediaevo Italiano a cura di Mario Morcellini, Carocci, 2005, pag.145
  • 8. 8
  • 9. 9 1.1 Possibili definizioni Un’industria culturale è un industria che produce beni culturali. Più in generale si preferisce parlare di industrie culturali, al plurale, includendovi anche le industrie dell’intrattenimento o dell’informazione. A ben vedere queste definizioni riguardano profondamente la società occidentale o Nord del mondo, industriale appunto; individuando un inizio storico di queste nuove industrie nel momento in cui l’opera d’arte diviene riproducibile e quindi diffondibile su larga scala 2 . “Il mercato dell’arte e della cultura si trova a confrontarsi con le nuove possibilità offerte da forme sempre più raffinate di riproducibilità tecnica, e gli intellettuali cominciano a sentirsi minacciati nel loro ruolo di fari guida della società”3 . La produzione di beni culturali su larga scala viene analizzata per la prima volta dalla Scuola di Francoforte che, delineando le caratteristiche di cultura di massa, differenzia questo tipo di industria dalla più spontanea e diretta arte popolare in genere. Storicamente i primi studi francofortesi a cura di Adorno e Horkheimer corrispondono all’affermazione del capitalismo monopolistico in Europa e negli Stati Uniti e alle prime definizioni di media power4 . La critica marxista alla produzione di beni, ripresa dalla Scuola di Francoforte, tende ad individuare le motivazioni profonde nell’accumulo del capitale non per mezzo di decisioni creative o politiche prese da singoli artisti o imprenditori illuminati ma piuttosto come 2 . Cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966 3 . Da: http://www.industriaculturale.it 4 . Storicamente questo tipo di studi analizzano i metodi con cui i maggiori totalitarismi europei dell’epoca, Fascismo e Nazismo, organizzano il loro consenso attraverso i media di mass e principalmente la radio e il cinematografo.
  • 10. 10 manipolazione del desiderio e del perseguimento di un profitto. Il termine “industria culturale” viene usato da Horkheimer e Adorno nella "Dialettica dell'Illuminismo” del 1942, in cui è illustrata “la trasformazione del progresso culturale nel suo contrario”, sulla base di analisi di fenomeni sociali caratteristici della società americana tra gli anni Trenta e Quaranta. Negli appunti precedenti la stesura si usava il termine “cultura di massa”, sostituita poi con “industria culturale per eliminare l'interpretazione di ciò che tratti di una cultura che nasce spontaneamente dalle masse stesse, come una forma contemporanea di arte popolare”5 . Il mercato di massa impone standardizzazione e organizzazione: i gusti del pubblico e i suoi bisogni impongono stereotipi di bassa qualità. Succede però che in questo circolo di manipolazione e di bisogno che ne deriva, che l'unità del sistema si stringe sempre di più. Sotto le differenze, rimane l'identità di fondo: quella del dominio che l'industria culturale persegue sugli individui: "ciò che di continuamente nuovo essa offre non è che il rappresentarsi in forme sempre diverse di un qualcosa di eguale" (Adorno, 1967). La macchina dell'industria culturale determina essa stessa il consumo ed esclude tutto ciò che è nuovo, che si configura come rischio inutile, avendo eletto a primato l'efficacia dei suoi prodotti attraverso la creazione di nuovi tipi di consumatori con sempre maggiori bisogni da soddisfare e altrettanti nuovi e sempre nuovi bisogni da creare. Le industrie culturali, con le loro continue e rinnovate promesse di soddisfacimento di questi bisogni, dal ludico all’ideologico, creano nei consumatori la sensazione spesso reale e realizzabile del pieno ma 5 . Adorno, 1967
  • 11. 11 momentaneo soddisfacimento degli stessi. Il risultato inevitabile è la creazione di eterni consumatori. Per ottenere un risultato così totalizzante, oltre all’offerta di un prodotto c’è la necessità di veicolare un messaggio pubblicitario che accompagni il prodotto in vendita e colmi i vuoti reali di un prodotto finale spesso fittizio e temporalmente delineato. Gli stessi produttori di beni culturali diventano anche i diffusori tecnologici degli stessi: la Sony produce apparecchi per ascoltare musica, masterizzarla e quant’altro e al tempo stesso è tra le maggiori case discografiche (major) del mondo; un esempio evidente di come le industrie culturali siano un vero e proprio sistema con una profonda unità strutturale. Il pubblico viene svincolato dalla precedente definizione di folla e comincia a definire i suoi gusti, i suoi orientamenti culturali che andranno gradualmente ad alimentare anche i profitti dei produttori di cultura. Dicono ancora Adorno e Horkheimer a proposito dei prodotti dell' industria culturale: “[…]sono fatti in modo che la loro apprensione adeguata esige bensì prontezza di intuito, doti di osservazione, competenza specifica, ma anche da vietare addirittura l'attività mentale dello spettatore, se questi non vuol perdere i fatti che gli passano rapidamente davanti” (Horkheimer - Adorno, 1947). Costruiti apposta per un consumo distratto, non impegnativo, questi prodotti riflettono, in ognuno di loro, il modello del meccanismo economico che domina il tempo del lavoro e quello del non- lavoro. “Lo spettatore non deve lavorare di testa propria: il prodotto prescrive ogni reazione: non per il suo contesto oggettivo- che si squaglia appena si rivolge alla facoltà pensante- ma attraverso i segnali. Ogni
  • 12. 12 connessione logica, che richieda fiuto intellettuale, viene scrupolosamente evitata”6 . A questo proposito Morin7 , nel suo L’esprit du temps 8 , mette in evidenza la lacerante contraddizione tra le nuove esigenze tecniche che creano standard culturali e la natura soggettiva del consumo culturale che ne segue; infatti Morin ritiene che la dialettica tra il sistema di produzione culturale e i bisogni culturali dei consumatori 6 . Horkheimer - Adorno,1947 7 . Edgar Morin, sociologo e antropologo francese. Nasce l’8 luglio del 1921 a Parigi, figlio unico di una coppia di ebrei di origini spagnole. In realtà il suo cognome era Nahum: Morin è il cognome che prenderà dalla sua prima moglie, conosciuta durante la militanza antifascista. Durante la formazione scolastica si appassiona alla letteratura e al cinema, ma vede nascere anche il suo interesse per la filosofia e la politica. Sarà proprio la grande passione per la politica a spingerlo ad iscriversi al Partito Comunista Francese nella seconda guerra mondiale, e a partecipare in prima linea alla Resistenza. Finita la guerra collabora con diversi giornali, occupandosi di tematiche politiche ma anche sociali. Nel 1950 entra al CNRS (Consiglio nazionale per la ricerca scientifica) di cui tuttora è membro, come ricercatore nell’ambito sociologico. Nonostante il grande impegno delle ricerche, non interrompe l’attività di giornalista: nel 1957 fonda, infatti, la rivista di politica “Arguments”, e nel 1967 la rivista “Communication” insieme a Roland Barthes e a George Friedmann. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta si concentra sull’esplorazione della cultura di massa, dei suoi meccanismi e dei suoi effetti sull’individuo: tra le opere di quel periodo, I divi, pubblicato nel 1957, e Lo spirito del tempo, edito nel 1962. All’inizio degli anni ’70 le sue ricerche subiscono un cambio di tendenza, orientandosi all’analisi del rapporto tra scienza e tecnologia, dopo essere entrato in contatto con la teoria dei sistemi, la teoria dell’informazione e la cibernetica. In questo modo sviluppa le prime riflessioni sul pensiero complesso, e sulla necessità di un metodo capace di ridurre la laboriosità nella conoscenza scientifica, e pubblica il primo volume de Il metodo, la base teorica di tutto il suo lavoro negli anni seguenti. Intraprende anche numerosi viaggi, soprattutto in America Latina, che gli permettono di entrare in contatto con diverse culture, ma soprattutto con i risvolti negativi della scienza, del capitalismo e della sempre crescente occidentalizzazione della cultura. Nel 1982 pubblica Scienza con coscienza, in cui presenta i limiti, le possibilità e le responsabilità sociali della scienza. Nel corso degli anni ’90 concentra la sua riflessione sull’educazione, in particolare pone l’attenzione sulla necessità di “educare all’era planetaria”. Secondo Morin, la formazione scolastica attuale è incapace di fornire gli strumenti necessari a comprendere la complessità del presente; la soluzione risiede in un’ educazione multidisciplinare, perché solo attraverso una visione che comprenda le varie sfumature del mondo contemporaneo si potranno abbattere i confini creati dalla scienza e dall’economia, per poter così giungere ad un “umanesimo planetario”.Il suo grande impegno nel campo della formazione lo porta a ricevere, nel 1998, l’incarico di presiedere il Comitato scientifico per la riforma dei saperi da parte del Ministro dell’Educazione francese.Attualmente è presidente dell’Associazione per il pensiero complesso di Parigi e dell’Agenzia europea della cultura dell’UNESCO. 8 . 1962, tradotto poi in Italia col titolo: “L’Industria culturale”, Meltemi, 2002
  • 13. 13 è il vero problema nello studio dell’industria culturale.9 Morin tende a ridimensionare il ruolo della cultura alta contrapposto alla cultura di massa; egli non manca di evidenziare l’egemonia valoriale degli Stati Uniti, primi produttori di beni culturali industriali, e il fatto che la cultura di massa sia cultura dei consumi e infine, che essa tenda ad essere media nella sua aspirazione e ispirazione, quindi a tagliar fuori coloro che sono materialmente troppo poveri, o spiritualmente troppo ricchi per i sogni che produce. La cultura di massa e la cultura industriale, rimangono per Morin, l’unico grande terreno di comunicazione tra classi sociali e culture diverse, l’unico esempio di cultura universale della storia dell’umanità”10 . 1.2 Enrico Caruso e la nascita dell’industria culturale italiana Nel 1902, Fred e Will Gaisberg, si trovano in Italia per registrare, per conto della loro azienda Gramophone & Typewriter Co., la voce di papa Leone XIII. L’11 Marzo dello stesso anno, durante una rappresentazione della Germania di Franchetti11 , debutta al teatro La Scala di Milano, il ventinovenne Enrico Caruso, tenore molto stimato dal pubblico teatrale italiano dell’epoca. I fratelli Gaisberg, affascinati dalle doti tecniche del giovane artista italiano, decidono di provare a registrare la sua voce su grammofono Berliner12 . 9 . Edgar Morin, “L’esprit du temps, 1962 10 . http://www.industriaculturale.it 11 . Alberto Franchetti , compositore, 1860-1942 12 . Emile Berliner inventore del grammofono e fondatore della sopra citata Gramophone & Typewriter Co.; cfr. L’industria culturale in Italia, Michele Sorice, Editori Riuniti, Roma, 1998
  • 14. 14 Il disco realizzato dai due fratelli americani e interpretato da Caruso, accompagnato al pianoforte da Salvatore Cottone, sarà un successo commerciale di dimensioni prima europee e poi mondiali. Questo avvenimento, tanto fortuito quanto epocale potrebbe essere considerato come l’inizio dell’industria discografica di massa; il primo caso di bene culturale diffuso su larga scala, distribuito e stampato per un vasto pubblico. Per quanto riguarda l’Italia, possiamo individuare altri casi di prodotti culturali diffusi su larga scala come ad esempio il “Pinocchio” di Collodi13 . Il nascente processo di industrializzazione culturale in Italia14 , può riscontrasi in molteplici eventi quali: la nascita a Milano del primo grande magazzino di abiti confezionati Aux Villes d’Italie (1877) oppure la creazione della Fiat di Torino nel 1899. “…l’automobile è un bene simbolo, connesso alla percezione sociale della cultura e dei suoi miti 15 ”. Ancora, la fondazione della Siae (Società italiana autori ed editori) nel 1882 al fine di tutelare il diritto d’autore delle nuove opere in distribuzione sul territorio nazionale. La cultura moderna e la sua nascita simbolica. Secondo Alberto Abbruzzese, è possibile individuare nella grande Esposizione Universale di Parigi del 1900; all’interno di questa importante esposizione la merce non solo assume una dimensione spettacolare ma viene anche scenicamente rappresentata. La nascente industria culturale italiana passa anche attraverso le grandi messe in scena di opere quali l’“Aida” di Giuseppe Verdi che registra fino a 13 . Le avventure di Pinocchio, storia di un burattino, Carlo Collodi, 1881 14 . Michele Sorice, L’industria culturale in Italia, Editori Riuniti, Roma, 1998, pag. 12
  • 15. 15 40.00016 spettatori paganti nell’Arena di Verona nel 1913. Già nel 1912 poi, l’Italia si presentava come grande esportatrice di prodotti cinematografici17 . Grazie a nuove tecnologie e alla diffusione su larga scala di prodotti culturali, il Novecento registra per la prima volta anche la scoperta di un pubblico, finalmente vasto e conseguentemente di massa. 1.3 Lo sviluppo dell’industria culturale in Italia Il percorso classico è: aumento della scolarizzazione, diffusione di massa della stampa periodica e quotidiana, diffusione della radio, poi del cinema, poi della televisione. Da noi invece la diffusione di massa della radio, del cinema e soprattutto della televisione precedono l’aumento della scolarizzazione.18 Questa osservazione preliminare del caso italiano ci permette di individuare ulteriori specificità del nostro paese e analizzare le tappe fondamentali dello sviluppo tecnologico e mediale del sistema culturale italiano. Importante è il ruolo che la televisione generalista ha avuto in Italia, “all’inizio degli anni ’50 […] l’Italia si connota per un’offerta culturale nuova fondata sull’azione e sul carisma dei mezzi di comunicazione. Si determina uno scenario sociale caratterizzato da valori, aspirazioni e stili di vita sostanzialmente condivisi a livello di massa […] in cui i media e gli apparati culturali si rinnovano a livello di diffusione e prestigio rispetto allo 16 . L’Arena di Verona all’epoca poteva contenere al massimo 21.500 spettatori. I 40.000 di cui parlò la stampa denotano la grande attenzione che spettacoli del genere cominciavano a destare anche all’interno della stampa italiana. 17 . E’ del 1909 la fondazione a Milano della Federazione Cinematografica. 18 . G. Bechelloni, F. Rositi, Il sistema delle comunicazioni di massa in Italia, in “Problemi dell’informazione”, I, 1977, pag. 35
  • 16. 16 snaturamento del periodo fascista, finendo per interpretare precipuamente la spinta alla modernizzazione. Essi, anzi, diventano i più importanti diffusori e ripetitori delle mete socioculturali collettivamente condivise”19 . Politicizzazione e lottizzazione dei media italiani sono state le principali cause di contraddizioni interne e di sviluppi irregolari nei rapporti tra potere politico, comunicazione e società. Questo sconcertante errore dell’intera classe politica (di ogni tendenza e partito) portò al tentativo di mantenere il controllo della Rai sulle trasmissioni nazionali e di favorire una dispersione di piccole emittenti locali. Il risultato fu una mancanza di norme chiare, che non impedì lo sviluppo di reti nazionali private, ma ne perse il controllo. La situazione di “duopolio” risultante è quella che conosciamo, con tutte le conseguenze su cui si continua a discutere. Compreso il predominio di un “generalismo” appiattito che non favorisce lo sviluppo di qualità più precise e più adatte alle esigenze di un pubblico molto meno “omogeneo” di come lo si immagina secondo i cliché della “cultura di massa”. Dal dopoguerra fino agli anni Settanta, il sistema televisivo in Italia riflette perfettamente il sistema industriale presente nel paese: da un modello spiccatamente taylorista-keynesiano20 , si passa, grazie anche al 19 . Mario Morcellini in “Il Mediaevo italiano, proposte di analisi per l’industria culturale”, Carocci, 2005, I, 1.7, pag. 35. I processi politici che guidano in Italia lo sviluppo dei nuovi media sono allo stesso tempo, emancipatori e dirigisti, definendone la storica fragilità in termini di sviluppo socioculturale e modernizzazione. La scarsa propulsività interna agli apparati e conseguentemente i limiti culturali, industriali e aziendali dei dirigenti italiani hanno condizionato negativamente e frammentato ulteriormente lo sviluppo di industrie culturali omogenee nel nostro paese. Il cinema e la radio prima e la Tv poi, hanno sempre risentito in Italia, dei profondi limiti e obblighi imposti dal sistema di governo (con costanti tagli di spessa pubblica nei campi maggiori della cultura) e dalla sfiducia remunerativa nelle imprese culturali. 20 . Riscontrabile in industrie come la Fiat, beneficiata, secondo politiche keynesiane, dal continuo intervento statale col risultato di ottenere di fatto consolidate posizioni nel mercato nazionale nonché una pressoché totale assenza di concorrenza e quindi un monopolio di fatto. Parallelamente la televisione nazionale (Rai), si ritrova in una posizione di dominanza assoluta e col finanziamento “pubblico” tramite un canone radiotelevisivo che gli italiani pagano per poterne usufruire come spettatori.
  • 17. 17 cambiamento della domanda da parte del pubblico, ad un modello di consumo più personalizzato. Il consumo mediale privato, diventa così la nuova frontiera delle nuove emittenti televisive locali, di medie e piccole dimensioni, che grazie al fondamentale apporto economico derivato dalle sponsorizzazioni private, riescono a soddisfare nuove fasce di pubblico. Gli investimenti pubblicitari, col passare del tempo, si rivolgeranno sempre più nei confronti di ambiti meno generalisti e più dedicati , privilegiando prodotti personalizzati (narrowcasting). I progressivi sviluppi tecnologici porteranno, dagli anni Novanta in poi, a concezioni e creazioni di palinsesti sempre più personalizzati fino ad arrivare al sistema pay-tv che consente all’utente di decidere la sua dieta televisiva, sia per gli orari di fruizione sia per le modalità di consumo del prodotto televisivo: stabilendo una scaletta personale della propria programmazione su schermo. Il fondamentale passaggio dai media di massa (mass media) ai personale media (prima fra tutto il personal computer) ridefinisce un nuovo ruolo della televisione, che pur rimanendo il media più radicato e ancora più diffuso, deve fare i conti con le nuove tecnologie e quando possibile, integrarle. Possiamo individuare tre fasi fondamentali riguardanti il ruolo e lo sviluppo del mezzo televisivo in Italia: la prima, rappresentata da una Tv generalista, attraverso un monopolio pubblico che dura di fatto fino al 197521 ; la seconda, definibile come neotelevisione , passaggio tra vecchi e nuovi linguaggi, caratterizzata da nuove strategie di consumi e dalla presenza di un iniziale mercato pubblicitario; la terza e attuale fase, post-televisione, contraddistinta dal passaggio e dall’aggiornamento di un media ormai 21 . Nel 1975 viene creata una Commissione di vigilanza parlamentare sulla Rai e concessi nuovi spazi ad emittenti private di medie e piccole dimensione. La creazione di questa Commissione rappresenta, almeno formalmente, la fine di un uso strumentale del mezzo televisivo da parte dei governi in carica
  • 18. 18 vecchio come la televisione in favore di nuovi media, interattivi e virtuali (es. Internet)22 . Più che di multimedialità, in Italia, si potrebbe parlare, dagli anni cinquanta in poi, di progressiva intermedialità tra vecchi e nuovi sistemi di comunicazione: radio e Tv prima; Internet, telefonia mobile e nuove tecnologie dagli anni Novanta in poi. “I poveri di media alla periferia dell’impero mediatico” in Italia da Nord a Sud, vanno ad ampliare la cosiddetta fascia di “classe media radiotelevisiva”, poco affine ai nuovi media e consumatrice dei media storicamente testati e approfonditi dai più (radio,tv e stampa). Possiamo inoltre suddividere la storia dell’industria culturale italiana in due grandi fasi storiche: la prima contraddistinta dall’avvento del regime fascista e dalla seguente ricostruzione post-bellica; la seconda orientata invece verso il mercato e le sue logiche produttive. La prima fase denota un atteggiamento pedagogico nella produzione di cultura, lo scopo principale, e non solo in Italia, è l’acculturazione delle masse e la necessità di un livellamento della società secondo un sistema propagandistico. La seconda fase, passando da un sistema “artigianale” di produzione, approda ad un nuovo media system per conquistare un mercato sempre maggiore. In Italia non si è mai sviluppata la televisione “via cavo”, che in altri paesi ha avuto una larga diffusione. I motivi sono vari, ma il principale è uno: quando stava per aprirsi la possibilità della diffusione “via cavo” in Italia, fu scelto invece di “liberalizzare” le trasmissioni “via etere”. Un’improvvisa crescita del numero di canali disponibili distolse l’attenzione dalle possibilità che avrebbe offerto lo sviluppo di aree “cablate” (che in altri paesi sono state, parecchi anni fa, anche il primo strumento di accesso alle trasmissioni 22 .Cfr. L’industria culturale, tracce di immagini di un privilegio, A. Abruzzese, D. Borrelli, Carocci, Roma, 2001, pag. 224
  • 19. 19 satellitari). Anche nella ricezione delle trasmissioni dai satelliti l’Italia è in forte ritardo. Ora la situazione si sa evolvendo, ma ovviamente è troppo presto per poter fare ipotesi o previsioni su come si svilupperà nei prossimi anni. La televisione a cinquecento o mille canali è ormai da tempo una concreta possibilità tecnica. Se si realizzasse permetterebbe un cambiamento radicale dei comportamenti. Ognuno potrebbe scegliere il programma che vuole, all’ora che preferisce. Ma la televisione “generalista” è radicata nelle abitudini ( più di chi produce la televisione che di chi la guarda). Produrre e organizzare i contenuti necessari per una televisione più selettiva, che offra a ciascuno una larga libertà di scelta, è un’impresa molto impegnativa. Ciò che la tecnologia permetterebbe di realizzare in tempi brevi probabilmente si farà attendere ancora per parecchi anni. 1.4 Intellettuali o produttori culturali? Per la sensibilità moderna e contemporanea, il termine “intellettuale”, diffuso soprattutto in area germanica, sin dai primi decenni del secolo XIX, ma che avrà fortuna soprattutto dal 1898 con il cosiddetto caso Dreyfus23 in Francia, evoca l’immagine di un professionista della cultura (scrittore, 23 . Dreyfus (1894-1906) fu il primo clamoroso caso politico-giudiziario scoppiato nella Francia della Terza repubblica. Nel 1894 Alfred Dreyfus (Mulhouse 1859 - Parigi 1935), ufficiale di origine ebraica impiegato presso il ministero della Guerra, fu accusato di aver rivelato segreti relativi alla difesa all'addetto militare tedesco a Parigi. Arrestato in ottobre, dopo un giudizio sommario Dreyfus fu degradato e condannato alla deportazione a vita nell'isola del Diavolo (Caienna). L'opinione pubblica francese, travolta da un'ondata di antisemitismo, dimenticò il caso finché nel 1896, il comandante G. Picquart, nuovo responsabile dell'ufficio informazioni del ministero, riaprì le indagini, persuaso della colpevolezza di un altro ufficiale francese, Esterhazy. Questi però nonostante la debolezza delle prove a carico di Dreyfus, venne scagionato dal consiglio di guerra (1898), mentre il governo Méline subiva passivamente le laceranti polemiche che dividevano i francesi in due correnti d'opinione: i dreyfusards (intellettuali, socialisti, radicali e repubblicani antimilitaristi) e gli antidreyfusards (la destra nazionalista, antisemita e clericale).
  • 20. 20 politologo, sociologo, filosofo) che stabilisce con il potere un rapporto dialettico (di opposizione o di connivenza) e che a vario titolo si fa portavoce di istanze dominanti o marginali dell’opinione pubblica, di cui viene considerato parte integrante e talvolta guida o ispiratore. Si tratta dunque di una nozione inconcepibile se non in presenza di diffusi mezzi di comunicazione (è inizialmente connessa alla stampa giornalistica) e non di rado esposta, soprattutto da parte dei conservatori, ad una connotazione denigratoria o quantomeno ironica24 . Per dirla con Abruzzese, gli intellettuali: “[…]possono parlare a nome del Principe o contro la sua volontà, ma fanno comunque parte di un unico sistema di potere, sono parte dei suoi conflitti”25 . Di fronte ai mutamenti sociali gli intellettuali hanno bisogno, per poter divulgare le proprie idee, di “potenti casse di risonanza”, di mezzi di comunicazione che diano visibilità al loro “appeal intellettuale”; risulta evidente e necessaria dunque, una distinzione tra l’intellettuale che si occupa di scuola, università e società contrapposto o differenziato dall’intellettuale che opera nel campo dello spettacolo, delle tv e della stampa. In Italia gli intellettuali “puri”, che potremmo definire accademici, hanno dimostrato una scarsa influenza sociale dovuta alla cronica debolezza ed incoerenza del sistema italiano nell’armonizzare il mondo della ricerca scientifica con quello degli apparati pubblici e privati. Diversamente la comunità degli appartenenti al mondo della scrittura, 24 .Intellettuali e teorie sull’industria culturale camminano lungo l’asse che va dalle posizioni più critiche a quelle maggiormente integrate, tra coloro che hanno considerato la condivisione sempre più ampia della cultura come un’operazione fittizia atta a illudere e magari ottundere le masse e coloro che invece hanno salutato con favore la democratizzazione della cultura, anche se il prezzo da pagare era un adattamento della cultura stessa ai suoi nuovi destinatari. 25 . Alberto abruzzese, Intellettuale versus industria culturale, in “Il Mediaevo italiano, a cura di Mario Morcellini, Carocci, 2005, 4.14, pag. 122.
  • 21. 21 giornalisti delle carta stampata, critici professionisti, hanno trovato una loro maggiore autorevolezza proprio però non discostandosi da uno dei media più radicati nel paese quale appunto è la carta stampata. La stampa, contrassegnata da ampi spazi di approfondimento, ha rappresentato storicamente il luogo di incontro di idee e intellettuali, sui maggiori argomenti di attualità ma anche su questioni più ampie26 . Il dibattito culturale, ospitato nelle pagine di quotidiani e settimanali, ha reso possibile l’esistenza e la divulgazione di idee ed opinioni che altrimenti si sarebbero mal adattate al mezzo televisivo, basato e regolato sulla news. Intellettuali come Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia o Umberto Eco, raramente hanno eletto come mezzo di diffusione delle proprie idee il mezzo televisivo, giudicato spesso livellato su canoni culturali di massa scadenti. 26 . Prima della seconda guerra mondiale in Italia c’erano 66 quotidiani, con una “tiratura” complessiva di 4.600.000 copie. Il Corriere della Sera, che nel 1920 era arrivato a 750.000 copie, negli anni ’40 ne stampava 500.000 (è ancora al primo posto fra i quotidiani in Italia, con una tiratura di quasi 900.000 copie e una diffusione di oltre 700.000).Nel dopoguerra il numero di testate crebbe rapidamente, fino a 136, per poi scendere a 111 nel 1952, a 96 nel 1961 e a 75 nel 1975. La diffusione dei quotidiani cresceva poco – o addirittura diminuiva. La “tiratura” complessiva nel 1975 era di 6.251.000 copie rispetto a 6.341.000 nel 1965. Nello stesso periodo la diffusione (copie vendute) era scesa da 4.765.000 a 4.415.000.Da allora la situazione non è molto cambiata. Il numero di testate è di nuovo aumentato (ce ne sono circa 180 – ma molte che erano indipendenti oggi fanno parte di grossi gruppi editoriali). La diffusione, come vedremo più avanti, alla fine degli anni ’80 aveva superato i sei milioni di copie, ma dal 1994 rimane più bassa. In rapporto alla popolazione è inferiore ai livelli d’anteguerra. L’Italia era ed è fra i paesi più arretrati in Europa per diffusione e lettura della stampa quotidiana. Il problema è noto e ampiamente dibattuto. Ma quella che continua a mancare è una soluzione.Un fatto nuovo è la diffusione, in alcune città, di giornali distribuiti gratuitamente nelle stazioni delle metropolitane e in altri luoghi “frequentati”. Dal primo uscito a Roma nel 1999 si è arrivati alla diffusione in dieci città italiane (con tre testate a Milano e Roma, due a Bologna, Firenze, Napoli e Padova, una a Bari, Torino, Venezia e Verona). Si riempie così, in parte, lo spazio lasciato vuoto dal mancato sviluppo in Italia dei quotidiani “popolari” e dall’estinzione dei “pomeridiani”. Il numero di copie stampate è rilevante: secondo le dichiarazioni degli editori nel 2003 sarebbe arrivato a due milioni. Ma il fenomeno è limitato ad alcune aree urbane, raggiunge solo sporadicamente quella parte poco attiva della popolazione che è meno abituata alla lettura – e non incide molto sulla situazione complessiva della stampa. È anche aumentato il numero dei periodici “gratuiti”, diffusi in diversi canali, ma con un effetto marginale sulla diffusione totale e sulla lettura. Fonte dati: Censis
  • 22. 22 Il paradosso, aggiunge Abruzzese, è che “in Italia è la pubblicità televisiva – vero e proprio anticristo per gli intellettuali – a far sopravvivere la stampa, e dunque è la ricchezza dei consumi a fornire mezzi di espressione alle culture scritte”. Gli intellettuali si dispongono, secondo quanto detto finora, su vari livelli di interazione con l’industria culturale: li si troverà fermi su una posizione di critica radicale, esterna e inconciliabile rispetto al sistema di produzione culturale moderno; oppure come veri e propri produttori culturali, impegnati dall’interno dell’industria stessa al fine di veicolare al meglio il prodotto o la nuova idea da commercializzare; “lavoro intellettuale e routine produttiva” si discostano sempre più e la figura di intellettuale puro, nella nuova industria e new media, viene sostituita con quella di “creativo”. 1.5 Comunicazione, media e consumo culturale in Italia Per analizzare l’impatto che i media tradizionali e i nuovi media hanno avuto sulla società italiana dall’inizio del XI secolo ad oggi potremmo ricorrere ad una preliminare definizione di modernizzazione intesa come “l’insieme dei processi economici, sociali e culturali che hanno trasformato le società europee ed occidentali negli ultimi tre secoli, tanto da poter parlare di dicotomia società tradizionale/società moderna”.27 Il mutamento socio - culturale verificatosi conseguentemente alla diffusione di nuovi media sul territorio nazionale ha portato con se anche nuovi fenomeni di socializzazione, fornendo strumenti ideali per questo scopo interrelazionale a fronte di un indebolimento del ruolo storico e 27 . Mario Morcellini in “Il Mediaevo italiano”, l’impatto della comunicazione nel caso italiano, Carocci, 2005, 1.2, pag. 17.
  • 23. 23 fondante della famiglia. In tutto il mondo occidentale, le nuove tecnologie hanno anche contribuito all’atomizzazione della società: la rappresentazione del sé in uno schermo (attraverso chat rooms, mondi virtuali come Second Life28 ,ecc) dimostra forse il massimo impatto, sia negativo sia radicale, che le nuove tecnologie informatiche fanno registrare sulla società dei nuovi “pubblici”.La centralità del consumo culturale afferma progressivamente l’importanza e il nuovo valore che il tempo libero va ad assumere in un contesto in cui il consumatore culturale vive la sua intera vita diviso tra “lavoro organizzato” e “tempo libero organizzato”, in questo caso da altri. Per questo concetto si faccia riferimento al paragrafo 1.6 di questo capitolo, a proposito delle teorie sull’accesso esposte da J. Rifkin. Dal dopoguerra ad oggi, gli italiani hanno modificato significativamente i loro interessi culturali e il conseguente consumo culturale. La quota di reddito destinata alla ricreazione e all’intrattenimento in genere, dalla cultura allo spettacolo risulta maggiore verso gli anni ’80 rispetto alla spesa destinata al tempo libero registrata durante gli anni ’50. La produzione di una cultura di massa a costi minori ha sicuramente facilitato tale processo 28. Second Life è una comunità virtuale tridimensionale online creata nel 2003 dalla società americana Linden Lab. Il sistema fornisce ai suoi utenti (definiti "residenti") gli strumenti per aggiungere al "mondo virtuale" di Second Life nuovi contenuti grafici: oggetti, fondali, fisionomie dei personaggi, contenuti audiovisivi, ecc. La peculiarità del mondo di Second Life è quella di lasciare agli utenti la libertà di usufruire dei diritti d'autore sugli oggetti che essi creano, che possono essere venduti e scambiati tra i "residenti" utilizzando una moneta virtuale (il Linden Dollar) che può essere convertito in veri dollari americani. Attualmente partecipano alla creazione del mondo di Second Life oltre 6 milioni di utenti di tutto il pianeta (dato 11 maggio 2007), e ciò che distingue "Second Life" dai normali giochi 3D online è che ogni personaggio che partecipa alla "seconda vita" corrisponde ad un reale giocatore. Gli incontri tra personaggi all'interno del mondo virtuale si configurano dunque come reali scambi tra esseri umani attraverso la mediazione "figurata" degli avatar. L'iscrizione è gratuita, anche se è obbligatorio essere maggiorenni. Per costruire e vendere oggetti all'interno di "Second Life", inoltre, occorre comprare aree di terreno nel mondo virtuale di Second Life.
  • 24. 24 rendendo accessibili alle masse intrattenimenti precedentemente elitari (ad es. il teatro).Se da una parte il cinema, dagli anni ’20 in poi ha subito una costante discesa nei consumi e nelle risorse individuali ad esso destinato, altri settori hanno aumentato la loro audience e i loro ricavi: ad esempio, durante gli anni ’90, gli spettacoli dal vivo ( musica, teatro,ecc) e lo sport, hanno rappresentato il vero settore di crescita nei consumi culturali. I cosiddetti trattenimenti hanno raggiunto negli anni ’90, un terzo del consumo culturale nazionale. Nel caso italiano, l’industria culturale, è definita storicamente e nella sua specificità dalla “disparità di ritmo e di rilevanza rispetto ad altri settori dello sviluppo industriale come quello automobilistico o degli elettrodomestici”. Più che di industria culturale definita come sistema, in Italia si potrebbe parlare di apparati di produzione eterogenei, dal cinema alla tv, scarsamente convergenti e basati su piccole imprese se non da gestioni familiari. Questa particolarità tutta italiana ha indubbiamente favorito un certo tipo di cinema, ad esempio la commedia all’italiana, basata non su grandi budget di investimento ma sulla presenza di maschere (da Totò a Massimo Troisi, da Roberto Benigni a Carlo Verdone) in grado di colmare frizioni e lacune del sistema industrial-culturale italiano. Fino agli anni ’80 si può parlare, in Italia, di artigianato culturale più che di industria vera e propria. Si distingue per risorse e professionalità in campo la televisione che nel corso degli ultimi cinquant’anni ha saputo mantenere invariato il suo appeal mediatico: è forse l’unico media che abbia da sempre seguito e assecondato i gusti del pubblico ed in particolare del pubblico italiano. Di fronte ad una stampa in continua parabola discendente, sia per copie vendute che per qualità di lettori, la Tv, grazie
  • 25. 25 anche alla sua diffusione capillare sul territorio nazionale, ha mantenuto alti i suoi standard di fruizione da parte degli italiani, mantenendo un ruolo centrale nei consumi mediali quotidiani, da parte dei più giovani come dei più anziani. 1. 6 L’accesso culturale: Rifkin e la new economy All'inizio del terzo millennio l'impatto delle nuove tecnologie sta cambiando radicalmente la struttura della società e il nostro modo di vivere. Nella «Fine del lavoro», Jeremy Rifkin sottolineava l'urgenza di trovare quanto prima una risposta al problema, generato dall'informatizzazione, del «lavoro umano inutilizzato». Nell'«Era dell'accesso», Rifkin delinea gli scenari di un futuro imminente in cui le idee e le conoscenze sono i principali generatori di ricchezza, in cui per la prima volta nella storia moderna il possesso di beni materiali viene considerato un limite alla capacità di adeguarsi al cambiamento e ogni genere di bene, servizio o conoscenza (dall'informazione all'intrattenimento, all'istruzione) deve essere acquistato o preso in affitto. Gran parte delle funzioni una volta risolte in ambito sociale e culturale vengono così sostituite da rapporti economici e quasi tutte le attività diventano esperienze a pagamento. Rifkin analizza le strutture organizzative dell'economia delle reti e i meccanismi dell'informazione caratteristici dell'era postmoderna, evidenziando i rischi e le opportunità che si prospettano per lo sviluppo della società e l'emancipazione dell'uomo nel ventunesimo secolo. Da un lato il potere dei “nuovi tiranni” del progresso, i più grandi e importanti provider internazionali, destinati a gestire l'accesso a ogni attività e a controllare la
  • 26. 26 vita di ciascuno di noi in una società dove si accresce il divario tra chi è “connesso” e chi non lo è; dall'altro la possibilità di una maggiore diffusione della conoscenza, della democrazia e del benessere, e l'affrancamento dalla “schiavitù” del lavoro. 1.7 Nuovi archetipi umani e realtà virtuali “L'uomo nuovo del ventunesimo secolo è profondamente diverso da coloro che l' hanno preceduto, nonni e genitori borghesi dell'era industriale: si trova a suo agio trascorrendo parte della propria esistenza nei mondi virtuali del ciberspazio, ha familiarità con i meccanismi dell'economia delle reti, è meno interessato ad accumulare cose di quanto lo sia a vivere esperienze divertenti ed eccitanti, cambia maschera con rapidità per adattarsi a qualsiasi nuova situazione (reale o simulata)”29 . Lo psicologo Robert J. Lifton ha definito questa nuova generazione “proteiforme” : uomini e donne cresciuti nei common-interest developments30 , la cui salute è gestita dal servizio sanitario, che utilizzano automobili in leasing, acquistano on-line, si aspettano di ottenere software gratuitamente, ma sono disposti a pagare per servizi aggiuntivi e aggiornamenti. Vivono in un mondo di stimoli sonori che durano sette secondi, sono abituati all'accesso rapido alle informazioni, hanno una soglia d'attenzione labile, sono più spontanei che riflessivi. Pensano a se stessi come a giocatori più che a lavoratori e preferiscono essere considerati creativi piuttosto che 29 . J.Rifkin, L’era dell’accesso, Mondatori, 2000 30 . Le comunità residenziali battezzate common-interest developments (CID) residenti di un CID hanno ciascuno la proprietà di un lotto abitativo, e condividono quella di tutte le aree comuni all’interno del CID: parchi, strade, centri di ricreazione, negozi. Il consiglio amministrativo dei CID delibera su molte materie, dall’urbanistica alle norme di condotta. Se l’attuale tasso di crescita si manterrà nel tempo, i CID potrebbero progressivamente rivaleggiare con le amministrazioni locali.
  • 27. 27 industriosi. Sono cresciuti in un mondo di occupazione just-in-time31 e sono abituati a incarichi temporanei. Anzi, le loro vite, in generale, sono segnate da un grado di mobilità e di precarietà maggiore, sono meno radicate di quelle dei loro genitori. Sono più «terapeutici» che ideologici e pensano più in termini di immagini che di parole: sono meno abili nella composizione di frasi, ma superiori nell'elaborazione di dati elettronici. Sono più emotivi che analitici. Ritengono che Disney World e Club Med siano «veri», considerano i centri commerciali pubbliche piazze e non distinguono fra sovranità del consumatore e democrazia. Il loro mondo è più fluido, segnato da confini più sfumati. Sono cresciuti a ipertesti, link fra siti Web e anelli di feedback, e hanno una percezione della realtà più sistemica e partecipativa che lineare e obiettiva. Pensano al mondo come a un palcoscenico e alla propria vita come a una serie di rappresentazioni teatrali. Cambiano in continuazione, a ogni passaggio fondamentale della propria esistenza sperimentando stili di vita sempre nuovi. Questi uomini e queste donne non sono interessati alla storia, bensì ossessionati dalla moda e dallo stile. Questi uomini nuovi stanno iniziando a lasciarsi alle spalle la proprietà: il loro mondo - un mondo di reti, gatekeepers e connettività - comincia appena a essere dominato da eventi iper-reali e da esperienze istantanee. Ciò che conta è l'accesso: non essere connessi è la morte. Sono i 31. Just in time (spesso abbreviato in JIT), espressione inglese che significa "giusto/appena in tempo", è un insieme di metodologie tese a migliorare il processo produttivo, cercando di ottimizzare non tanto la produzione quanto le fasi a monte, di alleggerire al massimo le scorte di materie prime e di semilavorati necessari alla produzione. In pratica si tratta di coordinare i tempi di effettiva necessità dei materiali sulla linea produttiva con la loro acquisizione e disponibilità nel segmento del ciclo produttivo e nel momento in cui debbono essere utilizzati.
  • 28. 28 primi esseri umani a vivere in quella che lo storico Arnold Toynbee ha definito età postmoderna. Questa nuova era contrasta decisamente con l'età moderna, in cui i rapporti proprietari e il possesso informavano ogni transazione economica e definivano la quasi totalità delle interazioni sociali: le distinzioni nell'età postmoderna sono relative più all'accesso che al possesso. L'età postmoderna è legata a una nuova fase del capitalismo, fondata sulla mercificazione del tempo, della cultura e delle esperienze, mentre le epoche precedenti coincisero con fasi basate sulla mercificazione della terra e delle risorse, lo sfruttamento del lavoro, la produzione di merci e servizi di base. Baudrillard32 sostiene che viviamo nel mondo immaginario dello schermo, dell'interfaccia e delle reti. Tutte le nostre macchine sono schermi, noi stessi siamo diventati schermi e l'interazione fra uomini è diventata interattività fra schermi. Insomma, è come se già vivessimo in un' allucinazione «estetica» della realtà. 1.8 Nuove tecnologie e immaginario collettivo Una definizione preliminare: “la convergenza di dati continui in una rappresentazione numerica prende il nome di digitalizzazione”.33 Convergenza di dati e modularizzazione degli stessi rappresentano il punto focale del sistema di funzionamento di tutte le nuove tecnologie in uso. E di convergenza dei media, si può parlare anche affrontando la questione dal punto di vista dell’immagine che gli individui hanno delle nuove tecnologie. Definire l’immaginario collettivo richiederà 32 . Jean Baudrillard, critico e teorico della post-modernità. 33 . Lev Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Olivares, 2002. titolo originale: The language of New Media, Massachussets Institute of Technology, 2001. Par. 2.1. I principi ispiratori dei nuovi media. Rappresentazione numerica, pag. 47.
  • 29. 29 alcune, ma necessarie, chiarificazioni. Potremmo definire immaginario collettivo: un insieme di simboli e concetti presenti nella memoria e nell'immaginazione di una molteplicità di individui facenti parte di una certa comunità, anche virtuale. La consapevolezza, da parte di tutti questi individui, di condividere questi simboli rafforza il senso di appartenenza alla comunità stessa. Spesso queste rappresentazioni fantastiche della realtà arrivano a trascendere dalle stesse circostanze che le hanno prodotte nel mondo reale e ad acquistare la forza e la suggestione del mito, diventando le icone di un'intera fase della storia di un popolo. É significativo notare come la visione di queste “entità immaginarie” sia spesso di tipo “trasversale” (o convergente), nel senso che esse sono percepite ed accettate come patrimonio comune, indipendentemente dagli orientamenti religiosi, politici e culturali degli individui che fanno parte della comunità. Un ruolo sempre più importante nella formazione e nella rielaborazione dell'immaginario collettivo è svolto dai moderni mezzi di comunicazione di massa, che rendono accessibili, su scala planetaria, le informazioni e le immagini. Di conseguenza le dimensioni delle comunità che possono condividere un comune patrimonio simbolico divengono sempre più vaste, ed al concetto di "popolo" (o community) si sostituisce gradualmente quello di villaggio globale. Dunque le nuove tecnologie hanno il grande merito di consentire la costruzione collettiva di un universo comune di significati. L’intelligenza collettiva costituisce un nuovo spazio antropologico in cui, grazie alle nuove tecnologie, tutti i saperi umani possono essere democraticamente condivisi in un’ottica di etica dell’ospitalità ed estetica dell’invenzione (esiste, infatti, un’architettura del ciberspazio).
  • 30. 30 L'immaginario collettivo nasce quando una infrastruttura mediatica trasmette e ripete una stessa immagine per milioni di volte, producendo un luogo comune, una allucinazione consensuale intorno ad uno stesso oggetto (che poi è declinato e comunicato attraverso altri vettori, dal passaparola al cinema). Nel caso del medium televisivo questa trasmissione seriale di milioni di immagini è molto più letale, perché avviene nello stesso istante. Altra cosa è invece l'immaginario di rete, che funziona in modo interattivo e non istantaneo, per il quale parliamo di immaginario connettivo. L'immaginario è quindi la trasmissione collettiva seriale di una stessa immagine attraverso media diversi. Parafrasando Goebbels, è come una bugia ripetuta milioni di volte che diventa discorso pubblico, conversazione quotidiana, verità. L'immaginario collettivo è in definitiva questo luogo dove si incrociano media e desiderio, dove una stessa immagine ripetuta un milione di volte modifica contemporaneamente milioni di corpi, inscrive il piacere, la speranza, la paura. A questo proposito, le tesi di De Kerckhove riguardo al problema dell’intelligenza connettiva34 affermano che: “ La mente umana può fare molto di più di quello che fa e le nuove tecnologie la stimoleranno a fare di più , a fare meglio, a fare cose differenti e nuove”.35 Come ha dichiarato lo stesso De Kerckhove nel 1999: “Da Internet è nata una forma di intelligenza nuova”. L’intelligenza nuova di cui parla De Kerckhove, trova i suoi fondamenti anche nelle caratteristiche basilari dei nuovi media definite in: digitalizzazione, convergenza e personalizzazione. Nuove tecnologie e 34 . De Kerckhove, Derrick (1991), Brainframes.Technology, Mind And Business, Bosch &; Keuning, Utrecht, trad. it. Brainframes. Mente, tecnologia, mercato, Baskerville, Bologna, 1993 35 D. De Kerckhove, Ve lo posso garantire io, in Internet non ci si perde, Telema 4, primavera 1996
  • 31. 31 quindi nuovi media conducono al superamento di alcune barriere apparentemente insormontabili quali il passaggio dal formato analogico (senza soluzione di continuità) al formato digitale (discreto per sua stessa natura: 1,0,1,0 e così all’infinito). I “vecchi” media del nostro immaginario collettivo ci riconducono a pratiche di consumo separate tra loro. Il telefono, la televisione e il personal computer convergono o almeno dovrebbero attraverso la rivoluzione digitale, in un unico dispositivo digitale e multimediale. I dispositivi comunicativi che consentiranno questa convergenza sono in parte affermati e in parte in via di definizione. Il primo e fondamentale passaggio sarà quello dell’abbandono, o del diverso uso, dei mezzi di comunicazione di massa per approdare ad un uso personale e dedicato. Afferma Alberto Marinelli: “In realtà un sistema mediale integrato capace di assicurare prestazioni di questo tipo esiste già: è la rete Internet, con i software di navigazione che fanno riferimento al personal computer e ai protocolli di comunicazione sviluppati in ambiente web, che si stanno espandendo in aree contigue dal punto di vista tecnologico (dispositivi wireless e mobile, tv digitale via cavo, satellitare e terrestre)”.36 La possibilità di accedere a dispositivi digitali di vario tipo è poi connesso al grado di sviluppo tecnologico di ciascun paese: per quanto riguarda l’Italia secondo le previsioni dell’European Information Technology Observatory, il futuro prossimo vedrà il nostro paese in coda, per tecnologie e velocità di trasferimento dati digitali, nelle classifiche dei paesi Europei e comunque del “Nord del mondo”. Per dirla con Morcellini: “Senza assumere una visione retorica o taumaturgica dei media come naturalmente democratici e progressisti, 36 . In “Il Mediaevo italiano, Verso il futuro. Internet e la convergenza”,Carocci, 2005, Cap. 19, par. 19.1, pag. 398.
  • 32. 32 resta il fatto che essi attivano una serie infinita e persino sfuggente di effetti psicologici, culturali e sociali”37 . Un’osservazione questa che risulta riscontrabile anche nel caso italiano. In Italia, dagli anni ’50 in poi la centralità della televisione nei consumi culturali e mediatici degli italiani, ha fortemente rallentato lo sviluppo tecnologico del paese. Una nuova multimedialità comunicativa e il suo apporto culturale rappresentano un driver di mutamento necessario e imprescindibile. Le trasformazioni qualitative e di standard tecnico hanno portato sia in Italia che in Europa ad un progressivo indebolimento dei media generalisti per definizione (Radio e tv), a favore di una multimedialità di fatto: si è passati da una concezione originaria e di base di multimedialità (uso combinato di radio, tv e stampa) ad una seconda fase contraddistinta dal consumo di media generalisti abbinati al consumo di intrattenimenti dal vivo, fino ad arrivare alla terza fase che potremmo definire di multimedialità evoluta che senza escludere i media pre-esistenti, si indirizza su nuovi media (internet, telefonia mobile, tv digitale, ecc). “Tutti i navigatori e i fruitori del digitale provengono, infatti, dall’ “esercito del generalismo”: proprio per questo è difficile che essi possano troncare i contatti con la mappa dei media tradizionali”.38 L’intermedialità tra nuovi e vecchi mezzi di comunicazione in Italia, trova le sue principali cause di rallentamento anche nell’età degli utilizzatori di nuovi media e nella capacità di telecomunicazione della Rete nazionale: scarsa diffusione di reti basate su comunicazione per mezzo di fibra ottica o scarsa diffusione di pc/pro-famiglia sul territorio nazionale. Ci si trova di 37 . Mario Morcellini in “Il Mediaevo italiano”, mutamento all’italiana, Carocci, 2005, 1.9.2, pag. 44 38 . Il Mediaevo italiano, Mediaevo vs tecnoevo. Il mondo dei consumi culturali, M.Morcellini e M.Gavrila, par. 3.1, pag. 73, Carocci, 2005.
  • 33. 33 fronte ad un panorama italiano che vede, da una parte, un gran numero di analfabeti informatici e, quasi in contrapposizione, dall’altra parte un numero discreto ma in crescita di esploratori tecnologici.
  • 34. 34
  • 36. 36
  • 37. Quel tavolo del Caffè Garibaldi [a Trieste], sotto il municipio, tra le sette e le nove di sera degli anni che seguirono all'altra guerra - scrive Giani Stuparich39 pensando al fratello Carlo e all'amico Scipio Slataper che dalla guerra non erano tornati - è passato alla storia. Trieste non ebbe forse mai un affiatamento di spiriti così vasto. 39 . cfr. Al Caffè con Stuparich in Enrico Falqui, Caffè letterari, Roma, Canesi, 1962
  • 38. 38
  • 39. 39 2.1 Cultura al Caffè: dalla Mittel Europa all’Italia del Sud Stuparich costruisce una suggestiva carrellata dei clienti abituali del Garibaldi fra i quali spiccano i nomi di Julius Kugy, definito spirito europeo, e di James Joyce, uno spirito universale. Accanto a questi illustri stranieri non mancavano certo gli italiani, anzi i triestini: primo fra tutti Italo Svevo che "sapeva fondere con la sua animata e spiritosa socievolezza - spiega Stuparich - la compagnia del Caffè Garibaldi. [...] Svevo sapeva conquistare persino Saba: ed era, specie in quegli anni, non facile impresa. Saba s'iniziava allora al freudismo, con tutti gli alti e bassi di una nevrastenia scontrosa e patita, che solo più tardi doveva trovare nei "misteri freudiani" il suo centro di sollievo. Svevo, in certo qual modo aveva già disciolto il freudismo nell'ironia, nella sua ironia."40 Questo gruppo di amici, gli assidui del Caffè Garibaldi, erano così legati al locale che, quando venne chiuso fecero secessione e si spostarono in massa al vicino Bar Nazionale 41 . Alla compagnia si aggiunsero presto alcuni amici occasionali come il matematico e musicista Guido Voghera, Silvio Pittoni, fratello del deputato socialista, il pittore klimtiano Timmel e Roberto, Bobi Bazlen, per citarne soltanto alcuni. "Il caffè è l'unico luogo in cui si può veramente scrivere: si è soli, con carta e penna e tutt'al più i due o tre libri di cui si ha bisogno in quel momento - 40 . Il cognato di Italo Svevo, Veneziani, era stato in analisi presso Freud per risolvere problemi di dipendenza dalla morfina e di omosessualità. A sua volta Joyce, all’epoca anch’egli residente a Trieste, venne a contatto con la psicanalisi proprio attraverso lo stesso Svevo. 41 . In Piazza dell’Unità, sempre a Trieste.
  • 40. 40 spiega Claudio Magris 42 - abbandonati a se stessi e costretti a far conto soltanto su se stessi, a raccogliere le proprie energie e dosarle con misura; il tavolino su cui si poggia il foglio diviene la tavola di un naufrago, cui ci si aggrappa, mentre la familiare armonia che ci circonda si svuota, diviene l'incerta cavità del mondo, nel quale la scrittura si addentra, perplessa e ostinata." Sono parole scritte pensando al Caffè Tommaseo (dopo la ristrutturazione dell'edificio che lo ospita, compiuta fra il 1984 e il 1986 dalle Generali) ma sedendo a un tavolino del Caffè San Marco, il preferito da Magris che gli dedica il primo capitolo dei suoi Microcosmi (Milano, Garzanti, 1997). "Il San Marco è un vero Caffè, periferia della storia contrassegnata dalla fedeltà conservatrice e dal pluralismo liberale dei suoi frequentatori. [...] Al San Marco trionfa - osserva Magris - vitale e sanguigna, la varietà."43 Magris pensa al Caffè come a un luogo del disincanto dove si ripete immutato e al tempo stesso nuovo, uno spettacolo già visto in cui ognuno riesce forse a ritrovare se stesso. Anche Magris, come Stuparich, ricorda i tanti nomi di intellettuali che si sono fermati a discutere, a scrivere e a vivere qualche ora in questo Caffè: fra i tanti nomi spicca quello di Giorgio Voghera (figlio di Guido), conosciuto per gli studi sull'ebraismo e sulla psicanalisi.44 42 . Claudio Magris, scrittore e germanista; Cfr. Utopia e disincanto. Storie, speranze, illusioni del moderno, Claudio Magris, Garzanti, 2001 43 . Claudio Magris, Microcosmi, Garzanti, Milano, 1997 44 . Giorgio Voghera, pubblicazioni e studi: Gli anni della psicanalisi (1980), Nostra Signora Morte (1983), Carcere a Giaffa (1985), Quaderno d'Israele (1986). Di lui alcuni dicono che sia l'autore del romanzo Il segreto, pubblicato nel 1961 da Einaudi come romanzo di "anonimo triestino" (con prefazione di Linuccia Saba); Giorgio Voghera ha sempre smentito, sostenendo che l'autore di tale romanzo è in realtà suo padre Guido Voghera. [Per completare il labirinto: l'unica opera ufficialmente edita di Guido Voghera è Pamphlet postumo: Etica e Politica da Hegel ai Grandi Dittatori, con una biografia scritta da Giorgio e una presentazione di Aurelia Gruber Benco (Edizioni Umana, 1967).]
  • 41. 41 2.2 Caffè storici d’Italia Trieste Le prime Botteghe da caffè vennero aperte a Trieste nella seconda metà del Settecento, probabilmente seguendo l'esempio degli omonimi locali veneziani decantati dal Goldoni, ma assumendo immediatamente un'inconfondibile impronta viennese negli arredi e nei servizi offerti. La prima Caffetteria di cui si hanno notizie fin dal 1768 era quella di Benedetto Capano, sita in contrada Bottari (ora via San Nicolò). Ad essa veniva concessa l'esclusiva della vendita di “Acque fredde e calde, the, caffè, cioccolata, limonate, sorbetti ed acque sciroppate" e la possibilità di tenere “Bigliardi da soldo e cuocere biscotterie” con la raccomandazione, però, di non permettere nel locale” scandali, ritrovi sospetti e giochi, e di contribuire alle quiete e alla morigeratezza”. Dì li in avanti le botteghe di caffè si moltiplicarono in una Trieste che era cresciuta di popolo e di fortuna.45 Emporio mitteleuropeo, ogni colonia (tedesca, greca, svizzera) aveva un proprio luogo d'incontro: così i tedeschi frequentavano il Caffè Stella Polare, i levantini il Caffè Griot. Con il passare del tempo, lo spirito cosmopolita della città propose caratterizzazioni diverse da quelle nazionaliste, con Caffè spiccatamente politici, quelli per ufficiali e alti funzionari austriaci, quelli della borghesia, degli uomini d'affari e sempre più numerosi i Caffè letterari. Ad imitazione dei Caffè parigini nascono anche i primi concerti, le prime esposizioni pittoriche, le camere da gioco, 45 . Fonte: A.I.A.T. Agenzia di Informazione e di Accoglienza Turistica di Trieste
  • 42. 42 le sale biliardo, e la sempre più ricca presenza di giornali italiani, tedeschi, inglesi e francesi. Contribuiscono a questo continuo progresso le assidue presenze di letterati di fama mondiale: così al Caffè Pirona è certa quella di James Joyce, ai Portici di Chiozza, centro allora dell'irredentismo triestino, quella di Italo Svevo, all'Antico Caffè San Marco Umberto Saba e molti altri. Nel corso del tempo Trieste, forse insieme alla sola Vienna, ha saputo conservare alcune vestigia del suo passato che, per quanto antiche, sono quanto mai ancora vive. Continuando così in un percorso ideale fino ad arrivare al Caffè Tommaseo, il Caffè degli Specchi nella splendida cornice di Piazza Unità, il Tergesteo, la Stella Polare, il Torinese, il Caffè Pirona, l'Antico Caffè San Marco. Tutti in grado di rievocare più di un secolo di storia cittadina attraverso vicende che raccontano di irredentismo, cultura, invasioni, letteratura, libertà. Ma al contempo perfettamente inseriti nella realtà del XXI secolo e come cent'anni fa in sintonia con i volubili desideri dei propri clienti. Il Caffè Tommaseo Il Caffè Tommaseo è, indubbiamente, uno fra i più antichi Caffè di Trieste. Sito in quella che allora si chiamava piazza dei Negozianti, fu aperto nel 1830 da un padovano, Tomaso Marcato, che gli diede il proprio nome, Caffè Tomaso. Il locale divenne subito meta preferita di artisti e commercianti e, nel 1848, venne ribattezzato, in onore dello scrittore e patriota dalmata Tommaseo. A testimoniare il legame fra il Caffè e quel fondamentale momento storico c'è una lapide fatta apporre dall'Istituto
  • 43. 43 nazionale per la storia del Risorgimento, ove si legge: "Da questo Caffè Tommaseo, nel 1848, centro del movimento nazionale, si diffuse la fiamma degli entusiasmi per la libertà italiana". Dopo l'uccisione di Guglielmo Oberdan che segnò il trionfo della reazione austriaca, il locale prudentemente riprese il nome originario che mantenne fino al 1918, fino a quel fatidico 3 novembre che portò Trieste all'Italia e permise al Caffè di chiamarsi nuovamente Tommaseo. Il Marcato, grande appassionato d'arte, si preoccupò di abbellire il locale affidando l'incarico delle decorazioni al pittore Giuseppe Gatteri e facendo venire, direttamente del Belgio, una serie di specchiere, con le quali tappezzò tutte le pareti. Il Caffè, ritrovo di artisti, letterati e uomini d'affari ospitava spesso mostre e concerti; va ricordata una personale dedicata a Giuseppe Bernardino Bison e i concerti che venivano proposti il giovedì dall'orchestra del Teatro comunale e il sabato dalla banda. Fra le specialità offerte dal Caffè Tomaso c'era il gelato, introdotto in città proprio dal Marcato che, sensibile alle innovazioni, volle anche dotare il caffè di illuminazione a gas: correva il 1844 ed era il momento in cui in città si facevano i primi esperimenti pubblici. Una curiosità emersa dagli archivi del locale è che, con un contratto di acquisto, stilato il 29 settembre del 1830 pare ne fosse entrata in possesso la contessa Lipomana, nome sotto il quale si nascondeva nientemeno che Carolina Bonaparte, la vedova di Gioacchino Murat. Altro fatto degno di nota è che l'edificio che ospita il locale è, dal 7 aprile 1954, tutelato come monumento storico e artistico, sorte che divide con altri caffè prestigiosi, un nome per tutti il Caffè Greco a Roma, in via Condotti. Fra gli altri proprietari del caffè merita di essere ricordata la signora Nerina Madonna Punzo che si preoccupò non solo di mantenere intatto l'aspetto
  • 44. 44 originario del locale, ma si improvvisò anche editrice di un giornale periodico “Lettere da un antico caffè” che voleva farsi portavoce di idee e dibattiti letterari ed artistici. Restaurato e rinnovato nel dicembre 1997 nel segno dell'originaria tradizione dei Caffè Viennesi, dalla nuova Società proprietaria del Caffè. Il Caffè San Marco Il 3 gennaio 1914 viene inaugurato il Caffè San Marco, sorto là dove un tempo c'era la Latteria Centrale Trifolium, divenne presto luogo di ritrovo di lettori di quotidiani, giocatori di biliardo, nonché giovani irredentisti e laboratorio per la preparazione di passaporti falsi che sarebbero serviti ai patrioti antiaustriaci per scappare in Italia. L'attività del Caffè fu bruscamente interrotta il 23 maggio 1915 quando una pattuglia austriaca devastò il locale. Fra i diversi proprietari che si alternarono nella gestione del Caffè meritano di essere ricordati, oltre al primo Marco Lovrinivich, le sorelle Stock che Claudio Magris definisce "minute e inesorabili"46 . Il Caffè, più volte restaurato grazie alla munificenza delle Assicurazioni Generali, si presenta oggi, dopo la riapertura del 16 giugno 1997, con l'immutato e suggestivo aspetto di sempre. Le maschere ammiccano ancora dall'alto, sopra il bancone di legno intarsiato, opera - spiega ancora Magris - della rinomata falegnameria Cante. Alcune maschere sono attribuite al pittore viennese Timmel, che sfogava al Caffè la propria fatica di vivere. In effetti tutto il Caffè segue lo stile della Secessione viennese che, abbinato allo stile floreale, gli conferisce un'incredibile suggestione. Interessanti sono i nudi dipinti sui medaglioni alle pareti, pare da Napoleone Cozzi un 46 . Cfr. Microcosmi, Milano, Garzanti, 1997, cap. 1
  • 45. 45 "decoratore alpinista scrittore e irredentista" e da Ugo Flumiani "pittore - spiega Magris - di acque increspate." I nudi sono infatti la metafora dei fiumi friulani, ma anche istriani e dalmati che si perdono nell'Adriatico, il mare di Venezia e quindi di San Marco. Di grande effetto le innumerevoli foglie di caffè che rappresentano una costante nella decorazione con il loro ripetersi ossessivo e al tempo stesso rassicurante. Ci sono i tavolini di marmo con la gamba di ghisa che si eleva su un piedistallo sorretto da zampe di leone, quel leone di San Marco, voluto dal primo proprietario non tanto per celebrare il proprio nome quanto per simboleggiare italianità e irredentismo. Molto amato dagli scacchisti, per la particolare disposizione dei tavolini, il Caffè si presenta - osserva Magris - come una scacchiera dove gli avventori sono costretti a muoversi come il cavallo. Caffè Pasticceria Pirona Frequentatore assiduo del caffè, tra gli altri fu James Joyce, il quale assaporando i raffinati dolci di tipo austriaco, ma soprattutto degustando i pregiati vini, progettò qui il suo "Ulisse". Caffè degli Specchi La data di nascita del Caffè degli Specchi fu il 1839; suo fondatore e primo gestore fu il greco Nicolò Priovolo. Il locale venne ospitato al pianterreno di Palazzo Stratti in quella Piazza Grande (dal 1918 Piazza dell'Unità d'Italia) che rappresentava ieri e continua ad essere oggi il cuore della città. Per questa sua particolare posizione, il Caffè degli Specchi diventò subito un avamposto privilegiato per seguire tutte le vicende storico, politico,
  • 46. 46 economiche e culturali della città di Trieste. La metà dell'Ottocento rappresentò, oltre che un interessante periodo di sviluppo economico, l'inizio di quelle che sarebbero state le esaltanti lotte per la conquista dell'italianità di Trieste e il Caffè degli Specchi sarebbe presto diventato un covo di irredentisti. In quegli anni il Caffè degli Specchi cambiò molti gestori e subì notevoli trasformazioni. Dopo Nicolò Priovolo, la direzione del locale passò a due caffettieri di professione, Antonio Cesareo e Vincenzo Carmelich che se ne sarebbero occupati per oltre cinquant'anni (1884-1945). Nel secondo dopoguerra il Caffè degli Specchi e l'intero Palazzo Stratti vennero requisiti dagli alleati anglo-americani. Da quel momento, all'interno del locale vennero collocate le insegne della Royal Navy (la marina britannica) e ai triestini non accompagnati fu fatto divieto di frequentare il Caffè. Nel 1953 la gestione del locale fu affidata al bergamasco Angelo Asperi, che chiuse i battenti nel 1967 per avviare alcune opere di restauro. Tra l'altro un primo ripristino del Caffè era già stato fatto nel 1933. Ultimato nel 1969 il rinnovo, di cui si fecero carico le Assicurazioni Generali, proprietarie di Palazzo Stratti, il Caffè riaprì gestito dalla società Hausbrandt, storica casa di tostatura fondata a Trieste nel 1892. Infine nel 1990, la gestione passò all' attuale Società che, con l'ultima totale ristrutturazione del 2000 ne disegnò l'attuale fisionomia. Il Caffè Tergesteo Il Caffè Tergesteo fin dal 1863 si trovava di fronte allo storico Teatro Lirico G. Verdi con tavolini all'aperto. Classico luogo di incontro e passaggio cittadino, frequentato di giorno da uomini d'affari della vicina Borsa e di sera dall'elite culturale della città, oggi è situato, invece,
  • 47. 47 all'interno della Galleria omonima, che da Piazza Verdi porta a Piazza della Borsa. Dopo i lavori di restauro, per ricreare l'atmosfera di “fin de siècle”, dell'originale, purtroppo, è rimasto ben poco. Da notare le vetrate colorate che raffigurano episodi della storia triestina. Ad esso Saba dedicò una lirica raccolta nel Canzoniere ("Caffè Tergeste... tu concili l'italo e lo slavo, a tarda notte, lungo il tuo bigliardo"). Caffè Stella Polare La nascita del Caffè Stella Polare, nel primo stabile sito di fianco al Canale di Ponte Rosso che arrivava fino alla Chiesa di Sant'Antonio, risale al 1865. Lo dirigeva Antonio Carmelich, ma nel 1910 la gestione passò a Riccardo Leipziger e Mario Sbisà. All'inizio del 1904 il vecchio stabile sul Canale venne abbattuto per far posto all'attuale palazzo. Allora il Caffè Stella Polare fu sistemato, in via provvisoria, in un padiglione di legno e gesso, sistemato di fronte alla Chiesa di Sant'Antonio Nuovo. Nel novembre di quell'anno, al piano superiore dell'edificio, venne allestita una grande mostra postuma del pittore Umberto Veruda, scomparso il 29 agosto dello stesso anno. In seguito il Caffè Stella Polare venne definitivamente sistemato al n. 6 di Piazza Sant'Antonio dove tuttora si trova. Il 23 maggio del 1915 il locale subì una devastazione ad opera di dimostranti anti- italiani, ma riuscì a superare anche questo brutto momento. A seguito di tale negativa esperienza il gestore espose nelle sue sale un eloquente cartello: "Qui non si parla di politica né di alta strategia". Il Caffè era nato come tipico locale austro-ungarico con le classiche decorazioni di stucchi e specchi che, seppur rovinate, si possono ammirare ancora oggi. Nel momento del suo massimo splendore e con la sua posizione strepitosa dalla
  • 48. 48 quale abbracciava quattro vie, presentava un bancone in legno di ciliegio ed era dotato di sale da biliardo, sale per le riunioni e per la lettura; frequentato da negozianti ed intellettuali della colonia tedesca e da moltissimi letterati sia triestini che stranieri. Venezia Il Caffè Florian, inaugurato il 29 dicembre 1720 sotto i portici delle Procuratie Nuove in Piazza San Marco, può a ragione definirsi un simbolo della città. Da 280 anni, infatti, il Florian svolge la sua attività quotidiana di Caffè, meta di Veneziani, Italiani e stranieri che ne apprezzano l'ambiente e il servizio impeccabile. Spesso, accanto all'affezionata clientela internazionale, può capitare di incontrare personalità del mondo della cultura, dello spettacolo e del jet set. Per coloro che desiderano un "ricordo tangibile" della loro permanenza al Florian sono disponibili raffinati prodotti che testimoniano il gusto e la storia del Caffè. Le estati del Florian sono arricchite anche della presenza dell'orchestrina, secondo una tradizione ormai quasi secolare. Inoltre, pur restando legato alla tradizione, il locale organizza manifestazioni culturali di alto livello e di grande attualità, in particolare nel settore dell'arte contemporanea. 2.3 Pasolini al Caffè: il Caffè Rosati in piazza del Popolo a Roma Ricorda Ugo Pirro: “Al Caffè Rosati negli anni Cinquanta incontravi Pier Paolo Pasolini ed Elsa Morante, ma anche tanti giovani pittori e cineasti, tutti immersi in un clima di vivacità culturale che, solo a distanza di anni, riesco ad apprezzare appieno”. Pirro, vincitore di due Oscar per Indagine su
  • 49. 49 un cittadino al di sopra di ogni sospetto e Il giardino dei Finzi Contini, mette a confronto gli anni Cinquanta e i tempi di oggi. E aggiunge: "Abito in centro da tempo, a pochi metri da Piazza del Popolo. Prima stavo a Vigna Clara e, nonostante la distanza, la sera andavo sempre a Piazza del Popolo. Ci si vedeva al Caffè Rosati, non c´era bisogno di dire niente, non usavamo certo il telefono per metterci d´accordo. Ci incontravamo lì e decidevamo cosa fare. Agli inizi, nell’immediato dopoguerra, i soldi erano pochi, dormivo in camere ammobiliate e spesso non ordinavo nemmeno un bicchier d’acqua da Rosati. Mi sedevo ai tavoli e parlavo con gli amici, tutti artisti, sceneggiatori, produttori e cineasti. I camerieri me lo permettevano perché mi conoscevano e il clima che si respirava era di grande familiarità. Parlavamo molto di cinema, naturalmente, ma anche di arte perché amavamo la compagnia dei pittori che frequentavano Rosati. La gente di cinema si incontrava anche dietro Via dell´Oca, nella sede dell´Anac, l’associazione degli autori di cinema, in quegli anni molto autorevole. Qui si discuteva delle due grandi fazioni di registi e sceneggiatori: i drammatici e i comici. Io ero un drammatico. Ci sentivamo diversi da loro, c´era una rivalità, artistica non umana, verso gli esponenti del comico. Non ci convincevano, eccezion fatta per uno: Totò, il principe. Attore e mimo eccezionale, troppo penalizzato da sceneggiature scadenti. Lui non frequentava Piazza del Popolo, aveva ritmi di lavoro serrati, era una persona isolata, schiva. Noi invece avevamo l´allegria e la vivacità della gioventù, organizzavamo feste indimenticabili. Come una rimasta storica in Via Margutta, durante la quale lo scultore Consagra conobbe la moglie, incredula turista americana stupita dal nostro carattere festoso ed internazionale. Con il passare degli anni migliorò la situazione finanziaria e
  • 50. 50 cominciammo a mangiare almeno una volta al giorno nelle osterie del centro: da Otello alla Concordia, dal Re degli amici, da Cesaretto in Via della Croce, e soprattutto da Menghi in via Flaminia, che faceva credito a tutti sfamando così molti artisti spiantati”. “Il punto di partenza – conclude - rimaneva però sempre Rosati. Lì dibattevamo e scrivevamo soggetti, trattamenti e intere sceneggiature. E lì restammo fino a quando non fummo costretti ad andare via: fu dopo i tragici fatti del Circeo. I giovani di destra dai quali provenivano gli assassini di Rosaria Lopez e i violentatori di Donatella Colasanti, che si riunivano a Piazza Euclide, migrarono verso Piazza del Popolo in seguito alle pressioni delle forze dell´ordine che controllavano i luoghi di ritrovo dei pariolini di destra. Noi artisti, considerati nemici perché in larga parte di sinistra, scegliemmo, come nuovo punto di incontro, il Baretto in Via dell´Oca. Furono anni intensi, fatti da persone e luoghi unici. Piazza del Popolo nel frattempo ha visto grandi comizi, manifestazioni e concerti ma non è più tornata ad essere quello che era. Durante anni '60, Roma era in continua ebollizione, un eden profano dove sogno e realtà marciavano fianco a fianco. All'euforia generale si abbandonavano molti giovani, rapiti dal fuoco sacro dell'arte. Tra loro Angeli, Festa, Schifano, soprannominati da Plinio de Martiis, «i maestri del dolore, perché erano sempre vestiti di nero, con la puzza sotto il naso e l'aria stanca e annoiata». I tre si vedevano al Caffè Rosati di piazza del Popolo, luogo privilegiato del dibattito culturale e amato dalla bohème nostrana. Nella Roma degli anni '60, luoghi di ritrovo erano anche la libreria Al Ferro di Cavallo, o La Tartaruga di de Martiis, gallerista «da tartufo» e inviato speciale di quel mondo. Altra sede storica, Palazzo Taverna, che ospitava gli «Incontri internazionali d'arte»,
  • 51. 51 voluti dalla padrona di casa Graziella Lonardi Buontempo, con la partecipazione di critici, artisti e intellettuali: da Pier Paolo Pasolini ad Alberto Moravia, presidente dell'Associazione, a Giulio Carlo Argan. 2.4. La Roma dei Caffé Letterari Parlare dei caffè letterari a Roma nell’antico caffè Greco [qui a sinistra, l'ingresso dell'antico Caffè Greco a Roma] è anche ricollegarsi alla idea dell’Europa e della sua grande tradizione culturale dei secoli scorsi. Nel 2000, essa può rinascere grazie alla Comunità europea, che stabilisce un rapporto unitario tra i Paesi e gli Stati del continente. [...] George Steiner, studioso di fama internazionale, ha scritto in un libro pubblicato dal Nexus Institute di Amsterdam, definito da Mario Vargas Llosa “ingegnoso e provocatorio”, che “L’Europa è i suoi caffè, quelli che i francesi chiamano cafés. Dal locale di Lisbona amato da Fernando Pessoa ai cafés di Odessa frequentati dai gangster di Isaac Babel. Dai caffè di Copenhagen, quelli di fronte ai quali passava Kirkegaard nel suo meditabondo girovagare fino a quelli di Palermo. Non si trovano caffè atipici a Mosca, che è già la periferia dell’Asia. Ce ne sono pochissimi in Inghilterra, dopo una fugace moda nel Diciottesimo secolo. Non ce ne sono nell’America del Nord, con l’eccezione dell’avamposto francese di New
  • 52. 52 Orleans. Basta disegnare una mappa dei caffè, ed ecco gli indicatori essenziali dell’ idea di Europa’”. Da questo punto di vista, l’antico caffè Greco di Roma è proprio l’esempio italiano della tesi di Steiner e cioè del rapporto vivo tra la cultura europea e alcuni dei suoi più celebri rappresentanti che lo hanno frequentato e lo frequentano ancora oggi. Ma in verità tutti i caffè romani, che si possono definire letterari, sono stati e sono le sedi di incontri tra scrittori ed artisti italiani e stranieri. In un certo periodo della seconda metà del Novecento, hanno avuto quasi lo stesso ruolo di redazioni di giornali o delle case di produzione cinematografiche. Soprattutto, sono stati i centri dove si è svolta e si è manifestata per alcuni anni quella “società della conversazione” che caratterizzava il secolo d’oro francese del Settecento e che in qualche modo è proseguita fino alla metà degli anni Sessanta in Italia, a Roma. Per anni, dal Cinquanta in poi, per esempio si andava da Rosati o da Canova in piazza del Popolo dove letterati e artisti si incontravano per parlare anche di lavoro: quante idee di libri, di sceneggiature di film, quante discussioni che finivano allora sui giornali sulle tendenze artistiche e letterarie sono nate qui. Il Caffè Greco di via Condotti, dove si affollano oggi i protagonisti del turismo di massa è stato fino alla seconda metà del Novecento il punto di ritrovo dei poeti, scrittori e artisti italiani. Ogni mattina andava a bere il cappuccino Giorgio De Chirico, il quale soleva dire che “il Caffè Greco è l’unico posto dove ci si può sedere e aspettare la fine del mondo”. C’è una
  • 53. 53 celebre fotografia degli anni Quaranta dove si vedono seduti quasi in posa ai tavolini, Goffredo Petrassi, Mirko, Pericle Fazzini, Mario Soldati Mafai, Carlo Levi, Afro, Renzo Vespignani, Vitaliano Brancati, Sandro Penna, Lea Padovani, Orson Welles, Orfeo Tamburi, Ennio Flaiano, Libero De Libero, Aldo Palazzeschi. “C’eravamo un po’ tutti - ricorda il pittore Renato Guttuso - e ci andava anche Moravia”. Il Caffè Greco è uno dei più antichi caffè d’Europa insieme al Procope di Parigi e al caffè Florian di Venezia. Il suo aspetto non era molto differente da quello odierno, come si può vedere da un acquerello del 1852 del pittore Passini conservato ad Amburgo [e dal dipinto di Vladimir Petinow riprodotto qui a sinistra]. Ha mantenuto le stesse caratteristiche nell’arredo e nei tavolini ricoperti da marmi antichi, nelle salette piene di opere d’arte, foto e oggetti che testimoniano della sua storia. Re, regine, marajà, scrittori, poeti, compositori, attori, cantanti, persino capi pellerossa e cowboy come il celebre Buffalo Bill ne sono stati assidui frequentatori. Fondato nel 1760 da Nicola della Maddalena, forse un levantino, donde il nome del locale riferito alla sua nazionalità greca, probabilmente esisteva già da alcuni anni. Giacomo Casanova ricorda nelle sue memorie che nel 1743, quando era a servizio del cardinale Troiano Acquaviva (e anche della sua bella nipote), entrò con alcuni amici romani nel “Caffè di strada Condotta”. Ma il primo documento ufficiale risale al 1760: si tratta di una nota del censimento di quell’anno contenuta nel “Libro dello stato delle anime” della Parrocchia di San Lorenzo in Lucina (conservato nell’Archivio del Vicariato) in cui risulta il nome di “Nicola di Maddalena, greco”. La notorietà del Caffè Greco ebbe inizio nel 1779 quando cominciò ad essere frequentato da Johann Wilhelm Tischbein, Karl Philipp Moritz in
  • 54. 54 compagnia del loro grande amico Wolfgang von Goethe - il quale abitava a poca distanza al numero 20 di via del Corso. Ben presto divenne luogo preferito d’incontri di artisti germanici, tanto che lo scrittore Johann Jakob Wilhelm Heinse ne propose la denominazione di “Caffè Tedesco”. Il suo successo si consolidò nel 1806 quando, a causa del blocco continentale imposto da Napoleone per combattere gli inglesi, il prezzo del caffè salì vertiginosamente. Tutti i caffettieri di Roma, volendo mantenere fermo il prezzo di ogni tazza, si arrangiarono con i ceci, la soia o le castagne. Il proprietario del Caffè Greco, al contrario, utilizzò sempre vero caffè, ma lo servì in tazze molto più piccole (le stesse di oggi: tazzine cerchiate di arancio servite da camerieri ancora come un tempo in frac), e raddoppiò il prezzo. Il XIX secolo fu l’epoca d’oro del celebre locale e alle pareti sono esposte le numerose opere di artisti italiani e stranieri che lo frequentarono, tra cui quelle di Antonio Mancini, Ippolito Caffi, Franz Ludwig Catel, Enrico Coleman, Massimo D’Azeglio, Angelica Kaufmann. In fondo al locale c’è quasi “inaspettata” sia per grandezza che per bellezza la sala rossa con pareti damascate, la statua di un fauno e sotto la finestra il divano dove si sedeva Hans Christian Andersen. Ora vi si riuniscono varie associazioni culturali tra cui il gruppo dei “Romanisti”, studiosi della storia di Roma e poeti in dialetto romanesco.
  • 55. 55 L’elenco degli avventori famosi è quasi interminabile. Del Caffè Greco furono ospiti regnanti e principi della Chiesa quali Luigi I di Baviera e Gioacchino Pecci, il futuro papa Luigi XIII47 . Gli scrittori e artisti stranieri apprezzarono in modo particolare una speciale scatola in legno posta all’entrata che permetteva di ricevere la corrispondenza. Per il suo carattere storico, il Caffè Greco, che continua ad essere frequentato da artisti e letterati da ogni parte del mondo, è stato sottoposto a vincolo nel 1953 dal ministero della Pubblica Istruzione e dichiarato monumento di interesse storico. Un altro caffè che ha avuto una notorietà europea perché accoglieva intellettuali ed artisti stranieri attratti dalle bellezze della Città eterna è il Caffè Notegen, aperto nel 1880 in via del Babuino 159, dallo svizzero Jon Notegen che gli ha dato il nome e che impiantò nei locali sottostanti anche una fabrichetta di marmellata. Il periodo di maggior fama è negli anni Trenta, quando diventò ritrovo di personalità artistiche italiane e straniere che continuarono a frequentarlo anche nel secondo dopoguerra fino agli anni Ottanta. Ne furono clienti: Mario Mafai, Cesare Zavattini, Ennio Flaiano, Mino Maccari, Carlo Levi, Renato Guttuso, Schifano, Novella 47 . Tra gli scrittori stranieri: Nicolaj Gogol che a quanto si racconta vi scrisse una parte delle Anime morte; René de Chateaubriand, Adam Mikewicz e Stendhal, che vi si recava spesso. Lo storico Ippolyte Taine, Arthur Schopenhauer, Mark Twain, George Byron, Percy B. Shelley, che abitava poco distante, e il giovane poeta inglese Keats, che aveva preso casa al numero 26 di piazza di Spagna dove morì . Fra gli italiani: Carlo Goldoni, Giacomo Leopardi, Gabriele D’Annunzio. Pittori e scultori quali: Jean Baptiste Corot, Friederich Overbeck, Antonio Canova, Orazio e Carlo Vernet, Jean A. Ingres, Berthel Thorvaldsen, Anselm Feuerbach, Henry Regnault; numerosi musicisti, tra cui Franz Liszt, Hector Berlioz, George Bizet, Gioacchino Rossini, Jacob Mendelssohn, Giovanni Sgambati, Arturo Sgambati, Arturo Toscanini, Charles Gounod, Richard Wagner.
  • 56. 56 Parigini, Ugo Attardi. Negli ultimi anni del Novecento e fino ad oggi, dopo un periodo di eclisse, per merito di Reto e Teresa Notegen, il caffè promuove presentazioni di libri, mostre di artisti, dibattiti su scrittori contemporanei e letture di poesia. Durante la prima metà del Novecento fino alla fine della seconda guerra mondiale, il caffè più in voga tra letterati e artisti è stato il caffè Aragno in via del Corso, oggi trasformato in una rosticceria. Come ricorda Arnaldo Frateili che lo frequentò, e che ha scritto un libro pubblicato da Bompiani intitolato “Dall’Aragno a Rosati”48 , nella celebre terza saletta si riunivano scrittori e poeti come Bruno Barilli, Giuseppe Ungaretti, Vincenzo Cardarelli, Arturo Onofri, Rosso di Sansecondo, Umberto Fracchia. Da un loro cenacolo, sul quale posavano uno sguardo benevolo alcune divinità maggiori o minori della nuova critica sensibile al verbo crociano (Emilio Cecchi, Alfredo Gargiulo, Goffredo Bellonci, ecc.) nacque la rivista Lirica che, anche in una città sorda e distratta come Roma, contò qualche cosa se non altro come antesignana della Ronda. Questi giovani, che coltivavano la prosa d’arte oltre alla poesia libera dai vecchi schemi, inauguravano il gusto del “frammento” ed erano lanciati alla scoperta delle letterature straniere. Così la letteratura romana si sprovincializzava, tra le prime clamorose esplosioni delle bombe futuriste. All’Aragno nei primi anni Quaranta c’erano giornalisti che facevano la fronda al fascismo in maniera più o meno aperta, come Mario Pannunzio, che doveva diventare direttore prima del quotidiano “Risorgimento liberale” poi del prestigioso settimanale “Il mondo”, con Sandro De Feo, 48 . Arnaldo Frateili: Dall'Aragno al Rosati: Ricordi di vita letteraria. Milano, Bompiani 1964
  • 57. 57 Ercole Patti e Mario Missiroli, celebre direttore prima del “Messaggero” e poi del “Corriere della Sera”. Da lì, alla caduta del fascismo il 25 luglio del ‘43, Mario Pannunzio, insieme con altri giornalisti, si mosse per occupare la redazione del “Messaggero” e far pubblicare in prima pagina la notizia della cattura di Mussolini e della fine del regime. Tante volte nella terza saletta c’erano stati battibecchi tra qualche gerarca fascista e gli allora giovani giornalisti e scrittori che parlavano male del regime. Da Aragno, negli anni del secondo dopoguerra, prima che lo storico caffè fosse ceduto ad Alemagna, il produttore dei panettoni milanesi, si poteva incontrare ancora Bruno Barilli che, consumando un cappuccino, scriveva su un quaderno alcuni dei suoi versi o delle sue raffinate pagine sulla vecchia Roma. Questi personaggi erano anche tra i frequentatori della sala da tè Babington a Piazza di Spagna, che fu fondata nel 1893 da Isabel Cargill e Anna Maria Babington. Queste due signorine inglesi di buona famiglia erano venute a Roma con l’intento di aprire una sala da tè e di lettura per la comunità anglosassone, quando ancora il tè poteva essere acquistato solo in farmacia. Inizialmente, la sala venne aperta in via Due Macelli, ma visto il grande successo l’anno seguente fu trasferita in piazza di Spagna nel prestigioso palazzo adiacente alla scalinata di Trinità dei Monti. Da allora, la sala da tè è rimasta pressoché invariata e continua a essere testimone discreta di eventi storici e culturali. Sopravvissuta a due guerre mondiali, e all’avvento del fast food, Babington ha ospitato famiglie reali, politici, giornalisti e personaggi della cultura e dello spettacolo. Ancora oggi, quando si apre la porticina a vetri con sopra disegnato un gatto nero con il collare rosso e il campanello fa ding, ci si sente trasportati magicamente nel sud Kensington del XIX secolo. È stata meta, prima dell’ultima guerra, di
  • 58. 58 nobili inglesi e di artisti di ogni nazionalità che si sono mescolati poi nel secondo dopoguerra con molti letterati come Elsa Morante e Giorgio Bassani e giornalisti romani. Una fine poetessa recentemente scomparsa, Biagia Marniti, che lo frequentava nel dopoguerra è stata una delle protagoniste della rinascita della vita culturale a Roma dove si ristampava “La Fiera letteraria” ed era nato, nel salotto Bellonci, il gruppo degli “amici della domenica” che ha creato nel 1947 il Premio Strega, il più prestigioso premio letterario italiano. Ecco come la Marniti descrive l’ambiente di Babington: “In piazza di Spagna, da Babington, continuavano ad incontrarsi Bruno Barilli e Vincenzo Caldarelli, Giacomo Natta e Luigi Diemoz, Bruno Fonzi e Velso Mucci che dirigeva una rivista problematica come Il costume politico e letterario (1945-1950). Al gruppo si aggiungevano saltuariamente Alfredo Zennaro, Biasi, Nicola Ciarletta, Marcello Pagliero e altri giornalisti che amavano discutere vivacemente di letteratura, di teatro e di politica. Erano intellettuali di varie tendenze: anarchici e comunisti, socialisti, liberali e individualisti e, fra battute, paradossi, fra notabili e antinotabili, l’intelligenza scintillava fra una tazza di tè e, chi poteva permetterselo, un pasticcino. Si viveva di carne in scatola, di latte, di pane raffermo, di castagnaccio, di noccioline, di olive, di castagne arrostite e sigarette fatte a mano. Erano mesi di dignitosa povertà, e dopo tante sofferenze e amarezze, erano densi di iniziative fluttuanti fra gli estremi lampi di una bohème che stava per scomparire. L’unica certezza era l’essere vivi, l’essere in buona salute. Si cercava un lavoro e si avevano cento idee”.
  • 59. 59 Dice Giovanni Russo: “Posso portare sui caffè letterari romani della seconda metà del Novecento una testimonianza personale49 ,”. Non si possono trascurare per esempio, fino agli inizi degli anni Novanta, le lunghe serate al bar del Plaza con gli amici come il poeta Michele Parrella, lo scrittore Piero Buttitta, l’editore Cesare De Michelis e il fratello Gianni. Famosa è la distinzione che faceva Flaiano, a proposito degli intellettuali che si incontravano dopo la cena, fra diambuli e nottambuli, i quali ultimi erano quelli disposti a superare la mezzanotte. Prima di cena si andava a prendere l’aperitivo in via Condotti al “Baretto”, che poi fu, alla fine del Novecento, quasi di soppiatto trasformato in una boutique con grande rammarico di giornalisti e politici che vi si incontravano, da Giorgio Spadolini - cugino del più famoso Giovanni - a Giulia Massari, che hanno poi scelto di rifugiarsi al bar dell’Hotel d’Inghilterra. Il sabato e la domenica una meta letteraria per un caffé o un aperitivo prima di pranzo erano e rimangono i caffé all’angolo tra Campo dei Fiori e piazza Farnese. Ma il luogo principale di incontro è stato e rimane piazza del Popolo. Nel mio libro50 c’è proprio un capitolo intitolato “Andavamo a piazza del Popolo”, dove cito i calembours e i soprannomi che venivano appioppati ai frequentatori di Canova e di Rosati e di cui vorrei citarne alcuni. Da Canova o da Rosati, appena arrivato dalla provincia nel dopoguerra, seduto al tavolo con Mazzacurati o Vincenzo Talarico o Sandro De Feo, alcuni di quei soprannomi li ho visti nascere o li ho ascoltati dalla voce dei protagonisti. Per esempio, il motto “mi spezzo ma non mi spiego” con cui Mazzacurati definiva l’inflessibile critico d’arte Argan, io lo ricordo detto 49 . Cfrr. “Con Flaiano e Fellini in via Veneto - Dalla Dolce vita alla Roma di oggi” Rubbettino, 2005. 50 . ibid
  • 60. 60 da Flaiano a proposito di se stesso così variato: “Mi spezzo ma non m’impiego”. E credo che la battuta “La terra ai carandini”, deformazione dello slogan comunista “La terra ai contadini”, sia nata tra Flaiano e Mezio nel salotto del “Mondo” frequentato dal “proprietario” Nicolò Carandini, proprietario della tenuta di Torre in Pietra. L’epigramma di Flaiano suonava così: Il conte Carandini fermo come Torre in Pietra che non crolla lancia il manifesto della nuova Internazionale “Agricoltori di tutto il mondo unitevi - la terra ai Carandini”. Mazzacurati, la sera quando usciva dal suo studio di scultore, con la sua aria impassibile, il bel volto in apparenza soave, si sfogava genialmente sia pure indulgendo qualche scurrilità. Apprendo da Caruso che per esempio il “Vecchio tastamento” a proposito del buon Ciccio Trombadori, che troneggiava da Rosati, o “La picassata alla siciliana” per Guttuso - e trascuro altre variazioni su Picasso - sono di Mazzacurati insieme a molti altri “calembours” e giochi di parole. Così “L’amaro Gambarotta” per Moravia o “Il profeta del passato” per Pannunzio, (ma era più diffuso, forse per il suo aspetto imponente e per il suo silenzioso distacco, un altro soprannome: “Il piedone”) sono dello stesso autore. Si potrebbe aprire - come del resto s’è aperto - un dibattito sulla paternità dell’uno o dell’altro doppio senso di Mazzacurati, come per esempio, a proposito di un pittore qui anonimo, il forte “Latrin lover”, e “L’incantatore dei sergenti” per Filippo De Pisis. In un altro capitolo, Giovanni Russo racconta l’atmosfera nel secondo dopoguerra del Caffè Rosati: “Nel secondo dopoguerra, Rosati è stato quello che, fino alla metà degli anni Quaranta per gli intellettuali, gli scrittori e gli artisti, erano stati Aragno e il Caffè Greco. Tutto il mondo letterario ed artistico ruotava intorno a questo Caffè di piazza del Popolo, anche se il suo omonimo di via
  • 61. 61 Veneto attirava d’inverno registi, scrittori, giornalisti e politici, da Saragat ai produttori De Laurentis e Ponti.” “I ritmi e le frequenze cambiavano secondo gli orari delle giornate e delle stagioni. Si andava da Rosati a piazza del Popolo a bere l’aperitivo e le signore della buona borghesia andavano la domenica a comprare le paste dopo la messa, mentre negli altri giorni il pomeriggio prendevano il té”. “Quanti soprannomi celebri sono stati inventati da Vincenzino Talarico, da Mazzacurati, da Flaiano, da Franco Monicelli, sedendo ai tavolini dove affilavano le loro linguacce prima di disperdersi per la cena”. “L’estate era il trionfo di Rosati. Qui, col ponentino, la sera, fino agli inizi degli anni Settanta, dopo cena, tutti venivano a prendere il gelato o una bibita fresca e a conversare, parlando dell’ultimo film e del libro di Pasolini o di Bassani o di Arbasino o della Morante, o degli avvenimenti politici interni ed internazionali, su cui si accanivano Sandro De Feo ed Ercole Patti, anche se essi d’inverno preferivano gli angoli raccolti, come una grotta accogliente, del Caffè di fronte, Canova”. “Ho nella mente come un dagherrotipo delle prime serate che ho trascorso da Rosati in cui ricordo i vari gruppi. Alberto Moravia che con la moglie abitava in via dell’Oca, la stradina che sbocca in Via Ripetta subito dopo
  • 62. 62 piazza del Popolo, ne è stato, tranne che negli ultimi anni, un frequentatore abitualissimo. Vi faceva, per così dire, casa e bottega. E la sera insieme alla moglie Elsa Morante, con Pasolini e con gli scrittori più giovani alle prime armi, da Siciliano ad Arbasino, o con amici che arrivavano da Milano o da Firenze, da Soldati a Vittorini e l’editore Bompiani, si davano appuntamento ai tavoli di questo Caffè. In un tavolo in prima fila, da solo o con l’amico Francalancia, sedeva il pittore Francesco Trombadori, talvolta insieme con De Chirico, Guttuso, Bartoli e Maccari. Dall’altra parte dei tavoli, dopo le 23 c’erano Mario Pannunzio, Libonati, Carandini, il gruppo del “Mondo” a cui si aggregava volentieri talvolta Rossellini, e poi veniva Fellini per vedere Flaiano. Nasceva in quelle ore una specie di gioco di parole e di sguardi: da tavolo a tavolo si intrecciavano discorsi. Allora Rosati chiudeva verso le una e mezza o le due di notte ed i tavoli rimanevano fuori, e ad essi, con Ciarletta, Bonanni, Alfredo Mezio e talvolta anche con un gruppo di fotografi tra cui Pasquale Prunas, si arrivava fino alle tre o alle quattro a guardare il cielo terso, quasi trasparente. Passava un vecchio con un secchio con Coca Cola e i lupini perché il bar era chiuso e compariva di volo Sandro Penna”. “Dopo questo dagherrotipo tra gli anni ’59 e ‘ 60 scattano altre foto nella memoria del tempo. Simone di Beauvoir e Sartre che stavano a parlare come due ragazzini al tavolo mentre arrivava Carlo Levi da Villa Strohl Fern con la sua “1100” nera. E i giovani pittori, purtroppo consumatisi nella loro vita dispendiosa, come Franco Angeli con Marina Lante della Rovere ed il suo amico Festa, e il gallerista Plinio con Dorazio, Turcato, Consagra, Nino Franchina, Cascella. C’era alle 19 una gran folla nella saletta, file al telefono come ancora oggi, e si mischiavano gli
  • 63. 63 architetti famosi, da Luccichenti che costruì la villa della Petacci alla Camilluccia, a Monaco, a Minciaroni”. “Altri flash con gli attori: da Vittorio Caprioli a Franca Valeri a Carlo Mazzarella tra cinema, tv e giornalismo, a Gassman. C’è stato un momento negli anni Sessanta in cui accanto ad artisti e scrittori italiani c’erano famosi personaggi stranieri, come lo scrittore svizzero Max Frisch ed il pittore olandese De Kooning oltre a stupende ragazze, come una molto bella amica di Pollock. I flash potrebbero continuare: forse quell’epoca di Rosati si può cogliere bene nei versi del poeta Michele Parrella che vi veniva allora con Leonardo Sinisgalli: “Era il tempo dei convogli e degli abbracci / Il mondo era là in quella vecchia vetrina opaca / e tutti i nostri nomi ancora intatti / quando i sogni nacquero e si infransero”. Da Rosati sono nati amori e progetti televisivi, soggetti di film, inchieste giornalistiche, polemiche politiche. Rosati è stato fino agli anni della TV un luogo cosmopolita, un centro dei protagonisti del successo letterario ed artistico e dei giovani che vi aspiravano. “Certo, nel Settanta c’è stata una certa decadenza. Il pittore Bruno Caruso racconta in un suo libretto che Flaiano e Mazzacurati incontrandosi una sera a piazza del Popolo e voltandosi a guardare verso il Caffè affollato di giovani sconosciuti con blue-jeans e capelli lunghi diceva: “Credono i essere noi”. Era il periodo delle comparse dei film western all’italiana”. Tre anni fa Rosati è stato restaurato, identico a come era prima, con i mobili fatti rinnovare a Firenze dove erano stati costruiti. Continua Russo: “È tornato come prima, come una volta. Roma certo è cambiata ma sarebbe travolta se Rosati fosse trasformato in un Caffè postmoderno o alla moda. Forse il modo migliore per dire quello che Rosati dovrebbe essere è citare