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INTRODUZIONE



Nove anni or sono, in occasione della prima edizione della presente guida, motivammo l’impegno di CISE (e del

Network Lavoro Etico) nel campo della cosiddetta Responsabilità Sociale delle Organizzazioni con un’apertura di

carattere sostanzialmente etico ed economico. Essa recitava:



“Ogni giorno possiamo osservare segnali di cambiamento nelle abitudini, nella cultura, negli affari.

Le nuove tecnologie rendono sempre più agevoli scambi ed opportunità – fino a poco tempo fa impraticabili – tra

culture e territori lontani; le velocità e le accelerazioni dell’evoluzione in alcuni casi possono avvicinare popoli e

tradizioni, ma in altri rischiano di soffocarli, di cancellare identità, di imporre equilibri insostenibili attraverso

l’accrescimento del divario tra povertà e ricchezza.

Possiamo assistere indifferenti a questi segnali, ignorarli per scelta o per disinformazione, ma possiamo anche

chiederci come poter agire per guidare i cambiamenti verso i valori in cui crediamo.



Seguendo questa filosofia è maturata la scelta da parte del CISE di creare un network per la certificazione dei

sistemi di responsabilità sociale. …”



Tale scelta rispondeva soprattutto a due convincimenti: il primo che con il progredire dei fenomeni di

globalizzazione e di innovazione i temi della sostenibilità e della responsabilità dello sviluppo avrebbero acquisito

un’importanza sempre maggiore negli scambi economici tra Paesi; il secondo che i sistemi di garanzia, volti a

fornire certezza di veridicità degli impegni professati dalle organizzazioni, apparivano tanto necessari nelle

aspettative delle parti interessate quanto ancora agli albori, soprattutto dal punto di vista della loro diffusione su

scala globale.

Oggi, dinanzi alla recente proliferazione di iniziative in materia di responsabilità sociale delle organizzazioni,

riteniamo più che mai necessario ancorare ogni scelta o soluzione operativa a tali convincimenti, nel tentativo di

identificare alcuni punti cardinali di riferimento nell’ormai fitta rete di luoghi comuni che, purtroppo, hanno spesso

contraddistinto lo sterile dibattito aperto su questi temi.



Ecco quindi che se nove anni fa, dopo l’apertura citata, ci preoccupammo innanzi tutto di entrare in sintonia con il

lettore definendo che ‘cosa fossero ’ e a ‘chi servissero ’ i sistemi di responsabilità sociale, oggi ci sembra prioritario

partire dalla più fondamentale delle domande che allora, mal interpretando lo stato dell’arte, ci sembrò scontata:

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“perché” utilizzare o favorire la diffusione di sistemi di responsabilità sociale nelle Organizzazioni?



Il rifarsi alle motivazioni basilari ci appare infatti come l’unica chiave di lettura possibile per orientarsi nel labirinto

creato dal continuo, dispersivo, a volte pretestuoso, rimescolamento di metodologie e di modelli proposti da

numerosi attori, pubblici e privati, sia della scena nazionale che di quella europea ed internazionale.

Dunque perché un’organizzazione dovrebbe investire sulla responsabilità sociale? Negli anni in cui le economie

occidentali sono costantemente alle prese con problemi di competitività rispetto ai Paesi emergenti, essa non

rischia di rappresentare un ulteriore costo e quindi un ulteriore fattore di perdita di capacità competitiva?

Aggiungere questo tipo di regolamentazione, cogente o volontaria che sia, non può costituire un freno allo sviluppo

economico?

A queste domande occorre dare una risposta convincente se si vuole superare il diffuso scetticismo sull’effettiva

portata economica della responsabilità sociale, purtroppo alimentato dall’inconsistenza e dall’inadeguatezza di

numerose delle metodologie e degli strumenti in circolazione.

Ebbene su questo livello di analisi, ovvero quello delle motivazioni, solo quattro appaiono essere le ragioni

fondamentali sufficienti a giustificare l’esistenza dell’abbondante proliferazione di iniziative, metodi e strumenti cui

negli ultimi anni abbiamo assistito.

La prima risponde all’etica individuale della parte imprenditoriale che, riconoscendosi in alcuni valori e principi di

riferimento, intende agire in modo coerente con gli stessi, non solo nell’ambito della sfera individuale, ma anche

nell’ambito dell’attività della propria impresa. Spesso questa motivazione, tutt’altro che assente contrariamente alla

convinzione di alcuni, risulta avvertita in modo congiunto all’aspettativa di un beneficio sotto il profilo dell’immagine

aziendale e, dunque, intrinsecamente legata alla seconda motivazione.

Questa è sinteticamente etichettabile come l’aspettativa di valore aggiunto riconosciuto dalle parti interessate

all’organizzazione ed ai suoi prodotti; valore che, se reale, dovrebbe essere conseguentemente tradotto anche in

termini economici.

La terza riguarda essenzialmente quelle Istituzioni e Pubbliche Autorità che, tra i propri fini, hanno quello della

tutela del mercato, del rispetto delle regole di liberalità, di concorrenza leale nonché di promozione e sviluppo di

un’economia sostenibile.

Infine la quarta intercetta le relazioni esistenti e/o potenziali tra impresa e sistema sociale, ipotizzando, in base

anche ai convincimenti delle parti politiche, diversi equilibri tra sistema pubblico e sistema privato nella distribuzione

delle risorse necessarie al funzionamento del cosiddetto welfare; in altri termini ciò equivale ad affermare che,


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attraverso il sostegno, diretto e volontario, dell’imprenditoria privata sia possibile finanziare iniziative di sussidiarietà

sociale o, viceversa, che tale azione competa esclusivamente alle funzioni dello Stato in modo non discrezionale

e/o privo di una governance politica.

Tutto il firmamento delle iniziative sulla responsabilità sociale (ne sono già state censite nel mondo oltre un

migliaio!) risponde in misura diversa a tali motivazioni. Per ciò queste ultime si prestano bene alla funzione di

orientamento in quanto ogni lettore potrà autonomamente valutare in che misura ciascun approccio si presti, come

mezzo strumentale, al raggiungimento dei fini che ne hanno giustificato il concepimento.

Il lettore che intenda cimentarsi in tale impresa si troverà, con ogni probabilità, a mettere in luce la scarsa

funzionalità di numerosi approcci che sono stati sviluppati attraverso una eccessiva attenzione al metodo piuttosto

che ai fini, generati per lo più da combinazioni di approcci precedenti, e fatalmente concentrati più sui “modi” che

non sui “risultati”.

Ma sviluppare “modi” senza perseguire “fini” è operazione sterile e costosa, dunque dannosa per lo sviluppo

economico. Per questo oggi riteniamo prioritario distinguere e selezionare i “modi” non sulla base della notorietà o

autorità dei proponenti, ma sulla base della loro effettiva capacità di perseguire “fini” chiari e condivisibili.

A questo riguardo per CISE tutte le prime tre motivazioni hanno avuto - ed hanno - un ruolo importante nel

determinare le scelte e gli strumenti d’azione, mentre la quarta, pur di grande interesse, investe responsabilità di

tipo politico e non tecnostrutture funzionali quali appunto CISE.

Infatti le motivazioni di tipo economico non potrebbero non rivestire un’importanza che da sola sarebbe sufficiente a

giustificare l’impegno profuso in quanto C.I.S.E. è, per propria natura, un Centro per l’Innovazione e lo “Sviluppo

Economico” appartenente al sistema delle Camere di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura con funzioni

quindi di sostegno ai meccanismi di sviluppo economico e di tutela del mercato; tali ragioni sono quindi coerenti con

la sua mission e ben radicate in tutte le attività ed i progetti intrapresi. Parimenti quelle di tipo etico costituiscono

anch’esse una leva importante perché riteniamo che, per quanto necessarie, le spinte di carattere economico

debbano essere comunque considerate come strumentali al perseguimento di finalità più profonde, endemicamente

connesse alla persona, quali il miglioramento delle condizioni di vita, l’affermazione ed il rispetto dei diritti umani,

l’educazione e la crescita degli individui, la solidarietà e la coesione sociale; queste finalità non possono essere

definite dalle dinamiche economiche medesime, le quali possono in generale trovare condizioni di funzionamento

tanto nel perseguimento di fini “etici” quanto nell’ambito di politiche volte alla ricerca di mere opportunità di

arricchimento talvolta addirittura dannose per uno sviluppo equo e sostenibile (a questo riguardo si potrebbero

portare numerosi esempi circa lo sfruttamento indiscriminato delle risorse ambientali o l’orientamento nell’utilizzo

delle nuove tecnologie: non ci vogliamo in questa sede dilungare, ma possiamo pensare, a titolo di esempio, alla


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brevettazione – quindi alla lievitazione dei costi di acquisto – di farmaci in grado di salvare vite umane, allo sviluppo

di prodotti che mettono a rischio la sicurezza delle persone, alle economie dei cosiddetti paradisi fiscali, eccetera).

Convenzionalmente abbiamo assunto che l’importanza di queste spinte sia pressoché equivalente.

Le scelte effettuate sul piano metodologico sono dunque state coerenti con tale presupposto.

Riteniamo che affermare ciò sia importante al fine di aiutare il lettore ad interpretare correttamente il percorso che

ha portato alla redazione della presente guida, all’adozione degli strumenti operativi già sviluppati e diffusi (come

per esempio SA8000), allo sviluppo dei nuovi tools che non abbiamo trovato disponibili allo stato dell’arte (come per

esempio S.A.W. – Social Accountability Watch – (cfr. 2.3) od il recentissimo standard UGO (cfr.2.5 ).

In questo senso, la presente edizione non intende essere uno strumento volto a fornire una panoramica ampia, né

tanto meno completa, sui principali approcci esistenti in materia: altre iniziative autorevoli si sono occupate o si

stanno occupando di questo; la presente guida è altresì il risultato di un lungo lavoro di ricerca, approfondimento,

applicazione sul campo ed infine scelta o sviluppo di una particolare combinazione dinamica di “metodi” che fino ad

oggi abbiamo ritenuto maggiormente in grado di perseguire i “fini” prescelti. Trovano così spazio strumenti e

progetti applicativi adottati con lo scopo di rispondere ad esigenze mirate senza alcun tipo di “forzatura

metodologica”. In altre parole riteniamo che gli obiettivi, e non gli strumenti, debbano sempre essere il punto di

partenza di qualunque percorso.

Così, ad esempio, è opportuno sottolineare che la certificazione SA8000 di una micro-impresa, pur essendo

percorribile da un punto di vista pratico, non risponde a nessun obiettivo veramente importante per la nostra

economia attuale e, per questa ragione, rischia di costituire un esercizio inutile se non addirittura dannoso in quanto

finisce inevitabilmente col sottrarre risorse al perseguimento di altri obiettivi prioritari. Ma questo ovviamente non

significa che le micro-imprese siano da considerarsi avulse dai principi di responsabilità sociale e che da essi non

possano trarre occasione per migliorare (o mantenere) la propria capacità nel tempo di creare valore;

semplicemente ciò non potrà ragionevolmente accadere attraverso la certificazione SA8000! Nella fattispecie un

tentativo di risposta è certamente rappresentato da quel “sistema di garanzie di tipo partecipativo”

implementato nell’Osservatorio S.A.W. i cui meccanismi sono stati concepiti proprio per rendere più accessibile

anche alle piccole e piccolissime imprese l’ingresso in uno spazio collettivo che persegue la competitività assieme

alla trasparenza ed alla sostenibilità.

Analogamente può essere considerata, salvo casi particolari, la scarsa utilità di applicazione della norma SA8000

alla Pubblica Amministrazione o, come qualche ‘mente creativa‘ ha già proposto, ad un territorio! La domanda che

sorge spontanea in entrambi i casi è la medesima: “a che scopo?”. Qual è il saldo tra risorse investite in tali

operazioni ed i risultati prodotti? Non dimentichiamo che SA8000 definisce requisiti circa il rispetto dei fondamentali


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diritti dei lavoratori: forse è un problema prioritario della situazione economica attuale migliorare le condizioni di

salute e sicurezza nel pubblico impiego? O magari l’orario di lavoro? Dato per assodato che esistano categorie di

lavoratori del pubblico impiego sottopagate (vedi insegnanti), l’eventuale applicazione di SA8000 ad un istituto

scolastico, potrebbe in qualche modo agire su tale problema? E chi sarebbe il datore di lavoro dei lavoratori di un

territorio? Ma anche in questo caso l’inadeguatezza di un particolare strumento metodologico nel perseguire finalità

generali per l’intero sistema economico non solleva la Pubblica Amministrazione dall’enorme carico di

responsabilità sociale che il suo agire comporta. Così assumono maggior rilievo altri strumenti, come per esempio i

cosiddetti “Bilanci di mandato”, o applicazioni particolari finalizzate ad affrontare specifiche questioni sociali ed

economiche di primaria rilevanza quali l’emersione del lavoro sommerso, la gestione degli appalti, le condizioni di

sicurezza nei cantieri, ecc. (problemi dei nostri tempi sui quali, qui si, SA8000 può rappresentare uno strumento

utile per perseguire fini di sviluppo economico sostenibile).

Si tratta solo di alcuni esempi per sottolineare il primato dei fini sui metodi.

L’invito al lettore della presente guida è quindi quello di non concentrarsi sulla parte metodologica (pur presente)

prima di aver completamente compreso le finalità in relazione alle quali essa viene approfondita e sviluppata.

Ciò che il lettore troverà nella presente guida è pertanto una descrizione (anche approfondita e tecnica ove

necessario) dei soli strumenti operativi coerenti con determinati fini, mentre rimarrà inesorabilmente deluso (anzi,

non ne intraprenda nemmeno la lettura!) se interessato ad una panoramica tecnica comparativa delle diverse

metodologie e strumenti disponibili allo stato dell’arte in materia di responsabilità sociale d’impresa.



Tutto ciò premesso, per il lettore della presente guida, vale forse la pena di ribadire, con qualche aggiornamento

rispetto alle edizioni precedenti, le altre questioni fondamentali circa la definizione dei sistemi di responsabilità

sociale ed il loro funzionamento rispetto agli interessi delle diverse parti.



Dunque che cosa sono i sistemi di responsabilità sociale? E a chi servono?

Si tratta di strumenti gestionali - ovvero insiemi di regole e di comportamenti – che le organizzazioni possono

liberamente scegliere di adottare per garantire che i propri prodotti/servizi sono realizzati nel rispetto di principi etici

inerenti il lavoro, l’ambiente, la gestione finanziaria, la società civile, la tecnologia.

Servono essenzialmente a: i lavoratori, perché costituiscono una garanzia al riconoscimento ed al rispetto dei loro

diritti; i consumatori perché al momento dell’acquisto possono scegliere conoscendo i comportamenti sociali delle

aziende che finanziano acquistandone i prodotti; le imprese, perché possono ottenere un vantaggio competitivo

basato non più solamente su fattori come il basso costo della mano d’opera o delle materie prime, ma


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sull’immagine derivante dalle garanzie fornite circa l’eticità del proprio ciclo produttivo; le istituzioni e le

organizzazioni della società civile, perché possono trovare in essi validi strumenti per garantire regole eque e

condivise per il funzionamento e la tutela del mercato.



La certificazione dei sistemi di responsabilità sociale, è qualcosa di cui fidarsi?

In effetti c’è chi sostiene che alcuni modelli creati per gestire i sistemi di responsabilità sociale siano in realtà

strumenti asserviti ai grandi gruppi di interesse economico, o che i sistemi di certificazione rappresentino per le

imprese un onere prima che una garanzia ed un’opportunità su cui investire. Noi, pur conoscendo oramai

dall’interno le enormi difficoltà e le contraddizioni con le quali il mondo della certificazione volontaria si confronta

quotidianamente, ancora non siamo di questo avviso. Riteniamo infatti che sia possibile superare tali difficoltà a

patto di sottoporre ad una revisione seria i meccanismi certificativi tradizionalmente utilizzati, consolidandone i punti

di forza e nello stesso tempo osando rinnovare quei meccanismi che necessitano di miglioramento. Per capirci con

qualche esempio ciò è equivalso a:

      −      affrontare il conflitto di interessi endemico esistente per tutti gli organismi privati che certificano i propri

             clienti a fronte di un corrispettivo economico;

      −      garantire in modo sostanziale (e non meramente formale) la partecipazione attiva dei diversi portatori

             d’interesse ai processi di certificazione e di monitoraggio;

      −      garantire l’effettiva imparzialità degli organismi di certificazione rispetto agli interessi delle diverse parti;

      −      garantire l’affidabilità e la consistenza del processo di verifica.

Si tratta evidentemente di obiettivi fondamentali ai quali gli attori della certificazione, in considerazione del loro

ruolo, non possono sottrarsi. E non possono neppure passare in secondo piano rispetto a quegli obiettivi

commerciali che molti organismi di certificazione, per poter sopravvivere, oggi giorno sono costretti a porsi.

Qual è, infatti, il rischio di perdita d’indipendenza per un organismo di certificazione i cui rappresentanti commerciali

sono di anno in anno chiamati a raggiungere un predefinito budget di fatturato derivante dai nuovi clienti acquisiti?

Come è possibile realizzare i servizi ispettivi con la dovuta accuratezza e professionalità se le regole competitive

del “mercato della certificazione” impongono oramai prezzi sottocosto?

Nelle sue LEZIONI DI POLITICA SOCIALE Luigi Einaudi definiva l’esistenza di “un punto critico, superato il quale ogni

elemento della vita sociale, ogni modo di vita, ogni costume che era sino ad allora mezzo di elevazione e di

perfezionamento umano diventa strumento di degenerazione e di decadenza”. Qual è il “punto critico” per il mercato

dei servizi di certificazione, oltre il quale uno strumento creato per fornire garanzie e certezze alle parti interessate

e, attraverso ciò, aggiungere valore alle produzioni, finisce in realtà per non essere più credibile per gli utilizzatori


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né profittevole per i produttori?

Come evitare di oltrepassarlo?

Queste riflessioni, contestualmente ad una attenta ed interessata osservazione dello stato dell’arte, ci hanno

progressivamente indotto a ritenere che la certificazione possieda le caratteristiche di quei servizi di pubblica utilità

che dovrebbero essere realizzati all’interno di una logica non strettamente commerciale, ovvero nell’ambito di

strutture che operano, senza scopo di lucro, per finalità riconducibili ad interessi collettivi .

Utopia considerando lo stato dell’arte?

No. L’esperienza CISE lo ha già oggettivamente dimostrato.

Infatti CISE è innanzi tutto un’azienda speciale della Camera di Commercio di Forlì – Cesena che non possiede

scopo di lucro e che non ha alcun interesse negli affari delle aziende che certifica. Ha inoltre fatto le seguenti scelte.

Al fine di affrontare il conflitto di interessi endemico esistente per tutti gli organismi privati che certificano i propri

clienti a fronte di un corrispettivo economico ha adottato alcuni accorgimenti semplici quanto efficaci: ovvero il

pagamento anticipato, da parte delle Organizzazioni richiedenti la certificazione, dei corrispettivi associati al servizio

di verifica nonché la completa indipendenza, compresa quella economica, dei membri del Comitato di Certificazione

(l’organo deliberante il rilascio, sospensione e revoca dei certificati) dalla struttura gestionale ed amministrativa del

CISE. Il primo accorgimento consente al fornitore del servizio di verifica di svincolarsi dal potenziale ricatto “tu non

mi certifichi, io non ti pago”, il secondo affida pienamente il ruolo decisionale ad un comitato esterno che non svolge

la propria attività a fronte di un corrispettivo economico, bensì in virtù di un mandato di rappresentanza dei diversi

portatori d’interesse.

Qui interviene la seconda categoria di meccanismi migliorativi dei processi tradizionali di certificazione predisposti

al fine di garantire in modo sostanziale la partecipazione attiva dei diversi portatori d’interesse ai sistemi di

certificazione e di monitoraggio: ovvero la composizione stessa del sopra citato Comitato di Certificazione e

l’attivazione di canali di comunicazione volti a favorire la trasparenza tra organizzazioni certificate e stakeholders. Il

primo accorgimento consiste nel prevedere una partecipazione al Comitato di una pluralità di parti interessate

ampia e bilanciata in modo tale che nessuna rappresentanza prevalga sulle altre categorie di parti interessate (ad

esempio nel modello CISE sono previsti 10 voti per i rappresentanti delle Imprese, 10 voti per i rappresentanti dei

Lavoratori, 10 voti per i rappresentanti delle Istituzioni, 10 per le altre parti interessate indipendentemente dal

numero di votanti per ciascuna categoria), il secondo si esplica in una fitta rete di relazioni attivate per la

composizione di Dossier Informativi sulle organizzazioni richiedenti la certificazione, nonché nella costituzione e

funzionamento dell’Osservatorio S.A.W. nel cui ambito tutti i portatori di interesse possono attivarsi nel ruolo di

‘monitori’ (vd. Capitolo 2.3 - Osservatorio Social Accountability Watch (S.A.W.)).


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La composizione rigorosamente bilanciata del Comitato di Certificazione rappresenta in buona parte la garanzia

dell’effettiva imparzialità rispetto agli interessi in gioco; sempre a tale scopo si è rivelata efficace anche

l’introduzione di un ulteriore meccanismo migliorativo delle prassi consolidate nei processi di certificazione: ovvero

la multilateralità dei sottoscrittori del “contratto di certificazione”. Normalmente infatti tale contratto viene stipulato in

modo volontario tra una parte interessata (l’imprenditore o legale rappresentante dell’impresa) ed una

tecnostruttura (l’organismo di certificazione) che dovrebbe avere caratteristiche di indipendenza. Nessun altro

stakeholder interviene tradizionalmente nei contratti di fornitura dei servizi di certificazione. Tuttavia spesso gli

standard a fronte dei quali le certificazioni vengono rilasciate coinvolgono interessi decisamente più ampi e, in

alcuni casi, vengono di fatto esclusi dal “contratto di certificazione” stakeholders che potremmo definire addirittura

primari. E’ il caso, nel campo della responsabilità sociale d’impresa, della norma SA8000 che, vertendo

esclusivamente sul rispetto dei diritti umani fondamentali sui luoghi di lavoro, non può certamente prevedere una

esclusione dei lavoratori stessi dalla messa in esercizio di tale sistema di garanzie. Anche in questo caso una

soluzione sul piano pratico piuttosto efficace è stata decisamente semplice: CISE non procede all’iter di verifica

presso aziende clienti per le quali, sulla cosiddetta ‘domanda di certificazione’ non sia stata apposta la firma di

almeno un rappresentante dei lavoratori (rappresentante SA8000 dei lavoratori e/o rappresentanti sindacali) che

dimostri di aver condiviso gli obiettivi e la pianificazione aziendale in materia di miglioramento sui requisiti coinvolti

in SA8000. Va sottolineato che questa semplice prassi ha portato a risultati eccellenti, nelle oltre 250 imprese ad

oggi sottoscrittici di un contratto di certificazione SA8000, in termini di consapevolezza dei lavoratori e di virtuoso

funzionamento del sistema SA8000. Purtroppo risulta che CISE è, ad oggi, l’unico organismo di certificazione al

mondo ad averla adottata.

Al fine di garantire l’affidabilità e la consistenza del processo di verifica vengono investite per la formazione, lo

sviluppo delle competenze, l’addestramento, l’aggiornamento, la calibratura, la qualifica ed il monitoraggio continuo

delle figure professionali degli auditors, risorse che, ogni anno, non sono inferiori al 10% sul totale dei costi

sostenuti per lo svolgimento dell’attività certificativa (dal conto economico); inoltre, durante gli audit viene

sistematicamente utilizzata la metodologia CEASAS (o “di valutazione dell’adeguatezza”) sviluppata al fine di

garantire l’omogeneità, l’equità e la riproducibilità delle verifiche al variare delle situazioni e dei contesti economici

di riferimento.

Si tratta di scelte che, lungi dal gettare nel fango tutto il mondo della certificazione volontaria (anzi, cercando di

sfruttare e valorizzare al meglio l’importante apparato metodologico e culturale da essa sviluppato negli anni su

scala globale) cercano, dall’interno, di riformarlo in modo decisivo con lo scopo di migliorarne quei punti deboli che,

in particolare nell’ultimo decennio, lo hanno portato a disaffezioni ormai storiche e verso un diffuso scetticismo tra


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molti operatori economici ed intere categorie di stakeholders.

In questo senso la consapevolezza del lungo percorso che ancora ci attende non deve impedirci di guardare con

soddisfazione al cammino sin qui compiuto grazie all’entusiasmo ed alla partecipazione dei tanti soggetti (Imprese,

Professionisti, Organismi di Certificazione e di Ispezione, Sindacati, ONG, Istituzioni pubbliche e private, Università,

Associazioni, …) ai quali rivolgiamo un caloroso ringraziamento e l’auspicio di poter ancora proseguire il cammino

insieme. Nella realtà tale cammino, che può non apparire come privo di insidie, è alla portata di tutti; chiunque lo

voglia può già oggi partecipare attivamente e costruttivamente al funzionamento di questo sistema fornendo un

contributo comunque importante, anche se a volte necessariamente infinitesimale, purché esercitato con

consapevolezza ed onestà .

Proseguendo (e concludendo) con la citazione di Einaudi:

“Il mercato, che è già uno stupendo meccanismo, capace di dare i migliori risultati entro i limiti delle istituzioni, dei

costumi, delle leggi esistenti, può dare risultati ancor più stupendi se noi sapremo perfezionare e riformare le

istituzioni, i costumi, le leggi, entro le quali esso vive allo scopo di toccare più alti ideali di vita.

      Lo potremo se vorremo.”



Luca Valli

Direttore CISE




                                                               15

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Introduzione guida "Certificare la responsabilità sociale delle Organizzazioni"

  • 1. INTRODUZIONE Nove anni or sono, in occasione della prima edizione della presente guida, motivammo l’impegno di CISE (e del Network Lavoro Etico) nel campo della cosiddetta Responsabilità Sociale delle Organizzazioni con un’apertura di carattere sostanzialmente etico ed economico. Essa recitava: “Ogni giorno possiamo osservare segnali di cambiamento nelle abitudini, nella cultura, negli affari. Le nuove tecnologie rendono sempre più agevoli scambi ed opportunità – fino a poco tempo fa impraticabili – tra culture e territori lontani; le velocità e le accelerazioni dell’evoluzione in alcuni casi possono avvicinare popoli e tradizioni, ma in altri rischiano di soffocarli, di cancellare identità, di imporre equilibri insostenibili attraverso l’accrescimento del divario tra povertà e ricchezza. Possiamo assistere indifferenti a questi segnali, ignorarli per scelta o per disinformazione, ma possiamo anche chiederci come poter agire per guidare i cambiamenti verso i valori in cui crediamo. Seguendo questa filosofia è maturata la scelta da parte del CISE di creare un network per la certificazione dei sistemi di responsabilità sociale. …” Tale scelta rispondeva soprattutto a due convincimenti: il primo che con il progredire dei fenomeni di globalizzazione e di innovazione i temi della sostenibilità e della responsabilità dello sviluppo avrebbero acquisito un’importanza sempre maggiore negli scambi economici tra Paesi; il secondo che i sistemi di garanzia, volti a fornire certezza di veridicità degli impegni professati dalle organizzazioni, apparivano tanto necessari nelle aspettative delle parti interessate quanto ancora agli albori, soprattutto dal punto di vista della loro diffusione su scala globale. Oggi, dinanzi alla recente proliferazione di iniziative in materia di responsabilità sociale delle organizzazioni, riteniamo più che mai necessario ancorare ogni scelta o soluzione operativa a tali convincimenti, nel tentativo di identificare alcuni punti cardinali di riferimento nell’ormai fitta rete di luoghi comuni che, purtroppo, hanno spesso contraddistinto lo sterile dibattito aperto su questi temi. Ecco quindi che se nove anni fa, dopo l’apertura citata, ci preoccupammo innanzi tutto di entrare in sintonia con il lettore definendo che ‘cosa fossero ’ e a ‘chi servissero ’ i sistemi di responsabilità sociale, oggi ci sembra prioritario partire dalla più fondamentale delle domande che allora, mal interpretando lo stato dell’arte, ci sembrò scontata: 7
  • 2. “perché” utilizzare o favorire la diffusione di sistemi di responsabilità sociale nelle Organizzazioni? Il rifarsi alle motivazioni basilari ci appare infatti come l’unica chiave di lettura possibile per orientarsi nel labirinto creato dal continuo, dispersivo, a volte pretestuoso, rimescolamento di metodologie e di modelli proposti da numerosi attori, pubblici e privati, sia della scena nazionale che di quella europea ed internazionale. Dunque perché un’organizzazione dovrebbe investire sulla responsabilità sociale? Negli anni in cui le economie occidentali sono costantemente alle prese con problemi di competitività rispetto ai Paesi emergenti, essa non rischia di rappresentare un ulteriore costo e quindi un ulteriore fattore di perdita di capacità competitiva? Aggiungere questo tipo di regolamentazione, cogente o volontaria che sia, non può costituire un freno allo sviluppo economico? A queste domande occorre dare una risposta convincente se si vuole superare il diffuso scetticismo sull’effettiva portata economica della responsabilità sociale, purtroppo alimentato dall’inconsistenza e dall’inadeguatezza di numerose delle metodologie e degli strumenti in circolazione. Ebbene su questo livello di analisi, ovvero quello delle motivazioni, solo quattro appaiono essere le ragioni fondamentali sufficienti a giustificare l’esistenza dell’abbondante proliferazione di iniziative, metodi e strumenti cui negli ultimi anni abbiamo assistito. La prima risponde all’etica individuale della parte imprenditoriale che, riconoscendosi in alcuni valori e principi di riferimento, intende agire in modo coerente con gli stessi, non solo nell’ambito della sfera individuale, ma anche nell’ambito dell’attività della propria impresa. Spesso questa motivazione, tutt’altro che assente contrariamente alla convinzione di alcuni, risulta avvertita in modo congiunto all’aspettativa di un beneficio sotto il profilo dell’immagine aziendale e, dunque, intrinsecamente legata alla seconda motivazione. Questa è sinteticamente etichettabile come l’aspettativa di valore aggiunto riconosciuto dalle parti interessate all’organizzazione ed ai suoi prodotti; valore che, se reale, dovrebbe essere conseguentemente tradotto anche in termini economici. La terza riguarda essenzialmente quelle Istituzioni e Pubbliche Autorità che, tra i propri fini, hanno quello della tutela del mercato, del rispetto delle regole di liberalità, di concorrenza leale nonché di promozione e sviluppo di un’economia sostenibile. Infine la quarta intercetta le relazioni esistenti e/o potenziali tra impresa e sistema sociale, ipotizzando, in base anche ai convincimenti delle parti politiche, diversi equilibri tra sistema pubblico e sistema privato nella distribuzione delle risorse necessarie al funzionamento del cosiddetto welfare; in altri termini ciò equivale ad affermare che, 8
  • 3. attraverso il sostegno, diretto e volontario, dell’imprenditoria privata sia possibile finanziare iniziative di sussidiarietà sociale o, viceversa, che tale azione competa esclusivamente alle funzioni dello Stato in modo non discrezionale e/o privo di una governance politica. Tutto il firmamento delle iniziative sulla responsabilità sociale (ne sono già state censite nel mondo oltre un migliaio!) risponde in misura diversa a tali motivazioni. Per ciò queste ultime si prestano bene alla funzione di orientamento in quanto ogni lettore potrà autonomamente valutare in che misura ciascun approccio si presti, come mezzo strumentale, al raggiungimento dei fini che ne hanno giustificato il concepimento. Il lettore che intenda cimentarsi in tale impresa si troverà, con ogni probabilità, a mettere in luce la scarsa funzionalità di numerosi approcci che sono stati sviluppati attraverso una eccessiva attenzione al metodo piuttosto che ai fini, generati per lo più da combinazioni di approcci precedenti, e fatalmente concentrati più sui “modi” che non sui “risultati”. Ma sviluppare “modi” senza perseguire “fini” è operazione sterile e costosa, dunque dannosa per lo sviluppo economico. Per questo oggi riteniamo prioritario distinguere e selezionare i “modi” non sulla base della notorietà o autorità dei proponenti, ma sulla base della loro effettiva capacità di perseguire “fini” chiari e condivisibili. A questo riguardo per CISE tutte le prime tre motivazioni hanno avuto - ed hanno - un ruolo importante nel determinare le scelte e gli strumenti d’azione, mentre la quarta, pur di grande interesse, investe responsabilità di tipo politico e non tecnostrutture funzionali quali appunto CISE. Infatti le motivazioni di tipo economico non potrebbero non rivestire un’importanza che da sola sarebbe sufficiente a giustificare l’impegno profuso in quanto C.I.S.E. è, per propria natura, un Centro per l’Innovazione e lo “Sviluppo Economico” appartenente al sistema delle Camere di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura con funzioni quindi di sostegno ai meccanismi di sviluppo economico e di tutela del mercato; tali ragioni sono quindi coerenti con la sua mission e ben radicate in tutte le attività ed i progetti intrapresi. Parimenti quelle di tipo etico costituiscono anch’esse una leva importante perché riteniamo che, per quanto necessarie, le spinte di carattere economico debbano essere comunque considerate come strumentali al perseguimento di finalità più profonde, endemicamente connesse alla persona, quali il miglioramento delle condizioni di vita, l’affermazione ed il rispetto dei diritti umani, l’educazione e la crescita degli individui, la solidarietà e la coesione sociale; queste finalità non possono essere definite dalle dinamiche economiche medesime, le quali possono in generale trovare condizioni di funzionamento tanto nel perseguimento di fini “etici” quanto nell’ambito di politiche volte alla ricerca di mere opportunità di arricchimento talvolta addirittura dannose per uno sviluppo equo e sostenibile (a questo riguardo si potrebbero portare numerosi esempi circa lo sfruttamento indiscriminato delle risorse ambientali o l’orientamento nell’utilizzo delle nuove tecnologie: non ci vogliamo in questa sede dilungare, ma possiamo pensare, a titolo di esempio, alla 9
  • 4. brevettazione – quindi alla lievitazione dei costi di acquisto – di farmaci in grado di salvare vite umane, allo sviluppo di prodotti che mettono a rischio la sicurezza delle persone, alle economie dei cosiddetti paradisi fiscali, eccetera). Convenzionalmente abbiamo assunto che l’importanza di queste spinte sia pressoché equivalente. Le scelte effettuate sul piano metodologico sono dunque state coerenti con tale presupposto. Riteniamo che affermare ciò sia importante al fine di aiutare il lettore ad interpretare correttamente il percorso che ha portato alla redazione della presente guida, all’adozione degli strumenti operativi già sviluppati e diffusi (come per esempio SA8000), allo sviluppo dei nuovi tools che non abbiamo trovato disponibili allo stato dell’arte (come per esempio S.A.W. – Social Accountability Watch – (cfr. 2.3) od il recentissimo standard UGO (cfr.2.5 ). In questo senso, la presente edizione non intende essere uno strumento volto a fornire una panoramica ampia, né tanto meno completa, sui principali approcci esistenti in materia: altre iniziative autorevoli si sono occupate o si stanno occupando di questo; la presente guida è altresì il risultato di un lungo lavoro di ricerca, approfondimento, applicazione sul campo ed infine scelta o sviluppo di una particolare combinazione dinamica di “metodi” che fino ad oggi abbiamo ritenuto maggiormente in grado di perseguire i “fini” prescelti. Trovano così spazio strumenti e progetti applicativi adottati con lo scopo di rispondere ad esigenze mirate senza alcun tipo di “forzatura metodologica”. In altre parole riteniamo che gli obiettivi, e non gli strumenti, debbano sempre essere il punto di partenza di qualunque percorso. Così, ad esempio, è opportuno sottolineare che la certificazione SA8000 di una micro-impresa, pur essendo percorribile da un punto di vista pratico, non risponde a nessun obiettivo veramente importante per la nostra economia attuale e, per questa ragione, rischia di costituire un esercizio inutile se non addirittura dannoso in quanto finisce inevitabilmente col sottrarre risorse al perseguimento di altri obiettivi prioritari. Ma questo ovviamente non significa che le micro-imprese siano da considerarsi avulse dai principi di responsabilità sociale e che da essi non possano trarre occasione per migliorare (o mantenere) la propria capacità nel tempo di creare valore; semplicemente ciò non potrà ragionevolmente accadere attraverso la certificazione SA8000! Nella fattispecie un tentativo di risposta è certamente rappresentato da quel “sistema di garanzie di tipo partecipativo” implementato nell’Osservatorio S.A.W. i cui meccanismi sono stati concepiti proprio per rendere più accessibile anche alle piccole e piccolissime imprese l’ingresso in uno spazio collettivo che persegue la competitività assieme alla trasparenza ed alla sostenibilità. Analogamente può essere considerata, salvo casi particolari, la scarsa utilità di applicazione della norma SA8000 alla Pubblica Amministrazione o, come qualche ‘mente creativa‘ ha già proposto, ad un territorio! La domanda che sorge spontanea in entrambi i casi è la medesima: “a che scopo?”. Qual è il saldo tra risorse investite in tali operazioni ed i risultati prodotti? Non dimentichiamo che SA8000 definisce requisiti circa il rispetto dei fondamentali 10
  • 5. diritti dei lavoratori: forse è un problema prioritario della situazione economica attuale migliorare le condizioni di salute e sicurezza nel pubblico impiego? O magari l’orario di lavoro? Dato per assodato che esistano categorie di lavoratori del pubblico impiego sottopagate (vedi insegnanti), l’eventuale applicazione di SA8000 ad un istituto scolastico, potrebbe in qualche modo agire su tale problema? E chi sarebbe il datore di lavoro dei lavoratori di un territorio? Ma anche in questo caso l’inadeguatezza di un particolare strumento metodologico nel perseguire finalità generali per l’intero sistema economico non solleva la Pubblica Amministrazione dall’enorme carico di responsabilità sociale che il suo agire comporta. Così assumono maggior rilievo altri strumenti, come per esempio i cosiddetti “Bilanci di mandato”, o applicazioni particolari finalizzate ad affrontare specifiche questioni sociali ed economiche di primaria rilevanza quali l’emersione del lavoro sommerso, la gestione degli appalti, le condizioni di sicurezza nei cantieri, ecc. (problemi dei nostri tempi sui quali, qui si, SA8000 può rappresentare uno strumento utile per perseguire fini di sviluppo economico sostenibile). Si tratta solo di alcuni esempi per sottolineare il primato dei fini sui metodi. L’invito al lettore della presente guida è quindi quello di non concentrarsi sulla parte metodologica (pur presente) prima di aver completamente compreso le finalità in relazione alle quali essa viene approfondita e sviluppata. Ciò che il lettore troverà nella presente guida è pertanto una descrizione (anche approfondita e tecnica ove necessario) dei soli strumenti operativi coerenti con determinati fini, mentre rimarrà inesorabilmente deluso (anzi, non ne intraprenda nemmeno la lettura!) se interessato ad una panoramica tecnica comparativa delle diverse metodologie e strumenti disponibili allo stato dell’arte in materia di responsabilità sociale d’impresa. Tutto ciò premesso, per il lettore della presente guida, vale forse la pena di ribadire, con qualche aggiornamento rispetto alle edizioni precedenti, le altre questioni fondamentali circa la definizione dei sistemi di responsabilità sociale ed il loro funzionamento rispetto agli interessi delle diverse parti. Dunque che cosa sono i sistemi di responsabilità sociale? E a chi servono? Si tratta di strumenti gestionali - ovvero insiemi di regole e di comportamenti – che le organizzazioni possono liberamente scegliere di adottare per garantire che i propri prodotti/servizi sono realizzati nel rispetto di principi etici inerenti il lavoro, l’ambiente, la gestione finanziaria, la società civile, la tecnologia. Servono essenzialmente a: i lavoratori, perché costituiscono una garanzia al riconoscimento ed al rispetto dei loro diritti; i consumatori perché al momento dell’acquisto possono scegliere conoscendo i comportamenti sociali delle aziende che finanziano acquistandone i prodotti; le imprese, perché possono ottenere un vantaggio competitivo basato non più solamente su fattori come il basso costo della mano d’opera o delle materie prime, ma 11
  • 6. sull’immagine derivante dalle garanzie fornite circa l’eticità del proprio ciclo produttivo; le istituzioni e le organizzazioni della società civile, perché possono trovare in essi validi strumenti per garantire regole eque e condivise per il funzionamento e la tutela del mercato. La certificazione dei sistemi di responsabilità sociale, è qualcosa di cui fidarsi? In effetti c’è chi sostiene che alcuni modelli creati per gestire i sistemi di responsabilità sociale siano in realtà strumenti asserviti ai grandi gruppi di interesse economico, o che i sistemi di certificazione rappresentino per le imprese un onere prima che una garanzia ed un’opportunità su cui investire. Noi, pur conoscendo oramai dall’interno le enormi difficoltà e le contraddizioni con le quali il mondo della certificazione volontaria si confronta quotidianamente, ancora non siamo di questo avviso. Riteniamo infatti che sia possibile superare tali difficoltà a patto di sottoporre ad una revisione seria i meccanismi certificativi tradizionalmente utilizzati, consolidandone i punti di forza e nello stesso tempo osando rinnovare quei meccanismi che necessitano di miglioramento. Per capirci con qualche esempio ciò è equivalso a: − affrontare il conflitto di interessi endemico esistente per tutti gli organismi privati che certificano i propri clienti a fronte di un corrispettivo economico; − garantire in modo sostanziale (e non meramente formale) la partecipazione attiva dei diversi portatori d’interesse ai processi di certificazione e di monitoraggio; − garantire l’effettiva imparzialità degli organismi di certificazione rispetto agli interessi delle diverse parti; − garantire l’affidabilità e la consistenza del processo di verifica. Si tratta evidentemente di obiettivi fondamentali ai quali gli attori della certificazione, in considerazione del loro ruolo, non possono sottrarsi. E non possono neppure passare in secondo piano rispetto a quegli obiettivi commerciali che molti organismi di certificazione, per poter sopravvivere, oggi giorno sono costretti a porsi. Qual è, infatti, il rischio di perdita d’indipendenza per un organismo di certificazione i cui rappresentanti commerciali sono di anno in anno chiamati a raggiungere un predefinito budget di fatturato derivante dai nuovi clienti acquisiti? Come è possibile realizzare i servizi ispettivi con la dovuta accuratezza e professionalità se le regole competitive del “mercato della certificazione” impongono oramai prezzi sottocosto? Nelle sue LEZIONI DI POLITICA SOCIALE Luigi Einaudi definiva l’esistenza di “un punto critico, superato il quale ogni elemento della vita sociale, ogni modo di vita, ogni costume che era sino ad allora mezzo di elevazione e di perfezionamento umano diventa strumento di degenerazione e di decadenza”. Qual è il “punto critico” per il mercato dei servizi di certificazione, oltre il quale uno strumento creato per fornire garanzie e certezze alle parti interessate e, attraverso ciò, aggiungere valore alle produzioni, finisce in realtà per non essere più credibile per gli utilizzatori 12
  • 7. né profittevole per i produttori? Come evitare di oltrepassarlo? Queste riflessioni, contestualmente ad una attenta ed interessata osservazione dello stato dell’arte, ci hanno progressivamente indotto a ritenere che la certificazione possieda le caratteristiche di quei servizi di pubblica utilità che dovrebbero essere realizzati all’interno di una logica non strettamente commerciale, ovvero nell’ambito di strutture che operano, senza scopo di lucro, per finalità riconducibili ad interessi collettivi . Utopia considerando lo stato dell’arte? No. L’esperienza CISE lo ha già oggettivamente dimostrato. Infatti CISE è innanzi tutto un’azienda speciale della Camera di Commercio di Forlì – Cesena che non possiede scopo di lucro e che non ha alcun interesse negli affari delle aziende che certifica. Ha inoltre fatto le seguenti scelte. Al fine di affrontare il conflitto di interessi endemico esistente per tutti gli organismi privati che certificano i propri clienti a fronte di un corrispettivo economico ha adottato alcuni accorgimenti semplici quanto efficaci: ovvero il pagamento anticipato, da parte delle Organizzazioni richiedenti la certificazione, dei corrispettivi associati al servizio di verifica nonché la completa indipendenza, compresa quella economica, dei membri del Comitato di Certificazione (l’organo deliberante il rilascio, sospensione e revoca dei certificati) dalla struttura gestionale ed amministrativa del CISE. Il primo accorgimento consente al fornitore del servizio di verifica di svincolarsi dal potenziale ricatto “tu non mi certifichi, io non ti pago”, il secondo affida pienamente il ruolo decisionale ad un comitato esterno che non svolge la propria attività a fronte di un corrispettivo economico, bensì in virtù di un mandato di rappresentanza dei diversi portatori d’interesse. Qui interviene la seconda categoria di meccanismi migliorativi dei processi tradizionali di certificazione predisposti al fine di garantire in modo sostanziale la partecipazione attiva dei diversi portatori d’interesse ai sistemi di certificazione e di monitoraggio: ovvero la composizione stessa del sopra citato Comitato di Certificazione e l’attivazione di canali di comunicazione volti a favorire la trasparenza tra organizzazioni certificate e stakeholders. Il primo accorgimento consiste nel prevedere una partecipazione al Comitato di una pluralità di parti interessate ampia e bilanciata in modo tale che nessuna rappresentanza prevalga sulle altre categorie di parti interessate (ad esempio nel modello CISE sono previsti 10 voti per i rappresentanti delle Imprese, 10 voti per i rappresentanti dei Lavoratori, 10 voti per i rappresentanti delle Istituzioni, 10 per le altre parti interessate indipendentemente dal numero di votanti per ciascuna categoria), il secondo si esplica in una fitta rete di relazioni attivate per la composizione di Dossier Informativi sulle organizzazioni richiedenti la certificazione, nonché nella costituzione e funzionamento dell’Osservatorio S.A.W. nel cui ambito tutti i portatori di interesse possono attivarsi nel ruolo di ‘monitori’ (vd. Capitolo 2.3 - Osservatorio Social Accountability Watch (S.A.W.)). 13
  • 8. La composizione rigorosamente bilanciata del Comitato di Certificazione rappresenta in buona parte la garanzia dell’effettiva imparzialità rispetto agli interessi in gioco; sempre a tale scopo si è rivelata efficace anche l’introduzione di un ulteriore meccanismo migliorativo delle prassi consolidate nei processi di certificazione: ovvero la multilateralità dei sottoscrittori del “contratto di certificazione”. Normalmente infatti tale contratto viene stipulato in modo volontario tra una parte interessata (l’imprenditore o legale rappresentante dell’impresa) ed una tecnostruttura (l’organismo di certificazione) che dovrebbe avere caratteristiche di indipendenza. Nessun altro stakeholder interviene tradizionalmente nei contratti di fornitura dei servizi di certificazione. Tuttavia spesso gli standard a fronte dei quali le certificazioni vengono rilasciate coinvolgono interessi decisamente più ampi e, in alcuni casi, vengono di fatto esclusi dal “contratto di certificazione” stakeholders che potremmo definire addirittura primari. E’ il caso, nel campo della responsabilità sociale d’impresa, della norma SA8000 che, vertendo esclusivamente sul rispetto dei diritti umani fondamentali sui luoghi di lavoro, non può certamente prevedere una esclusione dei lavoratori stessi dalla messa in esercizio di tale sistema di garanzie. Anche in questo caso una soluzione sul piano pratico piuttosto efficace è stata decisamente semplice: CISE non procede all’iter di verifica presso aziende clienti per le quali, sulla cosiddetta ‘domanda di certificazione’ non sia stata apposta la firma di almeno un rappresentante dei lavoratori (rappresentante SA8000 dei lavoratori e/o rappresentanti sindacali) che dimostri di aver condiviso gli obiettivi e la pianificazione aziendale in materia di miglioramento sui requisiti coinvolti in SA8000. Va sottolineato che questa semplice prassi ha portato a risultati eccellenti, nelle oltre 250 imprese ad oggi sottoscrittici di un contratto di certificazione SA8000, in termini di consapevolezza dei lavoratori e di virtuoso funzionamento del sistema SA8000. Purtroppo risulta che CISE è, ad oggi, l’unico organismo di certificazione al mondo ad averla adottata. Al fine di garantire l’affidabilità e la consistenza del processo di verifica vengono investite per la formazione, lo sviluppo delle competenze, l’addestramento, l’aggiornamento, la calibratura, la qualifica ed il monitoraggio continuo delle figure professionali degli auditors, risorse che, ogni anno, non sono inferiori al 10% sul totale dei costi sostenuti per lo svolgimento dell’attività certificativa (dal conto economico); inoltre, durante gli audit viene sistematicamente utilizzata la metodologia CEASAS (o “di valutazione dell’adeguatezza”) sviluppata al fine di garantire l’omogeneità, l’equità e la riproducibilità delle verifiche al variare delle situazioni e dei contesti economici di riferimento. Si tratta di scelte che, lungi dal gettare nel fango tutto il mondo della certificazione volontaria (anzi, cercando di sfruttare e valorizzare al meglio l’importante apparato metodologico e culturale da essa sviluppato negli anni su scala globale) cercano, dall’interno, di riformarlo in modo decisivo con lo scopo di migliorarne quei punti deboli che, in particolare nell’ultimo decennio, lo hanno portato a disaffezioni ormai storiche e verso un diffuso scetticismo tra 14
  • 9. molti operatori economici ed intere categorie di stakeholders. In questo senso la consapevolezza del lungo percorso che ancora ci attende non deve impedirci di guardare con soddisfazione al cammino sin qui compiuto grazie all’entusiasmo ed alla partecipazione dei tanti soggetti (Imprese, Professionisti, Organismi di Certificazione e di Ispezione, Sindacati, ONG, Istituzioni pubbliche e private, Università, Associazioni, …) ai quali rivolgiamo un caloroso ringraziamento e l’auspicio di poter ancora proseguire il cammino insieme. Nella realtà tale cammino, che può non apparire come privo di insidie, è alla portata di tutti; chiunque lo voglia può già oggi partecipare attivamente e costruttivamente al funzionamento di questo sistema fornendo un contributo comunque importante, anche se a volte necessariamente infinitesimale, purché esercitato con consapevolezza ed onestà . Proseguendo (e concludendo) con la citazione di Einaudi: “Il mercato, che è già uno stupendo meccanismo, capace di dare i migliori risultati entro i limiti delle istituzioni, dei costumi, delle leggi esistenti, può dare risultati ancor più stupendi se noi sapremo perfezionare e riformare le istituzioni, i costumi, le leggi, entro le quali esso vive allo scopo di toccare più alti ideali di vita. Lo potremo se vorremo.” Luca Valli Direttore CISE 15