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Presentazione
UN’AVVENTURA UMANA E INTELLETTUALE CHE ANTICIPA LE CATASTROFI DEL
NOVECENTO
«In fondo la tua vecchia creatura adesso è un animale
straordinariamente famoso» scrive Nietzsche alla madre, da
Torino, nel dicembre 1888. Vuole illudere lei e se stesso:
non è vero, nessuno lo conosce, è costretto a pubblicare i
libri a proprie spese. Ma nel 1900, quando muore, ignaro di
tutto dopo il tracollo che lo ha ridotto alla demenza, è
davvero la star che aveva sognato di essere, celebrato da
D’Annunzio e Thomas Mann, messo in musica da Strauss e
dipinto da Munch. Soprattutto, per uno strano sortilegio, la
volontà di potenza sembra uscire dalle pagine dei libri per
farsi storia, dalle tempeste di acciaio della Prima guerra
mondiale alla catastrofe di Hitler a Berlino.
«Io sono Marlow, il testimone secondario. Lui è Kurtz»
scrive Maurizio Ferraris, e risale la vita di Nietzsche come
un fiume – il Congo di Cuore di tenebra o il Mekong di
Apocalypse Now – ripercorrendone i vagabondaggi, tra
l’Engadina e la Riviera, dalla fatale Torino alla Sassonia delle
origini. Così a ogni stazione corrisponde un contenuto di
pensiero – dal dionisiaco all’Eterno Ritorno, dal nichilismo
alla morte di Dio – e insieme uno spaccato della storia
intellettuale del Novecento, tra Jim Morrison e Heidegger, il
¡Viva la muerte! di José Millán-Astray y Terreros e la
rivoluzione desiderante di Deleuze e Guattari, il Super-
Eliogabalo di Arbasino e la scoperta degli antidepressivi.
La fenomenologia dello spirito di una modernità tragica e
rumorosa attraverso la storia di quello che si credeva (e non
del tutto a torto) «il più silenzioso degli uomini».
Maurizio Ferraris (www.labont.it/ferraris) è professore
2
ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Torino, dove
dirige il LabOnt (Laboratorio di ontologia). È editorialista
di «La Repubblica», direttore della «Rivista di Estetica»,
condirettore di «Critique» e della «Revue francophone
d’esthétique». Fellow della Italian Academy for Advanced
Studies (New York), della Alexander von Humboldt
Stiftung e del Käte Hamburger Kolleg «Recht als Kultur» di
Bonn, Directeur d’études al Collège International de
Philosophie, visiting professor alla Ecole des Hautes Etudes
en Sciences Sociales di Parigi e in altre università europee e
americane. Ha scritto una cinquantina di libri tradotti in
varie lingue. Tra i più recenti, Documentalità (2009) e il
Manifesto del nuovo realismo (2012), che hanno avviato un
ampio dibattito internazionale. È in uscita da Bloomsbury la
sua Introduction to New Realism. Da Guanda ha pubblicato
Filosofia per dame (2009) e Anima e iPad (2011).
3
4
MAURIZIO FERRARIS
SPETTRI DI NIETZSCHE
UGO GUANDA EDITORE
IN PARMA
5
Disegno e grafica di copertina di Guido Scarabottolo
ISBN 978-88-235-1045-6
© 2014 Ugo Guanda Editore S.r.l., Via Gherardini 10, Milano
Gruppo editoriale Mauri Spagnol
Prima edizione digitale 2014
6
Qualunque parte di questa pubblicazione può essere
riprodotta in un sistema di recupero dati o trasmessa
in qualsiasi forma, o con qualsiasi mezzo, elettronico
o meccanico, senza autorizzazione, a condizione che
se ne citi la fonte.
Torino, 15 ottobre 1944
Naufragio in riva al Po
A Torino, in via Carlo Alberto 6, giusto all’angolo con
piazza Carlo Alberto, c’è una targa con un bassorilievo che
raffigura Nietzsche, e la scritta seguente:
In questa casa
FEDERICO NIETZSCHE
conobbe la pienezza dello spirito
che tenta l’ignoto
la volontà di dominio
che suscita l’eroe
qui
ad attestare l’alto destino
e il genio
scrisse Ecce Homo
libro della sua vita
a ricordo
delle ore creatrici
primavera autunno 1888
nel I centenario della nascita
la città di Torino
pose
15 ottobre 1944 a. XXII e. f.
La targa fu posta in tempi grami. Io la vedo almeno due
volte all’anno, perché in quella casa c’è lo studio del mio
commercialista, e pago le tasse nella stanza di Zarathustra.
In quello che – dopo le ristrutturazioni imposte da un
bombardamento – è oggi un ufficio pieno di decoro
7
subalpino, finisce in modo assurdo e increscioso la vita
cosciente di Nietzsche, approdato a Torino nell’aprile del
1888 per poi tornarci definitivamente il 20 settembre, dopo
l’estate trascorsa a Sils Maria tentando di portare a termine
la Volontà di potenza (senza venirne a capo). Dico
«definitivamente» perché quando, all’inizio del gennaio
1889, viene riportato a Basilea, Nietzsche è ormai pazzo, e
morirà nel 1900 a Weimar senza saper più nulla di sé («non
sa più nulla, è alto sulle ali», come scriveva Sereni del primo
caduto sulla spiaggia normanna il 6 giugno 1944).
Reduce da un ennesimo scacco, dopo la catastrofe
accademica della Nascita della tragedia, il fiasco dello
Zarathustra, lo scarsissimo interesse suscitato dai tanti libri
pubblicati, Nietzsche aveva tentato la mossa del cavallo:
smembrare il materiale accumulato per la Volontà di potenza
(o Trasvalutazione di tutti i valori, come suona il sottotitolo
spesso promosso a titolo) trasformandolo in piccole opere
eccessive e provocatorie, destinate ad attirare l’attenzione su
di lui. L’idea di Nietzsche è di far tradurre in francese, e poi
in tutte le lingue di cultura, i frutti dell’autunno torinese, e
di conquistare una fama mondiale; poi di pubblicare il suo
capolavoro virtuale, e di dar seguito a una grandiosa (quanto
indeterminata) azione politica.
Vasto disegno. In effetti, sul piano della fama letteraria
qualcosa incomincia a muoversi: Nietzsche stringe un
rapporto epistolare con Strindberg e con Taine, e un
germanista abbastanza noto, Georg Brandes, tiene delle
conferenze su di lui a Copenaghen. Sono piccole cose, di cui
però non smette di gloriarsi, soprattutto in quelle che sono
le lettere torinesi più commoventi e rivelatrici, le poche
scritte alla madre, dove si vanta di avere ammiratori – tra cui
8
«le signore più affascinanti» – a San Pietroburgo e a Vienna,
a Parigi, a Stoccolma, a New York («Ah, se tu sapessi con
quali parole i personaggi più importanti mi esprimono la
loro devozione»). Scrive anche che lui è ora un «animale
famoso», e che tra i suoi lettori ci sono veri geni, e poi che a
Torino sta benissimo, che si è fatto un paltò nuovo
«foderato di seta blu», che si mangia ottimamente e a buon
prezzo.
Questa euforia è in patetico disaccordo con una esistenza
che fa stringere il cuore, fatta di rifiuti da parte degli editori,
isolamento, fondato sospetto che la vita lo abbia messo
definitivamente alle corde. Una desolazione su cui pesa
come una pietra tombale la lettera di Franz Overbeck (a
giusto titolo valorizzata da Walter Benjamin in Uomini
tedeschi) che lo esorta a lasciar perdere, a tornare a
insegnare a Basilea, non all’università, dove non lo
prenderebbero più, ma almeno al ginnasio, magari come
professore di tedesco, perché – aggiunge Overbeck – «è una
di quelle professioni, forse anzi lo è incomparabilmente più
d’ogni altra, per cui negli ultimi anni tu non soltanto non hai
perso tempo, ma ti sei fatto ancora più maturo».
Wittgenstein ha scritto che la filosofia deve aiutare la
mosca a uscire dalla bottiglia. In questo finale di partita
vediamo e quasi sentiamo la mosca che sbatte contro le
pareti della sua prigione. Dall’angolo in cui si è cacciato,
Nietzsche reagisce attaccando Wagner e Cristo, variamente
legati a figure paterne (il maestro di istrionismo, e il padre
pastore protestante), ma anche due nomi tanto più famosi
del suo. Poi ricorre all’eterna strategia del «chi non mi
vuole», i tedeschi, gli editori, oramai anche gli amici e le
amiche di un tempo, «non mi merita». E tenta di farsi nuovi
9
amici e nemici scelti in un pantheon male assortito di
giornalisti, statisti, re, imperatori, criminali, nomi trovati nei
giornali letti al Caffè Fiorio, il suo ultimo approdo di terra.
A un certo punto non si firma più col suo nome, ma con
tanti, tratti dal mito e dalla storia, e dichiara finalmente a
Cosima Wagner il proprio amore.
Aveva ragione sua sorella Elisabeth, Fritz voleva diventare
famoso, e lo desiderava con la stessa mancanza di decoro di
un ammalato di celebrità. Ecco, per esempio, la differenza
rispetto a un altro grande egotista, Baudelaire: non ci sono
schermi dandystici in questo povero superuomo che confida
alla mamma di conoscere delle principesse, o che il suo ex
allievo e fedele copista Heinrich Köselitz (in arte Peter
Gast) si è fidanzato con una aristocratica prussiana che
possiede mezzo Brandeburgo. Possiamo immaginarcelo
senza difficoltà intento ad aprire un blog dopo l’altro, a
chattare con il Vaticano, il Cremlino e la Casa Bianca, a
caricare i propri video su YouTube, ad annunciare a
ripetizione l’uscita dei suoi libri su Facebook chiedendo la
grazia di un «mi piace». «L’ufficio postale è a 5 passi da qui,
imbuco io stesso le lettere per comunicare con i grandi
elzeviristi del grande [sic] monde.»
10
TORINO, 21 DICEMBRE 1888. «IO QUI VENGO TRATTATO COME UN
PICCOLO PRINCIPE»
La gloria millantata e mitizzata attutisce il sospetto della
sconfitta. Alla vigilia della resa dei conti, Nietzsche scrive
alla madre: «In fondo la Tua vecchia creatura adesso è un
animale straordinariamente famoso: non proprio in
Germania, dato che i tedeschi sono troppo stupidi e
ordinari per l’altezza del mio pensiero e hanno sempre fatto
brutte figure di fronte a me, ma da qualsiasi altra parte. Tra i
miei ammiratori ho solo nature elette; tutte persone
altolocate e influenti […]. Ho autentici geni tra i miei
estimatori – non c’è nome, oggi, che venga onorato e
rispettato come il mio. – Vedi, questo è il capolavoro: senza
un nome, senza rango, senza ricchezze, io qui vengo trattato
come un piccolo principe da qualsiasi persona, giù giù fino
alla mia fruttivendola, che non ha pace finché non ha
trovato per me il più dolce tra i suoi grappoli d’uva (che
adesso costa 28 centesimi la libbra)» (21 dicembre 1888).
E agli amici costernati: «Per la traduzione francese [di
Ecce homo] mi avvarrò probabilmente del genio svedese A.
Strindberg […]. Ieri ho spedito il CREPUSCOLO DEGLI IDOLI a M.
Taine con una lettera in cui lo pregavo di interessarsi per
una traduzione francese dell’opera. Anche per la traduzione
inglese ho un’idea» (a Gast, 9 dicembre 1888). «L’opera che
è in stampa adesso si intitola ECCE HOMO. Come si diventa quel
che si è. Uscirà contemporaneamente in inglese, francese e
tedesco. Le lettere che ricevo ultimamente dalla più alta
società di San Pietroburgo, e anche da un autentico genio di
poeta, che è svedese, hanno tutte un afflato di storia
universale, come se il destino dell’umanità fosse nelle mie
mani» (a Paul Deussen, 11 dicembre 1888).
11
Come spesso succede, il tracollo ha luogo in un Wechsel
der Töne, lo «scambio di toni» teorizzato da Hölderlin. C’è
il mito, c’è la filosofia, c’è la vita quotidiana, e su tutto
domina una buona dose di goffaggine professorale. Accanto
al progetto di vivere nell’antica reggia dei Papi («Il mio
indirizzo non lo so più: poniamo che per il momento possa
essere il Palazzo del Quirinale») e di convocare una dieta di
principi per fare fucilare il Kaiser, c’è la vicenda di una stufa
economica ordinata in Germania; accanto alla convinzione
di essere la reincarnazione di Alessandro Magno troviamo la
correzione delle bozze (ne aveva ancora tra le mani quando
Overbeck venne a prenderlo per portarlo in manicomio) e le
lettere ora bellicose ora accomodanti all’editore.
A quest’ultimo suggerisce tirature strepitose, assicurando
che con lo Zarathustra si potrà diventare milionari: «In un
momento in cui la mia vita si trova di fronte a un’immane
decisione e sento gravare su di me una responsabilità per la
quale non ci sono parole, non tollero che si commettano
villanie nei miei confronti. L’editore dello Zarathustra! Del
primo libro di tutti i millenni! In cui è racchiuso il destino
dell’umanità! Che di qui a pochi anni verrà diffuso in
milioni di esemplari!… Non appena uscirà Ecce homo sarò il
primo tra i viventi. […] Non pretenderò mai onorari, questo
rientra nei miei princìpi; ma vorrei che Lei partecipasse
pienamente al successo, alla vittoria dei miei scritti. – La
Trasvalutazione di tutti i valori sarà un evento senza pari,
non di tipo letterario, ma di quelli che faranno tremare tutto
ciò che esiste – è possibile che cambi il computo del tempo
–» (26 novembre 1888).
È in questo clima che, ai primi di dicembre 1888, abbozza
una lettera destinata a Guglielmo II: «Con questa lettera
12
rendo all’Imperatore dei tedeschi il più grande onore che gli
si possa tributare, e che tanto più ha peso in quanto devo
superare la mia profonda avversione per tutto ciò che è
tedesco; gli porgo in mano la prima copia della mia opera, in
cui si annuncia l’approssimarsi di un qualcosa di immane –
una crisi come non si era mai vista sulla terra, la più
profonda collisione di coscienze all’interno dell’umanità, un
verdetto emesso contro tutto ciò che si era creduto, che si
era preteso, che si era consacrato».
Il 3 gennaio 1889 si dice che abbia abbracciato un cavallo
frustato dal vetturino, ma ci sono buoni motivi per ritenere
che si tratti di una leggenda, sia perché riecheggia il sogno di
Raskol’nikov in Delitto e castigo, sia perché la sua prima
attestazione risale a un articolo apparso sulla «Nuova
Antologia» uscito tre settimane dopo la morte di Nietzsche,
il 16 settembre 1900, e ormai in un clima favorevole
all’agiografia: «Un giorno, mentre il signor Fino percorreva
la vicina via Po […] vide un gruppo di gente che si avanzava
ed in mezzo ad esso due guardie civiche che
accompagnavano ‘il professore’. Tosto che lo scorse si gettò
nelle braccia del signor Fino, il quale ottenne facilmente la
liberazione dalle guardie, che raccontarono di aver trovato
quel forestiero oltre i portici dell’università, fortemente
abbracciato al collo di un cavallo da cui non voleva
divincolarsi».
13
NAPOLI, 25 AGOSTO 1900. PER LA MORTE DI UN DISTRUTTORE
Mentre la nobile muffa d’Europa
di Pau, Bayreuth ed Epsom si nutriva,
lui abbracciava due ronzini,
finché il padrone non lo trasse a casa.
Nei versi di Gottfried Benn i cavalli si moltiplicano, al
passo della fama dell’immemore. Chi scriveva da Torino era
un pensionato in preda a una debordante crisi di mezza età,
che aveva perso tutti i suoi amici e non era conosciuto da
nessuno. Però quando quest’uomo muore nel 1900 è già una
celebrità mondiale, con una leggenda aurea alimentatasi nel
tempo, che oggi culmina con milioni di citazioni su Google,
ma che è già attestata nei 491 versi di D’Annunzio, Per la
morte di un distruttore. F. N. XXV AGOSTO MCM, nei
quali, narrandosi i pellegrinaggi italiani di Nietzsche,
«Cuma» fa rima con «fuma» (riferito al Vesuvio). Ancora
pochi anni e quest’uomo che incarna la disgrazia omerica,
«senza famiglia, senza legge, senza focolare», sarebbe stato
tradotto in tutte le lingue, citato alla Camera da Mussolini,
letto da generazioni di intellettuali e politici,
prevalentemente di destra, per poi diventare un anomalo
eroe di sinistra.
Nel 1940, al valico di confine di Portbou, Benjamin, in
fuga dalla Francia occupata dalla Wehrmacht, si era
suicidato temendo di non riuscire a rifugiarsi in Spagna, e il
giorno dopo lasciarono passare tutti quelli che erano con lui.
Qualcosa del genere accadde a Nietzsche. Impazzito per
l’indifferenza riservatagli dai contemporanei, quando ha
dimenticato tutto, quando le parole «fama» o
«D’Annunzio» non possono più dirgli niente, diventa
14
l’uomo celebre che aveva sempre sognato di essere.
Cadendo nella pazzia conclamata nei primi giorni del 1889,
dopo un Natale e Capodanno trascorsi in una stanza
d’affitto a raccontarsi di stare benissimo e di essere Dioniso
e Alessandro Magno, Nietzsche non ebbe mai modo di
sapere quanto aveva ragione. Sì, aveva davvero fatto un
capolavoro, anzi un miracolo.
La fama nasce e cresce mentre l’idiota è immemore e
periodicamente esibito su un podio a ciò predisposto a
Weimar (come il Cristo nella tomba di Hans Holbein il
Giovane che Dostoevskij aveva visto nel 1867 a Basilea,
giusto due anni prima che ci arrivasse Nietzsche, e di cui
tanto si discute nell’Idiota). A Vienna viene fondata una
associazione nietzschiana e nel 1898 Richard Strauss (che
l’anno successivo si reca in visita all’Archivio, dunque vede
Nietzsche senza che lui sappia chi è) compone il poema
sinfonico Così parlò Zarathustra. Per restare a una scelta
delle pubblicazioni che avvengono Nietzsche vivente, oltre
alle conferenze di Brandes, stampate nel 1890 – anno in cui
viene pubblicata, e sia pure in danese, la biografia di Ola
Hansson – appaiono la monografia di Lou Salomé (1894) e,
nel 1895, il primo volume della bio-agiografia scritta dalla
sorella Elisabeth in cui (per riprendere il giudizio di
Nietzsche sul Nuovo Testamento nel paragrafo 52 di Al di là
del bene e del male) si sente il «caratteristico odore
dolciastro e stantio proprio dei baciapile e delle anime
grette». Sempre del 1895 è il libro di Rudolf Steiner, in cui
Nietzsche viene definito un «combattente contro il proprio
tempo», nel 1899 quello (in francese) di Henri
Lichtenberger sull’idea di trasvalutazione e, nel 1900, il
saggio di Julius Zeitler sulla estetica nietzschiana. Non
15
sorprende che, già nel 1897, Tönnies si fosse trovato a
stigmatizzare il culto di Nietzsche. Stupisce, casomai, che
quest’aura mitologica si fosse diffusa tanto in fretta, per
propagarsi in un crescendo nel nuovo secolo, quando
Nietzsche è esaltato da filosofi entusiasti come Weininger o
Papini, ma anche da filosofi sobri e professorali come
Vaihinger, e strappa una inaspettata approvazione anche a
Croce, che nel 1907 recensisce la traduzione italiana della
Nascita della tragedia vedendoci «un libro scientifico sì
nell’assunto ma circonfuso d’arte».
In pochi anni, Nietzsche passa dal salon des refusés alla
notte degli Oscar. E milionari, con lo Zarathustra, lo
divennero per davvero la sorella di Nietzsche, Elisabeth, con
le edizioni postume, e Strauss con la versione in musica
portata in tournée da Philadelphia a Manaus per poi finire
in orbita come colonna sonora in 2001 Odissea nello spazio.
Mentre la figura dell’eroe dolente sarà dipinta da Munch (il
quadro, primo di una interminabile serie di icone, è del
1906) e raccontata in decine di biografie in Germania,
Francia, Italia, America, la letteratura tedesca, e poi
mondiale, si impossessa di Nietzsche (Stefan George,
Hoffmansthal, Rilke, Gide, Musil…) sino alla consacrazione
del Doctor Faustus di Thomas Mann. In un mondo in cui la
volontà di potenza, per uno strano sortilegio o piuttosto per
una necessità storica, sembra uscire da un libro mai scritto
per trasformarsi in una tempesta d’acciaio, le teorie giovanili
su apollineo e dionisiaco nutriranno non solo le
performance di Hermann Nitzsch, ma anche (lo vedremo) la
poetica di Jim Morrison, il leader dei Doors, e risuonano nel
rito finale della uccisione di Kurtz in Apocalypse Now, che –
in un modo che non potrebbe essere più nitzschiano e
16
nietzschiano – combina la Cavalcata delle Valchirie con The
End, cioè appunto la Bayreuth di Wagner e la Los Angeles
di Morrison.
Questo miracolo ricorda il «miracolo della casata
Brandenburg», la morte della Zarina che salvò Federico il
Grande dalla disfatta e ne decretò il trionfo, tranne che qui
la grazia è a scoppio ritardato. Non è chiaro se, alla luce
dell’etica protestante, questa elezione avvenuta con un
décalage lievissimo e fatale sia segno di una speciale
indulgenza divina, perché l’approvazione del mondo giunta
con un soffio di ritardo ha già incorporato e superato il
naufragio circonfondendolo di una luce mistica. O se sia
l’indizio di una dispettosa ironia teologica, quella di cui si
lamenta Borges quando osserva che dio gli ha dato insieme
la direzione della Biblioteca di Buenos Aires e la cecità. Ma
il miracolo era nelle cose: Nietzsche, con una sensibilità che
nessuno può avergli insegnato, ha messo in atto una
strategia destinata a stravincere, e che applica con pazienza e
puntiglio negli anni dell’oscurità e del misconoscimento:
prende un po’ di tutto dalle idee correnti del suo tempo,
specie le più radicali, poi le rielabora e le critica imputando
loro una mancanza di radicalità. Risultato: il positivismo è
troppo fiducioso nei fatti, il razionalismo dei professori
troppo ottimista, il darwinismo non è abbastanza spietato
nel descrivere la lotta per la vita, il cristianesimo ha
dissimulato la volontà di potenza che si portano dentro gli
ultimi.
L’ingresso in filosofia della funzione-Nietzsche precede di
una frazione di secondo non solo il riconoscimento da parte
dei potenziali funtori, ma anche – se prendiamo come scala
di riferimento duemilacinquecento anni di storia della
17
filosofia – l’esplosione della società di massa, del cinema,
della radio, e dei regimi totalitari. Questa funzione, che
consiste nel radicalizzare, nell’estremizzare, giungendo alla
massima tensione e di lì al paradosso, segue una logica
mediatico-avanguardistica poi diventata corrente in filosofia.
Tutto è già scritto in Ecce homo, in cui Nietzsche si racconta
al pubblico con la stessa automitizzazione e mancanza di
riservatezza che impone lo star system. Proprio come
farebbe un «theorist» postmoderno, Nietzsche indirizza i
suoi libri non ai colleghi, ma a una umanità ampia e
indeterminata: tendenzialmente, alla stessa che si dava
appuntamento a Bayreuth per l’esecuzione integrale
dell’Anello del Nibelungo, e che poi si sarebbe trovata a
Woodstock a sentire Jimi Hendrix e Janis Joplin. Una
umanità che va anzitutto scandalizzata, stupita, e fidelizzata
con la garanzia che ogni singolo lettore è il destinatario
esclusivo di un messaggio sapienziale: che la virtù è solo una
forma di volontà di potenza, che i concetti non sono che
antiche metafore, che il tempo ritorna circolarmente, che
non ci sono fatti, solo interpretazioni.
È con questi ingredienti che Nietzsche ha creato la
mitologia condensata nel sottotitolo dello Zarathustra,
prototipo di milioni di promozioni pubblicitarie «per molti
ma non per tutti»: un libro per tutti e per nessuno. Un libro
per tutti, una specie di pensiero debole nel senso nobile del
termine, cioè (scrive Roberto Bolaño) un pensiero «per
gente che appartiene alle classi deboli», un poema in prosa
che, con una infaticabile volontà pedagogica e mistagogica,
trasforma il logos in mythos, in narrazione e in religione. E
insieme un libro che teorizza l’ascesi, l’unicità, il sacrificio,
l’eroismo, cioè, come recita la lapide di via Carlo Alberto,
18
«la volontà di dominio che suscita l’eroe». Come
puntualmente accadrà con lo Zarathustra, di cui nella Prima
guerra mondiale viene stampata una speciale edizione, per
suggerire – se non agli operai e ai contadini mandati in
trincea per sottoporsi a uno sterminio industriale, almeno ai
loro ufficiali – l’opportunità di sentirsi «una corda tesa tra la
bestia e il superuomo».
Ma fuori delle trincee la volontà di potenza è anzitutto
volontà di presenza e ansia di riconoscimento. Nietzsche
coglie, esprime e anzitutto incarna una caratteristica
essenziale della modernità, l’aspirazione collettiva a essere
straordinari, la ricerca universale di distinzione e di
superiorità, l’esigenza fisica di dar voce a questa unicità, di
esprimerla, di urlarla (sappiamo quanto ha urlato quello
che, forse non a torto, si era autodefinito come «il più
silenzioso tra gli uomini») e, oggi, di postarla. È un po’
come se, nella Fenomenologia dello spirito, il servo accettasse
di continuare a servire, a patto di diventare famoso quanto o
più del signore. È il paradosso del superuomo di massa, già
in atto quando Andrea Sperelli, il miserabile eroe del
Piacere, sputa fiele sui caduti di Dogali definendoli
«quattrocento bruti, morti brutalmente!». Il mondo di
Zarathustra è il mondo dei poveri superuomini che
esibiscono tutto di sé sui social network. O, per risalire a
una fase appena precedente, si pensi a tutte le persone (anzi,
i personaggi, come si dice così esattamente) fotografati sulle
copertine dei settimanali di pettegolezzi. Il superuomo rivela
così, insieme, la sua comicità e la sua malinconia: tutti
famosi per quindici minuti e, ora, infami per l’eternità, per
una battuta infelice o stupida registrata e ritrasmessa urbi et
orbi sul World Wide Web. Senza trascurare il fatto che i
19
media sono stati anche più aperti e lungimiranti di
Nietzsche, perché hanno creato non solo il superuomo, ma
anche la superdonna, da Marilyn Monroe a Madonna a
Lady Gaga. Come diceva Baudelaire nella dedicatoria delle
Fleurs du Mal? «Hypocrite lecteur, – mon semblable, – mon
frère!»
20
TORINO, 6 GENNAIO 1889. «IN FONDO IO SONO TUTTI I NOMI DELLA
STORIA»
Con l’acuirsi della mitomania primaria se ne fa avanti
un’altra, di secondo livello, un grande delirio teologico
degno del Presidente Schreber, le cui Memorie di un malato
di nervi, che incantarono Freud e Jung, risalgono del resto al
1903. Nietzsche incomincia a firmarsi «Dioniso» e «Il
Crocifisso», ossia prende i nomi dei due redentori
dell’umanità e insieme dei due grandi sacrificati; proprio per
questo, nella sua sfida contro il cristianesimo, l’Anticristo
non può non dirsi cristiano. Nel 1910 uscirono dai Fratelli
Bocca di Torino due Ecce homo. Il primo era quello di
Nietzsche, l’altro era quello di Sir John Robert Seeley
apparso in forma originariamente anonima nel 1866, in cui
lo storico e saggista inglese, sebbene educato al Christ’s
College di Cambridge, attaccava Cristo vedendoci il
fondatore di uno stato teocratico. Ben diverso, e soprattutto
sinceramente identificatorio, è il trattamento riservato a
Cristo dall’ultimo Nietzsche, che si sente anche lui un
creatore di valori e un messia, e che culmina nella patetica
corrispondenza tra la definizione di Cristo come «L’idiota
sulla croce» nei Frammenti postumi del 18881889 e
l’autocrocifissione del crollo torinese.
La mitologia alla seconda potenza, teologica e sacrificale,
trova la sua più alta testimonianza nella lettera a Jacob
Burckhardt del 6 gennaio 1889: «Caro signor professore,
alla fine sarei stato molto più volentieri professore basileese
che dio; ma non ho osato spingere così lontano il mio
egoismo privato da omettere, per causa sua, la creazione del
mondo. Come vede, bisogna fare sacrifici, comunque e
dovunque si viva. […] Quel che è sgradevole e nuoce alla
21
mia modestia è il fatto che in fondo io sono ogni nome nella
storia; anche per i figli che ho messo al mondo le cose
stanno in modo tale che rifletto con una certa diffidenza se
tutti quelli che vengono nel ‘regno di dio’ vengano anche da
dio. Per due volte, questo autunno, mi sono trovato, vestito
il minimo possibile, ai miei funerali, la prima volta come
conte Robilant (no, questi è mio figlio, in quanto io sono
Carlo Alberto, la mia natura sotto) ma Antonelli ero proprio
io. Caro signor professore, dovrebbe vedere questo edificio;
giacché sono assolutamente inesperto nelle cose che creo, a
Lei è permessa qualsiasi critica, e io sono grato senza poter
promettere di trarne vantaggio. Noi artisti siamo
incorreggibili. Oggi mi sono visto un’operetta genial-
moresca; per l’occasione ho constatato con compiacimento
che adesso Mosca e anche Roma sono cose grandiose. Come
vede, non mi si nega del talento nemmeno per il paesaggio.
Pensi un po’, potremmo fare una bellissima chiacchierata.
Torino non è lontana, per ora non ci sono seri impegni
professionali, sarebbe possibile procurare una bottiglia di
vino della Valtellina. È prescritto il négligé. Con cordiale
affetto, Suo Nietzsche». E ancora, a mo’ di poscritto: «Vado
dappertutto nel mio vestito da studente. Ogni tanto batto
sulla spalla a qualcuno e dico: siamo contenti? son dio, ho
fatto questa caricatura… Domani viene mio figlio Umberto
con la graziosa Margherita, che però riceverò ugualmente in
maniche di camicia… […] Di questa lettera può fare
qualsiasi uso che non diminuisca la mia considerazione
presso i basileesi».
Le cause di una follia non sono mai chiare, e Nietzsche
non fa eccezione. Ereditarietà, forse sifilide contratta in
giovinezza (pare nel 1866, secondo una confidenza fatta
22
all’amico Paul Deussen e trasfigurata nello Zarathustra, «Tra
le figlie del deserto»), forse abuso di farmaci, forse,
semplicemente, un orrore in cui avremo spesso modo di
imbatterci. Se le avvisaglie del male fossero da registrarsi sin
dal 1881-1882 (come sostennero Möbius nel 1902 e Benda
nel 1925), tutta la parte più impegnativa della riflessione
nietzschiana risulterebbe patologicamente condizionata.
Questa impostazione può assumere versioni meno
trancianti, come quella del principale biografo di Nietzsche,
Curt Paul Janz, per il quale solo gli scritti dell’ultimo anno
sarebbero da considerarsi come «post-filosofici»; se
viceversa si assume che la follia irrompa tra il 28 dicembre
1888 e il 3 gennaio 1889, come propone Karl Jaspers nel suo
libro del 1936, solo i biglietti della follia esulerebbero dal
pensiero: ma ci rientrerebbero a pieno titolo se, con Michel
Foucault, si decidesse che la follia interviene solo con la
totale cessazione dell’opera.
Poco dopo la lettera a Burckhardt anche i biglietti
finiscono, e subentra lo stato che Overbeck, venuto a
recuperarlo a Torino, descrive il 15 gennaio 1889 in una
lettera a Peter Gast: «Scorgo Nietzsche rannicchiato
nell’angolo di un sofà, intento a leggere, terribilmente
emaciato; egli mi vede a sua volta e mi si precipita incontro,
mi abbraccia vigorosamente, riconoscendomi, e scoppia in
un mare di lacrime, poi si lascia cadere nuovamente sul sofà,
scosso da sussulti, mentre anch’io per l’emozione non riesco
più a stare in piedi. Forse proprio in quell’attimo gli si
spalancò davanti l’abisso sul cui ciglio ora si trova, o dove
piuttosto è già precipitato? In ogni modo, una cosa del
genere non si ripeté più. […] Era entrato nel mondo delle
sue allucinazioni, dal quale non è più uscito finché l’ho
23
avuto sotto gli occhi, mantenendosi sempre lucido riguardo
a me e in genere alle altre persone, totalmente ottenebrato
riguardo a se stesso. Vale a dire che, stando al pianoforte,
dove cantava a gola spiegata in preda alla frenesia ed
esaltandosi sempre più, prorompeva in squarci di quel
mondo di idee in cui era vissuto negli ultimi tempi,
lasciando intendere nel contempo, con brevi frasi
pronunciate in un tono smorzato indescrivibile, cose
sublimi, di mirabile chiaroveggenza e di indicibile orrore, su
se stesso come successore del dio morto, accompagnandole
con una sorta di interpunzione al pianoforte, al che
seguivano nuovamente convulsioni e accessi di una
indicibile sofferenza; ma, come già detto, ciò avveniva solo
in rari momenti passeggeri, finché almeno io fui presente,
mentre nel complesso prevalevano le dichiarazioni relative
alla missione che si attribuisce, quella di essere il pagliaccio
delle nuove eternità, e lui, l’incomparabile maestro
dell’espressione, non era in grado di rendere nemmeno le
estasi della sua gaiezza se non con le espressioni più triviali,
ovvero scurrilmente ballando e spiccando balzi».
Il 10 gennaio 1889 Nietzsche viene ricoverato nella clinica
Friedmatt di Basilea, da cui riparte il 17, insieme alla madre,
contro cui pare avesse inveito sul treno da Torino.
Dall’anamnesi di Basilea: «Il paziente giunge alla clinica
accompagnato dai signori professori Overbeck e Miescher.
Si lascia condurre nel reparto senza resistenza, durante il
tragitto si duole che qui noi abbiamo un tempo così cattivo,
dice: ‘Brava gente, domani voglio farvi un tempo
splendido’». È l’allegria dei naufragi, di Artaud, di Van
Gogh, di Hölderlin, o di Céline.
24
VAL SAN MARTINO, 25 APRILE 1911. HARAKIRI
«Bene navigavi, cum naufragium feci» è un detto che
Nietzsche elegge a propria regola di vita. Senza allontanarsi
dalle rive del Po, questo naufragio ne ricorda un altro,
quello di Emilio Salgari, approdato a Torino nel 1893, cioè
poco dopo che Nietzsche se ne è andato, e che nel 1911 si
suicida facendo harakiri con gli occhi rivolti al sole che
sorge in Val San Martino, sulla collina torinese. Cioè si
sacrifica mettendo in scena uno dei suoi romanzi e insieme
prendendo atto della realtà non romanzesca del suo
fallimento. Lascerà scritto ai figli Fatima, Nadir, Romero,
Omar (nomi non meno lunari di Zarathustra): «Sono un
vinto: non vi lascio che 150 lire, più un credito di altre 600».
Nietzsche e Salgari, questi due forzati della scrittura, sono
accomunati dalla totale mancanza di difese e di cinismo, che
li fa affogare nei loro stessi miti. È così che affiora una
parentela non troppo segreta tra l’uomo che passeggiando
sulle rive del Po fantastica di essere Dioniso e l’uomo che
poco dopo e pochissimo lontano scriverà di Tremal Naik e
di Yanez su un tavolo con una gamba più corta, per imitare
il beccheggio di un praho.
Nietzsche-Zarathustra si raffigura Wagner come il
Minotauro e sua moglie Cosima come Arianna: «Alla
principessa Arianna, la mia amata. È un pregiudizio che io
sia un uomo. Tra gli indiani sono stato Buddha, in Grecia
Dioniso – Alessandro e Cesare sono le mie incarnazioni». E
Salgari-Sandokan si dichiara a Marianna: «‘Mia! Tu sei
mia!’ esclamò egli delirante, fuori di sé. ‘Parla ora o mia
adorata, dimmi cosa io posso fare per te, che tutto mi è
possibile. Se vuoi andrò a rovesciare un sultano per darti un
regno, se vorrai essere immensamente ricca io andrò a
25
saccheggiare i templi dell’India e della Birmania per coprirti
di diamanti e di oro; se vuoi mi farò inglese’».
26
CONGO, 1902. «HE HAD SUMMED UP – HE HAD JUDGED. ‘THE
HORROR!’»
Continuava Sandokan: «Parla, dimmi ciò che vuoi;
chiedimi l’impossibile e io lo farò. Per te mi sentirei capace
di sollevare il mondo e di precipitarlo attraverso gli spazi del
cielo». Nell’iperbole, nel sacrificio senza riserve, nel giocarsi
il tutto per tutto, anche Nietzsche si impegna, da solo e, per
così dire, a mani nude, in una guerra totale. E a questo
punto, letteralmente,
Non sa più nulla, è alto sulle ali
il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna.
Per questo qualcuno stanotte
mi toccava la spalla mormorando
di pregar per l’Europa
mentre la Nuova Armada
si presentava alle coste di Francia.
Come in Proust convivono due pittori, il Maestro
dell’Esprit de Guermantes, attento alle sfumature, alle
conversazioni e alle cattiverie sociali, e il Maestro dei
Biancospini, pieno di sensibilità primarie, di buone
intenzioni e di buone intuizioni, così in Nietzsche coabitano
due movimenti, due mani, due maestri. Il Maestro della
Volontà di potenza, il virtuale inquilino del Walhalla,
l’uomo che gode della guerra e dei tramonti è dispersivo ed
esplosivo: io sono tutti i nomi della storia, The Way of All
Flesh, Uno nessuno centomila, Here Comes Everybody, non
ci sono soggetti ma solo punti di forza, monadi di potenza in
lotta. Qui vivere è fabbricare maschere, portarsi fuori del
proprio ambiente sociale di provenienza, spiare il momento
in cui lo spirito del tempo si volgerà verso l’oltreuomo e lo
27
riconoscerà. O anche semplicemente rassegnarsi alla malora
e al crollo, vedendo nella rovina l’affermazione di una
giustizia cosmica, di una volontà che vanifica e ridicolizza
ogni volere individuale, d’accordo con la metafisica di
Schopenhauer.
Il Maestro dell’Eterno Ritorno procede in senso inverso e
detta il capitolo di Ecce homo «Perché sono una fatalità». È
lui che nell’incipit di questo libro non meno smisurato della
lettera a Burckhardt, scrive: «Come mio padre sono già
morto, come mia madre vivo ancora e invecchio». Se il
Maestro della Volontà di potenza, seguendo una pulsione
che potremmo chiamare di eros, si spinge
all’autoaffermazione e alla catastrofe, il Maestro dell’Eterno
Ritorno, radicalizzando la pulsione di morte o quantomeno
l’ansia di controllo, vuole trasformare il contingente in
necessario. Tutto tornerà eternamente, e dopo la vita ci sarà
altra vita, insperata e uguale, perché ogni cosa ha già avuto
luogo, e il futuro non è meno immutabile del passato. Può
essere una immagine deprimente, ma in realtà è una grande
promessa e una infinita consolazione, perché ci solleva dalla
fatica e dalla vanità del titanismo che tormenta il Maestro
della Volontà di potenza.
Su tutto, però alla fine, domina l’orrore, l’«indicibile
orrore» di cui parla Overbeck nella lettera da Torino,
preciso e identico a quello di Cuore di tenebra. Un orrore
che in Nietzsche è pensato e subìto invece che agito, e anche
temuto, desiderato, profetizzato, evocato e scongiurato:
«Una sera, mentre stavo entrando con una candela, trasalii
sentendogli dire con voce tremula: ‘Sono qui sdraiato nel
buio ad aspettare la morte’. La luce era a una spanna dai
suoi occhi. Io mi sforzai di mormorare: ‘Oh sciocchezze!’, e
28
rimasi lì impalato vicino a lui.
«Non avevo mai visto prima una cosa simile al
cambiamento che si produsse nei suoi lineamenti, e spero di
non rivederla mai più. Oh, non m’impressionava. Ne ero
affascinato. Era come se un velo si fosse strappato. Vidi su
quel volto d’avorio l’espressione dell’orgoglio cupo, del
potere spietato, del terrore vile – della disperazione
immensa e senza speranza. È possibile che in quel momento
supremo di conoscenza assoluta stesse rivivendo la sua vita
in ogni dettaglio di desiderio, tentazione e resa? Sussurrò
rivolto a una qualche immagine, a una qualche visione –
gridò per due volte qualcosa che non era più che un rantolo:
‘L’orrore! L’orrore!’»
29
BONN, 25 AGOSTO 2013. IL TESTIMONE SECONDARIO
In questo momento sto scrivendo da Bonn, dove
Pirandello, nel 1891, si è laureato con una tesi su La parlata
di Girgenti, e dove Goebbels, tra il 1917 e il 1918, ha
frequentato la facoltà di filosofia, appassionandosi ai
romantici tedeschi. Nietzsche si era iscritto alla Università di
Bonn nel 1864 per studiare prima teologia, poi filologia, ma
se ne era andato via l’anno dopo, alla volta di Lipsia, «come
un fuggiasco», al seguito del suo professore, Friedrich
Ritschl. Se il Maestro dell’Eterno Ritorno ha ragione, una
necessità geologica e geografica prima ancora che storica
guida la vita di Nietzsche, che non poteva non impazzire
nello studio del mio commercialista, così come non poteva
non nascere a Röcken, né astenersi dal fare il turista o
l’anima in pena tra la Svizzera e la Riviera.
Con gli anni, mi sono reso conto di essere stato in quasi
tutti i posti in cui ha soggiornato Nietzsche, oltre a essere
nato, cresciuto e invecchiato nella città in cui «conobbe la
pienezza dello spirito che tenta l’ignoto». Stargli dietro non
è facilissimo, ma nemmeno troppo difficile. Nietzsche fu il
primo filosofo a fare del turismo nel senso moderno: molti
spostamenti, soggiorni anche relativamente brevi, piccole
vacanze, e attenzione al portafogli. Del resto, dopo il
pensionamento da Basilea nel 1879 (cioè a trentacinque
anni), che scelta gli restava? Tornare a Naumburg da sua
mamma? «Fossi matto»: e infatti ci tornò definitivamente
solo dopo la crisi del 1889, dopo averci passato un inverno
spaventoso una decina d’anni prima. Nella villeggiatura
forzata e, nella maggior parte dei casi, solitaria, Nietzsche
più che altro passeggiava, anche perché si stancava presto gli
occhi e più di tanto non poteva leggere né scrivere. La
30
madre gli mandava dei prosciutti che lui teneva in fresco
avvolgendoli in un asciugamano umido (si trattava infatti di
un tipo speciale di prosciutto, il Lachsschinken, cioè,
potremmo dire, «prosciutto salmonato», roseo e
delicatissimo), lui andava in giro con un ombrello a tracolla,
per avere le mani libere casomai dovesse prendere appunti,
e, nonostante i tanti turbamenti del corpo e dello spirito,
finiva per apparire muscoloso e abbronzato.
Gli itinerari del decennio ’79-’89 possono essere ripetuti
senza difficoltà anche oggi, sebbene a prezzi che il
pensionato di Basilea (che dai suoi 3000 franchi annui
doveva detrarre i soldi per la pubblicazione dei suoi libri)
non potrebbe più permettersi. Nietzsche detestava la
Germania e (a parte cinque settimane a Lipsia, nell’autunno
1882), non ci tornò se non molto sporadicamente, a Baden-
Baden (prima delle dimissioni), e poi a Marienbad e a
Tautenburg. Progettò anche di andare a Parigi e a Vienna,
con Lou Salomè e Paul Rée, però non se ne fece niente, e la
sola capitale in cui soggiornò un paio di volte – tranne
qualche fugace visita a Berlino – fu Roma.
In generale, l’Italia fu la meta preferita. Qualche città
d’arte, come Venezia (imitando Wagner) e Firenze (un mese
nell’autunno 1885, ospite di un ammiratore, Paul Lanzky,
che però presto Nietzsche non sopportò più), e all’inizio il
meridione, ancora come Wagner, talvolta con qualche
correzione (ad esempio, andò a Sorrento invece che a
Ravello). Più tardi prevalse la riviera: Nizza, da poco
francese, con passeggiate sino alla vicina Villefranche-sur-
Mer, dove conobbe Joseph Paneth, un giovane biologo
viennese che fu il primo a parlare di lui a Freud; Rapallo,
dove giunse sopraffatto dalla fine della vicenda con Lou e
31
compose parte dello Zarathustra; Ruta, sopra Camogli, dove
c’è la galleria che passa sotto il Monte di Portofino e
conduce a Santa Margherita e a Rapallo (e da «Ruta di
Genova» è datata la prefazione di Aurora).
Questo d’inverno (una volta passò anche per Riva del
Garda). Nelle mezze stagioni gli capitò di andare a Stresa,
Cannobio, a Orta; ma anche a Recoaro e a Vicenza. D’estate
preferiva la Svizzera, e qui la villeggiatura più nota è Sils
Maria, non lontano da Davos; la casa in cui affittava una
stanza è oggi riconoscibile perché nel prato antistante c’è
una statua con un’aquila, ed è una foresteria per studiosi
nietzschiani. Ma all’inizio, anche prima del pensionamento,
era stato a Rosenlauibad, nello Oberland bernese, a
Interlaken e a Bad Ragaz – dove, qualche decennio prima,
villeggiava, vecchissimo e visionario, Schelling, che difatti è
seppellito nel locale cimitero, con tanto di lapide dettata dal
re di Baviera: «Al più grande filosofo di Germania». Si trovò
bene a St. Moritz; malissimo invece a Lenzerheide, dove, in
una stanza troppo umida, compose il frammento sul
nichilismo europeo su cui torneremo più avanti. Tutto
sommato, delle scelte ben poco zarathustriane
(diversamente da quelle di sua sorella Elisabeth, detta «Il
Lama», che finì in Paraguay, sebbene non per turismo, bensì
perché animata dal proposito di fondare col marito una
colonia di pura razza tedesca), con due eccezioni rispetto
agli itinerari più battuti: Genova, e la fatale Torino.
Risaliamo la sua vita come un fiume. Io sono Marlow, il
testimone secondario. Lui è Kurtz.
32
Sils Maria, 26 agosto 1888
Volontà di potenza
Da Torino torniamo indietro a Sils Maria, dove
soggiornarono, oltre a Nietzsche, Proust e Hermann Hesse,
Thomas Mann e Rainer Maria Rilke, Karl Kraus e Ernst
Robert Curtius. Theodor Wiesengrund-Adorno ci trascorse
tutte le estati tra il 1955 e il 1966 con la moglie, al Grand
Hotel Waldhaus, manifestazione sensibile del «Grand Hotel
Abisso», cioè degli astratti turbamenti etico-politici dei
francofortesi su cui ironizzava Lukács. Una volta lo andò a
trovare anche Paul Celan, scortato da Peter Szondi, e scrisse
«Gespräch im Gebirg», una prosa sulla identità ebraica.
Nietzsche affittava una stanza lontanissima dai lussi del
Waldhaus. Qui, il 26 agosto 1886, compose quello che
solitamente viene considerato l’ultimo piano della Volontà
di potenza, un’opera mai esistita in quanto tale, e che
insieme è stata uno dei libri (e degli slogan) più influenti nel
secolo scorso.
33
NAUMBURG, GENNAIO 1889. IL FANTASMA DELL’OPERA
Dopo il crollo, il 19 gennaio 1889 Davide Fino, il padrone
di casa torinese, spedisce ai familiari di Nietzsche un baule
contenente i suoi effetti personali, i libri, e i quaderni di
appunti. Tutti pensano (e molti, come Overbeck, temono)
che nel baule torinese ci fosse la Volontà di potenza (o, titolo
o sottotitolo alternativo, la Trasvalutazione di tutti i valori).
Non trovando che appunti, i curatori in pectore
suppongono che l’opera sia da qualche altra parte, o che sia
andata persa. In effetti, Nietzsche, nelle lettere degli ultimi
mesi di vita cosciente, aveva lasciato intendere ai suoi
corrispondenti di avere compiuto la sua «opera principale»,
ma, lo abbiamo visto, le cose andarono altrimenti. A
ricostruire congetturalmente l’opera, partendo dagli
appunti, ci penseranno gli eredi, quasi che il libro maledetto
cercasse a tutti i costi di venire alla luce, incurante del
fallimento e persino della morte del suo autore.
Nel 1901 esce la prima edizione della Volontà di potenza,
a cura di Ernst e August Horneffer e di Peter Gast, con una
prefazione di Elisabeth. Comprende 483 pseudoaforismi e
costituisce il volume XV della cosiddetta Großoktavausgabe,
l’«edizione in ottavo grande». La disposizione dei materiali
è tematica e non cronologica. Nel 1903, come volume XIII
della Großoktavausgabe, curato da Peter Gast e da August
Horneffer, appaiono – questa volta, ordinati
cronologicamente – i frammenti postumi 1882/3-1888 sotto
il titolo generale «Dal periodo della Trasvalutazione». Altri
ne seguiranno l’anno dopo, nel volume XIV, curato da Gast
(che firma anche la prefazione) e da Elisabeth. Quest’ultima,
il 15 ottobre 1904, sessantesimo anniversario della nascita di
Nietzsche, pubblica il secondo tomo del secondo volume
34
della vita del fratello; due capitoli sono dedicati alla Volontà
di potenza, con larghe citazioni di inediti che confluiranno,
nel 1906, in una edizione con 1067 pseudoaforismi a cura di
Elisabeth e di Gast, destinata a restare canonica, e che
costituisce i volumi IX e X della edizione tascabile delle
opere di Nietzsche da poco avviata sulla scia del successo
dell’edizione maggiore.
Ma la lista delle versioni della Volontà di potenza non
finisce qui: nel 1911 esce l’edizione Weiß, con una
appendice comprensiva di altri piani; nel 1917 è la volta
dell’edizione «da trincea» di Max Brahn, con 696
pseudoaforismi; nel 1930 viene pubblicata, a cura di August
Messer, una versione ridotta, nel quadro di una edizione in
due volumi delle opere di Nietzsche, con 491
pseudoaforismi; nel 1935 esce da Gallimard, curata da
Friedrich Würzbach, una traduzione francese con
addirittura 2397 pseudoaforismi, tuttora ristampata, che
verrà pubblicata in tedesco nel 1940.
Fra i tanti spettri di Nietzsche, quello della Volontà di
potenza non è il meno ingombrante. Non solo per le vicende
della sua composizione, ma soprattutto per quelle della sua
ricezione, dove si è assistito, in parallelo, a un susseguirsi di
commentari politico-filosofici e al dispiegarsi della guerra
totale. Perché il secolo in cui la Volontà di potenza fa il suo
corso è anche il secolo delle guerre mondiali e
dell’Olocausto, poi della Guerra fredda e – giusto cent’anni
dopo la prima edizione della Volontà di potenza – delle
Twin Towers. Come è possibile che chi ha coltivato l’idea
della volontà di potenza, e che nelle opere pubblicate
quando era padrone di sé ha predicato contro l’uguaglianza,
l’umanità, gli «operai della filosofia» (Kant e Hegel) e gli
35
operai senza virgolette, sia stato anche considerato un
profeta della liberazione, accanto e oltre a Marx?
36
TORINO, MARZO 1975. «LEI HA LETTO I FRANCESI?»
«Lei ha letto i francesi?» Gianni Vattimo mi rivolse
questa domanda nel suo studio all’università di Torino nel
marzo 1975 (meno di due mesi dopo, il 30 aprile, Saigon
sarebbe stata espugnata dalle truppe di Ho Chi Minh,
mentre le colonne di fumo dei documenti bruciati si
sollevavano dall’ambasciata americana). Lì per lì non capii a
chi si riferisse: a Balzac? A Proust? A Dumas? Ovviamente,
non intendeva loro, bensì una lista di nomi a me
perfettamente ignoti: Derrida, Deleuze, Foucault,
Klossowski… Mi misi d’impegno per saldare il debito
formativo, e a ripensarci mi pare che la mia impresa
ondeggiasse tra l’apprendistato di Bouvard e Pécuchet e
quello di Rousseau, tra la volontà di sapere ottusa e la
disperazione nervosa, come quando Jean-Jacques scopre che
a pagina 3 di un libro si trova un passo oscuro, cerca di
chiarirlo con un altro libro, che risulta però indecifrabile a
pagina 2, rinviando a un terzo libro, che a pagina 4 contiene
un enigma, e alla fine si trova sconfortato in una stanza
piena di libri aperti… Così, più o meno, per me. Ricordo
che andai persino a fare letteralmente la spesa in Francia,
partii per Chambéry, feci qualche giro per librerie, e tornai
indietro in giornata. Questo, appunto, nella primavera ’75.
In autunno ricordo la stessa scena in grande a Parigi, dove le
librerie promettevano meraviglie. Il che, se vogliamo, è il
lato Bouvard e Pécuchet. Ma ben più angoscioso era il lato
Rousseau: cosa significa tutto questo?
I libri che mi ero comprato e sottolineavo con ansiosa
incomprensione – gli evidenziatori sarebbero apparsi anni
dopo, insieme ai post-it – erano opere come Nietzsche e il
circolo vizioso di Pierre Klossowski (1969), ma anche, fuori
37
dal riferimento nietzschiano, Sade prossimo mio (1947)
sempre di Klossowski – di lì a poco lo vidi citato nella
bibliografia, che già allora mi parve un po’ pretenziosa,
posta in apertura di Salò o le 120 giornate di Sodoma di
Pasolini, la sua ultima opera che venne a confondersi con la
sua morte, il 2 novembre del 1975. Poi c’erano gli Scritti di
Lacan, tradotti nel 1974, cui seguirono i seminari, che
all’inizio (e per quel che mi riguarda nelle gite in libreria a
Parigi) si compravano in trascrizioni semiclandestine,
proprio come i bootleg, le incisioni non autorizzate dei
concerti di Dylan e dei Rolling Stones. Ma quelli che davano
il tono dell’epoca erano Deleuze e Guattari, di cui sempre
nel 1975 era stato tradotto in italiano L’Anti-Edipo, uscito in
Francia tre anni prima.
Da lì diventava possibile risalire a un vecchio libro di
Deleuze, Nietzsche e la filosofia (1962), e al più ambizioso
Differenza e ripetizione (1968) che, nella edizione italiana,
aveva come prefazione una recensione scritta da Foucault
anche per suggerire che quello, e non La scrittura e la
differenza di Derrida (1967), era il gran libro del momento,
anzi, dell’avvenire: «Un jour, peut-être, le siècle sera
deleuzien». Foucault si vendicava delle critiche di Derrida
alla Storia della follia, ma esprimeva anche una ammirazione
sincera per Deleuze, con una prosa che risuscita lo spirito
dell’epoca: «Nella garitta del Lussemburgo, Duns Scoto
infila la testa nella lunetta circolare; i suoi mustacchi
imponenti sono quelli di Nietzsche travestito da
Klossowski». Il microcosmo parigino si presentava come un
macrocosmo speculativo in cui Duns Scoto dava la mano a
Nietzsche, Marx a Heidegger, Sade a Kant, Mallarmé a
Lenin. Una cavalcata delle Valchirie tra metafisica,
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surrealismo e politica, piena di coups de théâtre, ma al riparo
da qualunque conseguenza, visto che si svolgeva nel cielo
delle idee. A tanto maggior ragione questo valeva per il mio
piccolo mondo torinese, in cui rivedo ancora molto
Gozzano, tra La signorina Felicita («Tu non fai versi. Tagli le
camicie / per tuo padre. Hai fatta la seconda / classe, t’han
detto che la Terra è tonda, / ma tu non credi… E non
mediti Nietzsche…») e lo struggimento di Torino:
Quante volte tra i fiori, in terre gaie,
sul mare, tra il cordame dei velieri,
sognavo le tue nevi, i tigli neri,
le dritte vie corrusche di rotaie,
l’arguta grazia delle tue crestaie,
o città favorevole ai piaceri!
Quattro anni dopo, nel 1979, avevo appena scritto la mia
tesi, che era essenzialmente un commento «ai francesi»,
quando vidi, all’edicola della stazione di Porta Nuova (ossia
della stazione da cui Nietzsche era transitato tante volte), un
libro di Dario Bernazza, O si domina o si è dominati.
L’autore mi era ignoto, e lo rimase a lungo, perché non
aveva un pedigree sufficiente agli occhi di un neolaureato
che per aver letto un po’ di libri credeva di averli letti tutti,
o quasi. Credo che fosse un pensatore solitario, forse un
autodidatta, che si stava cimentando con grandi temi (nel
1984 scrisse un libro dove proponeva la soluzione del
problema di dio). Sono passati trentacinque anni e non l’ho
ancora letto, a questo punto è probabile che non lo leggerò
mai, anche se, come talora accade, lo spettro di quel libro
non letto ha agito tantissimo in me, come un arto fantasma,
come un rimorso, come un rimprovero.
39
A cosa doveva ricondursi il mio senso di superiorità nei
confronti di Bernazza, un autore che tutto sommato
affrontava gli stessi temi che avevo abbordato nella mia tesi?
Oltre che alla spocchia del neofita, a un oscuro senso di
colpa, o meglio a un dubbio che non osava prendere forma
e voce. Bernazza, in quel libro che fu un best seller delle
edicole ferroviarie, sosteneva una versione molto piana della
volontà di potenza: è innata in noi la sete di dominio, è legge
di natura, e allora tanto vale prenderne atto, altrimenti
soccomberemo alla sete di dominio altrui. È la banalità del
male, è quello che leggiamo nel diario di Goebbels, 8
maggio 1943: «Oggi viviamo in un mondo in cui bisogna
scegliere tra sterminare ed essere sterminati. Non siamo noi
che abbiamo creato questo mondo». I miei autori di quegli
anni, forse con la sola eccezione di Foucault, sostenevano
invece che in Nietzsche abbiamo a che fare con ben altro:
l’esito ultimo della storia della metafisica, una sofisticata
parodia, un gesto estremo di auto-annullamento del
soggetto e l’annuncio di una umanità futura in cui la
violenza avrebbe lasciato il posto alle belle arti.
Il contrario di Bernazza, e di Goebbels. Ma anche di
Nietzsche? La volontà di potenza è una idea incontestabile,
una delle poche cose che sembrano chiare come il sole: c’è
volontà di potenza in giro, ce ne accorgiamo (e non è né una
grande scoperta né una bella sensazione) tutti i giorni. Ed è
anche, insieme, una idea pazzesca, l’idea per cui tutto, nel
mondo, compresi gli alberi e le sedie, e ovviamente gli
organismi anche molto semplici – Nietzsche la trova anche
nella scissione delle amebe, che si annientano per
raddoppiarsi – è manifestazione della volontà di potenza. È
anche, e soprattutto, una idea sinistra, perché si traduce in
40
una assoluzione della violenza. Per venire subito al dunque,
se uno chiede «Volete la guerra totale?» fa una domanda
superflua, a cui la risposta ovvia è «Sì».
41
PARIGI, 1944. ALLEGORIA E FILOLOGIA
«Denazificare Nietzsche?» si chiedeva nel 1947 Karl
Schlechta. Dopo il crollo del Terzo Reich (si potrebbe
riconoscere il processo con esattezza seguendo il ritmo della
avanzata degli alleati, visto che il fenomeno inizia nel 1944
nella Parigi appena liberata, con Sur Nietzsche di Bataille), si
possono osservare tra i filosofi, o almeno tra i lettori
professionali e accademicamente accreditati, due strategie di
denazificazione, che hanno luogo, non casualmente, fuori
della Germania (dove Nietzsche è recuperato, ma più tardi,
nel ’68, da Habermas, come gnoseologo del sospetto), e che
seguono, come è naturale e giusto, le due strade canoniche
del metodo allegorico e del metodo storico-grammaticale.
Il primo inizia con il Nietzsche americano di Walter
Kaufmann (1950), che con impassibile tranquillità afferma,
per esempio, che quando Nietzsche parla di «belva bionda»
non allude ai Germani antichi, e risorti nell’opera
wagneriana, bensì al leone, quello che si trova allo zoo –
suscitando le ovvie e motivate ironie di Lukács. Molto più
potente è la trasfigurazione attuata, nel 1961, dalla
pubblicazione dei due volumi del Nietzsche di Heidegger. E
non solo più potente, ma anche più sottilmente paradossale,
con una ironia quasi gidiana, perché l’intenzione di
Heidegger, che aveva scritto quelle pagine trent’anni prima,
ai bei (per lui) tempi di Hitler, era diametralmente opposta
a quella di procedere a una denazificazione – però certo
sostenere che bisogna leggere lo Zarathustra con la stessa
deferenza testuale che va dedicata alla Metafisica di
Aristotele vale più di mille ermeneutiche della belva bionda,
perché colloca Nietzsche seimila piedi al di sopra della
geografia e soprattutto della storia.
42
Il metodo storico-grammaticale è invece quello che
consiste nel dire che il testo nietzschiano è stato falsificato e
che a ripristinarlo nella sua autenticità ci restituirebbe un
Nietzsche certo enfant gâté o enfant terrible, ma comunque
politicamente accettabile. È la strategia che costituisce il
presupposto ideologico, retrospettivamente del tutto
comprensibile, della edizione Colli-Montinari, la cui
pubblicazione ha inizio nel 1964. Per una sorta di
eterogenesi dei fini, questa edizione postbellica ha ottenuto
un grande risultato culturale, restituire alla discussione
pubblica e filosofica Nietzsche, al prezzo di un
monumentale equivoco ermeneutico, sostenere che il
Nietzsche «autentico» degli anni Sessanta è tutt’altra cosa
dal Nietzsche che era stato letto e commentato negli anni
Trenta.
È così che l’uomo che ha voluto «imprimere all’essere il
carattere del divenire», ossia un pensatore tanto più politico
in quanto si professa «impolitico», si trasforma in un
pacifista schopenhaueriano, in un mansueto profeta della
non violenza. Ad esempio, Colli cita il frammento di
Nietzsche «La volontà non esiste», e commenta: «E pensare
che per un secolo ci si è azzuffati per penetrare entro la
formula magica della volontà di potenza, e soprattutto per
giudicarla». Ora, è vero che Nietzsche sostiene in qualche
luogo che la volontà non esiste, ma in tanti altri luoghi scrive
che esiste eccome, e che è anzi l’essenza dell’universo; ed è
anche vero che ha progettato un’opera intitolata Volontà di
potenza. Concludere che «la volontà non esiste» significa «la
Volontà di potenza non esiste» è davvero correre troppo.
Poi c’è il lavorìo di Montinari volto a mostrare come, in
extremis, Nietzsche avrebbe abbandonato il progetto della
43
Volontà di potenza. Anche qui, al massimo si dimostra che
Nietzsche ha rinunciato a un libro di cui non è venuto a
capo, sebbene continuasse a parlarne sino alla fine, traendo
in inganno i suoi corrispondenti. Non che un böse Geist
travestito da sorella ha fantasticato e falsificato, e che la
volontà di potenza non esiste.
Infine, c’è l’assunto complessivo, che sta alla base
dell’edizione – e che determinò per parecchio tempo la
sopravvalutazione dei frammenti postumi rispetto alle opere
edite, trasformando i commentari nietzschiani in una sorta
di Finnegans Wake – secondo cui, in quei frammenti che si
supponevano scampati a chissà quale massacro, si sarebbe
compreso che il vero Nietzsche era uomo di tutt’altra pasta
rispetto a quella strumentalizzata dai nazisti. Ma Nietzsche
resta lo stesso, in tutte le sue contraddizioni e antitesi, nei
frammenti postumi come nella Volontà di potenza. E se poi
non ci va di leggerla, è sufficiente ricorrere agli editi per
trovare delle affermazioni spietate quanto basta.
44
WEIMAR, 1901. LA SORELLA-PARAFULMINE
Insomma, per esorcizzare gli spettri di Nietzsche e
l’opera-fantasma è necessario invocare l’intervento di
un’altra potenza malefica, nella fattispecie di una strega o
quantomeno di una «donna parafulmine», una figura che
Nietzsche ha forgiato pensando a Cosima Wagner, che si fa
carico delle antipatie suscitate dal grand’uomo, e che si
adatterebbe perfettamente a Elisabeth (e Therese e
Alexandra, perché battezzata, come Friedrich Wilhelm, coi
nomi dei dinasti), la sorella-parafulmine, accusata di aver
nazificato i testi nietzschiani.
Attivista e megalomane, Elisabeth ebbe autorevoli
sostegni per ben tre candidature al Nobel (ovviamente
grazie allo spettro dell’uomo-dinamite, il che non è privo di
ironia), ma prima dell’ascesa al potere di Hitler, nel 1911,
nel 1914 e nel 1922. E ben più che Hitler e Mussolini
frequentò, anche qui realizzando i fantasmi di
riconoscimento sociale del fratello, Gide, Hofmannsthal,
Mahler, Rathenau. Arricchita dall’Archivio, riconosciuta dal
mondo, e – elemento non trascurabile in materia di falso
ideologico – poco intelligente, aveva di meglio da fare che
falsificare in senso reazionario o nazista il fratello. Se non
altro perché Fritz reazionario lo era per davvero, come
capirono benissimo D’Annunzio e Langbehn molto prima
che Elisabeth mettesse mano ai suoi testi. E nazista non lo fu
mai, per ovvi e ineludibili motivi cronologici.
Secondo la vulgata che circola tuttora, la sorella-
parafulmine avrebbe compiuto falsificazioni a diversi livelli,
e in particolare: 1. Pretendendo che Nietzsche avesse
veramente e sino all’ultimo progettato un’opera intitolata
Volontà di potenza. 2. Dando a intendere che il progetto
45
incompiuto di Nietzsche consistesse proprio nel testo che
veniva fornito ai lettori. 3. Interpolando affermazioni
estremistiche, protonaziste e antisemite nel testo del fratello.
4. Commettendo gravi sviste di trascrizione. 5. Conferendo
un andamento aforistico a frammenti che come tali non
erano, necessariamente, degli aforismi. 6. Attribuendo a
Nietzsche quelli che in realtà erano estratti di lettura da altri
autori.
Le accuse (2) e (4) si smontano da sole. Se la Volontà di
potenza ha conosciuto tante edizioni tutte diverse per
organizzazione e dimensioni, è difficile pensare che
Elisabeth volesse dare a intendere, di volta in volta, che il
testo pubblicato fosse in qualche modo definitivo e
corrispondente alle intenzioni dell’autore; e quanto alle
sviste, ci sono come in qualunque altra edizione, ma bisogna
considerare che Elisabeth aveva il vantaggio di essersi
servita, per qualche tempo, di Peter Gast, che conosceva la
grafia di Nietzsche meglio di chiunque altro.
Più complicata, visto che verte sull’accertamento di
intenzioni che non si possono verificare né in positivo né in
negativo, è l’accusa (1). In effetti, non abbiamo la minima
idea di che cosa avrebbe fatto Nietzsche se non fosse
sopravvenuto il crollo torinese, ma nulla autorizza a
escludere che avrebbe pubblicato la Volontà di potenza
(ovviamente non nella forma che conosciamo, a meno che
sia riuscito a Elisabeth un miracolo borgesiano alla Pierre
Menard, autore del Chisciotte), giacché l’argomento di solito
addotto, e cioè che da un certo momento in avanti comincia
a parlare di un’opera intitolata Trasvalutazione di tutti i
valori, non appare affatto decisivo, trattandosi, come
abbiamo detto, di un titolo concorrente o di un sottotitolo
46
della Volontà di potenza che si trova negli abbozzi sin dalla
prima metà degli anni Ottanta. Soprattutto, risulterebbe
fuorviante vedere nell’abbandono della Volontà di potenza,
definitivo o provvisorio che fosse, il segno di un qualche
ravvedimento, quasi che Nietzsche, resosi conto delle
enormità che andava scrivendo, avesse deciso di lasciar
perdere (tesi che, sia detto di passaggio, gli attribuisce
proprio quella psicologia del pentimento e della penitenza
che ha combattuto in tutte le sue opere). Semmai, pare
invece plausibile ipotizzare che avesse coscienza dei difetti
teorici dell’opera, e in particolare di alcuni nodi irrisolti che
lo dissuadevano dall’esporsi al giudizio del pubblico.
Si può invece rispondere senza esitazione di no all’accusa
(3). Elisabeth non ha interpolato affermazioni estremistiche,
protonaziste o antisemite sia per ragioni di fatto (per
accorgersene basta collazionare gli pseudoaforismi con i
frammenti postumi corrispondenti), sia per varie ragioni di
diritto, e in particolare per due motivi. In primo luogo,
come ho ricordato prima, affermazioni altrettanto e anche
più moralmente problematiche sono contenute nei libri che
Nietzsche pubblicò nel corso della sua vita cosciente,
dunque Elisabeth non aveva alcuna necessità di rincarare la
dose. In secondo luogo, Elisabeth non ne aveva non dico
bisogno, ma nemmeno interesse, giacché la convenienza di
compiacere un regime nazista era ancora molto di là da
venire (nel 1901 Hitler aveva i calzoni corti, e non solo
durante i soggiorni a Berchtesgaden), e, nel frattempo,
restavano gli inconvenienti legati alla gestione di un lascito
che avrebbe potuto incontrare la censura delle autorità
ecclesiastiche; era questa la preoccupazione maggiore della
sorella, che difatti, quando pubblicò l’Anticristo, omise il
47
sottotitolo Maledizione del cristianesimo. Le falsificazioni
materiali di Elisabeth, che hanno avuto luogo, si sono
esercitate nell’epistolario, per esempio quando finse che
fossero indirizzate a lei delle lettere che Nietzsche aveva
scritto alla madre, e questo per accreditarsi, contro la verità
dei fatti, come interlocutrice privilegiata del fratello, quale
in realtà non fu mai, almeno nei termini che pretendeva.
Resta il sospetto, anzi, la motivata certezza, che Nietzsche,
ove si fosse deciso a pubblicare la Volontà di potenza, non lo
avrebbe fatto nel modo (anzi, nei molti modi) che
conosciamo. Appare anche plausibile ritenere che non
avrebbe dato un andamento aforistico alla sua opera,
almeno se consideriamo che, per esempio, la Genealogia
della morale (1887), l’ultimo libro pubblicato prima degli
scritti dell’autunno torinese, costituisce un ritorno almeno
formale alla dissertazione scientifica.
Questo significa, dunque, che l’unica vera accusa a
Elisabeth che resta in piedi è la (5), sebbene anche in questo
caso si possa sostenere che, se è probabilissimo che gli
aforismi non sarebbero stati quelli che conosciamo proprio
come l’opera non sarebbe stata quella che abbiamo sotto gli
occhi, non è detto che a un certo punto – magari, come
ripiego rispetto al progetto scientifico e sistematico –
Nietzsche non potesse propendere per la soluzione
frammentaria, come nel Crepuscolo degli idoli. Certo, appare
indubbiamente più corretto, per la Volontà di potenza,
parlare di «pseudoaforismi», così come si potrebbe parlare
di una «pseudo-opera», purché con questa espressione si
intenda un’opera che non si sa se avrebbe visto la luce, e in
quali termini, ma non un falso contrario allo spirito e alla
lettera di Nietzsche, come pure si è sostenuto più spesso di
48
quanto non si creda.
In questo quadro, infine, è indubbio che ci sia del giusto
nella accusa (6), cioè di non aver capito (Elisabeth, ma
anzitutto chi svolgeva il lavoro materiale: Ernst e August
Horneffer, Gast, e i tanti che verranno dopo di loro) che in
più casi i manoscritti di Nietzsche contenevano delle note di
lettura da altre fonti, ma è una imputazione che
difficilmente può lasciar supporre una intenzione deliberata
dei curatori, magari subornati dalla sorella-parafulmine, se è
vero che a tutt’oggi la meritevolissima ricerca delle fonti è in
corso, e periodicamente se ne trovano delle nuove; in breve,
è difficile rimproverare a qualcuno di aver omesso, nel 1901,
ciò che non si è ancora compiuto 113 anni dopo.
Vale conclusivamente la pena di osservare un punto
rilevante. Sin dal 1922, insieme a un gruppo di docenti della
Università di Jena, Max e Adalbert Oehler, con Karl
Koetschau, mettono in cantiere una edizione storico-critica
(sarà quella pubblicata dall’editore Beck negli anni Trenta),
e il direttore del Goethe-Schiller Archiv di Weimar prende a
lavorare nel Nietzsche Archiv per decifrare materiali non
ancora trascritti. L’interesse filologico è indubbio, anche
perché nel 1930 scadono i diritti, e chiunque può disporre
degli editi. Da questo momento, l’Archivio perde il
monopolio delle edizioni nietzschiane, e altri, magari nazisti
fatti e finiti, potranno pubblicare Nietzsche a piacimento,
ma visto che lo scadere dei diritti riguarda solo gli scritti
editi, si faranno bastare quelli, traendone grande
soddisfazione – tra Dioniso, il superuomo e la critica della
democrazia. Precisamente in questi anni nasce – fuori
dell’Archivio, contro di esso e sotto la direzione
dell’arcinazista Alfred Baeumler – l’edizione in otto volumi
49
tuttora in commercio da Kröner. È in considerazione di ciò
che, nel 1931, Elisabeth cerca un prolungamento
trentennale dei diritti, e li ottiene appunto per la Volontà di
potenza e per i frammenti postumi.
Nello stesso anno, e nel quadro delle attività
dell’Archivio, prende inoltre avvio l’edizione Beck, che, per
esplicito riconoscimento di Montinari, è filologicamente
ineccepibile; essa costituisce il diretto antefatto della
edizione Colli-Montinari, che se ne è servita ampiamente. In
questa vicenda, dunque, non manca una qualche ironia. Se
la vulgata vuole che la sorella fosse nazificatrice, la verità è
diversa: quando pubblicò la Volontà di potenza, non era
nazista per ovvi motivi cronologici; e quando i nazisti si
approprieranno di Nietzsche, lo faranno in larghissima parte
sulle opere edite, e immuni da qualunque attività della
sorella. La quale nel frattempo aveva promosso una edizione
critica dei frammenti postumi impeccabilmente filologica. In
conclusione, dunque, la sorella-parafulmine era falsaria per
vanità intellettuale e per sentimentalità magari demente, non
per ideologia, e difatti gli interventi non consistono in
aggiunte protonaziste o antisemite, bensì nell’ordinamento
tematico anziché cronologico, e nell’accorpamento di brani
o, per converso, nella divisione dello stesso frammento.
Niente di impegnativo politicamente. Come ho detto, le
manomissioni ebbero luogo piuttosto nell’epistolario, per
accreditare una intimità spirituale col fratello che non
corrispondeva al vero. Ma questo genere di falsi, già
denunciati fuori dell’Archivio sin dai primi anni del secolo,
dalla cosiddetta «tradizione di Basilea» (quella che risaliva a
Overbeck) che si opponeva alla «tradizione di Weimar»,
cioè a Elisabeth, furono riconosciuti al suo interno sin dalla
50
premessa del primo volume della edizione Beck
dell’epistolario, dove si notificava la mancanza di originali di
molte lettere, dunque la loro irricevibilità in una edizione
critica.
51
BASILEA, 1870-1874. IL PICCOLO CHIMICO
Per rendere possibile un Nietzsche di sinistra (o almeno
non troppo di destra), dopo l’allegoria, la filologia e
l’esorcismo della sorella c’è una quarta strategia
ermeneutica, anche più sottile, forse persino la più acuta e la
più giusta, se non nascondesse, come vedremo, un equivoco
di fondo. Si tratterebbe di sostenere che la volontà di
potenza è davvero al di là del bene e del male dal momento
che parla di cose, come i microrganismi, gli atomi e le
comete, che non hanno alcunché di morale, sono
completamente fuori scala rispetto al mondo umano, e
riguardano solo la biologia o la fisica. Risultato: come fai a
prendertela con le particelle subatomiche? E se io, per
ipotesi, dico che questa lotta è la legge del vivente, sono
forse l’apologista del male, o non sono, invece, l’impassibile
anatomista e chimico della natura, umana e non umana?
Ora, non c’è dubbio che Nietzsche intendesse fondare il
suo sistema, e i due suoi concetti-chiave, ossia la volontà di
potenza e l’Eterno Ritorno, su una base scientifica. La
scienza del suo tempo, almeno nelle sue aspettative,
corroborava quanto aveva imparato dal mondo greco
arcaico e anticlassico, ossia che non esiste altro che forza e
lotta per la potenza, che l’essere è un velo illusorio gettato
sul divenire, che il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, sono
il frutto della virtù virile, l’andragathia, termine da cui, sia
detto di passaggio, deriva la parola «’ndrangheta».
L’attrazione esercitata dalla scienza in quelli che del resto
sono gli anni di maggior successo del positivismo è
incontestabile, ed è stata riconosciuta di buon’ora da
52
Richter, confermata a metà del secolo scorso da un
fondamentale studio di Mittasch, per essere rilanciata più
recentemente da Babich, Heit, Abel e Brusotti. Per tutta la
vita Nietzsche cercò di rimediare alle lacune scientifiche
della formazione solo umanistica ricevuta a Pforta.
Incominciò già a ventiquattro anni, quando studiava
Democrito, e continuò occupandosi di fisica, chimica e
scienze in generale. Tra i libri presi in prestito nella
biblioteca di Basilea dal novembre 1870 al novembre 1874 è
impressionante la quantità di letture di scienziati o di filosofi
vicini alle scienze (Funke, Helmholtz, Cantor, Zöllner,
Pouillet, Boscovich, Kopp, Mohr, Mädler, Ladenburg).
Altre letture sono testimoniate dai libri presenti nella sua
biblioteca privata.
La ragione di questa volontà di sapere – profonda e non
occasionale – è esposta nel passo di Ecce homo in cui
Nietzsche descrive la sua decisione di abbandonare la
filologia per dedicarsi alla fisiologia, alla medicina e alle
scienze naturali: «Alla mia scienza mancavano
completamente le realtà, e le ‘idealità’ chissà a che diavolo
servivano!» La fisica, come reale, viene a controbilanciare
quel troppo di ideale che gli era stato trasmesso dal
pantheon umanistico. Al tempo stesso, e reciprocamente,
uno sguardo disincantato sul mondo classico ci svela quanto
poco quest’ultimo indulgesse all’idillio. La fisica e la
fisiologia vengono così a confermare la filologia dionisiaca,
in un quadro filosofico che deve tantissimo alla Storia del
materialismo di Friedrich Albert Lange, uscita nel 1866 e
subito letta con attenzione da Nietzsche studente di filologia
a Lipsia (per una strana ironia, Lange, in una nota della
seconda edizione, uscita nel 1873, citava La nascita della
53
tragedia, ma Nietzsche, che aveva letto la prima, e che si
ricomprò la quarta, senza note, non lo seppe mai).
Gli effetti li troviamo già in scritti come Su verità e
menzogna in senso extramorale, e, macroscopicamente, nella
teoria dell’Eterno Ritorno, che è fortemente debitrice del
libro di Friedrich Zöllner sulla natura delle comete (1872) –
oltre che, per l’appunto, nella Volontà di potenza. Più avanti
lesse Ernst Mach, il quale sintomaticamente, nella edizione
del 1903 della Analisi delle sensazioni (1886), avvertì
l’esigenza di tracciare un netto distinguo fra le proprie
dottrine e quelle di Zarathustra, vista l’evidente affinità di
alcune teorie, e in particolare della tesi secondo cui le forme
logiche non sono che l’elaborazione di disposizioni
fisiologiche. Quel che è certo è che l’aforisma 112 della Gaia
scienza è un palese richiamo al fenomenismo nella sua
specifica versione machiana: non diversamente dai
presocratici, non siamo in grado di fornire una spiegazione
del mondo, perché operiamo «con cose che non esistono»,
quali linee, superfici, corpi, atomi; nella impossibilità di
penetrare l’intima struttura del reale, giova rassegnarsi a
considerare la scienza come una efficace umanizzazione
delle cose.
Ecco, ma cosa c’è, sotto il velo troppo umano: qualcosa o
niente? La risposta di Nietzsche è ovviamente che c’è
volontà di potenza, quanti di forza: «Ogni centro di forza –
e non solo l’uomo – costruisce il resto del mondo a partire
da se stesso». Si tratta di una specifica variante della
monadologia di Leibniz, che, al solito, non dipende da una
lettura diretta, bensì da una mediazione manualistica (Kuno
Fischer) e scientifica. Leibniz si era appoggiato alla biologia
dei suoi tempi, quando la scoperta degli spermatozoi
54
confortava l’idea che ogni monade, per esempio l’uomo,
contenesse al proprio interno altre monadi organiche,
animate da una potenza vitale. Nell’Ottocento questa
visione era tornata in auge – e Nietzsche poteva contare
sull’avallo di Johannes Müller, che nel Manuale di fisiologia
(1833) aveva parlato di «monadi organiche», e sui paragoni
tra la cellula e la monade rintracciabili nella Anatomia
generale (1841) di Jakob Henle.
In questa folla di nomi, la mediazione più certa e
filosoficamente influente è rappresentata dalla Teoria della
filosofia naturale (1758) di Ruder Josip Boscovich (1711-
1787), che Nietzsche aveva conosciuto leggendo Fechner.
Filosofo, astronomo, fisico, matematico, storico, ingegnere,
architetto, poeta, Boscovich elaborò una fisica delle
particelle, anticipando di cent’anni la versione moderna
dell’atomismo. L’intuizione fondamentale di Nietzsche
viene dunque confermata da Boscovich: non c’è materia, c’è
solo forza, solo l’energia è realtà, e tutto il resto è apparenza.
Su questa base, può misurarsi con le dottrine di Faraday, e
soprattutto di Thomson e di Zöllner, di cui nel 1876, a
Lipsia, aveva studiato i Principi di una teoria elettrodinamica
della materia. Qui si avanza l’ipotesi di una sensibilità della
materia inorganica (che sarebbe dunque capace di
percezione oscura ma certa, attestata dalle regolarità dei
processi chimici) e si teorizza una velocità elettrodinamica
che costituisce la vera essenza della materia, anche qui
confermando il primato del divenire sull’essere e della forza
sulla forma.
Dunque, a voler fissare per sommi capi le basi scientifiche
della volontà di potenza, avremmo all’incirca questo. Il
mondo come tale è apparenza, noi conosciamo solo dei
55
fenomeni, non delle cose in sé. Era il dogma del
trascendentalismo che, dopo Kant e dopo Schopenhauer
(insieme a Lange, l’altro nume filosofico di Nietzsche), era
stato assunto come ovvio presupposto da tutti i fisici,
biologi, fisiologi e psicologi dell’epoca. Ecco, ma che cos’è
l’essenza di cui tutto il resto è apparenza? Qui la soluzione
non è molto diversa da quella della fisica contemporanea.
L’essenza è forza, energia, insomma campi e particelle
subatomiche. Tuttavia, con un cambio di scala e di tono che
gli è caratteristico, Nietzsche stabilisce una linea continua
che dai campi di forza conduce al superuomo, e ne giustifica
la crudeltà vedendoci l’espressione non adulterata della
fatalità e della prepotenza che dominano l’universo. Per
quanto detestasse Rousseau, Nietzsche ne condivideva
l’assunto di fondo: ciò che la civiltà fa all’uomo, l’azione
della cultura come seconda natura, è una corruzione e una
mistificazione dell’originario. Un originario che tuttavia per
Rousseau è un uomo naturalmente buono, mentre per
Nietzsche è un superuomo dispotico, un maschio alfa, cioè
anche un povero fesso, ma un fesso pericoloso.
56
CHARLOTTESVILLE, 1977. OTOBIOGRAPHIES
Come ha ricordato Derrida in Otobiographies – una
conferenza tenuta nel 1977 alla University of Virginia a
Charlottesville – non si tratta di dichiarare che Nietzsche
non ha mai pensato o voluto ciò che, nel Novecento, è stato
fatto in suo nome, né di appellarsi alla falsificazione della
eredità, ma piuttosto di domandarsi come mai quella che si
chiama tanto ingenuamente «falsificazione» sia avvenuta
proprio sulle sue opere; e perché le uniche istituzioni
culturali che abbiano avuto la tentazione di richiamarsi a
Nietzsche siano state quelle naziste. Certo non sapremo mai
che cosa avrebbe detto Nietzsche del mondo in cui ebbe il
maggior successo, ossia la Germania tra il ’33 e il ’45, e non
è nemmeno difficile immaginare che l’avrebbe contraddetto
così come contraddisse il mondo di Bismarck e di
Guglielmo II. La constatazione del successo di Nietzsche
durante il Terzo Reich deve però guidarci, come una idea
regolativa, per evitare la tesi facile e falsa di un
fraintendimento assoluto, che avrebbe consegnato lo spettro
di Nietzsche al male del nostro secolo.
Nietzsche rivendica l’esigenza di una contemplazione
impassibile del mondo, al di là del bene e del male. Questa
impassibilità c’era anche in Schopenhauer, che però
predicava la rassegnazione, non diversamente dal Freud di
Al di là del principio di piacere, dove ad avere l’ultima parola
nella lotta tra Eros e Thanatos è la pulsione di morte come
destino e desiderio profondo del vivente. Come sappiamo,
Freud, con quello che è un lapsus molto eloquente, dichiarò
di essersi vietato di leggere Nietzsche temendo che l’affinità
tra le sue dottrine e la psicoanalisi avrebbe compromesso la
scientificità di quest’ultima. Resta tuttavia che tra il
57
pessimismo di Schopenhauer e di Freud e quello di
Nietzsche c’è una differenza cruciale. I primi due
suggeriscono una conciliazione (che Nietzsche avrebbe
definito spregiativamente «buddistica») con il proprio
destino mortale, l’abdicazione volontaria alla volontà.
Nietzsche, no. Il suo pessimismo non è una dottrina di
rassegnazione, al contrario, si trasforma – Bernazza aveva
ragione – in un principio attivo, nel nichilismo della forza,
nella esaltazione della potenza e di ciò che ne segue, fossero
pure la guerra totale e il male assoluto.
Ora, la trasformazione dell’essere nel divenire è quanto di
più politico si possa concepire (lo si vedrà fin troppo bene
in Heidegger), e Nietzsche è stato tutto, tranne che un
impolitico. Il suo rovello è molto vivo e molto personale, ed
è il rapporto conflittuale tra l’individuo e la collettività, dove
l’individuo si vede soffocato, incompreso, maltrattato, e
lotta in modo parossistico per il proprio riconoscimento. In
questa lotta, che qualcuno – e come dargli torto? –
definirebbe immorale ed egoistica, l’individuo ha dalla sua
la metafisica: reprimere la forza è fare un torto all’umanità e,
come in Eraclito, la giustizia si ottiene attraverso il polemos,
con principi che risultano iper-fungibili dal punto di vista
politico, appunto perché l’essere diviene anzitutto un fare,
un combattere, un trasformare. Il che, in una fase
rivoluzionaria, può risultare allettante sia per una squadra di
spartachisti che per dei Freikorps antibolscevichi.
Nel 1919 apparirà a Breslavia il libro di Hugo Bund,
Nietzsche come profeta del socialismo, dove Nietzsche non è
anacronisticamente accusato di nazismo, ma è chiamato a
correo come ispiratore del socialismo. Il superuomo e la sua
tirannia sarebbero la piena realizzazione del socialismo, che
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– d’accordo col modello leninista – non si contrapporrebbe
più al militarismo, ma ne sarebbe anzi il compimento. Sarà,
il socialismo si dice in molti modi. Resta che Lukács ha
buoni occhi quando sostiene che Nietzsche ha fatto di tutto
per screditare, dal punto di vista del pensiero, l’idea della
uguaglianza tra gli uomini, e che «non voleva affatto, come i
neokantiani, i positivisti ecc., fondare un’etica valida per
tutti gli uomini. Al contrario, la sua etica è esplicitamente e
coscientemente l’etica della classe dominante; accanto a
quest’etica e al di sotto di essa vi è, come qualitativamente
distinta, la morale degli oppressi che Nietzsche apertamente
nega e combatte».
59
LONDRA, 21 FEBBRAIO 1848. «UNO SPETTRO SI AGGIRA PER L’EUROPA»
E dunque, tornando alla domanda iniziale, come è
possibile che Nietzsche abbia potuto affascinare, e con
motivi non così peregrini, la sinistra? E come si spiega il
sortilegio per cui un pensatore così profondamente
nietzschiano come Jünger poté vantarsi del fatto che le sue
opere complete si trovassero non solo nella biblioteca di
Hitler, ma anche (insieme, è facile immaginarlo, alla
elegante edizione Gallimard delle opere di Nietzsche, con
prefazioni di Foucault e Deleuze) in quella di Mitterrand? E
ancora, venendo a un altro autore impregnato di Nietzsche,
Heidegger, come è stato possibile che il massimo successo di
quella che un suo contemporaneo, Lévinas, definiva «la
filosofia dell’hitlerismo» abbia avuto luogo a sinistra e non a
destra, e dopo la guerra?
L’arcano si svela più facilmente di quanto forse non sia
apparso sin qui. «Uno spettro si aggira per l’Europa.» Il
comunismo. Gli intellettuali si commuovono per questo
bisogno di giustizia e compatiscono il proletariato. Ma
poiché i loro sono in gran parte astratti furori e
intenerimenti letterari, lo spettro comunista potrà facilmente
confondersi con fantasmi di tutt’altro tipo, quelli di una
insofferenza narcisistica, di un ribellismo antiborghese, di
un attivismo da biblioteca. È ancora Lukács che lo spiega:
questi intellettuali potranno sostituire al socialismo
l’annuncio di Zarathustra, cioè la promessa di un
cambiamento ancora più grande e più indeterminato, di un
futuro e di un dio a venire. «La ‘missione sociale’ che viene
compiuta dalla filosofia di Nietzsche consiste nel ‘salvare’,
nel ‘redimere’ questo tipo d’intellettualità borghese,
additandole una via che renda superflua ogni rottura, anzi
60
ogni seria tensione con la borghesia; una via in cui possa
continuare a sussistere il gradito senso di essere ribelli, e
venga reso magari più vivo con la seducente
contrapposizione di una ‘più profonda’ rivoluzione ‘cosmico
biologica’ alla ‘superficiale’ ed ‘esteriore’ rivoluzione
sociale.»
Questo messianismo si esprime pienamente in un passo di
Al di là del bene e del male che Nietzsche citerà ancora in
Ecce homo prima di passare in rassegna i propri libri, e dove
è questione di un «genio del cuore», un genio «che insegna
alla mano maldestra e precipitosa l’indugio e una maggiore
delicatezza nell’afferrare […] dal cui tocco ognuno si
diparte più ricco, non graziato e stupito, non beneficato e
oppresso come da un bene estraneo, sibbene più ricco di sé,
più nuovo che per l’innanzi, dissigillato, alitato e spiato da
un vento australe, forse più insicuro, più delicato, più
fragile, più infranto, ma colmo di speranze che non hanno
ancora un nome». Difficile non trovare in questo toccasana
per professori una parentela con almeno tre figure
stigmatizzate da Hegel: la legge del cuore e il delirio della
presunzione, l’anima bella, e la coscienza infelice. Non
giurerei che, oltre a Jünger e a Nietzsche, Mitterrand avesse
nella propria biblioteca la Fenomenologia dello spirito. Di
certo, in un confronto televisivo per la presidenza francese,
Valéry Giscard d’Estaing ebbe la meglio su Mitterrand con
una frase famosa: «Vous n’avez pas, Monsieur Mitterrand, le
monopole du cœur».
Quello del cuore non era il solo monopolio che la sinistra
si illudeva di detenere. L’altro era quello della politica.
Politica e sinistra erano coestensive, dunque ogni pensatore
del politico – fosse pure il giurista di Hitler, come Schmitt –
61
diventava fruibile a sinistra. E l’intima struttura politica del
pensiero di Heidegger e di Nietzsche li rendeva
particolarmente appropriati a un’epoca iper-politica come il
Sessantotto. La storia e la decisione sono l’unica realtà –
cosa che era in sintonia non solo con quel funesto
antirealista che è stato Hitler, ma anche con quegli
antirealisti più benintenzionati che proclamavano la
necessità di portare l’immaginazione al potere, e di
combattere l’oggettività in nome della solidarietà, il freddo
intellettualismo in nome del radicamento in una comunità di
popolo.
Di qui una gara di radicalismo perfettamente intonata alla
funzione-Nietzsche: «Per quanto scioccante possa essere
questa suggestione per la nostra sensibilità morale, la nostra
integrità intellettuale ci obbliga a domandarci se il
nazionalsocialismo non rappresenti la risposta autentica alla
questione di come dovremmo vivere». Così tal Christopher
Rickey in Revolutionary Saints. Heidegger, National
Socialism, and Antinomian Politics, Pennsylvania University
Press 2002. La cosa più sorprendente e insieme prevedibile
è che chi mette su carta queste bizzarre e funeste enormità
ringrazia, all’inizio del suo libro, non solo la famiglia (da
intendersi non come Sippe nibelungica, ma proprio nel
senso più domestico dei ringraziamenti alla moglie che ha
riletto il manoscritto e al figlio che ha dato una mano nella
correzione delle bozze), ma anche una fondazione per le
ricerche sulla democrazia e il centro per la ricerca sociale
dell’università di Chicago.
Un’ultima considerazione. Se oggi Nietzsche, Heidegger e
Schmitt hanno perso terreno in politicis (come avrebbe
detto Nietzsche) è perché è fungibile da qualche anno un
62
Marx postmoderno altrettanto poco impegnativo. Proprio
come Nietzsche, Heidegger e Schmitt dopo il 1945, anche
Marx, dopo il 1989, è ormai privo, per così dire, di
«istituzioni di riferimento», e dunque la funzione-Marx può
adempiere alle stesse indeterminate richieste di radicalità a
cui rispondeva qualche lustro fa la funzione-Nietzsche. Ci si
può certo domandare che cosa direbbero i neomarxisti se
Marx (o, a questo punto, anche Nietzsche) ritornasse
davvero. Ho il sospetto che dopo i primi festeggiamenti lo
considererebbero un ospite ingombrante e molesto, e che
verrebbe a crearsi una situazione a metà strada fra il ritorno
di Cristo sulla terra nella Leggenda del grande inquisitore
(«Perché sei venuto a disturbarci? Sei infatti venuto a
disturbarci, lo sai anche Tu») e il § 147 delle Passioni
dell’anima: «Quando un marito piange la moglie che
tuttavia, come accade talvolta, gli dispiacerebbe di veder
resuscitare, può accadere che il suo cuore sia stretto dalla
tristezza eccitata in lui dall’apparato funerario e dalla
mancanza di una persona alla cui conversazione era
abituato; e può darsi che qualche traccia d’amore o di pietà,
presentandosi alla sua immaginazione, faccia sgorgare dai
suoi occhi lacrime sincere; ma nel segreto dell’anima egli
prova un’intima gioia, la cui emozione ha tanta forza da non
poter essere per nulla diminuita dalla tristezza e dalle
lacrime che la accompagnano…»
63
Lenzerheide, 1887
Nichilismo senza antidepressivi
«Qui ci sono infrastrutture ideali per famiglie, sportivi o
per chi ama concedersi il meglio, ma lontano dal clamore. Il
lago di Lai, con l’amena area attrezzata del Lido, promette
tanto divertimento per tutta la famiglia.» Questa, oggi, è la
descrizione di Lenzerheide, nei Grigioni, sul sito
dell’azienda di soggiorno. Nel giugno del 1887, in una
stanza mal riscaldata e il prosciutto inviatogli dalla mamma
che non aveva bisogno di essere tenuto in umido con
l’asciugamano, l’umore di Nietzsche era quanto di più restio
ai divertimenti. Più che di trovarsi al centro dell’Eterno
Ritorno, l’impressione è di essere una pietra che rotola. La
stanza è umida, dalla finestra vede una pietra umida anche
lei, gli amici sono stanchi di lui e le sue idee fondamentali, la
volontà di potenza e l’Eterno Ritorno, non interessano ad
anima viva.
È in questa stanza e in questo stato d’animo che nascono
le poche pagine del Nichilismo europeo, datate «10 giugno»,
una sorta di apocalisse senza redenzione, la rottura di
qualsiasi messianismo o anche più modestamente di
qualsiasi speranza. La profezia di Lenzerheide è l’antitesi
della promessa contenuta in un altro scritto breve, i 56
versetti di Abacuc nella Bibbia: «Il Signore rispose e mi
disse: ‘Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette perché
la si legga speditamente. È una visione che attesta un
termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia,
attendila, perché certo verrà, e non tarderà. Ecco, soccombe
colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la
sua fede’» (Ab 2,2-4). «Se indugia, attendila, perché certo
verrà, e non tarderà.» Una persona, un’ora, un evento: verrà,
64
prima o poi, lo ha promesso Dio, così come Dio garantisce
che soccomberà il malvagio, e il giusto vivrà della fede. Il
nichilismo è il crollo di questa promessa: è inutile che
aspetti, non verrà, non verrà nessuno a salvare i vivi e i morti
e tutto il tempo vanamente speso. A questo punto, non solo
un senso qualsiasi è meglio dell’assenza di senso, ma la
stessa catastrofe è, letteralmente, meglio che niente.
L’umanità europea procede inesorabilmente verso il peggio,
moltitudini in cerca di distruzione si scaraventano verso il
nulla come lemming. E questo perché non sanno rispondere
alla domanda: «a che scopo?»
Leggiamo nel frammento: «Nella vita non c’è niente che
abbia valore al di fuori del grado di potenza – dato appunto
che la vita altro non è che volontà di potenza. La morale ha
preservato dal nichilismo i disgraziati attribuendo a ciascuno
un valore infinito, un valore metafisico, e inserendolo in un
ordinamento che non concorda con quello della potenza e
della gerarchia terrene: ha insegnato la rassegnazione,
l’umiltà ecc. Una volta che perisse la fede in questa morale, i
disgraziati perderebbero la loro consolazione – e
perirebbero». E subito dopo: «Il perire si presenta come un
autodistruggersi, come un’istintiva scelta di ciò che è
destinato a distruggere. Sintomi di questa autodistruzione dei
disgraziati: la vivisezione operata su se stessi,
l’avvelenamento, l’ebbrezza, il romanticismo, soprattutto
l’istintiva costrizione a compiere azioni con cui ci si inimica
mortalmente i potenti (allevandosi per così dire i propri
carnefici), la volontà di distruzione come volontà di un
istinto ancora più profondo, dell’istinto
dell’autodistruzione, come volontà del nulla».
«Hunde, wollt ihr ewig leben?», «Cani, vorreste vivere in
65
eterno?», è l’apostrofe con cui pare che Federico il Grande
si sia rivolto ai suoi granatieri in fuga durante la battaglia di
Kolin, nel 1757, ed è molto probabile che avesse paura
quanto loro. Nietzsche guarda alle catastrofi del nichilismo
europeo con lo sguardo del forte, e il frammento si chiude
con l’elogio di coloro che sapranno sopportare il peso del
caso, dell’assurdità, della mancanza di valori, coloro che non
temono l’annientamento, che possiedono una grande salute,
coloro che riescono a caricarsi sulle spalle il peso dell’Eterno
Ritorno. Lo fa per tranquillizzarsi, ma tutto intorno a lui gli
conferma il legittimo sospetto di essere la quintessenza degli
infelici destinati al tracollo, e che la favola del nichilismo
narri proprio di lui.
66
PARIGI, 1857. IL MOSTRO DELICATO
«Se indugia, attendila, perché certo verrà, e non tarderà»:
come è accaduto che questa promessa sia venuta meno?
Diversamente che nella prospettiva apocalittica di
Nietzsche, la tonalità emotiva in cui si sperimenta la
mancanza di senso come male sociale dell’Ottocento è la
noia, che Leopardi considerava non a torto come il
«desiderio puro della felicità; non soddisfatto dal piacere, e
non offeso apertamente dal dispiacere». Le tragedie
verranno, ma dopo. In attesa della fine dei tempi, i Fiori del
Male di Baudelaire si apre rivolgendosi all’ipocrita lettore
cantando (come la diva dell’Iliade) la Noia, «questo mostro
delicato». «Tu le connais, lecteur, ce monstre délicat», ecco
il sentimento dominante della modernità ottocentesca, che
certo non ha lesinato nella ricerca di distrazioni, sino alla
tragedia, all’entusiasmo con cui sarà accolta la Prima guerra
mondiale – il paradosso di Wilhelm Windelband, secondo
cui la guerra mondiale è pur sempre meglio della teoria della
conoscenza, racchiude un nocciolo di verità.
La guerra contro il mostro delicato si manifesta nella
celebrazione di eventi e in una accelerazione dei tempi vitali,
si intreccia con il bisogno eminentemente umano di dare
una forma al tempo, di scandire, per esempio attraverso i riti
e le feste, tutta quella distesa di giorni – insieme troppo
lunga e troppo breve – che è la vita. In questa condizione
accade qualcosa di singolare. L’uomo moderno guarda con
scetticismo alla sua pretesa supremazia nel mondo e
incomincia a invidiare o a vagheggiare. Invidia gli antichi,
che vivevano in un mondo ancora incantato, e i primitivi,
che forse ci vivono ancora. O vagheggia altre forme di vita o
modi d’essere ancora più radicalmente diversi.
67
A volte – ed è la grande tentazione del «diventare
natura» – il disgusto dell’umanità può condurre a preferire
le piante, come in Proust, che guarda dormire Albertine.
Chiudendo gli occhi e perdendo la coscienza, animata
soltanto dalla «vita incosciente dei vegetali e degli alberi», è
finalmente incapace di mentire. Altre volte, la forma di vita
aliena e invidiata è l’animale. Che è forse più felice
dell’uomo, sebbene sia tutt’altro che certo, perché – osserva
a giusto titolo Leopardi – tutte le fantasie umane sulla
felicità, o almeno sulla non-sofferenza degli animali,
potrebbero rivelarsi infondate, e la verità potrebbe essere
che «dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dì
natale». Di certo, l’animale appare più eterno, come gli dei
Egizi che prendevano le sembianze di tori, sciacalli o gatti, è
al riparo dagli accidenti della storia, della cultura,
dell’umore, che sembrano affollarsi all’orizzonte dell’uomo,
tanto più se moderno.
68
RIGA, 1781. ONTOLOGIA ED EPISTEMOLOGIA
Ma come può accadere che questo stato d’animo, e il suo
correlato oggettivo, prenda il nome di «nichilismo»? Da
Parigi conviene spingersi molto più a nord, sino a Riga, in
Lettonia, dove l’editore Hartknock pubblicò nel 1781 la
Critica della ragion pura di Kant. Proprio in quest’opera che
apparentemente tratta soltanto di sapere, e che non sembra
dar spazio ai sentimenti, si trova l’origine del processo che,
in meno di cent’anni, porterà Nietzsche a teorizzare il
nichilismo europeo. Come? Attraverso quella che si
potrebbe chiamare «fallacia trascendentale», e che consiste
in una confusione tra l’ontologia, ossia quello che c’è, e
l’epistemologia, ossia quello che sappiamo.
In Kant tutto si raccoglie nell’idea della rivoluzione
copernicana: invece di chiederci come siano le cose in se
stesse, domandiamoci come debbano essere fatte per venire
conosciute da noi. Così, il mondo intero risulta dipendente
dall’io, e dagli occhiali che porta sul naso. È indubbiamente
un sentimento di potenza ma, al tempo stesso, di grande
angoscia, e soprattutto di totale negatività, perché investe i
soggetti – anzi, quel singolare soggetto che è l’io penso – di
una enorme responsabilità, quasi che il mondo cessasse di
esistere quando l’io non lo pensa e non lo sente. I due
cardini di questa tesi sono costituiti da due frasi. La prima è
che l’io penso deve poter accompagnare le mie
rappresentazioni, la seconda è che le intuizioni senza
concetto sono cieche.
Per la prima il mondo esterno viene assorbito nel mondo
interno, nell’io. Per la seconda, si determina un collasso tra
l’essere e il sapere, dal momento che si assume che non si
può avere alcuna esperienza del mondo in assenza di schemi
69
concettuali. Kant non pretende che il mondo non esista se
non ci pensiamo, si limita a sostenere che noi non possiamo
avere rapporto con il mondo se non attraverso la
mediazione di schemi concettuali, sicché quello che c’è
viene intrappolato nella ragnatela di quello che sappiamo.
Tuttavia quello che Kant propizia, sia pure con intenti
onestamente realistici, è la premessa di un idealismo
assoluto che priva il mondo di qualunque positività,
lasciandolo alla mercé di un soggetto-vampiro.
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  • 2. Presentazione UN’AVVENTURA UMANA E INTELLETTUALE CHE ANTICIPA LE CATASTROFI DEL NOVECENTO «In fondo la tua vecchia creatura adesso è un animale straordinariamente famoso» scrive Nietzsche alla madre, da Torino, nel dicembre 1888. Vuole illudere lei e se stesso: non è vero, nessuno lo conosce, è costretto a pubblicare i libri a proprie spese. Ma nel 1900, quando muore, ignaro di tutto dopo il tracollo che lo ha ridotto alla demenza, è davvero la star che aveva sognato di essere, celebrato da D’Annunzio e Thomas Mann, messo in musica da Strauss e dipinto da Munch. Soprattutto, per uno strano sortilegio, la volontà di potenza sembra uscire dalle pagine dei libri per farsi storia, dalle tempeste di acciaio della Prima guerra mondiale alla catastrofe di Hitler a Berlino. «Io sono Marlow, il testimone secondario. Lui è Kurtz» scrive Maurizio Ferraris, e risale la vita di Nietzsche come un fiume – il Congo di Cuore di tenebra o il Mekong di Apocalypse Now – ripercorrendone i vagabondaggi, tra l’Engadina e la Riviera, dalla fatale Torino alla Sassonia delle origini. Così a ogni stazione corrisponde un contenuto di pensiero – dal dionisiaco all’Eterno Ritorno, dal nichilismo alla morte di Dio – e insieme uno spaccato della storia intellettuale del Novecento, tra Jim Morrison e Heidegger, il ¡Viva la muerte! di José Millán-Astray y Terreros e la rivoluzione desiderante di Deleuze e Guattari, il Super- Eliogabalo di Arbasino e la scoperta degli antidepressivi. La fenomenologia dello spirito di una modernità tragica e rumorosa attraverso la storia di quello che si credeva (e non del tutto a torto) «il più silenzioso degli uomini». Maurizio Ferraris (www.labont.it/ferraris) è professore 2
  • 3. ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Torino, dove dirige il LabOnt (Laboratorio di ontologia). È editorialista di «La Repubblica», direttore della «Rivista di Estetica», condirettore di «Critique» e della «Revue francophone d’esthétique». Fellow della Italian Academy for Advanced Studies (New York), della Alexander von Humboldt Stiftung e del Käte Hamburger Kolleg «Recht als Kultur» di Bonn, Directeur d’études al Collège International de Philosophie, visiting professor alla Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi e in altre università europee e americane. Ha scritto una cinquantina di libri tradotti in varie lingue. Tra i più recenti, Documentalità (2009) e il Manifesto del nuovo realismo (2012), che hanno avviato un ampio dibattito internazionale. È in uscita da Bloomsbury la sua Introduction to New Realism. Da Guanda ha pubblicato Filosofia per dame (2009) e Anima e iPad (2011). 3
  • 4. 4
  • 5. MAURIZIO FERRARIS SPETTRI DI NIETZSCHE UGO GUANDA EDITORE IN PARMA 5
  • 6. Disegno e grafica di copertina di Guido Scarabottolo ISBN 978-88-235-1045-6 © 2014 Ugo Guanda Editore S.r.l., Via Gherardini 10, Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol Prima edizione digitale 2014 6 Qualunque parte di questa pubblicazione può essere riprodotta in un sistema di recupero dati o trasmessa in qualsiasi forma, o con qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, senza autorizzazione, a condizione che se ne citi la fonte.
  • 7. Torino, 15 ottobre 1944 Naufragio in riva al Po A Torino, in via Carlo Alberto 6, giusto all’angolo con piazza Carlo Alberto, c’è una targa con un bassorilievo che raffigura Nietzsche, e la scritta seguente: In questa casa FEDERICO NIETZSCHE conobbe la pienezza dello spirito che tenta l’ignoto la volontà di dominio che suscita l’eroe qui ad attestare l’alto destino e il genio scrisse Ecce Homo libro della sua vita a ricordo delle ore creatrici primavera autunno 1888 nel I centenario della nascita la città di Torino pose 15 ottobre 1944 a. XXII e. f. La targa fu posta in tempi grami. Io la vedo almeno due volte all’anno, perché in quella casa c’è lo studio del mio commercialista, e pago le tasse nella stanza di Zarathustra. In quello che – dopo le ristrutturazioni imposte da un bombardamento – è oggi un ufficio pieno di decoro 7
  • 8. subalpino, finisce in modo assurdo e increscioso la vita cosciente di Nietzsche, approdato a Torino nell’aprile del 1888 per poi tornarci definitivamente il 20 settembre, dopo l’estate trascorsa a Sils Maria tentando di portare a termine la Volontà di potenza (senza venirne a capo). Dico «definitivamente» perché quando, all’inizio del gennaio 1889, viene riportato a Basilea, Nietzsche è ormai pazzo, e morirà nel 1900 a Weimar senza saper più nulla di sé («non sa più nulla, è alto sulle ali», come scriveva Sereni del primo caduto sulla spiaggia normanna il 6 giugno 1944). Reduce da un ennesimo scacco, dopo la catastrofe accademica della Nascita della tragedia, il fiasco dello Zarathustra, lo scarsissimo interesse suscitato dai tanti libri pubblicati, Nietzsche aveva tentato la mossa del cavallo: smembrare il materiale accumulato per la Volontà di potenza (o Trasvalutazione di tutti i valori, come suona il sottotitolo spesso promosso a titolo) trasformandolo in piccole opere eccessive e provocatorie, destinate ad attirare l’attenzione su di lui. L’idea di Nietzsche è di far tradurre in francese, e poi in tutte le lingue di cultura, i frutti dell’autunno torinese, e di conquistare una fama mondiale; poi di pubblicare il suo capolavoro virtuale, e di dar seguito a una grandiosa (quanto indeterminata) azione politica. Vasto disegno. In effetti, sul piano della fama letteraria qualcosa incomincia a muoversi: Nietzsche stringe un rapporto epistolare con Strindberg e con Taine, e un germanista abbastanza noto, Georg Brandes, tiene delle conferenze su di lui a Copenaghen. Sono piccole cose, di cui però non smette di gloriarsi, soprattutto in quelle che sono le lettere torinesi più commoventi e rivelatrici, le poche scritte alla madre, dove si vanta di avere ammiratori – tra cui 8
  • 9. «le signore più affascinanti» – a San Pietroburgo e a Vienna, a Parigi, a Stoccolma, a New York («Ah, se tu sapessi con quali parole i personaggi più importanti mi esprimono la loro devozione»). Scrive anche che lui è ora un «animale famoso», e che tra i suoi lettori ci sono veri geni, e poi che a Torino sta benissimo, che si è fatto un paltò nuovo «foderato di seta blu», che si mangia ottimamente e a buon prezzo. Questa euforia è in patetico disaccordo con una esistenza che fa stringere il cuore, fatta di rifiuti da parte degli editori, isolamento, fondato sospetto che la vita lo abbia messo definitivamente alle corde. Una desolazione su cui pesa come una pietra tombale la lettera di Franz Overbeck (a giusto titolo valorizzata da Walter Benjamin in Uomini tedeschi) che lo esorta a lasciar perdere, a tornare a insegnare a Basilea, non all’università, dove non lo prenderebbero più, ma almeno al ginnasio, magari come professore di tedesco, perché – aggiunge Overbeck – «è una di quelle professioni, forse anzi lo è incomparabilmente più d’ogni altra, per cui negli ultimi anni tu non soltanto non hai perso tempo, ma ti sei fatto ancora più maturo». Wittgenstein ha scritto che la filosofia deve aiutare la mosca a uscire dalla bottiglia. In questo finale di partita vediamo e quasi sentiamo la mosca che sbatte contro le pareti della sua prigione. Dall’angolo in cui si è cacciato, Nietzsche reagisce attaccando Wagner e Cristo, variamente legati a figure paterne (il maestro di istrionismo, e il padre pastore protestante), ma anche due nomi tanto più famosi del suo. Poi ricorre all’eterna strategia del «chi non mi vuole», i tedeschi, gli editori, oramai anche gli amici e le amiche di un tempo, «non mi merita». E tenta di farsi nuovi 9
  • 10. amici e nemici scelti in un pantheon male assortito di giornalisti, statisti, re, imperatori, criminali, nomi trovati nei giornali letti al Caffè Fiorio, il suo ultimo approdo di terra. A un certo punto non si firma più col suo nome, ma con tanti, tratti dal mito e dalla storia, e dichiara finalmente a Cosima Wagner il proprio amore. Aveva ragione sua sorella Elisabeth, Fritz voleva diventare famoso, e lo desiderava con la stessa mancanza di decoro di un ammalato di celebrità. Ecco, per esempio, la differenza rispetto a un altro grande egotista, Baudelaire: non ci sono schermi dandystici in questo povero superuomo che confida alla mamma di conoscere delle principesse, o che il suo ex allievo e fedele copista Heinrich Köselitz (in arte Peter Gast) si è fidanzato con una aristocratica prussiana che possiede mezzo Brandeburgo. Possiamo immaginarcelo senza difficoltà intento ad aprire un blog dopo l’altro, a chattare con il Vaticano, il Cremlino e la Casa Bianca, a caricare i propri video su YouTube, ad annunciare a ripetizione l’uscita dei suoi libri su Facebook chiedendo la grazia di un «mi piace». «L’ufficio postale è a 5 passi da qui, imbuco io stesso le lettere per comunicare con i grandi elzeviristi del grande [sic] monde.» 10
  • 11. TORINO, 21 DICEMBRE 1888. «IO QUI VENGO TRATTATO COME UN PICCOLO PRINCIPE» La gloria millantata e mitizzata attutisce il sospetto della sconfitta. Alla vigilia della resa dei conti, Nietzsche scrive alla madre: «In fondo la Tua vecchia creatura adesso è un animale straordinariamente famoso: non proprio in Germania, dato che i tedeschi sono troppo stupidi e ordinari per l’altezza del mio pensiero e hanno sempre fatto brutte figure di fronte a me, ma da qualsiasi altra parte. Tra i miei ammiratori ho solo nature elette; tutte persone altolocate e influenti […]. Ho autentici geni tra i miei estimatori – non c’è nome, oggi, che venga onorato e rispettato come il mio. – Vedi, questo è il capolavoro: senza un nome, senza rango, senza ricchezze, io qui vengo trattato come un piccolo principe da qualsiasi persona, giù giù fino alla mia fruttivendola, che non ha pace finché non ha trovato per me il più dolce tra i suoi grappoli d’uva (che adesso costa 28 centesimi la libbra)» (21 dicembre 1888). E agli amici costernati: «Per la traduzione francese [di Ecce homo] mi avvarrò probabilmente del genio svedese A. Strindberg […]. Ieri ho spedito il CREPUSCOLO DEGLI IDOLI a M. Taine con una lettera in cui lo pregavo di interessarsi per una traduzione francese dell’opera. Anche per la traduzione inglese ho un’idea» (a Gast, 9 dicembre 1888). «L’opera che è in stampa adesso si intitola ECCE HOMO. Come si diventa quel che si è. Uscirà contemporaneamente in inglese, francese e tedesco. Le lettere che ricevo ultimamente dalla più alta società di San Pietroburgo, e anche da un autentico genio di poeta, che è svedese, hanno tutte un afflato di storia universale, come se il destino dell’umanità fosse nelle mie mani» (a Paul Deussen, 11 dicembre 1888). 11
  • 12. Come spesso succede, il tracollo ha luogo in un Wechsel der Töne, lo «scambio di toni» teorizzato da Hölderlin. C’è il mito, c’è la filosofia, c’è la vita quotidiana, e su tutto domina una buona dose di goffaggine professorale. Accanto al progetto di vivere nell’antica reggia dei Papi («Il mio indirizzo non lo so più: poniamo che per il momento possa essere il Palazzo del Quirinale») e di convocare una dieta di principi per fare fucilare il Kaiser, c’è la vicenda di una stufa economica ordinata in Germania; accanto alla convinzione di essere la reincarnazione di Alessandro Magno troviamo la correzione delle bozze (ne aveva ancora tra le mani quando Overbeck venne a prenderlo per portarlo in manicomio) e le lettere ora bellicose ora accomodanti all’editore. A quest’ultimo suggerisce tirature strepitose, assicurando che con lo Zarathustra si potrà diventare milionari: «In un momento in cui la mia vita si trova di fronte a un’immane decisione e sento gravare su di me una responsabilità per la quale non ci sono parole, non tollero che si commettano villanie nei miei confronti. L’editore dello Zarathustra! Del primo libro di tutti i millenni! In cui è racchiuso il destino dell’umanità! Che di qui a pochi anni verrà diffuso in milioni di esemplari!… Non appena uscirà Ecce homo sarò il primo tra i viventi. […] Non pretenderò mai onorari, questo rientra nei miei princìpi; ma vorrei che Lei partecipasse pienamente al successo, alla vittoria dei miei scritti. – La Trasvalutazione di tutti i valori sarà un evento senza pari, non di tipo letterario, ma di quelli che faranno tremare tutto ciò che esiste – è possibile che cambi il computo del tempo –» (26 novembre 1888). È in questo clima che, ai primi di dicembre 1888, abbozza una lettera destinata a Guglielmo II: «Con questa lettera 12
  • 13. rendo all’Imperatore dei tedeschi il più grande onore che gli si possa tributare, e che tanto più ha peso in quanto devo superare la mia profonda avversione per tutto ciò che è tedesco; gli porgo in mano la prima copia della mia opera, in cui si annuncia l’approssimarsi di un qualcosa di immane – una crisi come non si era mai vista sulla terra, la più profonda collisione di coscienze all’interno dell’umanità, un verdetto emesso contro tutto ciò che si era creduto, che si era preteso, che si era consacrato». Il 3 gennaio 1889 si dice che abbia abbracciato un cavallo frustato dal vetturino, ma ci sono buoni motivi per ritenere che si tratti di una leggenda, sia perché riecheggia il sogno di Raskol’nikov in Delitto e castigo, sia perché la sua prima attestazione risale a un articolo apparso sulla «Nuova Antologia» uscito tre settimane dopo la morte di Nietzsche, il 16 settembre 1900, e ormai in un clima favorevole all’agiografia: «Un giorno, mentre il signor Fino percorreva la vicina via Po […] vide un gruppo di gente che si avanzava ed in mezzo ad esso due guardie civiche che accompagnavano ‘il professore’. Tosto che lo scorse si gettò nelle braccia del signor Fino, il quale ottenne facilmente la liberazione dalle guardie, che raccontarono di aver trovato quel forestiero oltre i portici dell’università, fortemente abbracciato al collo di un cavallo da cui non voleva divincolarsi». 13
  • 14. NAPOLI, 25 AGOSTO 1900. PER LA MORTE DI UN DISTRUTTORE Mentre la nobile muffa d’Europa di Pau, Bayreuth ed Epsom si nutriva, lui abbracciava due ronzini, finché il padrone non lo trasse a casa. Nei versi di Gottfried Benn i cavalli si moltiplicano, al passo della fama dell’immemore. Chi scriveva da Torino era un pensionato in preda a una debordante crisi di mezza età, che aveva perso tutti i suoi amici e non era conosciuto da nessuno. Però quando quest’uomo muore nel 1900 è già una celebrità mondiale, con una leggenda aurea alimentatasi nel tempo, che oggi culmina con milioni di citazioni su Google, ma che è già attestata nei 491 versi di D’Annunzio, Per la morte di un distruttore. F. N. XXV AGOSTO MCM, nei quali, narrandosi i pellegrinaggi italiani di Nietzsche, «Cuma» fa rima con «fuma» (riferito al Vesuvio). Ancora pochi anni e quest’uomo che incarna la disgrazia omerica, «senza famiglia, senza legge, senza focolare», sarebbe stato tradotto in tutte le lingue, citato alla Camera da Mussolini, letto da generazioni di intellettuali e politici, prevalentemente di destra, per poi diventare un anomalo eroe di sinistra. Nel 1940, al valico di confine di Portbou, Benjamin, in fuga dalla Francia occupata dalla Wehrmacht, si era suicidato temendo di non riuscire a rifugiarsi in Spagna, e il giorno dopo lasciarono passare tutti quelli che erano con lui. Qualcosa del genere accadde a Nietzsche. Impazzito per l’indifferenza riservatagli dai contemporanei, quando ha dimenticato tutto, quando le parole «fama» o «D’Annunzio» non possono più dirgli niente, diventa 14
  • 15. l’uomo celebre che aveva sempre sognato di essere. Cadendo nella pazzia conclamata nei primi giorni del 1889, dopo un Natale e Capodanno trascorsi in una stanza d’affitto a raccontarsi di stare benissimo e di essere Dioniso e Alessandro Magno, Nietzsche non ebbe mai modo di sapere quanto aveva ragione. Sì, aveva davvero fatto un capolavoro, anzi un miracolo. La fama nasce e cresce mentre l’idiota è immemore e periodicamente esibito su un podio a ciò predisposto a Weimar (come il Cristo nella tomba di Hans Holbein il Giovane che Dostoevskij aveva visto nel 1867 a Basilea, giusto due anni prima che ci arrivasse Nietzsche, e di cui tanto si discute nell’Idiota). A Vienna viene fondata una associazione nietzschiana e nel 1898 Richard Strauss (che l’anno successivo si reca in visita all’Archivio, dunque vede Nietzsche senza che lui sappia chi è) compone il poema sinfonico Così parlò Zarathustra. Per restare a una scelta delle pubblicazioni che avvengono Nietzsche vivente, oltre alle conferenze di Brandes, stampate nel 1890 – anno in cui viene pubblicata, e sia pure in danese, la biografia di Ola Hansson – appaiono la monografia di Lou Salomé (1894) e, nel 1895, il primo volume della bio-agiografia scritta dalla sorella Elisabeth in cui (per riprendere il giudizio di Nietzsche sul Nuovo Testamento nel paragrafo 52 di Al di là del bene e del male) si sente il «caratteristico odore dolciastro e stantio proprio dei baciapile e delle anime grette». Sempre del 1895 è il libro di Rudolf Steiner, in cui Nietzsche viene definito un «combattente contro il proprio tempo», nel 1899 quello (in francese) di Henri Lichtenberger sull’idea di trasvalutazione e, nel 1900, il saggio di Julius Zeitler sulla estetica nietzschiana. Non 15
  • 16. sorprende che, già nel 1897, Tönnies si fosse trovato a stigmatizzare il culto di Nietzsche. Stupisce, casomai, che quest’aura mitologica si fosse diffusa tanto in fretta, per propagarsi in un crescendo nel nuovo secolo, quando Nietzsche è esaltato da filosofi entusiasti come Weininger o Papini, ma anche da filosofi sobri e professorali come Vaihinger, e strappa una inaspettata approvazione anche a Croce, che nel 1907 recensisce la traduzione italiana della Nascita della tragedia vedendoci «un libro scientifico sì nell’assunto ma circonfuso d’arte». In pochi anni, Nietzsche passa dal salon des refusés alla notte degli Oscar. E milionari, con lo Zarathustra, lo divennero per davvero la sorella di Nietzsche, Elisabeth, con le edizioni postume, e Strauss con la versione in musica portata in tournée da Philadelphia a Manaus per poi finire in orbita come colonna sonora in 2001 Odissea nello spazio. Mentre la figura dell’eroe dolente sarà dipinta da Munch (il quadro, primo di una interminabile serie di icone, è del 1906) e raccontata in decine di biografie in Germania, Francia, Italia, America, la letteratura tedesca, e poi mondiale, si impossessa di Nietzsche (Stefan George, Hoffmansthal, Rilke, Gide, Musil…) sino alla consacrazione del Doctor Faustus di Thomas Mann. In un mondo in cui la volontà di potenza, per uno strano sortilegio o piuttosto per una necessità storica, sembra uscire da un libro mai scritto per trasformarsi in una tempesta d’acciaio, le teorie giovanili su apollineo e dionisiaco nutriranno non solo le performance di Hermann Nitzsch, ma anche (lo vedremo) la poetica di Jim Morrison, il leader dei Doors, e risuonano nel rito finale della uccisione di Kurtz in Apocalypse Now, che – in un modo che non potrebbe essere più nitzschiano e 16
  • 17. nietzschiano – combina la Cavalcata delle Valchirie con The End, cioè appunto la Bayreuth di Wagner e la Los Angeles di Morrison. Questo miracolo ricorda il «miracolo della casata Brandenburg», la morte della Zarina che salvò Federico il Grande dalla disfatta e ne decretò il trionfo, tranne che qui la grazia è a scoppio ritardato. Non è chiaro se, alla luce dell’etica protestante, questa elezione avvenuta con un décalage lievissimo e fatale sia segno di una speciale indulgenza divina, perché l’approvazione del mondo giunta con un soffio di ritardo ha già incorporato e superato il naufragio circonfondendolo di una luce mistica. O se sia l’indizio di una dispettosa ironia teologica, quella di cui si lamenta Borges quando osserva che dio gli ha dato insieme la direzione della Biblioteca di Buenos Aires e la cecità. Ma il miracolo era nelle cose: Nietzsche, con una sensibilità che nessuno può avergli insegnato, ha messo in atto una strategia destinata a stravincere, e che applica con pazienza e puntiglio negli anni dell’oscurità e del misconoscimento: prende un po’ di tutto dalle idee correnti del suo tempo, specie le più radicali, poi le rielabora e le critica imputando loro una mancanza di radicalità. Risultato: il positivismo è troppo fiducioso nei fatti, il razionalismo dei professori troppo ottimista, il darwinismo non è abbastanza spietato nel descrivere la lotta per la vita, il cristianesimo ha dissimulato la volontà di potenza che si portano dentro gli ultimi. L’ingresso in filosofia della funzione-Nietzsche precede di una frazione di secondo non solo il riconoscimento da parte dei potenziali funtori, ma anche – se prendiamo come scala di riferimento duemilacinquecento anni di storia della 17
  • 18. filosofia – l’esplosione della società di massa, del cinema, della radio, e dei regimi totalitari. Questa funzione, che consiste nel radicalizzare, nell’estremizzare, giungendo alla massima tensione e di lì al paradosso, segue una logica mediatico-avanguardistica poi diventata corrente in filosofia. Tutto è già scritto in Ecce homo, in cui Nietzsche si racconta al pubblico con la stessa automitizzazione e mancanza di riservatezza che impone lo star system. Proprio come farebbe un «theorist» postmoderno, Nietzsche indirizza i suoi libri non ai colleghi, ma a una umanità ampia e indeterminata: tendenzialmente, alla stessa che si dava appuntamento a Bayreuth per l’esecuzione integrale dell’Anello del Nibelungo, e che poi si sarebbe trovata a Woodstock a sentire Jimi Hendrix e Janis Joplin. Una umanità che va anzitutto scandalizzata, stupita, e fidelizzata con la garanzia che ogni singolo lettore è il destinatario esclusivo di un messaggio sapienziale: che la virtù è solo una forma di volontà di potenza, che i concetti non sono che antiche metafore, che il tempo ritorna circolarmente, che non ci sono fatti, solo interpretazioni. È con questi ingredienti che Nietzsche ha creato la mitologia condensata nel sottotitolo dello Zarathustra, prototipo di milioni di promozioni pubblicitarie «per molti ma non per tutti»: un libro per tutti e per nessuno. Un libro per tutti, una specie di pensiero debole nel senso nobile del termine, cioè (scrive Roberto Bolaño) un pensiero «per gente che appartiene alle classi deboli», un poema in prosa che, con una infaticabile volontà pedagogica e mistagogica, trasforma il logos in mythos, in narrazione e in religione. E insieme un libro che teorizza l’ascesi, l’unicità, il sacrificio, l’eroismo, cioè, come recita la lapide di via Carlo Alberto, 18
  • 19. «la volontà di dominio che suscita l’eroe». Come puntualmente accadrà con lo Zarathustra, di cui nella Prima guerra mondiale viene stampata una speciale edizione, per suggerire – se non agli operai e ai contadini mandati in trincea per sottoporsi a uno sterminio industriale, almeno ai loro ufficiali – l’opportunità di sentirsi «una corda tesa tra la bestia e il superuomo». Ma fuori delle trincee la volontà di potenza è anzitutto volontà di presenza e ansia di riconoscimento. Nietzsche coglie, esprime e anzitutto incarna una caratteristica essenziale della modernità, l’aspirazione collettiva a essere straordinari, la ricerca universale di distinzione e di superiorità, l’esigenza fisica di dar voce a questa unicità, di esprimerla, di urlarla (sappiamo quanto ha urlato quello che, forse non a torto, si era autodefinito come «il più silenzioso tra gli uomini») e, oggi, di postarla. È un po’ come se, nella Fenomenologia dello spirito, il servo accettasse di continuare a servire, a patto di diventare famoso quanto o più del signore. È il paradosso del superuomo di massa, già in atto quando Andrea Sperelli, il miserabile eroe del Piacere, sputa fiele sui caduti di Dogali definendoli «quattrocento bruti, morti brutalmente!». Il mondo di Zarathustra è il mondo dei poveri superuomini che esibiscono tutto di sé sui social network. O, per risalire a una fase appena precedente, si pensi a tutte le persone (anzi, i personaggi, come si dice così esattamente) fotografati sulle copertine dei settimanali di pettegolezzi. Il superuomo rivela così, insieme, la sua comicità e la sua malinconia: tutti famosi per quindici minuti e, ora, infami per l’eternità, per una battuta infelice o stupida registrata e ritrasmessa urbi et orbi sul World Wide Web. Senza trascurare il fatto che i 19
  • 20. media sono stati anche più aperti e lungimiranti di Nietzsche, perché hanno creato non solo il superuomo, ma anche la superdonna, da Marilyn Monroe a Madonna a Lady Gaga. Come diceva Baudelaire nella dedicatoria delle Fleurs du Mal? «Hypocrite lecteur, – mon semblable, – mon frère!» 20
  • 21. TORINO, 6 GENNAIO 1889. «IN FONDO IO SONO TUTTI I NOMI DELLA STORIA» Con l’acuirsi della mitomania primaria se ne fa avanti un’altra, di secondo livello, un grande delirio teologico degno del Presidente Schreber, le cui Memorie di un malato di nervi, che incantarono Freud e Jung, risalgono del resto al 1903. Nietzsche incomincia a firmarsi «Dioniso» e «Il Crocifisso», ossia prende i nomi dei due redentori dell’umanità e insieme dei due grandi sacrificati; proprio per questo, nella sua sfida contro il cristianesimo, l’Anticristo non può non dirsi cristiano. Nel 1910 uscirono dai Fratelli Bocca di Torino due Ecce homo. Il primo era quello di Nietzsche, l’altro era quello di Sir John Robert Seeley apparso in forma originariamente anonima nel 1866, in cui lo storico e saggista inglese, sebbene educato al Christ’s College di Cambridge, attaccava Cristo vedendoci il fondatore di uno stato teocratico. Ben diverso, e soprattutto sinceramente identificatorio, è il trattamento riservato a Cristo dall’ultimo Nietzsche, che si sente anche lui un creatore di valori e un messia, e che culmina nella patetica corrispondenza tra la definizione di Cristo come «L’idiota sulla croce» nei Frammenti postumi del 18881889 e l’autocrocifissione del crollo torinese. La mitologia alla seconda potenza, teologica e sacrificale, trova la sua più alta testimonianza nella lettera a Jacob Burckhardt del 6 gennaio 1889: «Caro signor professore, alla fine sarei stato molto più volentieri professore basileese che dio; ma non ho osato spingere così lontano il mio egoismo privato da omettere, per causa sua, la creazione del mondo. Come vede, bisogna fare sacrifici, comunque e dovunque si viva. […] Quel che è sgradevole e nuoce alla 21
  • 22. mia modestia è il fatto che in fondo io sono ogni nome nella storia; anche per i figli che ho messo al mondo le cose stanno in modo tale che rifletto con una certa diffidenza se tutti quelli che vengono nel ‘regno di dio’ vengano anche da dio. Per due volte, questo autunno, mi sono trovato, vestito il minimo possibile, ai miei funerali, la prima volta come conte Robilant (no, questi è mio figlio, in quanto io sono Carlo Alberto, la mia natura sotto) ma Antonelli ero proprio io. Caro signor professore, dovrebbe vedere questo edificio; giacché sono assolutamente inesperto nelle cose che creo, a Lei è permessa qualsiasi critica, e io sono grato senza poter promettere di trarne vantaggio. Noi artisti siamo incorreggibili. Oggi mi sono visto un’operetta genial- moresca; per l’occasione ho constatato con compiacimento che adesso Mosca e anche Roma sono cose grandiose. Come vede, non mi si nega del talento nemmeno per il paesaggio. Pensi un po’, potremmo fare una bellissima chiacchierata. Torino non è lontana, per ora non ci sono seri impegni professionali, sarebbe possibile procurare una bottiglia di vino della Valtellina. È prescritto il négligé. Con cordiale affetto, Suo Nietzsche». E ancora, a mo’ di poscritto: «Vado dappertutto nel mio vestito da studente. Ogni tanto batto sulla spalla a qualcuno e dico: siamo contenti? son dio, ho fatto questa caricatura… Domani viene mio figlio Umberto con la graziosa Margherita, che però riceverò ugualmente in maniche di camicia… […] Di questa lettera può fare qualsiasi uso che non diminuisca la mia considerazione presso i basileesi». Le cause di una follia non sono mai chiare, e Nietzsche non fa eccezione. Ereditarietà, forse sifilide contratta in giovinezza (pare nel 1866, secondo una confidenza fatta 22
  • 23. all’amico Paul Deussen e trasfigurata nello Zarathustra, «Tra le figlie del deserto»), forse abuso di farmaci, forse, semplicemente, un orrore in cui avremo spesso modo di imbatterci. Se le avvisaglie del male fossero da registrarsi sin dal 1881-1882 (come sostennero Möbius nel 1902 e Benda nel 1925), tutta la parte più impegnativa della riflessione nietzschiana risulterebbe patologicamente condizionata. Questa impostazione può assumere versioni meno trancianti, come quella del principale biografo di Nietzsche, Curt Paul Janz, per il quale solo gli scritti dell’ultimo anno sarebbero da considerarsi come «post-filosofici»; se viceversa si assume che la follia irrompa tra il 28 dicembre 1888 e il 3 gennaio 1889, come propone Karl Jaspers nel suo libro del 1936, solo i biglietti della follia esulerebbero dal pensiero: ma ci rientrerebbero a pieno titolo se, con Michel Foucault, si decidesse che la follia interviene solo con la totale cessazione dell’opera. Poco dopo la lettera a Burckhardt anche i biglietti finiscono, e subentra lo stato che Overbeck, venuto a recuperarlo a Torino, descrive il 15 gennaio 1889 in una lettera a Peter Gast: «Scorgo Nietzsche rannicchiato nell’angolo di un sofà, intento a leggere, terribilmente emaciato; egli mi vede a sua volta e mi si precipita incontro, mi abbraccia vigorosamente, riconoscendomi, e scoppia in un mare di lacrime, poi si lascia cadere nuovamente sul sofà, scosso da sussulti, mentre anch’io per l’emozione non riesco più a stare in piedi. Forse proprio in quell’attimo gli si spalancò davanti l’abisso sul cui ciglio ora si trova, o dove piuttosto è già precipitato? In ogni modo, una cosa del genere non si ripeté più. […] Era entrato nel mondo delle sue allucinazioni, dal quale non è più uscito finché l’ho 23
  • 24. avuto sotto gli occhi, mantenendosi sempre lucido riguardo a me e in genere alle altre persone, totalmente ottenebrato riguardo a se stesso. Vale a dire che, stando al pianoforte, dove cantava a gola spiegata in preda alla frenesia ed esaltandosi sempre più, prorompeva in squarci di quel mondo di idee in cui era vissuto negli ultimi tempi, lasciando intendere nel contempo, con brevi frasi pronunciate in un tono smorzato indescrivibile, cose sublimi, di mirabile chiaroveggenza e di indicibile orrore, su se stesso come successore del dio morto, accompagnandole con una sorta di interpunzione al pianoforte, al che seguivano nuovamente convulsioni e accessi di una indicibile sofferenza; ma, come già detto, ciò avveniva solo in rari momenti passeggeri, finché almeno io fui presente, mentre nel complesso prevalevano le dichiarazioni relative alla missione che si attribuisce, quella di essere il pagliaccio delle nuove eternità, e lui, l’incomparabile maestro dell’espressione, non era in grado di rendere nemmeno le estasi della sua gaiezza se non con le espressioni più triviali, ovvero scurrilmente ballando e spiccando balzi». Il 10 gennaio 1889 Nietzsche viene ricoverato nella clinica Friedmatt di Basilea, da cui riparte il 17, insieme alla madre, contro cui pare avesse inveito sul treno da Torino. Dall’anamnesi di Basilea: «Il paziente giunge alla clinica accompagnato dai signori professori Overbeck e Miescher. Si lascia condurre nel reparto senza resistenza, durante il tragitto si duole che qui noi abbiamo un tempo così cattivo, dice: ‘Brava gente, domani voglio farvi un tempo splendido’». È l’allegria dei naufragi, di Artaud, di Van Gogh, di Hölderlin, o di Céline. 24
  • 25. VAL SAN MARTINO, 25 APRILE 1911. HARAKIRI «Bene navigavi, cum naufragium feci» è un detto che Nietzsche elegge a propria regola di vita. Senza allontanarsi dalle rive del Po, questo naufragio ne ricorda un altro, quello di Emilio Salgari, approdato a Torino nel 1893, cioè poco dopo che Nietzsche se ne è andato, e che nel 1911 si suicida facendo harakiri con gli occhi rivolti al sole che sorge in Val San Martino, sulla collina torinese. Cioè si sacrifica mettendo in scena uno dei suoi romanzi e insieme prendendo atto della realtà non romanzesca del suo fallimento. Lascerà scritto ai figli Fatima, Nadir, Romero, Omar (nomi non meno lunari di Zarathustra): «Sono un vinto: non vi lascio che 150 lire, più un credito di altre 600». Nietzsche e Salgari, questi due forzati della scrittura, sono accomunati dalla totale mancanza di difese e di cinismo, che li fa affogare nei loro stessi miti. È così che affiora una parentela non troppo segreta tra l’uomo che passeggiando sulle rive del Po fantastica di essere Dioniso e l’uomo che poco dopo e pochissimo lontano scriverà di Tremal Naik e di Yanez su un tavolo con una gamba più corta, per imitare il beccheggio di un praho. Nietzsche-Zarathustra si raffigura Wagner come il Minotauro e sua moglie Cosima come Arianna: «Alla principessa Arianna, la mia amata. È un pregiudizio che io sia un uomo. Tra gli indiani sono stato Buddha, in Grecia Dioniso – Alessandro e Cesare sono le mie incarnazioni». E Salgari-Sandokan si dichiara a Marianna: «‘Mia! Tu sei mia!’ esclamò egli delirante, fuori di sé. ‘Parla ora o mia adorata, dimmi cosa io posso fare per te, che tutto mi è possibile. Se vuoi andrò a rovesciare un sultano per darti un regno, se vorrai essere immensamente ricca io andrò a 25
  • 26. saccheggiare i templi dell’India e della Birmania per coprirti di diamanti e di oro; se vuoi mi farò inglese’». 26
  • 27. CONGO, 1902. «HE HAD SUMMED UP – HE HAD JUDGED. ‘THE HORROR!’» Continuava Sandokan: «Parla, dimmi ciò che vuoi; chiedimi l’impossibile e io lo farò. Per te mi sentirei capace di sollevare il mondo e di precipitarlo attraverso gli spazi del cielo». Nell’iperbole, nel sacrificio senza riserve, nel giocarsi il tutto per tutto, anche Nietzsche si impegna, da solo e, per così dire, a mani nude, in una guerra totale. E a questo punto, letteralmente, Non sa più nulla, è alto sulle ali il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna. Per questo qualcuno stanotte mi toccava la spalla mormorando di pregar per l’Europa mentre la Nuova Armada si presentava alle coste di Francia. Come in Proust convivono due pittori, il Maestro dell’Esprit de Guermantes, attento alle sfumature, alle conversazioni e alle cattiverie sociali, e il Maestro dei Biancospini, pieno di sensibilità primarie, di buone intenzioni e di buone intuizioni, così in Nietzsche coabitano due movimenti, due mani, due maestri. Il Maestro della Volontà di potenza, il virtuale inquilino del Walhalla, l’uomo che gode della guerra e dei tramonti è dispersivo ed esplosivo: io sono tutti i nomi della storia, The Way of All Flesh, Uno nessuno centomila, Here Comes Everybody, non ci sono soggetti ma solo punti di forza, monadi di potenza in lotta. Qui vivere è fabbricare maschere, portarsi fuori del proprio ambiente sociale di provenienza, spiare il momento in cui lo spirito del tempo si volgerà verso l’oltreuomo e lo 27
  • 28. riconoscerà. O anche semplicemente rassegnarsi alla malora e al crollo, vedendo nella rovina l’affermazione di una giustizia cosmica, di una volontà che vanifica e ridicolizza ogni volere individuale, d’accordo con la metafisica di Schopenhauer. Il Maestro dell’Eterno Ritorno procede in senso inverso e detta il capitolo di Ecce homo «Perché sono una fatalità». È lui che nell’incipit di questo libro non meno smisurato della lettera a Burckhardt, scrive: «Come mio padre sono già morto, come mia madre vivo ancora e invecchio». Se il Maestro della Volontà di potenza, seguendo una pulsione che potremmo chiamare di eros, si spinge all’autoaffermazione e alla catastrofe, il Maestro dell’Eterno Ritorno, radicalizzando la pulsione di morte o quantomeno l’ansia di controllo, vuole trasformare il contingente in necessario. Tutto tornerà eternamente, e dopo la vita ci sarà altra vita, insperata e uguale, perché ogni cosa ha già avuto luogo, e il futuro non è meno immutabile del passato. Può essere una immagine deprimente, ma in realtà è una grande promessa e una infinita consolazione, perché ci solleva dalla fatica e dalla vanità del titanismo che tormenta il Maestro della Volontà di potenza. Su tutto, però alla fine, domina l’orrore, l’«indicibile orrore» di cui parla Overbeck nella lettera da Torino, preciso e identico a quello di Cuore di tenebra. Un orrore che in Nietzsche è pensato e subìto invece che agito, e anche temuto, desiderato, profetizzato, evocato e scongiurato: «Una sera, mentre stavo entrando con una candela, trasalii sentendogli dire con voce tremula: ‘Sono qui sdraiato nel buio ad aspettare la morte’. La luce era a una spanna dai suoi occhi. Io mi sforzai di mormorare: ‘Oh sciocchezze!’, e 28
  • 29. rimasi lì impalato vicino a lui. «Non avevo mai visto prima una cosa simile al cambiamento che si produsse nei suoi lineamenti, e spero di non rivederla mai più. Oh, non m’impressionava. Ne ero affascinato. Era come se un velo si fosse strappato. Vidi su quel volto d’avorio l’espressione dell’orgoglio cupo, del potere spietato, del terrore vile – della disperazione immensa e senza speranza. È possibile che in quel momento supremo di conoscenza assoluta stesse rivivendo la sua vita in ogni dettaglio di desiderio, tentazione e resa? Sussurrò rivolto a una qualche immagine, a una qualche visione – gridò per due volte qualcosa che non era più che un rantolo: ‘L’orrore! L’orrore!’» 29
  • 30. BONN, 25 AGOSTO 2013. IL TESTIMONE SECONDARIO In questo momento sto scrivendo da Bonn, dove Pirandello, nel 1891, si è laureato con una tesi su La parlata di Girgenti, e dove Goebbels, tra il 1917 e il 1918, ha frequentato la facoltà di filosofia, appassionandosi ai romantici tedeschi. Nietzsche si era iscritto alla Università di Bonn nel 1864 per studiare prima teologia, poi filologia, ma se ne era andato via l’anno dopo, alla volta di Lipsia, «come un fuggiasco», al seguito del suo professore, Friedrich Ritschl. Se il Maestro dell’Eterno Ritorno ha ragione, una necessità geologica e geografica prima ancora che storica guida la vita di Nietzsche, che non poteva non impazzire nello studio del mio commercialista, così come non poteva non nascere a Röcken, né astenersi dal fare il turista o l’anima in pena tra la Svizzera e la Riviera. Con gli anni, mi sono reso conto di essere stato in quasi tutti i posti in cui ha soggiornato Nietzsche, oltre a essere nato, cresciuto e invecchiato nella città in cui «conobbe la pienezza dello spirito che tenta l’ignoto». Stargli dietro non è facilissimo, ma nemmeno troppo difficile. Nietzsche fu il primo filosofo a fare del turismo nel senso moderno: molti spostamenti, soggiorni anche relativamente brevi, piccole vacanze, e attenzione al portafogli. Del resto, dopo il pensionamento da Basilea nel 1879 (cioè a trentacinque anni), che scelta gli restava? Tornare a Naumburg da sua mamma? «Fossi matto»: e infatti ci tornò definitivamente solo dopo la crisi del 1889, dopo averci passato un inverno spaventoso una decina d’anni prima. Nella villeggiatura forzata e, nella maggior parte dei casi, solitaria, Nietzsche più che altro passeggiava, anche perché si stancava presto gli occhi e più di tanto non poteva leggere né scrivere. La 30
  • 31. madre gli mandava dei prosciutti che lui teneva in fresco avvolgendoli in un asciugamano umido (si trattava infatti di un tipo speciale di prosciutto, il Lachsschinken, cioè, potremmo dire, «prosciutto salmonato», roseo e delicatissimo), lui andava in giro con un ombrello a tracolla, per avere le mani libere casomai dovesse prendere appunti, e, nonostante i tanti turbamenti del corpo e dello spirito, finiva per apparire muscoloso e abbronzato. Gli itinerari del decennio ’79-’89 possono essere ripetuti senza difficoltà anche oggi, sebbene a prezzi che il pensionato di Basilea (che dai suoi 3000 franchi annui doveva detrarre i soldi per la pubblicazione dei suoi libri) non potrebbe più permettersi. Nietzsche detestava la Germania e (a parte cinque settimane a Lipsia, nell’autunno 1882), non ci tornò se non molto sporadicamente, a Baden- Baden (prima delle dimissioni), e poi a Marienbad e a Tautenburg. Progettò anche di andare a Parigi e a Vienna, con Lou Salomè e Paul Rée, però non se ne fece niente, e la sola capitale in cui soggiornò un paio di volte – tranne qualche fugace visita a Berlino – fu Roma. In generale, l’Italia fu la meta preferita. Qualche città d’arte, come Venezia (imitando Wagner) e Firenze (un mese nell’autunno 1885, ospite di un ammiratore, Paul Lanzky, che però presto Nietzsche non sopportò più), e all’inizio il meridione, ancora come Wagner, talvolta con qualche correzione (ad esempio, andò a Sorrento invece che a Ravello). Più tardi prevalse la riviera: Nizza, da poco francese, con passeggiate sino alla vicina Villefranche-sur- Mer, dove conobbe Joseph Paneth, un giovane biologo viennese che fu il primo a parlare di lui a Freud; Rapallo, dove giunse sopraffatto dalla fine della vicenda con Lou e 31
  • 32. compose parte dello Zarathustra; Ruta, sopra Camogli, dove c’è la galleria che passa sotto il Monte di Portofino e conduce a Santa Margherita e a Rapallo (e da «Ruta di Genova» è datata la prefazione di Aurora). Questo d’inverno (una volta passò anche per Riva del Garda). Nelle mezze stagioni gli capitò di andare a Stresa, Cannobio, a Orta; ma anche a Recoaro e a Vicenza. D’estate preferiva la Svizzera, e qui la villeggiatura più nota è Sils Maria, non lontano da Davos; la casa in cui affittava una stanza è oggi riconoscibile perché nel prato antistante c’è una statua con un’aquila, ed è una foresteria per studiosi nietzschiani. Ma all’inizio, anche prima del pensionamento, era stato a Rosenlauibad, nello Oberland bernese, a Interlaken e a Bad Ragaz – dove, qualche decennio prima, villeggiava, vecchissimo e visionario, Schelling, che difatti è seppellito nel locale cimitero, con tanto di lapide dettata dal re di Baviera: «Al più grande filosofo di Germania». Si trovò bene a St. Moritz; malissimo invece a Lenzerheide, dove, in una stanza troppo umida, compose il frammento sul nichilismo europeo su cui torneremo più avanti. Tutto sommato, delle scelte ben poco zarathustriane (diversamente da quelle di sua sorella Elisabeth, detta «Il Lama», che finì in Paraguay, sebbene non per turismo, bensì perché animata dal proposito di fondare col marito una colonia di pura razza tedesca), con due eccezioni rispetto agli itinerari più battuti: Genova, e la fatale Torino. Risaliamo la sua vita come un fiume. Io sono Marlow, il testimone secondario. Lui è Kurtz. 32
  • 33. Sils Maria, 26 agosto 1888 Volontà di potenza Da Torino torniamo indietro a Sils Maria, dove soggiornarono, oltre a Nietzsche, Proust e Hermann Hesse, Thomas Mann e Rainer Maria Rilke, Karl Kraus e Ernst Robert Curtius. Theodor Wiesengrund-Adorno ci trascorse tutte le estati tra il 1955 e il 1966 con la moglie, al Grand Hotel Waldhaus, manifestazione sensibile del «Grand Hotel Abisso», cioè degli astratti turbamenti etico-politici dei francofortesi su cui ironizzava Lukács. Una volta lo andò a trovare anche Paul Celan, scortato da Peter Szondi, e scrisse «Gespräch im Gebirg», una prosa sulla identità ebraica. Nietzsche affittava una stanza lontanissima dai lussi del Waldhaus. Qui, il 26 agosto 1886, compose quello che solitamente viene considerato l’ultimo piano della Volontà di potenza, un’opera mai esistita in quanto tale, e che insieme è stata uno dei libri (e degli slogan) più influenti nel secolo scorso. 33
  • 34. NAUMBURG, GENNAIO 1889. IL FANTASMA DELL’OPERA Dopo il crollo, il 19 gennaio 1889 Davide Fino, il padrone di casa torinese, spedisce ai familiari di Nietzsche un baule contenente i suoi effetti personali, i libri, e i quaderni di appunti. Tutti pensano (e molti, come Overbeck, temono) che nel baule torinese ci fosse la Volontà di potenza (o, titolo o sottotitolo alternativo, la Trasvalutazione di tutti i valori). Non trovando che appunti, i curatori in pectore suppongono che l’opera sia da qualche altra parte, o che sia andata persa. In effetti, Nietzsche, nelle lettere degli ultimi mesi di vita cosciente, aveva lasciato intendere ai suoi corrispondenti di avere compiuto la sua «opera principale», ma, lo abbiamo visto, le cose andarono altrimenti. A ricostruire congetturalmente l’opera, partendo dagli appunti, ci penseranno gli eredi, quasi che il libro maledetto cercasse a tutti i costi di venire alla luce, incurante del fallimento e persino della morte del suo autore. Nel 1901 esce la prima edizione della Volontà di potenza, a cura di Ernst e August Horneffer e di Peter Gast, con una prefazione di Elisabeth. Comprende 483 pseudoaforismi e costituisce il volume XV della cosiddetta Großoktavausgabe, l’«edizione in ottavo grande». La disposizione dei materiali è tematica e non cronologica. Nel 1903, come volume XIII della Großoktavausgabe, curato da Peter Gast e da August Horneffer, appaiono – questa volta, ordinati cronologicamente – i frammenti postumi 1882/3-1888 sotto il titolo generale «Dal periodo della Trasvalutazione». Altri ne seguiranno l’anno dopo, nel volume XIV, curato da Gast (che firma anche la prefazione) e da Elisabeth. Quest’ultima, il 15 ottobre 1904, sessantesimo anniversario della nascita di Nietzsche, pubblica il secondo tomo del secondo volume 34
  • 35. della vita del fratello; due capitoli sono dedicati alla Volontà di potenza, con larghe citazioni di inediti che confluiranno, nel 1906, in una edizione con 1067 pseudoaforismi a cura di Elisabeth e di Gast, destinata a restare canonica, e che costituisce i volumi IX e X della edizione tascabile delle opere di Nietzsche da poco avviata sulla scia del successo dell’edizione maggiore. Ma la lista delle versioni della Volontà di potenza non finisce qui: nel 1911 esce l’edizione Weiß, con una appendice comprensiva di altri piani; nel 1917 è la volta dell’edizione «da trincea» di Max Brahn, con 696 pseudoaforismi; nel 1930 viene pubblicata, a cura di August Messer, una versione ridotta, nel quadro di una edizione in due volumi delle opere di Nietzsche, con 491 pseudoaforismi; nel 1935 esce da Gallimard, curata da Friedrich Würzbach, una traduzione francese con addirittura 2397 pseudoaforismi, tuttora ristampata, che verrà pubblicata in tedesco nel 1940. Fra i tanti spettri di Nietzsche, quello della Volontà di potenza non è il meno ingombrante. Non solo per le vicende della sua composizione, ma soprattutto per quelle della sua ricezione, dove si è assistito, in parallelo, a un susseguirsi di commentari politico-filosofici e al dispiegarsi della guerra totale. Perché il secolo in cui la Volontà di potenza fa il suo corso è anche il secolo delle guerre mondiali e dell’Olocausto, poi della Guerra fredda e – giusto cent’anni dopo la prima edizione della Volontà di potenza – delle Twin Towers. Come è possibile che chi ha coltivato l’idea della volontà di potenza, e che nelle opere pubblicate quando era padrone di sé ha predicato contro l’uguaglianza, l’umanità, gli «operai della filosofia» (Kant e Hegel) e gli 35
  • 36. operai senza virgolette, sia stato anche considerato un profeta della liberazione, accanto e oltre a Marx? 36
  • 37. TORINO, MARZO 1975. «LEI HA LETTO I FRANCESI?» «Lei ha letto i francesi?» Gianni Vattimo mi rivolse questa domanda nel suo studio all’università di Torino nel marzo 1975 (meno di due mesi dopo, il 30 aprile, Saigon sarebbe stata espugnata dalle truppe di Ho Chi Minh, mentre le colonne di fumo dei documenti bruciati si sollevavano dall’ambasciata americana). Lì per lì non capii a chi si riferisse: a Balzac? A Proust? A Dumas? Ovviamente, non intendeva loro, bensì una lista di nomi a me perfettamente ignoti: Derrida, Deleuze, Foucault, Klossowski… Mi misi d’impegno per saldare il debito formativo, e a ripensarci mi pare che la mia impresa ondeggiasse tra l’apprendistato di Bouvard e Pécuchet e quello di Rousseau, tra la volontà di sapere ottusa e la disperazione nervosa, come quando Jean-Jacques scopre che a pagina 3 di un libro si trova un passo oscuro, cerca di chiarirlo con un altro libro, che risulta però indecifrabile a pagina 2, rinviando a un terzo libro, che a pagina 4 contiene un enigma, e alla fine si trova sconfortato in una stanza piena di libri aperti… Così, più o meno, per me. Ricordo che andai persino a fare letteralmente la spesa in Francia, partii per Chambéry, feci qualche giro per librerie, e tornai indietro in giornata. Questo, appunto, nella primavera ’75. In autunno ricordo la stessa scena in grande a Parigi, dove le librerie promettevano meraviglie. Il che, se vogliamo, è il lato Bouvard e Pécuchet. Ma ben più angoscioso era il lato Rousseau: cosa significa tutto questo? I libri che mi ero comprato e sottolineavo con ansiosa incomprensione – gli evidenziatori sarebbero apparsi anni dopo, insieme ai post-it – erano opere come Nietzsche e il circolo vizioso di Pierre Klossowski (1969), ma anche, fuori 37
  • 38. dal riferimento nietzschiano, Sade prossimo mio (1947) sempre di Klossowski – di lì a poco lo vidi citato nella bibliografia, che già allora mi parve un po’ pretenziosa, posta in apertura di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini, la sua ultima opera che venne a confondersi con la sua morte, il 2 novembre del 1975. Poi c’erano gli Scritti di Lacan, tradotti nel 1974, cui seguirono i seminari, che all’inizio (e per quel che mi riguarda nelle gite in libreria a Parigi) si compravano in trascrizioni semiclandestine, proprio come i bootleg, le incisioni non autorizzate dei concerti di Dylan e dei Rolling Stones. Ma quelli che davano il tono dell’epoca erano Deleuze e Guattari, di cui sempre nel 1975 era stato tradotto in italiano L’Anti-Edipo, uscito in Francia tre anni prima. Da lì diventava possibile risalire a un vecchio libro di Deleuze, Nietzsche e la filosofia (1962), e al più ambizioso Differenza e ripetizione (1968) che, nella edizione italiana, aveva come prefazione una recensione scritta da Foucault anche per suggerire che quello, e non La scrittura e la differenza di Derrida (1967), era il gran libro del momento, anzi, dell’avvenire: «Un jour, peut-être, le siècle sera deleuzien». Foucault si vendicava delle critiche di Derrida alla Storia della follia, ma esprimeva anche una ammirazione sincera per Deleuze, con una prosa che risuscita lo spirito dell’epoca: «Nella garitta del Lussemburgo, Duns Scoto infila la testa nella lunetta circolare; i suoi mustacchi imponenti sono quelli di Nietzsche travestito da Klossowski». Il microcosmo parigino si presentava come un macrocosmo speculativo in cui Duns Scoto dava la mano a Nietzsche, Marx a Heidegger, Sade a Kant, Mallarmé a Lenin. Una cavalcata delle Valchirie tra metafisica, 38
  • 39. surrealismo e politica, piena di coups de théâtre, ma al riparo da qualunque conseguenza, visto che si svolgeva nel cielo delle idee. A tanto maggior ragione questo valeva per il mio piccolo mondo torinese, in cui rivedo ancora molto Gozzano, tra La signorina Felicita («Tu non fai versi. Tagli le camicie / per tuo padre. Hai fatta la seconda / classe, t’han detto che la Terra è tonda, / ma tu non credi… E non mediti Nietzsche…») e lo struggimento di Torino: Quante volte tra i fiori, in terre gaie, sul mare, tra il cordame dei velieri, sognavo le tue nevi, i tigli neri, le dritte vie corrusche di rotaie, l’arguta grazia delle tue crestaie, o città favorevole ai piaceri! Quattro anni dopo, nel 1979, avevo appena scritto la mia tesi, che era essenzialmente un commento «ai francesi», quando vidi, all’edicola della stazione di Porta Nuova (ossia della stazione da cui Nietzsche era transitato tante volte), un libro di Dario Bernazza, O si domina o si è dominati. L’autore mi era ignoto, e lo rimase a lungo, perché non aveva un pedigree sufficiente agli occhi di un neolaureato che per aver letto un po’ di libri credeva di averli letti tutti, o quasi. Credo che fosse un pensatore solitario, forse un autodidatta, che si stava cimentando con grandi temi (nel 1984 scrisse un libro dove proponeva la soluzione del problema di dio). Sono passati trentacinque anni e non l’ho ancora letto, a questo punto è probabile che non lo leggerò mai, anche se, come talora accade, lo spettro di quel libro non letto ha agito tantissimo in me, come un arto fantasma, come un rimorso, come un rimprovero. 39
  • 40. A cosa doveva ricondursi il mio senso di superiorità nei confronti di Bernazza, un autore che tutto sommato affrontava gli stessi temi che avevo abbordato nella mia tesi? Oltre che alla spocchia del neofita, a un oscuro senso di colpa, o meglio a un dubbio che non osava prendere forma e voce. Bernazza, in quel libro che fu un best seller delle edicole ferroviarie, sosteneva una versione molto piana della volontà di potenza: è innata in noi la sete di dominio, è legge di natura, e allora tanto vale prenderne atto, altrimenti soccomberemo alla sete di dominio altrui. È la banalità del male, è quello che leggiamo nel diario di Goebbels, 8 maggio 1943: «Oggi viviamo in un mondo in cui bisogna scegliere tra sterminare ed essere sterminati. Non siamo noi che abbiamo creato questo mondo». I miei autori di quegli anni, forse con la sola eccezione di Foucault, sostenevano invece che in Nietzsche abbiamo a che fare con ben altro: l’esito ultimo della storia della metafisica, una sofisticata parodia, un gesto estremo di auto-annullamento del soggetto e l’annuncio di una umanità futura in cui la violenza avrebbe lasciato il posto alle belle arti. Il contrario di Bernazza, e di Goebbels. Ma anche di Nietzsche? La volontà di potenza è una idea incontestabile, una delle poche cose che sembrano chiare come il sole: c’è volontà di potenza in giro, ce ne accorgiamo (e non è né una grande scoperta né una bella sensazione) tutti i giorni. Ed è anche, insieme, una idea pazzesca, l’idea per cui tutto, nel mondo, compresi gli alberi e le sedie, e ovviamente gli organismi anche molto semplici – Nietzsche la trova anche nella scissione delle amebe, che si annientano per raddoppiarsi – è manifestazione della volontà di potenza. È anche, e soprattutto, una idea sinistra, perché si traduce in 40
  • 41. una assoluzione della violenza. Per venire subito al dunque, se uno chiede «Volete la guerra totale?» fa una domanda superflua, a cui la risposta ovvia è «Sì». 41
  • 42. PARIGI, 1944. ALLEGORIA E FILOLOGIA «Denazificare Nietzsche?» si chiedeva nel 1947 Karl Schlechta. Dopo il crollo del Terzo Reich (si potrebbe riconoscere il processo con esattezza seguendo il ritmo della avanzata degli alleati, visto che il fenomeno inizia nel 1944 nella Parigi appena liberata, con Sur Nietzsche di Bataille), si possono osservare tra i filosofi, o almeno tra i lettori professionali e accademicamente accreditati, due strategie di denazificazione, che hanno luogo, non casualmente, fuori della Germania (dove Nietzsche è recuperato, ma più tardi, nel ’68, da Habermas, come gnoseologo del sospetto), e che seguono, come è naturale e giusto, le due strade canoniche del metodo allegorico e del metodo storico-grammaticale. Il primo inizia con il Nietzsche americano di Walter Kaufmann (1950), che con impassibile tranquillità afferma, per esempio, che quando Nietzsche parla di «belva bionda» non allude ai Germani antichi, e risorti nell’opera wagneriana, bensì al leone, quello che si trova allo zoo – suscitando le ovvie e motivate ironie di Lukács. Molto più potente è la trasfigurazione attuata, nel 1961, dalla pubblicazione dei due volumi del Nietzsche di Heidegger. E non solo più potente, ma anche più sottilmente paradossale, con una ironia quasi gidiana, perché l’intenzione di Heidegger, che aveva scritto quelle pagine trent’anni prima, ai bei (per lui) tempi di Hitler, era diametralmente opposta a quella di procedere a una denazificazione – però certo sostenere che bisogna leggere lo Zarathustra con la stessa deferenza testuale che va dedicata alla Metafisica di Aristotele vale più di mille ermeneutiche della belva bionda, perché colloca Nietzsche seimila piedi al di sopra della geografia e soprattutto della storia. 42
  • 43. Il metodo storico-grammaticale è invece quello che consiste nel dire che il testo nietzschiano è stato falsificato e che a ripristinarlo nella sua autenticità ci restituirebbe un Nietzsche certo enfant gâté o enfant terrible, ma comunque politicamente accettabile. È la strategia che costituisce il presupposto ideologico, retrospettivamente del tutto comprensibile, della edizione Colli-Montinari, la cui pubblicazione ha inizio nel 1964. Per una sorta di eterogenesi dei fini, questa edizione postbellica ha ottenuto un grande risultato culturale, restituire alla discussione pubblica e filosofica Nietzsche, al prezzo di un monumentale equivoco ermeneutico, sostenere che il Nietzsche «autentico» degli anni Sessanta è tutt’altra cosa dal Nietzsche che era stato letto e commentato negli anni Trenta. È così che l’uomo che ha voluto «imprimere all’essere il carattere del divenire», ossia un pensatore tanto più politico in quanto si professa «impolitico», si trasforma in un pacifista schopenhaueriano, in un mansueto profeta della non violenza. Ad esempio, Colli cita il frammento di Nietzsche «La volontà non esiste», e commenta: «E pensare che per un secolo ci si è azzuffati per penetrare entro la formula magica della volontà di potenza, e soprattutto per giudicarla». Ora, è vero che Nietzsche sostiene in qualche luogo che la volontà non esiste, ma in tanti altri luoghi scrive che esiste eccome, e che è anzi l’essenza dell’universo; ed è anche vero che ha progettato un’opera intitolata Volontà di potenza. Concludere che «la volontà non esiste» significa «la Volontà di potenza non esiste» è davvero correre troppo. Poi c’è il lavorìo di Montinari volto a mostrare come, in extremis, Nietzsche avrebbe abbandonato il progetto della 43
  • 44. Volontà di potenza. Anche qui, al massimo si dimostra che Nietzsche ha rinunciato a un libro di cui non è venuto a capo, sebbene continuasse a parlarne sino alla fine, traendo in inganno i suoi corrispondenti. Non che un böse Geist travestito da sorella ha fantasticato e falsificato, e che la volontà di potenza non esiste. Infine, c’è l’assunto complessivo, che sta alla base dell’edizione – e che determinò per parecchio tempo la sopravvalutazione dei frammenti postumi rispetto alle opere edite, trasformando i commentari nietzschiani in una sorta di Finnegans Wake – secondo cui, in quei frammenti che si supponevano scampati a chissà quale massacro, si sarebbe compreso che il vero Nietzsche era uomo di tutt’altra pasta rispetto a quella strumentalizzata dai nazisti. Ma Nietzsche resta lo stesso, in tutte le sue contraddizioni e antitesi, nei frammenti postumi come nella Volontà di potenza. E se poi non ci va di leggerla, è sufficiente ricorrere agli editi per trovare delle affermazioni spietate quanto basta. 44
  • 45. WEIMAR, 1901. LA SORELLA-PARAFULMINE Insomma, per esorcizzare gli spettri di Nietzsche e l’opera-fantasma è necessario invocare l’intervento di un’altra potenza malefica, nella fattispecie di una strega o quantomeno di una «donna parafulmine», una figura che Nietzsche ha forgiato pensando a Cosima Wagner, che si fa carico delle antipatie suscitate dal grand’uomo, e che si adatterebbe perfettamente a Elisabeth (e Therese e Alexandra, perché battezzata, come Friedrich Wilhelm, coi nomi dei dinasti), la sorella-parafulmine, accusata di aver nazificato i testi nietzschiani. Attivista e megalomane, Elisabeth ebbe autorevoli sostegni per ben tre candidature al Nobel (ovviamente grazie allo spettro dell’uomo-dinamite, il che non è privo di ironia), ma prima dell’ascesa al potere di Hitler, nel 1911, nel 1914 e nel 1922. E ben più che Hitler e Mussolini frequentò, anche qui realizzando i fantasmi di riconoscimento sociale del fratello, Gide, Hofmannsthal, Mahler, Rathenau. Arricchita dall’Archivio, riconosciuta dal mondo, e – elemento non trascurabile in materia di falso ideologico – poco intelligente, aveva di meglio da fare che falsificare in senso reazionario o nazista il fratello. Se non altro perché Fritz reazionario lo era per davvero, come capirono benissimo D’Annunzio e Langbehn molto prima che Elisabeth mettesse mano ai suoi testi. E nazista non lo fu mai, per ovvi e ineludibili motivi cronologici. Secondo la vulgata che circola tuttora, la sorella- parafulmine avrebbe compiuto falsificazioni a diversi livelli, e in particolare: 1. Pretendendo che Nietzsche avesse veramente e sino all’ultimo progettato un’opera intitolata Volontà di potenza. 2. Dando a intendere che il progetto 45
  • 46. incompiuto di Nietzsche consistesse proprio nel testo che veniva fornito ai lettori. 3. Interpolando affermazioni estremistiche, protonaziste e antisemite nel testo del fratello. 4. Commettendo gravi sviste di trascrizione. 5. Conferendo un andamento aforistico a frammenti che come tali non erano, necessariamente, degli aforismi. 6. Attribuendo a Nietzsche quelli che in realtà erano estratti di lettura da altri autori. Le accuse (2) e (4) si smontano da sole. Se la Volontà di potenza ha conosciuto tante edizioni tutte diverse per organizzazione e dimensioni, è difficile pensare che Elisabeth volesse dare a intendere, di volta in volta, che il testo pubblicato fosse in qualche modo definitivo e corrispondente alle intenzioni dell’autore; e quanto alle sviste, ci sono come in qualunque altra edizione, ma bisogna considerare che Elisabeth aveva il vantaggio di essersi servita, per qualche tempo, di Peter Gast, che conosceva la grafia di Nietzsche meglio di chiunque altro. Più complicata, visto che verte sull’accertamento di intenzioni che non si possono verificare né in positivo né in negativo, è l’accusa (1). In effetti, non abbiamo la minima idea di che cosa avrebbe fatto Nietzsche se non fosse sopravvenuto il crollo torinese, ma nulla autorizza a escludere che avrebbe pubblicato la Volontà di potenza (ovviamente non nella forma che conosciamo, a meno che sia riuscito a Elisabeth un miracolo borgesiano alla Pierre Menard, autore del Chisciotte), giacché l’argomento di solito addotto, e cioè che da un certo momento in avanti comincia a parlare di un’opera intitolata Trasvalutazione di tutti i valori, non appare affatto decisivo, trattandosi, come abbiamo detto, di un titolo concorrente o di un sottotitolo 46
  • 47. della Volontà di potenza che si trova negli abbozzi sin dalla prima metà degli anni Ottanta. Soprattutto, risulterebbe fuorviante vedere nell’abbandono della Volontà di potenza, definitivo o provvisorio che fosse, il segno di un qualche ravvedimento, quasi che Nietzsche, resosi conto delle enormità che andava scrivendo, avesse deciso di lasciar perdere (tesi che, sia detto di passaggio, gli attribuisce proprio quella psicologia del pentimento e della penitenza che ha combattuto in tutte le sue opere). Semmai, pare invece plausibile ipotizzare che avesse coscienza dei difetti teorici dell’opera, e in particolare di alcuni nodi irrisolti che lo dissuadevano dall’esporsi al giudizio del pubblico. Si può invece rispondere senza esitazione di no all’accusa (3). Elisabeth non ha interpolato affermazioni estremistiche, protonaziste o antisemite sia per ragioni di fatto (per accorgersene basta collazionare gli pseudoaforismi con i frammenti postumi corrispondenti), sia per varie ragioni di diritto, e in particolare per due motivi. In primo luogo, come ho ricordato prima, affermazioni altrettanto e anche più moralmente problematiche sono contenute nei libri che Nietzsche pubblicò nel corso della sua vita cosciente, dunque Elisabeth non aveva alcuna necessità di rincarare la dose. In secondo luogo, Elisabeth non ne aveva non dico bisogno, ma nemmeno interesse, giacché la convenienza di compiacere un regime nazista era ancora molto di là da venire (nel 1901 Hitler aveva i calzoni corti, e non solo durante i soggiorni a Berchtesgaden), e, nel frattempo, restavano gli inconvenienti legati alla gestione di un lascito che avrebbe potuto incontrare la censura delle autorità ecclesiastiche; era questa la preoccupazione maggiore della sorella, che difatti, quando pubblicò l’Anticristo, omise il 47
  • 48. sottotitolo Maledizione del cristianesimo. Le falsificazioni materiali di Elisabeth, che hanno avuto luogo, si sono esercitate nell’epistolario, per esempio quando finse che fossero indirizzate a lei delle lettere che Nietzsche aveva scritto alla madre, e questo per accreditarsi, contro la verità dei fatti, come interlocutrice privilegiata del fratello, quale in realtà non fu mai, almeno nei termini che pretendeva. Resta il sospetto, anzi, la motivata certezza, che Nietzsche, ove si fosse deciso a pubblicare la Volontà di potenza, non lo avrebbe fatto nel modo (anzi, nei molti modi) che conosciamo. Appare anche plausibile ritenere che non avrebbe dato un andamento aforistico alla sua opera, almeno se consideriamo che, per esempio, la Genealogia della morale (1887), l’ultimo libro pubblicato prima degli scritti dell’autunno torinese, costituisce un ritorno almeno formale alla dissertazione scientifica. Questo significa, dunque, che l’unica vera accusa a Elisabeth che resta in piedi è la (5), sebbene anche in questo caso si possa sostenere che, se è probabilissimo che gli aforismi non sarebbero stati quelli che conosciamo proprio come l’opera non sarebbe stata quella che abbiamo sotto gli occhi, non è detto che a un certo punto – magari, come ripiego rispetto al progetto scientifico e sistematico – Nietzsche non potesse propendere per la soluzione frammentaria, come nel Crepuscolo degli idoli. Certo, appare indubbiamente più corretto, per la Volontà di potenza, parlare di «pseudoaforismi», così come si potrebbe parlare di una «pseudo-opera», purché con questa espressione si intenda un’opera che non si sa se avrebbe visto la luce, e in quali termini, ma non un falso contrario allo spirito e alla lettera di Nietzsche, come pure si è sostenuto più spesso di 48
  • 49. quanto non si creda. In questo quadro, infine, è indubbio che ci sia del giusto nella accusa (6), cioè di non aver capito (Elisabeth, ma anzitutto chi svolgeva il lavoro materiale: Ernst e August Horneffer, Gast, e i tanti che verranno dopo di loro) che in più casi i manoscritti di Nietzsche contenevano delle note di lettura da altre fonti, ma è una imputazione che difficilmente può lasciar supporre una intenzione deliberata dei curatori, magari subornati dalla sorella-parafulmine, se è vero che a tutt’oggi la meritevolissima ricerca delle fonti è in corso, e periodicamente se ne trovano delle nuove; in breve, è difficile rimproverare a qualcuno di aver omesso, nel 1901, ciò che non si è ancora compiuto 113 anni dopo. Vale conclusivamente la pena di osservare un punto rilevante. Sin dal 1922, insieme a un gruppo di docenti della Università di Jena, Max e Adalbert Oehler, con Karl Koetschau, mettono in cantiere una edizione storico-critica (sarà quella pubblicata dall’editore Beck negli anni Trenta), e il direttore del Goethe-Schiller Archiv di Weimar prende a lavorare nel Nietzsche Archiv per decifrare materiali non ancora trascritti. L’interesse filologico è indubbio, anche perché nel 1930 scadono i diritti, e chiunque può disporre degli editi. Da questo momento, l’Archivio perde il monopolio delle edizioni nietzschiane, e altri, magari nazisti fatti e finiti, potranno pubblicare Nietzsche a piacimento, ma visto che lo scadere dei diritti riguarda solo gli scritti editi, si faranno bastare quelli, traendone grande soddisfazione – tra Dioniso, il superuomo e la critica della democrazia. Precisamente in questi anni nasce – fuori dell’Archivio, contro di esso e sotto la direzione dell’arcinazista Alfred Baeumler – l’edizione in otto volumi 49
  • 50. tuttora in commercio da Kröner. È in considerazione di ciò che, nel 1931, Elisabeth cerca un prolungamento trentennale dei diritti, e li ottiene appunto per la Volontà di potenza e per i frammenti postumi. Nello stesso anno, e nel quadro delle attività dell’Archivio, prende inoltre avvio l’edizione Beck, che, per esplicito riconoscimento di Montinari, è filologicamente ineccepibile; essa costituisce il diretto antefatto della edizione Colli-Montinari, che se ne è servita ampiamente. In questa vicenda, dunque, non manca una qualche ironia. Se la vulgata vuole che la sorella fosse nazificatrice, la verità è diversa: quando pubblicò la Volontà di potenza, non era nazista per ovvi motivi cronologici; e quando i nazisti si approprieranno di Nietzsche, lo faranno in larghissima parte sulle opere edite, e immuni da qualunque attività della sorella. La quale nel frattempo aveva promosso una edizione critica dei frammenti postumi impeccabilmente filologica. In conclusione, dunque, la sorella-parafulmine era falsaria per vanità intellettuale e per sentimentalità magari demente, non per ideologia, e difatti gli interventi non consistono in aggiunte protonaziste o antisemite, bensì nell’ordinamento tematico anziché cronologico, e nell’accorpamento di brani o, per converso, nella divisione dello stesso frammento. Niente di impegnativo politicamente. Come ho detto, le manomissioni ebbero luogo piuttosto nell’epistolario, per accreditare una intimità spirituale col fratello che non corrispondeva al vero. Ma questo genere di falsi, già denunciati fuori dell’Archivio sin dai primi anni del secolo, dalla cosiddetta «tradizione di Basilea» (quella che risaliva a Overbeck) che si opponeva alla «tradizione di Weimar», cioè a Elisabeth, furono riconosciuti al suo interno sin dalla 50
  • 51. premessa del primo volume della edizione Beck dell’epistolario, dove si notificava la mancanza di originali di molte lettere, dunque la loro irricevibilità in una edizione critica. 51
  • 52. BASILEA, 1870-1874. IL PICCOLO CHIMICO Per rendere possibile un Nietzsche di sinistra (o almeno non troppo di destra), dopo l’allegoria, la filologia e l’esorcismo della sorella c’è una quarta strategia ermeneutica, anche più sottile, forse persino la più acuta e la più giusta, se non nascondesse, come vedremo, un equivoco di fondo. Si tratterebbe di sostenere che la volontà di potenza è davvero al di là del bene e del male dal momento che parla di cose, come i microrganismi, gli atomi e le comete, che non hanno alcunché di morale, sono completamente fuori scala rispetto al mondo umano, e riguardano solo la biologia o la fisica. Risultato: come fai a prendertela con le particelle subatomiche? E se io, per ipotesi, dico che questa lotta è la legge del vivente, sono forse l’apologista del male, o non sono, invece, l’impassibile anatomista e chimico della natura, umana e non umana? Ora, non c’è dubbio che Nietzsche intendesse fondare il suo sistema, e i due suoi concetti-chiave, ossia la volontà di potenza e l’Eterno Ritorno, su una base scientifica. La scienza del suo tempo, almeno nelle sue aspettative, corroborava quanto aveva imparato dal mondo greco arcaico e anticlassico, ossia che non esiste altro che forza e lotta per la potenza, che l’essere è un velo illusorio gettato sul divenire, che il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, sono il frutto della virtù virile, l’andragathia, termine da cui, sia detto di passaggio, deriva la parola «’ndrangheta». L’attrazione esercitata dalla scienza in quelli che del resto sono gli anni di maggior successo del positivismo è incontestabile, ed è stata riconosciuta di buon’ora da 52
  • 53. Richter, confermata a metà del secolo scorso da un fondamentale studio di Mittasch, per essere rilanciata più recentemente da Babich, Heit, Abel e Brusotti. Per tutta la vita Nietzsche cercò di rimediare alle lacune scientifiche della formazione solo umanistica ricevuta a Pforta. Incominciò già a ventiquattro anni, quando studiava Democrito, e continuò occupandosi di fisica, chimica e scienze in generale. Tra i libri presi in prestito nella biblioteca di Basilea dal novembre 1870 al novembre 1874 è impressionante la quantità di letture di scienziati o di filosofi vicini alle scienze (Funke, Helmholtz, Cantor, Zöllner, Pouillet, Boscovich, Kopp, Mohr, Mädler, Ladenburg). Altre letture sono testimoniate dai libri presenti nella sua biblioteca privata. La ragione di questa volontà di sapere – profonda e non occasionale – è esposta nel passo di Ecce homo in cui Nietzsche descrive la sua decisione di abbandonare la filologia per dedicarsi alla fisiologia, alla medicina e alle scienze naturali: «Alla mia scienza mancavano completamente le realtà, e le ‘idealità’ chissà a che diavolo servivano!» La fisica, come reale, viene a controbilanciare quel troppo di ideale che gli era stato trasmesso dal pantheon umanistico. Al tempo stesso, e reciprocamente, uno sguardo disincantato sul mondo classico ci svela quanto poco quest’ultimo indulgesse all’idillio. La fisica e la fisiologia vengono così a confermare la filologia dionisiaca, in un quadro filosofico che deve tantissimo alla Storia del materialismo di Friedrich Albert Lange, uscita nel 1866 e subito letta con attenzione da Nietzsche studente di filologia a Lipsia (per una strana ironia, Lange, in una nota della seconda edizione, uscita nel 1873, citava La nascita della 53
  • 54. tragedia, ma Nietzsche, che aveva letto la prima, e che si ricomprò la quarta, senza note, non lo seppe mai). Gli effetti li troviamo già in scritti come Su verità e menzogna in senso extramorale, e, macroscopicamente, nella teoria dell’Eterno Ritorno, che è fortemente debitrice del libro di Friedrich Zöllner sulla natura delle comete (1872) – oltre che, per l’appunto, nella Volontà di potenza. Più avanti lesse Ernst Mach, il quale sintomaticamente, nella edizione del 1903 della Analisi delle sensazioni (1886), avvertì l’esigenza di tracciare un netto distinguo fra le proprie dottrine e quelle di Zarathustra, vista l’evidente affinità di alcune teorie, e in particolare della tesi secondo cui le forme logiche non sono che l’elaborazione di disposizioni fisiologiche. Quel che è certo è che l’aforisma 112 della Gaia scienza è un palese richiamo al fenomenismo nella sua specifica versione machiana: non diversamente dai presocratici, non siamo in grado di fornire una spiegazione del mondo, perché operiamo «con cose che non esistono», quali linee, superfici, corpi, atomi; nella impossibilità di penetrare l’intima struttura del reale, giova rassegnarsi a considerare la scienza come una efficace umanizzazione delle cose. Ecco, ma cosa c’è, sotto il velo troppo umano: qualcosa o niente? La risposta di Nietzsche è ovviamente che c’è volontà di potenza, quanti di forza: «Ogni centro di forza – e non solo l’uomo – costruisce il resto del mondo a partire da se stesso». Si tratta di una specifica variante della monadologia di Leibniz, che, al solito, non dipende da una lettura diretta, bensì da una mediazione manualistica (Kuno Fischer) e scientifica. Leibniz si era appoggiato alla biologia dei suoi tempi, quando la scoperta degli spermatozoi 54
  • 55. confortava l’idea che ogni monade, per esempio l’uomo, contenesse al proprio interno altre monadi organiche, animate da una potenza vitale. Nell’Ottocento questa visione era tornata in auge – e Nietzsche poteva contare sull’avallo di Johannes Müller, che nel Manuale di fisiologia (1833) aveva parlato di «monadi organiche», e sui paragoni tra la cellula e la monade rintracciabili nella Anatomia generale (1841) di Jakob Henle. In questa folla di nomi, la mediazione più certa e filosoficamente influente è rappresentata dalla Teoria della filosofia naturale (1758) di Ruder Josip Boscovich (1711- 1787), che Nietzsche aveva conosciuto leggendo Fechner. Filosofo, astronomo, fisico, matematico, storico, ingegnere, architetto, poeta, Boscovich elaborò una fisica delle particelle, anticipando di cent’anni la versione moderna dell’atomismo. L’intuizione fondamentale di Nietzsche viene dunque confermata da Boscovich: non c’è materia, c’è solo forza, solo l’energia è realtà, e tutto il resto è apparenza. Su questa base, può misurarsi con le dottrine di Faraday, e soprattutto di Thomson e di Zöllner, di cui nel 1876, a Lipsia, aveva studiato i Principi di una teoria elettrodinamica della materia. Qui si avanza l’ipotesi di una sensibilità della materia inorganica (che sarebbe dunque capace di percezione oscura ma certa, attestata dalle regolarità dei processi chimici) e si teorizza una velocità elettrodinamica che costituisce la vera essenza della materia, anche qui confermando il primato del divenire sull’essere e della forza sulla forma. Dunque, a voler fissare per sommi capi le basi scientifiche della volontà di potenza, avremmo all’incirca questo. Il mondo come tale è apparenza, noi conosciamo solo dei 55
  • 56. fenomeni, non delle cose in sé. Era il dogma del trascendentalismo che, dopo Kant e dopo Schopenhauer (insieme a Lange, l’altro nume filosofico di Nietzsche), era stato assunto come ovvio presupposto da tutti i fisici, biologi, fisiologi e psicologi dell’epoca. Ecco, ma che cos’è l’essenza di cui tutto il resto è apparenza? Qui la soluzione non è molto diversa da quella della fisica contemporanea. L’essenza è forza, energia, insomma campi e particelle subatomiche. Tuttavia, con un cambio di scala e di tono che gli è caratteristico, Nietzsche stabilisce una linea continua che dai campi di forza conduce al superuomo, e ne giustifica la crudeltà vedendoci l’espressione non adulterata della fatalità e della prepotenza che dominano l’universo. Per quanto detestasse Rousseau, Nietzsche ne condivideva l’assunto di fondo: ciò che la civiltà fa all’uomo, l’azione della cultura come seconda natura, è una corruzione e una mistificazione dell’originario. Un originario che tuttavia per Rousseau è un uomo naturalmente buono, mentre per Nietzsche è un superuomo dispotico, un maschio alfa, cioè anche un povero fesso, ma un fesso pericoloso. 56
  • 57. CHARLOTTESVILLE, 1977. OTOBIOGRAPHIES Come ha ricordato Derrida in Otobiographies – una conferenza tenuta nel 1977 alla University of Virginia a Charlottesville – non si tratta di dichiarare che Nietzsche non ha mai pensato o voluto ciò che, nel Novecento, è stato fatto in suo nome, né di appellarsi alla falsificazione della eredità, ma piuttosto di domandarsi come mai quella che si chiama tanto ingenuamente «falsificazione» sia avvenuta proprio sulle sue opere; e perché le uniche istituzioni culturali che abbiano avuto la tentazione di richiamarsi a Nietzsche siano state quelle naziste. Certo non sapremo mai che cosa avrebbe detto Nietzsche del mondo in cui ebbe il maggior successo, ossia la Germania tra il ’33 e il ’45, e non è nemmeno difficile immaginare che l’avrebbe contraddetto così come contraddisse il mondo di Bismarck e di Guglielmo II. La constatazione del successo di Nietzsche durante il Terzo Reich deve però guidarci, come una idea regolativa, per evitare la tesi facile e falsa di un fraintendimento assoluto, che avrebbe consegnato lo spettro di Nietzsche al male del nostro secolo. Nietzsche rivendica l’esigenza di una contemplazione impassibile del mondo, al di là del bene e del male. Questa impassibilità c’era anche in Schopenhauer, che però predicava la rassegnazione, non diversamente dal Freud di Al di là del principio di piacere, dove ad avere l’ultima parola nella lotta tra Eros e Thanatos è la pulsione di morte come destino e desiderio profondo del vivente. Come sappiamo, Freud, con quello che è un lapsus molto eloquente, dichiarò di essersi vietato di leggere Nietzsche temendo che l’affinità tra le sue dottrine e la psicoanalisi avrebbe compromesso la scientificità di quest’ultima. Resta tuttavia che tra il 57
  • 58. pessimismo di Schopenhauer e di Freud e quello di Nietzsche c’è una differenza cruciale. I primi due suggeriscono una conciliazione (che Nietzsche avrebbe definito spregiativamente «buddistica») con il proprio destino mortale, l’abdicazione volontaria alla volontà. Nietzsche, no. Il suo pessimismo non è una dottrina di rassegnazione, al contrario, si trasforma – Bernazza aveva ragione – in un principio attivo, nel nichilismo della forza, nella esaltazione della potenza e di ciò che ne segue, fossero pure la guerra totale e il male assoluto. Ora, la trasformazione dell’essere nel divenire è quanto di più politico si possa concepire (lo si vedrà fin troppo bene in Heidegger), e Nietzsche è stato tutto, tranne che un impolitico. Il suo rovello è molto vivo e molto personale, ed è il rapporto conflittuale tra l’individuo e la collettività, dove l’individuo si vede soffocato, incompreso, maltrattato, e lotta in modo parossistico per il proprio riconoscimento. In questa lotta, che qualcuno – e come dargli torto? – definirebbe immorale ed egoistica, l’individuo ha dalla sua la metafisica: reprimere la forza è fare un torto all’umanità e, come in Eraclito, la giustizia si ottiene attraverso il polemos, con principi che risultano iper-fungibili dal punto di vista politico, appunto perché l’essere diviene anzitutto un fare, un combattere, un trasformare. Il che, in una fase rivoluzionaria, può risultare allettante sia per una squadra di spartachisti che per dei Freikorps antibolscevichi. Nel 1919 apparirà a Breslavia il libro di Hugo Bund, Nietzsche come profeta del socialismo, dove Nietzsche non è anacronisticamente accusato di nazismo, ma è chiamato a correo come ispiratore del socialismo. Il superuomo e la sua tirannia sarebbero la piena realizzazione del socialismo, che 58
  • 59. – d’accordo col modello leninista – non si contrapporrebbe più al militarismo, ma ne sarebbe anzi il compimento. Sarà, il socialismo si dice in molti modi. Resta che Lukács ha buoni occhi quando sostiene che Nietzsche ha fatto di tutto per screditare, dal punto di vista del pensiero, l’idea della uguaglianza tra gli uomini, e che «non voleva affatto, come i neokantiani, i positivisti ecc., fondare un’etica valida per tutti gli uomini. Al contrario, la sua etica è esplicitamente e coscientemente l’etica della classe dominante; accanto a quest’etica e al di sotto di essa vi è, come qualitativamente distinta, la morale degli oppressi che Nietzsche apertamente nega e combatte». 59
  • 60. LONDRA, 21 FEBBRAIO 1848. «UNO SPETTRO SI AGGIRA PER L’EUROPA» E dunque, tornando alla domanda iniziale, come è possibile che Nietzsche abbia potuto affascinare, e con motivi non così peregrini, la sinistra? E come si spiega il sortilegio per cui un pensatore così profondamente nietzschiano come Jünger poté vantarsi del fatto che le sue opere complete si trovassero non solo nella biblioteca di Hitler, ma anche (insieme, è facile immaginarlo, alla elegante edizione Gallimard delle opere di Nietzsche, con prefazioni di Foucault e Deleuze) in quella di Mitterrand? E ancora, venendo a un altro autore impregnato di Nietzsche, Heidegger, come è stato possibile che il massimo successo di quella che un suo contemporaneo, Lévinas, definiva «la filosofia dell’hitlerismo» abbia avuto luogo a sinistra e non a destra, e dopo la guerra? L’arcano si svela più facilmente di quanto forse non sia apparso sin qui. «Uno spettro si aggira per l’Europa.» Il comunismo. Gli intellettuali si commuovono per questo bisogno di giustizia e compatiscono il proletariato. Ma poiché i loro sono in gran parte astratti furori e intenerimenti letterari, lo spettro comunista potrà facilmente confondersi con fantasmi di tutt’altro tipo, quelli di una insofferenza narcisistica, di un ribellismo antiborghese, di un attivismo da biblioteca. È ancora Lukács che lo spiega: questi intellettuali potranno sostituire al socialismo l’annuncio di Zarathustra, cioè la promessa di un cambiamento ancora più grande e più indeterminato, di un futuro e di un dio a venire. «La ‘missione sociale’ che viene compiuta dalla filosofia di Nietzsche consiste nel ‘salvare’, nel ‘redimere’ questo tipo d’intellettualità borghese, additandole una via che renda superflua ogni rottura, anzi 60
  • 61. ogni seria tensione con la borghesia; una via in cui possa continuare a sussistere il gradito senso di essere ribelli, e venga reso magari più vivo con la seducente contrapposizione di una ‘più profonda’ rivoluzione ‘cosmico biologica’ alla ‘superficiale’ ed ‘esteriore’ rivoluzione sociale.» Questo messianismo si esprime pienamente in un passo di Al di là del bene e del male che Nietzsche citerà ancora in Ecce homo prima di passare in rassegna i propri libri, e dove è questione di un «genio del cuore», un genio «che insegna alla mano maldestra e precipitosa l’indugio e una maggiore delicatezza nell’afferrare […] dal cui tocco ognuno si diparte più ricco, non graziato e stupito, non beneficato e oppresso come da un bene estraneo, sibbene più ricco di sé, più nuovo che per l’innanzi, dissigillato, alitato e spiato da un vento australe, forse più insicuro, più delicato, più fragile, più infranto, ma colmo di speranze che non hanno ancora un nome». Difficile non trovare in questo toccasana per professori una parentela con almeno tre figure stigmatizzate da Hegel: la legge del cuore e il delirio della presunzione, l’anima bella, e la coscienza infelice. Non giurerei che, oltre a Jünger e a Nietzsche, Mitterrand avesse nella propria biblioteca la Fenomenologia dello spirito. Di certo, in un confronto televisivo per la presidenza francese, Valéry Giscard d’Estaing ebbe la meglio su Mitterrand con una frase famosa: «Vous n’avez pas, Monsieur Mitterrand, le monopole du cœur». Quello del cuore non era il solo monopolio che la sinistra si illudeva di detenere. L’altro era quello della politica. Politica e sinistra erano coestensive, dunque ogni pensatore del politico – fosse pure il giurista di Hitler, come Schmitt – 61
  • 62. diventava fruibile a sinistra. E l’intima struttura politica del pensiero di Heidegger e di Nietzsche li rendeva particolarmente appropriati a un’epoca iper-politica come il Sessantotto. La storia e la decisione sono l’unica realtà – cosa che era in sintonia non solo con quel funesto antirealista che è stato Hitler, ma anche con quegli antirealisti più benintenzionati che proclamavano la necessità di portare l’immaginazione al potere, e di combattere l’oggettività in nome della solidarietà, il freddo intellettualismo in nome del radicamento in una comunità di popolo. Di qui una gara di radicalismo perfettamente intonata alla funzione-Nietzsche: «Per quanto scioccante possa essere questa suggestione per la nostra sensibilità morale, la nostra integrità intellettuale ci obbliga a domandarci se il nazionalsocialismo non rappresenti la risposta autentica alla questione di come dovremmo vivere». Così tal Christopher Rickey in Revolutionary Saints. Heidegger, National Socialism, and Antinomian Politics, Pennsylvania University Press 2002. La cosa più sorprendente e insieme prevedibile è che chi mette su carta queste bizzarre e funeste enormità ringrazia, all’inizio del suo libro, non solo la famiglia (da intendersi non come Sippe nibelungica, ma proprio nel senso più domestico dei ringraziamenti alla moglie che ha riletto il manoscritto e al figlio che ha dato una mano nella correzione delle bozze), ma anche una fondazione per le ricerche sulla democrazia e il centro per la ricerca sociale dell’università di Chicago. Un’ultima considerazione. Se oggi Nietzsche, Heidegger e Schmitt hanno perso terreno in politicis (come avrebbe detto Nietzsche) è perché è fungibile da qualche anno un 62
  • 63. Marx postmoderno altrettanto poco impegnativo. Proprio come Nietzsche, Heidegger e Schmitt dopo il 1945, anche Marx, dopo il 1989, è ormai privo, per così dire, di «istituzioni di riferimento», e dunque la funzione-Marx può adempiere alle stesse indeterminate richieste di radicalità a cui rispondeva qualche lustro fa la funzione-Nietzsche. Ci si può certo domandare che cosa direbbero i neomarxisti se Marx (o, a questo punto, anche Nietzsche) ritornasse davvero. Ho il sospetto che dopo i primi festeggiamenti lo considererebbero un ospite ingombrante e molesto, e che verrebbe a crearsi una situazione a metà strada fra il ritorno di Cristo sulla terra nella Leggenda del grande inquisitore («Perché sei venuto a disturbarci? Sei infatti venuto a disturbarci, lo sai anche Tu») e il § 147 delle Passioni dell’anima: «Quando un marito piange la moglie che tuttavia, come accade talvolta, gli dispiacerebbe di veder resuscitare, può accadere che il suo cuore sia stretto dalla tristezza eccitata in lui dall’apparato funerario e dalla mancanza di una persona alla cui conversazione era abituato; e può darsi che qualche traccia d’amore o di pietà, presentandosi alla sua immaginazione, faccia sgorgare dai suoi occhi lacrime sincere; ma nel segreto dell’anima egli prova un’intima gioia, la cui emozione ha tanta forza da non poter essere per nulla diminuita dalla tristezza e dalle lacrime che la accompagnano…» 63
  • 64. Lenzerheide, 1887 Nichilismo senza antidepressivi «Qui ci sono infrastrutture ideali per famiglie, sportivi o per chi ama concedersi il meglio, ma lontano dal clamore. Il lago di Lai, con l’amena area attrezzata del Lido, promette tanto divertimento per tutta la famiglia.» Questa, oggi, è la descrizione di Lenzerheide, nei Grigioni, sul sito dell’azienda di soggiorno. Nel giugno del 1887, in una stanza mal riscaldata e il prosciutto inviatogli dalla mamma che non aveva bisogno di essere tenuto in umido con l’asciugamano, l’umore di Nietzsche era quanto di più restio ai divertimenti. Più che di trovarsi al centro dell’Eterno Ritorno, l’impressione è di essere una pietra che rotola. La stanza è umida, dalla finestra vede una pietra umida anche lei, gli amici sono stanchi di lui e le sue idee fondamentali, la volontà di potenza e l’Eterno Ritorno, non interessano ad anima viva. È in questa stanza e in questo stato d’animo che nascono le poche pagine del Nichilismo europeo, datate «10 giugno», una sorta di apocalisse senza redenzione, la rottura di qualsiasi messianismo o anche più modestamente di qualsiasi speranza. La profezia di Lenzerheide è l’antitesi della promessa contenuta in un altro scritto breve, i 56 versetti di Abacuc nella Bibbia: «Il Signore rispose e mi disse: ‘Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà, e non tarderà. Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede’» (Ab 2,2-4). «Se indugia, attendila, perché certo verrà, e non tarderà.» Una persona, un’ora, un evento: verrà, 64
  • 65. prima o poi, lo ha promesso Dio, così come Dio garantisce che soccomberà il malvagio, e il giusto vivrà della fede. Il nichilismo è il crollo di questa promessa: è inutile che aspetti, non verrà, non verrà nessuno a salvare i vivi e i morti e tutto il tempo vanamente speso. A questo punto, non solo un senso qualsiasi è meglio dell’assenza di senso, ma la stessa catastrofe è, letteralmente, meglio che niente. L’umanità europea procede inesorabilmente verso il peggio, moltitudini in cerca di distruzione si scaraventano verso il nulla come lemming. E questo perché non sanno rispondere alla domanda: «a che scopo?» Leggiamo nel frammento: «Nella vita non c’è niente che abbia valore al di fuori del grado di potenza – dato appunto che la vita altro non è che volontà di potenza. La morale ha preservato dal nichilismo i disgraziati attribuendo a ciascuno un valore infinito, un valore metafisico, e inserendolo in un ordinamento che non concorda con quello della potenza e della gerarchia terrene: ha insegnato la rassegnazione, l’umiltà ecc. Una volta che perisse la fede in questa morale, i disgraziati perderebbero la loro consolazione – e perirebbero». E subito dopo: «Il perire si presenta come un autodistruggersi, come un’istintiva scelta di ciò che è destinato a distruggere. Sintomi di questa autodistruzione dei disgraziati: la vivisezione operata su se stessi, l’avvelenamento, l’ebbrezza, il romanticismo, soprattutto l’istintiva costrizione a compiere azioni con cui ci si inimica mortalmente i potenti (allevandosi per così dire i propri carnefici), la volontà di distruzione come volontà di un istinto ancora più profondo, dell’istinto dell’autodistruzione, come volontà del nulla». «Hunde, wollt ihr ewig leben?», «Cani, vorreste vivere in 65
  • 66. eterno?», è l’apostrofe con cui pare che Federico il Grande si sia rivolto ai suoi granatieri in fuga durante la battaglia di Kolin, nel 1757, ed è molto probabile che avesse paura quanto loro. Nietzsche guarda alle catastrofi del nichilismo europeo con lo sguardo del forte, e il frammento si chiude con l’elogio di coloro che sapranno sopportare il peso del caso, dell’assurdità, della mancanza di valori, coloro che non temono l’annientamento, che possiedono una grande salute, coloro che riescono a caricarsi sulle spalle il peso dell’Eterno Ritorno. Lo fa per tranquillizzarsi, ma tutto intorno a lui gli conferma il legittimo sospetto di essere la quintessenza degli infelici destinati al tracollo, e che la favola del nichilismo narri proprio di lui. 66
  • 67. PARIGI, 1857. IL MOSTRO DELICATO «Se indugia, attendila, perché certo verrà, e non tarderà»: come è accaduto che questa promessa sia venuta meno? Diversamente che nella prospettiva apocalittica di Nietzsche, la tonalità emotiva in cui si sperimenta la mancanza di senso come male sociale dell’Ottocento è la noia, che Leopardi considerava non a torto come il «desiderio puro della felicità; non soddisfatto dal piacere, e non offeso apertamente dal dispiacere». Le tragedie verranno, ma dopo. In attesa della fine dei tempi, i Fiori del Male di Baudelaire si apre rivolgendosi all’ipocrita lettore cantando (come la diva dell’Iliade) la Noia, «questo mostro delicato». «Tu le connais, lecteur, ce monstre délicat», ecco il sentimento dominante della modernità ottocentesca, che certo non ha lesinato nella ricerca di distrazioni, sino alla tragedia, all’entusiasmo con cui sarà accolta la Prima guerra mondiale – il paradosso di Wilhelm Windelband, secondo cui la guerra mondiale è pur sempre meglio della teoria della conoscenza, racchiude un nocciolo di verità. La guerra contro il mostro delicato si manifesta nella celebrazione di eventi e in una accelerazione dei tempi vitali, si intreccia con il bisogno eminentemente umano di dare una forma al tempo, di scandire, per esempio attraverso i riti e le feste, tutta quella distesa di giorni – insieme troppo lunga e troppo breve – che è la vita. In questa condizione accade qualcosa di singolare. L’uomo moderno guarda con scetticismo alla sua pretesa supremazia nel mondo e incomincia a invidiare o a vagheggiare. Invidia gli antichi, che vivevano in un mondo ancora incantato, e i primitivi, che forse ci vivono ancora. O vagheggia altre forme di vita o modi d’essere ancora più radicalmente diversi. 67
  • 68. A volte – ed è la grande tentazione del «diventare natura» – il disgusto dell’umanità può condurre a preferire le piante, come in Proust, che guarda dormire Albertine. Chiudendo gli occhi e perdendo la coscienza, animata soltanto dalla «vita incosciente dei vegetali e degli alberi», è finalmente incapace di mentire. Altre volte, la forma di vita aliena e invidiata è l’animale. Che è forse più felice dell’uomo, sebbene sia tutt’altro che certo, perché – osserva a giusto titolo Leopardi – tutte le fantasie umane sulla felicità, o almeno sulla non-sofferenza degli animali, potrebbero rivelarsi infondate, e la verità potrebbe essere che «dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dì natale». Di certo, l’animale appare più eterno, come gli dei Egizi che prendevano le sembianze di tori, sciacalli o gatti, è al riparo dagli accidenti della storia, della cultura, dell’umore, che sembrano affollarsi all’orizzonte dell’uomo, tanto più se moderno. 68
  • 69. RIGA, 1781. ONTOLOGIA ED EPISTEMOLOGIA Ma come può accadere che questo stato d’animo, e il suo correlato oggettivo, prenda il nome di «nichilismo»? Da Parigi conviene spingersi molto più a nord, sino a Riga, in Lettonia, dove l’editore Hartknock pubblicò nel 1781 la Critica della ragion pura di Kant. Proprio in quest’opera che apparentemente tratta soltanto di sapere, e che non sembra dar spazio ai sentimenti, si trova l’origine del processo che, in meno di cent’anni, porterà Nietzsche a teorizzare il nichilismo europeo. Come? Attraverso quella che si potrebbe chiamare «fallacia trascendentale», e che consiste in una confusione tra l’ontologia, ossia quello che c’è, e l’epistemologia, ossia quello che sappiamo. In Kant tutto si raccoglie nell’idea della rivoluzione copernicana: invece di chiederci come siano le cose in se stesse, domandiamoci come debbano essere fatte per venire conosciute da noi. Così, il mondo intero risulta dipendente dall’io, e dagli occhiali che porta sul naso. È indubbiamente un sentimento di potenza ma, al tempo stesso, di grande angoscia, e soprattutto di totale negatività, perché investe i soggetti – anzi, quel singolare soggetto che è l’io penso – di una enorme responsabilità, quasi che il mondo cessasse di esistere quando l’io non lo pensa e non lo sente. I due cardini di questa tesi sono costituiti da due frasi. La prima è che l’io penso deve poter accompagnare le mie rappresentazioni, la seconda è che le intuizioni senza concetto sono cieche. Per la prima il mondo esterno viene assorbito nel mondo interno, nell’io. Per la seconda, si determina un collasso tra l’essere e il sapere, dal momento che si assume che non si può avere alcuna esperienza del mondo in assenza di schemi 69
  • 70. concettuali. Kant non pretende che il mondo non esista se non ci pensiamo, si limita a sostenere che noi non possiamo avere rapporto con il mondo se non attraverso la mediazione di schemi concettuali, sicché quello che c’è viene intrappolato nella ragnatela di quello che sappiamo. Tuttavia quello che Kant propizia, sia pure con intenti onestamente realistici, è la premessa di un idealismo assoluto che priva il mondo di qualunque positività, lasciandolo alla mercé di un soggetto-vampiro. 70