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Storia dei simboli matematici
1. I SISTEMI DI NUMERAZIONE
La prima abilità matematica raggiunta dall’uomo primitivo fu sicuramente quella di contare,
cioè di riuscire a valutare la quantità di elementi di un certo tipo posseduto: piccoli
oggetti, capi di bestiame, provviste…
Per valutarne la consistenza l’uomo dovette escogitare alcuni stratagemmi: tenere il conto
con le proprie dita e probabilmente con quelle di altri uomini vicini, raggruppare mucchietti
di sassolini o dischetti d’argilla di piccole dimensioni, incidere dei segni su pietre, incidere
tacche su pezzi di legno, su bastoni o su ossa di animali, fare nodi con cordicelle colorate
attorno a un cordone più grande e così via. Ne danno testimonianza pitture rinvenute
sulle pareti di caverne preistoriche e reperti archeologici in esse trovati. I reperti
più antichi risalgono a circa 30.000 anni fa: si tratta di un osso di lupo rinvenuto in
Repubblica Ceca sul quale sono incise tacche suddivise in gruppi di 5. Questo modo
di contare potrebbe farci sorridere ma era adottato anche in tempi piuttosto recenti: in
Piemonte, infatti, sono state ritrovate tacche usate nel 1700 a Cuneo dai contadini per
tenere il conto dei debiti e dei crediti delle giornate di lavoro effettuate.
Il metodo di associare a ogni quantità un simbolo non era certamente comodo per registrare
numeri grandi; quindi l’uomo primitivo incominciò a pensare a un mezzo per tenere il conto,
anche di numeri grandi, associando le varie quantità di oggetti a un numero limitato
di simboli che, combinati in modo diverso, potevano servire per esprimere un
numero qualunque di ordine di grandezza.
1.1 LE CIFRE
Ecco dunque la comparsa di quei simboli, che noi chiamiamo cifre, che dettero origine ai
numeri. Non è possibile determinare con precisione presso quale popolo i numeri (e con essi
l’aritmetica), siano nati anche se ognuno diede il proprio contributo. Di certo c’è che
l’aritmetica nel 5000 a.C. era già nata e si sviluppo per risolvere problemi di
carattere pratico.
Nacque là dove si svolgevano attività commerciali e scambi, là dove era necessario ridefinire
periodicamente i confini dei campi a causa delle inondazioni dei fiumi, là dove si dovevano
eseguire calcoli per erigere colossali e strabilianti opere architettoniche o per eseguire
misurazioni nel campo astronomico.
Tutti concorsero a costruire l’aritmetica: i Caldei, i Tiri, gli Assiri, i Babilonesi, i
Sumeri, i Cinesi, i Maya, i Fenici, gli Indiani, gli Egiziani, i Greci, gli Etruschi, i
Romani…
1.2 L’ARITMETICA
Il più antico documento che testimonia le conoscenze matematiche (e con esse l’uso dei
simboli) è il cosiddetto papiro Rhind o papiro Ahmes (dal nome dello scriba che verso il
1650 a.C. lo aveva trascritto copiandolo dall’originale che risaliva a circa 300 anni prima).
Tale papiro conobbe la fama nel 1858 quando l’antiquario
scozzese Henry Rhind, grande studioso e appassionato
del mondo egizio, acquistò il papiro sulle rive del Nilo da
un mercante di Tebe. Il papiro, scritto a carattere
ieratico e contenente 84 tra problemi e questioni
pratiche della vita di tutti i giorni, arricchiti da alcuni
disegni, è lungo circa 546m e alto appena 30cm. Ora è
custodito al British Museum di Londra.
Tra i problemi proposti vi sono:
• “A una quantità si aggiunge la sua metà e il suo settimo r i suoi terzi; si ottiene 37;
qual è il valore della quantità?”
• “Come dividere un pane fra tre persone? E cinque pani fra quattro persone? Quale
parte di pane va a ognuno?”
Dal nostro punto di vista questi problemi sono semplici perché si dispone del calcolo letterale.
1.4 IL SISTEMA DECIMALE
Il sistema di numerazione adottato oggi è il sistema decimale, così detto perché le unità
vengono raggruppate in gruppi di 10 e sono necessarie 10 unità di ordine inferiore per
formarne una dell’ordine immediatamente superiore.
Questa scelta si deve al fatto che l’uomo ha da sempre avuto a disposizione, per contare, le
dita delle proprie mani. Si giustifica così anche il fatto che alcuni popoli scelsero, come base
per il proprio sistema di numerazione, il numero 5 (sistema quinario) e allo stesso modo
si capisce l’origine del sistema a base 20 che ha lasciato tracce nella lingua francese dove
alcuni numeri si esprimono in funzione del 20: “quatre-vingts” è 80 – e anticamente era usare
anche “six-vingts” per 120 e “quinze-vingts” per 300.
Il nostro sistema di numerazione è detto “arabo”, ma questa denominazione non è corretta:
sarebbe più giusto chiamarlo “indiano” o “indo-arabo” perché furono gli indiani a
insegnare questo sistema di numerazione agli arabi verso l’VIII secolo, quando una loro
delegazione si recò in Asia Minore (a Baghdad) per far tradurre in arabo alcuni volumi
di astronomia scritti in sanscrito. Gli arabi poi, soprattutto per merito di un libro di
calcolo del matematico Mohammed ibn-Musa al-Khuwarizmi (IX secolo), ci
tramandarono, con qualche modifica nella forma delle cifre, questo sistema di numerazione.
La sua diffusione in Europa, dove fu adottato fra il XIII
secolo e XIV secolo, si deve principalmente al matematico
pisano Leonardo “filius Bonacii”, da cui il nome Leonardo
Fibonacci (1175 – 1250), che nella sua opera “Liber
Abbaci” (12029 scrisse tutto ciò che aveva imparato in
oriente e durante i suoi molteplici viaggi in Algeria, dove
il padre era un impiegato di dogana per la Repubblica di
Pisa. Questo traguardo fu estremamente importante
soprattutto se pensiamo che in Europa erano ancora in
uso sistemi di numerazione addizionali (ossia basati
sula somma dei valori attribuiti ai singoli simboli).
Risulta chiaro, dunque, che i sistemi di numerazione si dividono in due grandi categorie:
• quelli basati sul principio addizionale (ossia si sommano i valori attribuiti ai vari
simboli) in cui un simbolo ha sempre lo stesso valore
• quelli basati sul principio posizionale, in cui il valore attribuito a un simbolo
cambia secondo la posizione che esso occupa
Nel sistema Romano (così come anche quello Etrusco), a dire il vero, vale anche un principio
sottrazionale, in base al quale un simbolo scritto alla sinistra (o alla destra in quello
Etrusco) di un altro, di valore maggiore, deve essere sottratto a quest’ultimo.
2. NASCITA DELLO ZERO
Essendo i numeri nati per tenere il conto di ciò che si possedeva, per molto tempo non si
avvertì la necessità di inventare lo zero perché lo zero si può associare solo a qualcosa che
non si possiede.
Tuttavia, quando si elaborarono i primi sistemi di numerazione non basati sul principio
addizionale e quando si sentì forte l’esigenza sia di eseguire le operazioni senza dover usare
particolari strumenti (cordicelle, abaco…) sia di sveltire le operazioni di calcolo, alcuni popoli
inventarono lo zero.
Non si sa con certezza chi per primo ebbe questa idea; pare che già nel 3000 a.C. il popolo
Maya avesse scoperto non solo il valore posizionale dei simboli matematici, ma
avesse anche introdotto nel proprio sistema di numerazione (in base 20) lo zero.
I Maya, però, non erano in grado di comunicare con le civiltà in Europa e ad Oriente. Certo
è che in Europa l’idea dello zero giunse dagli Indiani, che lo introdussero intorno
al VI secolo d.C.
Gli Indiani, per tenere il conto delle operazioni che eseguivano, si servivano di un cordone
al quale erano annodate cordicelle di colori diversi: il colore e la posizione delle
cordicelle indicavano il numero rappresentato e l’ordine di grandezza. Ebbene, gli Indiani su
quel cordone, avevano posto, laddove avrebbe dovuto esserci lo zero, lasciavano un posto
vuoto senza alcun nodo.
Gli Arabi fecero propria l’idea geniale del posto vuoto e trasformarono il termine sunya
(che significa, appunto, “posto vuoto”) in zifr (che significa “vuoto”). Come accade spesso,
anche questo termine subì delle trasformazioni e divenne zefir e poi zephirum, quindi
zefiro e infine zero.
Sembra anche che già i Greci avessero pensato a un numero per poter rappresentare
il nulla; molti attribuiscono proprio ai Greci l’invenzione del simbolo dello zero, che si
pensava potesse derivare dalla lettera greca Ο(omicron) che era l’iniziale della parola όυδέν
(uden) che indica il nulla, il vuoto, lo spazio. Tuttavia studi più recenti negano questa
origine.
3. NASCITA DEI SEGNI
Durante lo scorrere dei secoli, i segni di operazione e anche altri simboli, che vengono usati
abitualmente oggi, hanno subito varie modifiche.
Luca Pacioli, matematico, frate francescano (1445
– 1515) traendo spunto dalle opere del matematico
italiano Leonardo Fibonacci (1175 – 1240)
pubblicò a Venezia nel 1494 il primo trattato mai
stampato di algebra, aritmetica e geometria,
che ebbe larga diffusione sia in Italia (dove insegnò
nelle Università di erugia, Roma, Napoli, Pisa,
Venezia e dove, a Milano, alla corte di Ludovico il
Moro, strinse amicizia con Leonardo da Vinci) sia
all’estero: la Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proporitionalità.
Ebbene, egli il gran merito di aver raccolto in quest’opera in modo diligente, e senza nulla
aggiungere di originale, tutte le conoscenze acquisite fino a quell’epoca.
3.1 PIU’ E MENO
Proprio nella Summa egli era solito usare, per indicare l’operazione di addizione la lettera p,
lettera iniziale della parola latina “plus” (comparativo di multus, più grande). Da essa,
probabilmente, trasse origine il segno “ + ” dato che si incominciò a usare questo simbolo
proprio nel 1500; per l’esattezza il primo a utilizzare questo simbolo (assieme al “ – ”) fu J.
Widmann, nella sua opera del 1489 Calcolo rapido e piacevole.
Anche l’attuale segno “ – ” fu usato per la prima volta verso il 1500; il Pacioli si serviva
della lettera m, lettera iniziale della parola latina “minus” (comparativo di parvus, più
piccolo; dal verso minuere: diminuire, rimpicciolire, rendere più piccolo), che si pensa si
tramutò facilmente in – a seguito di successive deformazioni.
3.2 UGUALE
L’attuale segno “ = ” compare un po’ più tardi (1557) in un trattato di algebra scritto dal
matematico inglese Robert Recorde (1510 – 1558), professore prima a Oxford e poi a
Londra, che utilizza + e – e usa per la prima volta, un un’opera stampata, il segno = per
rappresentare l’uguaglianza. Egli giustifica l’introduzione di questo nuovo segno scrivendo:
“Indico l’uguaglianza con una coppia di parallele, due segmenti gemelli, e cioè
della stessa lunghezza, perché due cose non possono essere più uguali di queste”.
In precedenza (fino al Medioevo) veniva usato il verso est o anche le due lettere ae che
rappresentano le lettere iniziali della parola latina aequalis (ossia uguale, equivalente).
3.3 PARENTESI
Le parentesi vennero usate per la prima volta dall’ingegnere idraulico e matematico italiano
Raffaele Bombelli, nel suo trattato, diviso in tre libri, pubblicato nel 1572: Algebra,
parte maggiore dell’aritmetica.
3.4 PER E DIVISO
Il simbolo di moltiplicazione “ x ”, in uso attualmente, fu introdotto per la prima volta dal
matematico e teologo inglese William Oughtred (1574 – 1660) nella sua opera del 1663
Clavis mathematicae. Invece, il simbolo “  ” e “ : ” furono introdotti dal tedesco
Gottfried Wilhelm Leibnitz (1646 – 1716), uomo veramente geniale ed eclettico che si
occupò, con successo strabiliante, di filosofia, matematica, logica, diritto, letteratura,
diplomazia.
3.5 MINORE E MAGGIORE
I segni “ < ” e “ > ” fecero la loro comparsa per la prima volta in un opera del matematico
e astronomo inglese Thomas Harriot (1560 – 1621). Siccome in essi l’apertura dell’angolo
è rivolta dalla parte del numero maggiore, non è difficile intuire che < sia stato scelto perché,
procedendo da sinistra verso destra, realizza, da un punto di vista visivo, un
ingrandimento, mentre > un rimpicciolimento.
3.6 POTENZA E RADICE
L’attuale scrittura adottata per indicare una potenza è stata usata per la prima volta dal
filosofo e matematico René Descartes, noto come Cartesio (1596 – 1650). Per la potenza
si adottava anche la scrittura del simbolo di radici ruotato al contrario, ma tale forma cadde
in disuso.
L’attuale simbolo di radice “ √ ” deve la sua origine al monaco agostiniano luterano Michael
Stiefel (1486 – 1567); tuttavia l’operazione di estrazione di radice quadrata era presente sin
dall’antichità. Siccome, ad esempio 5 rappresenta la radice quadrata di 25 e 25 è il quadrato
di 5 (ossia che esiste un quadrato di lato 5 e area 25), gli antichi chiamavano la radice
quadrata latus. Il filosofo latino Severino Boezio (480 – 524), che, soprattutto attraverso
la sua opera più importante, De consolatione philosophiae, contribuì a far crescere e
diffondere la logica aristotelica, la chiamò radix (radice, principio, fonte), come a voler
indicare da dove il quadrato tragga le sue origini. Successivamente Leonardo Pisano e
Luca Pacioli la indicarono con la lettera iniziale di radix, R. Si passò poi dal maiuscolo al
minuscolo e successivamente, per deformazione, al simbolo attuale.
4. NASCITA DELL’ALGEBRA
4.1 LA SCUOLA DI AL-KHUWARIZMI
Il vocabolo “algebra” deriva dal titolo dell’opera più importante scritto dal matematico e
astronomo arabo Mohammed ibn-Musa al-Khuwarizmi, vissuto a Baghdad nel IX
secolo; il trattato cui si fa riferimento è Al-jabr wa’l
muqabalah, pervenutoci sia in versione latina (Liber
algebrae et almucabola) sia in una araba.
Nella versione araba, a differenza di quella latina,
compare anche una prefazione in cui al-Khuwarizmi loda
il profeta Maometto e il califfo al-Mamun, che fondò
Baghdad, una “Casa del sapere”, nella quale
confluirono scienziati e filosofi dalla Siria, dall’Iran e dalla
Mesopotamia e che lo invitò affidandogli l’incarico di:
“…comporre una breve opera sul calcolo per mezzo di Complemento e Riduzione,
limitandosi a quegli aspetti più facili e utili della matematica di cui ci si serve
costantemente nei casi di eredità, donazioni, distruzioni, sentenze e commerci
e in tutti gli altri affari umani, o quando si vogliono effettuare misurazioni di
terreni, scavi di canali, calcoli geometrici e altre cose del genere”
Non è molto chiaro quale sia il vero significato dei due termini “al-jabr” e “muqabalah”
anche se al-jabr pare indicasse proprio ciò che al-Khuwarizmi dice nella prefazione del suo
trattato e cioè “complemento” o anche “restaurazione” e pare che si riferisse a quella
che viene chiamata comunemente “legge del trasporto” (ossia una conseguenza del
primo principio di equivalenza).
Per quanto possa sembrare strano, secondo alcuni studiosi, pare addirittura che il termine
suddetto significasse “sistemazione di un osso rotto”; potrebbe non essere del tutto fuori
luogo se, in epoca evidentemente molto posteriore, questo vocabolo è usato proprio con
questo significato nel capolavoro della letteratura spagnola di Miguel de Cervantes; infatti
nel Don Chisciotte della Mancia si parla di “algebrista” riferendosi a un guaritore in
grado di sistemare le ossa.
La parola muqabalah invece pare che volesse dire “riduzione” o “equilibrio” e quindi
stesse a indicare quella che, comunemente iene chiamata “legge della cancellazione”
(ancora una conseguenza del primo principio di equivalenza). Si tratterà, dunque,
di ridurre di numero i termini, mantenendo comunque una situazione di equilibrio fra i due
membri dell’equazione.
Dalla citazione dello stesso al-Khuwarizmi appare chiaro che la sua Algebra era più legata a
problemi di carattere pratico e concreto, con evidente influenza della matematica
babilonese, della matematica indiana e, solo successivamente, della geometria
ellenica, piuttosto che a procedimento astratti, che fanno uso della simbologia propria
dell’algebra così come è intesa oggi. E non deve destare meravigli neppure il fatto che gli
arabi dotti del suo tempo che non si occupavano di calcolo, di astronomia e di filosofia, non
usassero neppure i numeri negativi.
A lui va comunque riconosciuto il merito di aver offerto un’esposizione, sempre semplice,
chiara e al contempo sistematica ed esauriente, di questioni riguardanti i numeri e anche la
soluzione di equazioni di primo e secondo grado. Per questa ragione, al-Khuwarizmi viene
oggi considerato il padre dell’algebra.
4.2 LA SCUOLA DI DIOFANTO
Alcuni storici non sono dello stesso parere e vedono in Diofanto questa figura. A questo
punto è utile sottolineare che, secondo alcune fonti, lo sviluppo dell’algebra è passato
attraverso tre stadi:
• quello primitivo o retorico, in cui non si faceva uso né di simboli né di numeri, ma
tutto si esprimeva solo attraverso parole
• quello intermedio o sincopato, in cui si faceva uso di alcune abbreviazioni
• quello simbolico, in cui tutto si esprimeva per mezzo di simboli
Certamente questa suddivisione è troppo semplicistica e non risponde pienamente a quella
che fu la realtà, tuttavia il ricordarlo più aiutare a capire il cammino, non privo di fatica,
che dovettero percorrere gli algebristi per giungere dal primo
al terzo stadio.
E nel secondo stadio si collocherebbe appunto Diofanto,
vissuto ad Alessandria d’Egitto e autore di un trattato di
teoria dei numeri di 13 libri, intitolato Arithmetica. In
esso il matematico greco, ovviamente legato alla cultura greca,
sotto l’influsso degli algebristi babilonesi (che non si
occupavano tanto di risolvere equazioni quanto di trovare le
soluzioni di problemi contingenti), raggiunge alti gradi di
ingegnosità matematica e raffinata eleganza nel presentare soluzioni esatte di
equazioni sia determinate che indeterminate.
Egli usa in modo sistematico abbreviazioni per indicare sia le incognite sia le loro
potenze fino alla sesta ed esprimere polinomi in una sola incognita con una forma
molto simile a quella in uso oggi.
Indica, ad esempio, l’incognita, oggi normalmente indicata con x, con un simbolo molto
simile alla lettera ϛ (stigma), lettera che faceva parte dell’alfabeto precedente a quello
dell’Età Classica, forse a indicare la lettera finale della parola άριϑμόϛ (arithmos), che
significa numero.
Diofanto indica ciò che oggi è indicato:
𝑥𝑥2
con la scrittura ∆𝛾𝛾
dove ∆ indica l’iniziale della parola δύναμιϛ ossia
potenza
𝑥𝑥3
con la scrittura 𝐾𝐾 𝛾𝛾
dove ∆ indica l’iniziale della parola κύβοϛ ossia cubo
𝑥𝑥4
con la scrittura ∆𝛾𝛾
∆ ossia quadrato – quadrato
𝑥𝑥5
con la scrittura ∆𝐾𝐾 𝛾𝛾
ossia quadrato – cubo
𝑥𝑥6
con la scrittura 𝐾𝐾 𝛾𝛾
𝐾𝐾 ossia cubo – cubo
Tuttavia la sua Arithmetica non è tanto un trattato di algebra, così come lo intendiamo,
quanto una raccolta di circa 150 problemi di algebra applicata a particolari
situazioni. I problemi pertanto, pur non ricorrendo a misure di grano, a unità monetarie o
dimensioni di terreni come facevano gli algebristi egiziani e mesopotamici, non sono formulati
in modo generale, ma fanno riferimento a esempi numerici del tutto particolari.
Tra l’altro Diofanto non si preoccupa neppure di fornire tutte le possibili soluzioni
dei suoi problemi, ma ne considera sempre una sola e così anche quando un’equazione
di secondo grado ammette due soluzioni positive, egli ne fornisce una sola e sceglie la
maggiore fra le due; se invece le soluzioni sono entrambe negative, non le considera come
soluzione e definisce l’equazione come assurda (ατοποϛ, atopos). Allo stesso modo si
comporta se una soluzione è positiva e una è negativa: per lui la negativa non esiste proprio.
Se poi un problema ammette infinite soluzioni, ne considera, ancora una volta, una sola.
Per queste ragioni Diofanto perse un po’ di credito rispetto a al-Khuuwarizmi.
Si può comunque ben comprendere il fatto che per Diofanto i numeri negativi fossero
assurdi: i greci, infatti, trascurarono i calcoli perché li consideravano adatti più a mercanti
che a uomini colti, che dovevano perlopiù occuparsi di geometria.
Anche quando utilizzavano i numeri, lo facevano per verificare determinate proprietà
delle figure geometriche e quindi i numeri negativi, in questo ambito, sono
davvero assurdi.
4.3 CONTROVERSIE
Le notizie storiche a noi pervenute sulla nascita dell’algebra non sono molte e molti
documenti sono andati persi. Di conseguenza, non è noto se lo stesso Diofanto
avesse attinto da altri suoi contemporanei o di epoca ancora anteriore.
Secondo quanto riportato da Carl Boyer nella sua pregevole Storia della matematica,
pare che proprio in epoca contemporanea ad al-Khuwarizmi, in Turchia uscì un libro di un
certo abd-al-Hamid, che aveva lo stesso titolo dell’opera di al-Khuwarizmi. In questo libro
sono contenute le stesse dimostrazioni geometriche contenute nel trattato di al-
Khuwarizmi e ci sono anche gli stessi esempi illustrativi. Inoltre, l’impostazione, la
struttura e l’organizzazione delle due opere è pressoché identica, anche se quella di abd-
al-Hamid in alcuni punti risulta anche più completa; ciò sta a indicare che le conoscenze in
campo algebrico, a quell’epoca, erano ormai diventate patrimonio comune e si diffondevano
facilmente da una località all’altra.
Il fatto che comunque l’opera di al-Khuwarizmi riscosse maggior successo e, una volta
tradotta, divenne un testo di importanza pari agli Elementi di Euclide, fa pensare che fu
considerato, fin dall’inizio, il miglior testo dell’epoca.
4.4 LA SCUOLA DI BRAHMAGUPTA
Né Diofanto né al-Khuwarizmi usarono i numeri negativi. Ne fece uso invece (e in epoca
precedente) il matematico indiano Brahmagupta, vissuto verso il 600, la cui opera, di
contenuto astronomico – matematico, pare fosse portata dall’India a Baghdad verso il
766.
Egli, oltre a occuparsi di regole di misurazione
(trigonometria) nella sua opera più famosa che fu
il Brahmasphuta Siddhanta, fu un algebrista di
buon livello e fornì soluzioni di carattere
generale di equazioni di secondo grado,
considerando anche il caso in cui una delle due
soluzioni è rappresentata da un numero negativo.
Attraverso la sua opera, egli ci fornisce il primo
esempio di aritmetica sistematica che comprende sia i numeri negativi sia lo
zero, visto come un numero e non come nulla.
Parlando della “regola dei segni”, egli si esprimeva così:
“Un numero positivo diviso per un numero positivo, o un numero negativo
pdiviso per un numero negativo, dà un numero positivo. Zero diviso per zero
non dà nulla. Un numero positivo diviso per un numero negativo dà un numero
negativo. Un numero negativo diviso per un numero positivo dà un numero
negativo. Un numero positivo o negativo diviso per zero è una frazione avente
per denominatore zero.”
5. IL PIANO CARTESIANO
Il filosofo e matematico René Descartes, italianizzato
Cartesio, viene considerato il fondatore della geometria
analitica, quella branca della geometria che si avvale di
strumenti algebrici, dalla quale ha tratto origine la matematica
moderna.
A lui si deve l’invenzione di un metodo per individuare la
posizione dei punti di un piano attraverso un sistema di
riferimento detto, appunto, sistema di riferimento
cartesiano ortogonale. L’esigenza di poter collocare dei punti
nel piano e di poterli individuare in modo chiaro e inequivocabile fu avvertita molti secoli
prima della nascita di Cartesio. Pare, infatti, che sulla tomba del faraone Ramesse VII
(1100 a.C.) fossero rappresentate due rette perpendicolari: sulla prima erano
impresse le altezze di alcune stelle nel cielo e sull’altra le varie ore della giornata.
Volendo inoltrarsi nel campo dell’astronomia, con gli studi effettuati da Greci, Babilonesi,
Indiani, Maya e così via, e ricercare i germi di quelle che oggi si chiamano longitudine e
latitudine astronomiche e geografiche, ci si renderebbe subito conto delle molteplici
rappresentazioni grafiche effettuate dagli antichi, soprattutto per trovare dei punti di
riferimento che aiutassero a non perdere l’orientamento durante le lunghe
navigazioni.
Fermandoci nel mondo greco troviamo colui che fu chiamato Il
Grande Geometra dell’antichità per i suoi numerosi e
ragguardevoli traguardi raggiunti soprattutto nello studio
delle coniche e della geometria proiettiva: Apollonio, nato a
Perga (262 a.C. – 190 a.C.). Egli usò per primo le coordinate in
geometria; nello studio delle coniche (cioè circonferenza, ellissi,
parabole e iperboli) considerò infatti diametri coniugati
intersecati, abbozzo di assi cartesiani, e corde parallele ai
diametri, il corrispondente delle coordinate di Cartesio.
Anche nell’assetto urbano delle antiche città romane fecero la loro comparsa una sorta di
rette perpendicolari, che condizionavano la costruzione delle vie e che consentivano di
trovare facilmente la collocazione dei vari edifici che si affacciavano su di esse: si
tratta del decamanus maximus, la strada principale che attraversava la città da Est a
Ovest, e dal cardo maximus, la strada principale da Nord a Sud. Decumanus e Cardo
costituivano anche le vie principali
(sempre perpendicolari fra loro)
dell’accampamento romano; laddove si
incontravano sorgeva il prateorium, il
reparto comando, con la tenda del
comandante. Alle due estremità del
Decumanus, l’una di fronte all’altra,
si trovavano la porta decumana e la
porta praetoria.
Facendo un grosso balzo nel tempo, troviamo un fisico e matematico di rilievo, il dotto
parigino Nicola Oresme (1323 – 1382), vescovo di Lisieux. Egli, oltre ad aver portato
notevoli ed ampi contributi alla teoria delle proporzioni, applicandola a problemi
geometrici e fisici, arrivò a tracciare il grafico che rappresenta il variare della
velocità di un corpo che so muove di moto uniformemente
accelerato in funzione del tempo. Fece ciò servendosi di alcune
linee, un orizzontale (la linea delle longitudini) e altre verticali,
perpendicolari alla linea delle longitudini.
Sulla linea orizzontale egli segnava dei punti, equidistanti fra loro,
che rappresentavano istanti di tempo e, partendo da essi,
disegnava dei segmenti verticali, tutti perpendicolari a tale linea e
perciò paralleli fra loro, con i quali rappresentava la velocità
raggiunta in ogni istante. Congiungendo le estremità di tutti questi
segmenti si otteneva ciò che costituiva una vera novità e
cioè la rappresentazione grafica di una quantità variabile.

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Storia dei simboli matematici

  • 1. Storia dei simboli matematici 1. I SISTEMI DI NUMERAZIONE La prima abilità matematica raggiunta dall’uomo primitivo fu sicuramente quella di contare, cioè di riuscire a valutare la quantità di elementi di un certo tipo posseduto: piccoli oggetti, capi di bestiame, provviste… Per valutarne la consistenza l’uomo dovette escogitare alcuni stratagemmi: tenere il conto con le proprie dita e probabilmente con quelle di altri uomini vicini, raggruppare mucchietti di sassolini o dischetti d’argilla di piccole dimensioni, incidere dei segni su pietre, incidere tacche su pezzi di legno, su bastoni o su ossa di animali, fare nodi con cordicelle colorate attorno a un cordone più grande e così via. Ne danno testimonianza pitture rinvenute sulle pareti di caverne preistoriche e reperti archeologici in esse trovati. I reperti più antichi risalgono a circa 30.000 anni fa: si tratta di un osso di lupo rinvenuto in Repubblica Ceca sul quale sono incise tacche suddivise in gruppi di 5. Questo modo di contare potrebbe farci sorridere ma era adottato anche in tempi piuttosto recenti: in Piemonte, infatti, sono state ritrovate tacche usate nel 1700 a Cuneo dai contadini per tenere il conto dei debiti e dei crediti delle giornate di lavoro effettuate. Il metodo di associare a ogni quantità un simbolo non era certamente comodo per registrare numeri grandi; quindi l’uomo primitivo incominciò a pensare a un mezzo per tenere il conto, anche di numeri grandi, associando le varie quantità di oggetti a un numero limitato di simboli che, combinati in modo diverso, potevano servire per esprimere un numero qualunque di ordine di grandezza. 1.1 LE CIFRE Ecco dunque la comparsa di quei simboli, che noi chiamiamo cifre, che dettero origine ai numeri. Non è possibile determinare con precisione presso quale popolo i numeri (e con essi l’aritmetica), siano nati anche se ognuno diede il proprio contributo. Di certo c’è che l’aritmetica nel 5000 a.C. era già nata e si sviluppo per risolvere problemi di carattere pratico.
  • 2. Nacque là dove si svolgevano attività commerciali e scambi, là dove era necessario ridefinire periodicamente i confini dei campi a causa delle inondazioni dei fiumi, là dove si dovevano eseguire calcoli per erigere colossali e strabilianti opere architettoniche o per eseguire misurazioni nel campo astronomico. Tutti concorsero a costruire l’aritmetica: i Caldei, i Tiri, gli Assiri, i Babilonesi, i Sumeri, i Cinesi, i Maya, i Fenici, gli Indiani, gli Egiziani, i Greci, gli Etruschi, i Romani… 1.2 L’ARITMETICA Il più antico documento che testimonia le conoscenze matematiche (e con esse l’uso dei simboli) è il cosiddetto papiro Rhind o papiro Ahmes (dal nome dello scriba che verso il 1650 a.C. lo aveva trascritto copiandolo dall’originale che risaliva a circa 300 anni prima). Tale papiro conobbe la fama nel 1858 quando l’antiquario scozzese Henry Rhind, grande studioso e appassionato del mondo egizio, acquistò il papiro sulle rive del Nilo da un mercante di Tebe. Il papiro, scritto a carattere ieratico e contenente 84 tra problemi e questioni pratiche della vita di tutti i giorni, arricchiti da alcuni disegni, è lungo circa 546m e alto appena 30cm. Ora è custodito al British Museum di Londra. Tra i problemi proposti vi sono: • “A una quantità si aggiunge la sua metà e il suo settimo r i suoi terzi; si ottiene 37; qual è il valore della quantità?” • “Come dividere un pane fra tre persone? E cinque pani fra quattro persone? Quale parte di pane va a ognuno?” Dal nostro punto di vista questi problemi sono semplici perché si dispone del calcolo letterale.
  • 3.
  • 4.
  • 5. 1.4 IL SISTEMA DECIMALE Il sistema di numerazione adottato oggi è il sistema decimale, così detto perché le unità vengono raggruppate in gruppi di 10 e sono necessarie 10 unità di ordine inferiore per formarne una dell’ordine immediatamente superiore. Questa scelta si deve al fatto che l’uomo ha da sempre avuto a disposizione, per contare, le dita delle proprie mani. Si giustifica così anche il fatto che alcuni popoli scelsero, come base per il proprio sistema di numerazione, il numero 5 (sistema quinario) e allo stesso modo si capisce l’origine del sistema a base 20 che ha lasciato tracce nella lingua francese dove alcuni numeri si esprimono in funzione del 20: “quatre-vingts” è 80 – e anticamente era usare anche “six-vingts” per 120 e “quinze-vingts” per 300. Il nostro sistema di numerazione è detto “arabo”, ma questa denominazione non è corretta: sarebbe più giusto chiamarlo “indiano” o “indo-arabo” perché furono gli indiani a insegnare questo sistema di numerazione agli arabi verso l’VIII secolo, quando una loro delegazione si recò in Asia Minore (a Baghdad) per far tradurre in arabo alcuni volumi di astronomia scritti in sanscrito. Gli arabi poi, soprattutto per merito di un libro di calcolo del matematico Mohammed ibn-Musa al-Khuwarizmi (IX secolo), ci tramandarono, con qualche modifica nella forma delle cifre, questo sistema di numerazione. La sua diffusione in Europa, dove fu adottato fra il XIII secolo e XIV secolo, si deve principalmente al matematico pisano Leonardo “filius Bonacii”, da cui il nome Leonardo Fibonacci (1175 – 1250), che nella sua opera “Liber Abbaci” (12029 scrisse tutto ciò che aveva imparato in oriente e durante i suoi molteplici viaggi in Algeria, dove il padre era un impiegato di dogana per la Repubblica di Pisa. Questo traguardo fu estremamente importante soprattutto se pensiamo che in Europa erano ancora in uso sistemi di numerazione addizionali (ossia basati sula somma dei valori attribuiti ai singoli simboli). Risulta chiaro, dunque, che i sistemi di numerazione si dividono in due grandi categorie: • quelli basati sul principio addizionale (ossia si sommano i valori attribuiti ai vari simboli) in cui un simbolo ha sempre lo stesso valore • quelli basati sul principio posizionale, in cui il valore attribuito a un simbolo cambia secondo la posizione che esso occupa
  • 6. Nel sistema Romano (così come anche quello Etrusco), a dire il vero, vale anche un principio sottrazionale, in base al quale un simbolo scritto alla sinistra (o alla destra in quello Etrusco) di un altro, di valore maggiore, deve essere sottratto a quest’ultimo. 2. NASCITA DELLO ZERO Essendo i numeri nati per tenere il conto di ciò che si possedeva, per molto tempo non si avvertì la necessità di inventare lo zero perché lo zero si può associare solo a qualcosa che non si possiede. Tuttavia, quando si elaborarono i primi sistemi di numerazione non basati sul principio addizionale e quando si sentì forte l’esigenza sia di eseguire le operazioni senza dover usare particolari strumenti (cordicelle, abaco…) sia di sveltire le operazioni di calcolo, alcuni popoli inventarono lo zero. Non si sa con certezza chi per primo ebbe questa idea; pare che già nel 3000 a.C. il popolo Maya avesse scoperto non solo il valore posizionale dei simboli matematici, ma avesse anche introdotto nel proprio sistema di numerazione (in base 20) lo zero. I Maya, però, non erano in grado di comunicare con le civiltà in Europa e ad Oriente. Certo è che in Europa l’idea dello zero giunse dagli Indiani, che lo introdussero intorno al VI secolo d.C. Gli Indiani, per tenere il conto delle operazioni che eseguivano, si servivano di un cordone al quale erano annodate cordicelle di colori diversi: il colore e la posizione delle cordicelle indicavano il numero rappresentato e l’ordine di grandezza. Ebbene, gli Indiani su quel cordone, avevano posto, laddove avrebbe dovuto esserci lo zero, lasciavano un posto vuoto senza alcun nodo. Gli Arabi fecero propria l’idea geniale del posto vuoto e trasformarono il termine sunya (che significa, appunto, “posto vuoto”) in zifr (che significa “vuoto”). Come accade spesso, anche questo termine subì delle trasformazioni e divenne zefir e poi zephirum, quindi zefiro e infine zero. Sembra anche che già i Greci avessero pensato a un numero per poter rappresentare il nulla; molti attribuiscono proprio ai Greci l’invenzione del simbolo dello zero, che si pensava potesse derivare dalla lettera greca Ο(omicron) che era l’iniziale della parola όυδέν (uden) che indica il nulla, il vuoto, lo spazio. Tuttavia studi più recenti negano questa origine.
  • 7. 3. NASCITA DEI SEGNI Durante lo scorrere dei secoli, i segni di operazione e anche altri simboli, che vengono usati abitualmente oggi, hanno subito varie modifiche. Luca Pacioli, matematico, frate francescano (1445 – 1515) traendo spunto dalle opere del matematico italiano Leonardo Fibonacci (1175 – 1240) pubblicò a Venezia nel 1494 il primo trattato mai stampato di algebra, aritmetica e geometria, che ebbe larga diffusione sia in Italia (dove insegnò nelle Università di erugia, Roma, Napoli, Pisa, Venezia e dove, a Milano, alla corte di Ludovico il Moro, strinse amicizia con Leonardo da Vinci) sia all’estero: la Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proporitionalità. Ebbene, egli il gran merito di aver raccolto in quest’opera in modo diligente, e senza nulla aggiungere di originale, tutte le conoscenze acquisite fino a quell’epoca. 3.1 PIU’ E MENO Proprio nella Summa egli era solito usare, per indicare l’operazione di addizione la lettera p, lettera iniziale della parola latina “plus” (comparativo di multus, più grande). Da essa, probabilmente, trasse origine il segno “ + ” dato che si incominciò a usare questo simbolo proprio nel 1500; per l’esattezza il primo a utilizzare questo simbolo (assieme al “ – ”) fu J. Widmann, nella sua opera del 1489 Calcolo rapido e piacevole. Anche l’attuale segno “ – ” fu usato per la prima volta verso il 1500; il Pacioli si serviva della lettera m, lettera iniziale della parola latina “minus” (comparativo di parvus, più piccolo; dal verso minuere: diminuire, rimpicciolire, rendere più piccolo), che si pensa si tramutò facilmente in – a seguito di successive deformazioni. 3.2 UGUALE L’attuale segno “ = ” compare un po’ più tardi (1557) in un trattato di algebra scritto dal matematico inglese Robert Recorde (1510 – 1558), professore prima a Oxford e poi a Londra, che utilizza + e – e usa per la prima volta, un un’opera stampata, il segno = per rappresentare l’uguaglianza. Egli giustifica l’introduzione di questo nuovo segno scrivendo: “Indico l’uguaglianza con una coppia di parallele, due segmenti gemelli, e cioè della stessa lunghezza, perché due cose non possono essere più uguali di queste”.
  • 8. In precedenza (fino al Medioevo) veniva usato il verso est o anche le due lettere ae che rappresentano le lettere iniziali della parola latina aequalis (ossia uguale, equivalente). 3.3 PARENTESI Le parentesi vennero usate per la prima volta dall’ingegnere idraulico e matematico italiano Raffaele Bombelli, nel suo trattato, diviso in tre libri, pubblicato nel 1572: Algebra, parte maggiore dell’aritmetica. 3.4 PER E DIVISO Il simbolo di moltiplicazione “ x ”, in uso attualmente, fu introdotto per la prima volta dal matematico e teologo inglese William Oughtred (1574 – 1660) nella sua opera del 1663 Clavis mathematicae. Invece, il simbolo “  ” e “ : ” furono introdotti dal tedesco Gottfried Wilhelm Leibnitz (1646 – 1716), uomo veramente geniale ed eclettico che si occupò, con successo strabiliante, di filosofia, matematica, logica, diritto, letteratura, diplomazia. 3.5 MINORE E MAGGIORE I segni “ < ” e “ > ” fecero la loro comparsa per la prima volta in un opera del matematico e astronomo inglese Thomas Harriot (1560 – 1621). Siccome in essi l’apertura dell’angolo è rivolta dalla parte del numero maggiore, non è difficile intuire che < sia stato scelto perché, procedendo da sinistra verso destra, realizza, da un punto di vista visivo, un ingrandimento, mentre > un rimpicciolimento. 3.6 POTENZA E RADICE L’attuale scrittura adottata per indicare una potenza è stata usata per la prima volta dal filosofo e matematico René Descartes, noto come Cartesio (1596 – 1650). Per la potenza si adottava anche la scrittura del simbolo di radici ruotato al contrario, ma tale forma cadde in disuso. L’attuale simbolo di radice “ √ ” deve la sua origine al monaco agostiniano luterano Michael Stiefel (1486 – 1567); tuttavia l’operazione di estrazione di radice quadrata era presente sin dall’antichità. Siccome, ad esempio 5 rappresenta la radice quadrata di 25 e 25 è il quadrato di 5 (ossia che esiste un quadrato di lato 5 e area 25), gli antichi chiamavano la radice quadrata latus. Il filosofo latino Severino Boezio (480 – 524), che, soprattutto attraverso la sua opera più importante, De consolatione philosophiae, contribuì a far crescere e diffondere la logica aristotelica, la chiamò radix (radice, principio, fonte), come a voler
  • 9. indicare da dove il quadrato tragga le sue origini. Successivamente Leonardo Pisano e Luca Pacioli la indicarono con la lettera iniziale di radix, R. Si passò poi dal maiuscolo al minuscolo e successivamente, per deformazione, al simbolo attuale.
  • 10. 4. NASCITA DELL’ALGEBRA 4.1 LA SCUOLA DI AL-KHUWARIZMI Il vocabolo “algebra” deriva dal titolo dell’opera più importante scritto dal matematico e astronomo arabo Mohammed ibn-Musa al-Khuwarizmi, vissuto a Baghdad nel IX secolo; il trattato cui si fa riferimento è Al-jabr wa’l muqabalah, pervenutoci sia in versione latina (Liber algebrae et almucabola) sia in una araba. Nella versione araba, a differenza di quella latina, compare anche una prefazione in cui al-Khuwarizmi loda il profeta Maometto e il califfo al-Mamun, che fondò Baghdad, una “Casa del sapere”, nella quale confluirono scienziati e filosofi dalla Siria, dall’Iran e dalla Mesopotamia e che lo invitò affidandogli l’incarico di: “…comporre una breve opera sul calcolo per mezzo di Complemento e Riduzione, limitandosi a quegli aspetti più facili e utili della matematica di cui ci si serve costantemente nei casi di eredità, donazioni, distruzioni, sentenze e commerci e in tutti gli altri affari umani, o quando si vogliono effettuare misurazioni di terreni, scavi di canali, calcoli geometrici e altre cose del genere” Non è molto chiaro quale sia il vero significato dei due termini “al-jabr” e “muqabalah” anche se al-jabr pare indicasse proprio ciò che al-Khuwarizmi dice nella prefazione del suo trattato e cioè “complemento” o anche “restaurazione” e pare che si riferisse a quella che viene chiamata comunemente “legge del trasporto” (ossia una conseguenza del primo principio di equivalenza). Per quanto possa sembrare strano, secondo alcuni studiosi, pare addirittura che il termine suddetto significasse “sistemazione di un osso rotto”; potrebbe non essere del tutto fuori luogo se, in epoca evidentemente molto posteriore, questo vocabolo è usato proprio con questo significato nel capolavoro della letteratura spagnola di Miguel de Cervantes; infatti nel Don Chisciotte della Mancia si parla di “algebrista” riferendosi a un guaritore in grado di sistemare le ossa. La parola muqabalah invece pare che volesse dire “riduzione” o “equilibrio” e quindi stesse a indicare quella che, comunemente iene chiamata “legge della cancellazione” (ancora una conseguenza del primo principio di equivalenza). Si tratterà, dunque,
  • 11. di ridurre di numero i termini, mantenendo comunque una situazione di equilibrio fra i due membri dell’equazione. Dalla citazione dello stesso al-Khuwarizmi appare chiaro che la sua Algebra era più legata a problemi di carattere pratico e concreto, con evidente influenza della matematica babilonese, della matematica indiana e, solo successivamente, della geometria ellenica, piuttosto che a procedimento astratti, che fanno uso della simbologia propria dell’algebra così come è intesa oggi. E non deve destare meravigli neppure il fatto che gli arabi dotti del suo tempo che non si occupavano di calcolo, di astronomia e di filosofia, non usassero neppure i numeri negativi. A lui va comunque riconosciuto il merito di aver offerto un’esposizione, sempre semplice, chiara e al contempo sistematica ed esauriente, di questioni riguardanti i numeri e anche la soluzione di equazioni di primo e secondo grado. Per questa ragione, al-Khuwarizmi viene oggi considerato il padre dell’algebra. 4.2 LA SCUOLA DI DIOFANTO Alcuni storici non sono dello stesso parere e vedono in Diofanto questa figura. A questo punto è utile sottolineare che, secondo alcune fonti, lo sviluppo dell’algebra è passato attraverso tre stadi: • quello primitivo o retorico, in cui non si faceva uso né di simboli né di numeri, ma tutto si esprimeva solo attraverso parole • quello intermedio o sincopato, in cui si faceva uso di alcune abbreviazioni • quello simbolico, in cui tutto si esprimeva per mezzo di simboli Certamente questa suddivisione è troppo semplicistica e non risponde pienamente a quella che fu la realtà, tuttavia il ricordarlo più aiutare a capire il cammino, non privo di fatica, che dovettero percorrere gli algebristi per giungere dal primo al terzo stadio. E nel secondo stadio si collocherebbe appunto Diofanto, vissuto ad Alessandria d’Egitto e autore di un trattato di teoria dei numeri di 13 libri, intitolato Arithmetica. In esso il matematico greco, ovviamente legato alla cultura greca, sotto l’influsso degli algebristi babilonesi (che non si occupavano tanto di risolvere equazioni quanto di trovare le soluzioni di problemi contingenti), raggiunge alti gradi di
  • 12. ingegnosità matematica e raffinata eleganza nel presentare soluzioni esatte di equazioni sia determinate che indeterminate. Egli usa in modo sistematico abbreviazioni per indicare sia le incognite sia le loro potenze fino alla sesta ed esprimere polinomi in una sola incognita con una forma molto simile a quella in uso oggi. Indica, ad esempio, l’incognita, oggi normalmente indicata con x, con un simbolo molto simile alla lettera ϛ (stigma), lettera che faceva parte dell’alfabeto precedente a quello dell’Età Classica, forse a indicare la lettera finale della parola άριϑμόϛ (arithmos), che significa numero. Diofanto indica ciò che oggi è indicato: 𝑥𝑥2 con la scrittura ∆𝛾𝛾 dove ∆ indica l’iniziale della parola δύναμιϛ ossia potenza 𝑥𝑥3 con la scrittura 𝐾𝐾 𝛾𝛾 dove ∆ indica l’iniziale della parola κύβοϛ ossia cubo 𝑥𝑥4 con la scrittura ∆𝛾𝛾 ∆ ossia quadrato – quadrato 𝑥𝑥5 con la scrittura ∆𝐾𝐾 𝛾𝛾 ossia quadrato – cubo 𝑥𝑥6 con la scrittura 𝐾𝐾 𝛾𝛾 𝐾𝐾 ossia cubo – cubo Tuttavia la sua Arithmetica non è tanto un trattato di algebra, così come lo intendiamo, quanto una raccolta di circa 150 problemi di algebra applicata a particolari situazioni. I problemi pertanto, pur non ricorrendo a misure di grano, a unità monetarie o dimensioni di terreni come facevano gli algebristi egiziani e mesopotamici, non sono formulati in modo generale, ma fanno riferimento a esempi numerici del tutto particolari. Tra l’altro Diofanto non si preoccupa neppure di fornire tutte le possibili soluzioni dei suoi problemi, ma ne considera sempre una sola e così anche quando un’equazione di secondo grado ammette due soluzioni positive, egli ne fornisce una sola e sceglie la maggiore fra le due; se invece le soluzioni sono entrambe negative, non le considera come soluzione e definisce l’equazione come assurda (ατοποϛ, atopos). Allo stesso modo si comporta se una soluzione è positiva e una è negativa: per lui la negativa non esiste proprio. Se poi un problema ammette infinite soluzioni, ne considera, ancora una volta, una sola. Per queste ragioni Diofanto perse un po’ di credito rispetto a al-Khuuwarizmi. Si può comunque ben comprendere il fatto che per Diofanto i numeri negativi fossero assurdi: i greci, infatti, trascurarono i calcoli perché li consideravano adatti più a mercanti che a uomini colti, che dovevano perlopiù occuparsi di geometria.
  • 13. Anche quando utilizzavano i numeri, lo facevano per verificare determinate proprietà delle figure geometriche e quindi i numeri negativi, in questo ambito, sono davvero assurdi. 4.3 CONTROVERSIE Le notizie storiche a noi pervenute sulla nascita dell’algebra non sono molte e molti documenti sono andati persi. Di conseguenza, non è noto se lo stesso Diofanto avesse attinto da altri suoi contemporanei o di epoca ancora anteriore. Secondo quanto riportato da Carl Boyer nella sua pregevole Storia della matematica, pare che proprio in epoca contemporanea ad al-Khuwarizmi, in Turchia uscì un libro di un certo abd-al-Hamid, che aveva lo stesso titolo dell’opera di al-Khuwarizmi. In questo libro sono contenute le stesse dimostrazioni geometriche contenute nel trattato di al- Khuwarizmi e ci sono anche gli stessi esempi illustrativi. Inoltre, l’impostazione, la struttura e l’organizzazione delle due opere è pressoché identica, anche se quella di abd- al-Hamid in alcuni punti risulta anche più completa; ciò sta a indicare che le conoscenze in campo algebrico, a quell’epoca, erano ormai diventate patrimonio comune e si diffondevano facilmente da una località all’altra. Il fatto che comunque l’opera di al-Khuwarizmi riscosse maggior successo e, una volta tradotta, divenne un testo di importanza pari agli Elementi di Euclide, fa pensare che fu considerato, fin dall’inizio, il miglior testo dell’epoca. 4.4 LA SCUOLA DI BRAHMAGUPTA Né Diofanto né al-Khuwarizmi usarono i numeri negativi. Ne fece uso invece (e in epoca precedente) il matematico indiano Brahmagupta, vissuto verso il 600, la cui opera, di contenuto astronomico – matematico, pare fosse portata dall’India a Baghdad verso il 766. Egli, oltre a occuparsi di regole di misurazione (trigonometria) nella sua opera più famosa che fu il Brahmasphuta Siddhanta, fu un algebrista di buon livello e fornì soluzioni di carattere generale di equazioni di secondo grado, considerando anche il caso in cui una delle due soluzioni è rappresentata da un numero negativo. Attraverso la sua opera, egli ci fornisce il primo
  • 14. esempio di aritmetica sistematica che comprende sia i numeri negativi sia lo zero, visto come un numero e non come nulla. Parlando della “regola dei segni”, egli si esprimeva così: “Un numero positivo diviso per un numero positivo, o un numero negativo pdiviso per un numero negativo, dà un numero positivo. Zero diviso per zero non dà nulla. Un numero positivo diviso per un numero negativo dà un numero negativo. Un numero negativo diviso per un numero positivo dà un numero negativo. Un numero positivo o negativo diviso per zero è una frazione avente per denominatore zero.”
  • 15. 5. IL PIANO CARTESIANO Il filosofo e matematico René Descartes, italianizzato Cartesio, viene considerato il fondatore della geometria analitica, quella branca della geometria che si avvale di strumenti algebrici, dalla quale ha tratto origine la matematica moderna. A lui si deve l’invenzione di un metodo per individuare la posizione dei punti di un piano attraverso un sistema di riferimento detto, appunto, sistema di riferimento cartesiano ortogonale. L’esigenza di poter collocare dei punti nel piano e di poterli individuare in modo chiaro e inequivocabile fu avvertita molti secoli prima della nascita di Cartesio. Pare, infatti, che sulla tomba del faraone Ramesse VII (1100 a.C.) fossero rappresentate due rette perpendicolari: sulla prima erano impresse le altezze di alcune stelle nel cielo e sull’altra le varie ore della giornata. Volendo inoltrarsi nel campo dell’astronomia, con gli studi effettuati da Greci, Babilonesi, Indiani, Maya e così via, e ricercare i germi di quelle che oggi si chiamano longitudine e latitudine astronomiche e geografiche, ci si renderebbe subito conto delle molteplici rappresentazioni grafiche effettuate dagli antichi, soprattutto per trovare dei punti di riferimento che aiutassero a non perdere l’orientamento durante le lunghe navigazioni. Fermandoci nel mondo greco troviamo colui che fu chiamato Il Grande Geometra dell’antichità per i suoi numerosi e ragguardevoli traguardi raggiunti soprattutto nello studio delle coniche e della geometria proiettiva: Apollonio, nato a Perga (262 a.C. – 190 a.C.). Egli usò per primo le coordinate in geometria; nello studio delle coniche (cioè circonferenza, ellissi, parabole e iperboli) considerò infatti diametri coniugati intersecati, abbozzo di assi cartesiani, e corde parallele ai diametri, il corrispondente delle coordinate di Cartesio. Anche nell’assetto urbano delle antiche città romane fecero la loro comparsa una sorta di rette perpendicolari, che condizionavano la costruzione delle vie e che consentivano di trovare facilmente la collocazione dei vari edifici che si affacciavano su di esse: si tratta del decamanus maximus, la strada principale che attraversava la città da Est a
  • 16. Ovest, e dal cardo maximus, la strada principale da Nord a Sud. Decumanus e Cardo costituivano anche le vie principali (sempre perpendicolari fra loro) dell’accampamento romano; laddove si incontravano sorgeva il prateorium, il reparto comando, con la tenda del comandante. Alle due estremità del Decumanus, l’una di fronte all’altra, si trovavano la porta decumana e la porta praetoria. Facendo un grosso balzo nel tempo, troviamo un fisico e matematico di rilievo, il dotto parigino Nicola Oresme (1323 – 1382), vescovo di Lisieux. Egli, oltre ad aver portato notevoli ed ampi contributi alla teoria delle proporzioni, applicandola a problemi geometrici e fisici, arrivò a tracciare il grafico che rappresenta il variare della velocità di un corpo che so muove di moto uniformemente accelerato in funzione del tempo. Fece ciò servendosi di alcune linee, un orizzontale (la linea delle longitudini) e altre verticali, perpendicolari alla linea delle longitudini. Sulla linea orizzontale egli segnava dei punti, equidistanti fra loro, che rappresentavano istanti di tempo e, partendo da essi, disegnava dei segmenti verticali, tutti perpendicolari a tale linea e perciò paralleli fra loro, con i quali rappresentava la velocità raggiunta in ogni istante. Congiungendo le estremità di tutti questi segmenti si otteneva ciò che costituiva una vera novità e cioè la rappresentazione grafica di una quantità variabile.