1. Dieci anni fa – tra gli inverni del 2005 e del 2006 – le sor-
ti economiche del Paese sembravano legate a doppio filo
al rinnovamento dell’intero sistema bancario. L’attenzione
alla trasparenza e alla legalità doveva tornare in auge quan-
to prima: ma che cos’era successo?
Sebbene «Bancopoli» sia il nome giornalistico di una serie
di vicende diverse, l’episodio principale riguardò la scala-
ta alla padovana Antonveneta SpA. Si contendevano l’ac-
quisizione il colosso olandese Abn Amro e la Popolare di
Lodi (Bpl, poi divenuta Bpi e oggi parte di Banco Popolare,
dopo essersi fusa per incorporazione con l’omonima capo-
gruppo). Ma lo scontro non si limitò alla società target e ai
due istituti che intendevano controllarla: coinvolse invece
Bankitalia, rivoltando l’assetto della vigilanza e inducendo-
ne una profonda riforma. Si pensi alla legge 262/2005, che
– fra le varie cose – limitava a soli sei anni il mandato del
governatore e trasferiva le competenze antitrust in materia
bancaria da palazzo Koch all’Agcm. Tuttavia, proprio que-
sto intervento sulla struttura della Banca d’Italia potrebbe
aver posto «le premesse di una possibile, futura prevalenza
della politica sulla tecnica», rischiando di compromettere
l’autonomia della dell’autorità di vigilanza al punto da «va-
nificare i benefici perseguiti nell’intento di porre rimedio
alle discrasie del sistema» (CAPRIGLIONE, Crisi di sistema ed
innovazione normativa…, in «Banca Borsa Titoli di Credito»
n. 2/2006).
La riforma si rese necessaria perché via Nazionale – soprat-
tutto nella persona dell’allora numero uno, Antonio Fazio
(cfr, Il Sole 24 Ore del 15 febbraio 2007) – fu accusata di aver
favorito l’istituto lodigiano rispetto a quello olandese, ri-
tardando deliberatamente la concessione a quest’ultimo
dell’autorizzazione necessaria per superare il 20% nel capi-
tale di Antonveneta e – allo stesso tempo – soddisfacendo
in tempi piuttosto rapidi la richiesta della banca lombarda,
dal momento che entrambe avevano lanciato un’offerta
pubblica sulla target. Bpi, tuttavia, aveva celatamente ra-
strellato azioni e siglato patti parasociali che le garantivano
il controllo (a maggior ragione in un ordinamento banca-
rio – quello italiano – in cui esso si presume, quantomeno
«nella forma dell’influenza dominante», sulla scorta di al-
cuni dati di fatto). Quando lo scandalo emerse – insieme a
quello che vedeva Unipol e il Banco Bilbao affrontarsi per
il controllo di Bnl, poi assunto dalla francese Bnp Paribas –
l’eco politica fu enorme. Termini quali «aggiotaggio», «insi-
der trading» e «ostacolo alla vigilanza» erano divenuti parte
del vocabolario quotidiano. Permeò la sensibilità comune
il concetto secondo cui i mercati sono fondati sull’informa-
zione, che dunque dovrebbe essere la più corretta, veritiera
e trasparente possibile. Risultò evidente come una buona
vigilanza – non solo tecnicamente preparata, ma soprat-
tutto indipendente da ogni pressione – sia un elemento
imprescindibile per garantire quella «sana e prudente ge-
stione» degli intermediari che per le «autorità creditizie» –
Bankitalia in primis – è l’obiettivo supremo, quello che l’ar-
ticolo 5 del Tub sancisce prima degli altri. Aumentò anche,
probabilmente, la necessità di un coordinamento europeo
della disciplina che producesse regole certe, spezzando
ogni indebita commistione fra gli attori e i destinatari del-
la supervisione. Dopo la crisi economica, e prima ancora
dell’Unione bancaria, il Sevif – nato per scongiurare danni
permanenti e diffusi a un sistema sempre più interconnes-
so – riuscirà a soddisfare anche questa esigenza in termini
di“mezzi”della vigilanza, e non soltanto di“risultati”(sull’ar-
gomento: PELLEGRINI, L’architettura di vertice dell’ordina-
mento finanziario europeo, in RTDE n. 2/2012). Esigenza, tut-
tavia, che il nostro Paese aveva autonomamente avvertito
già alcuni anni prima. Gli scandali del 2005 avevano messo
in luce l’inadeguatezza italiana rispetto «alla nuova realtà
riveniente dal processo di internazionalizzazione economi-
ca registrato negli ultimi decenni», sicché il nostro sistema
normativo evidenziava «staticità» e «immobilismo» (Capri-
glione, op. cit.). Certo, dopo la legge 262/2005 i problemi
non sono comunque mancati: basti pensare alla singolare
sovrapposizione tra il destino di Antonveneta e quello di
Mps – altro istituto che di recente ha attraversato vicende
travagliate – quando nel 2013 Rocca Salimbeni assorbì l’isti-
tuto padovano (già parte del gruppo senese). La questione
dei cosiddetti «Monti bond» – obbligazioni societarie del
Montepaschi sottoscritte dal Mef – ha riaperto il dibattito
sul rapporto tra le scelte politiche, l’operatività degli inter-
mediari e il ruolo della vigilanza (v. LEMMA, La vicenda Mps:
l’acquisto di Antonveneta, e SEPE, La sottoscrizione dei “Monti
bond”, in RTDE n. 1/2013). Dieci anni dopo, perciò, il quadro
è profondamente mutato. La Banca d’Italia ha imparato dai
suoi errori, senza contare che l’ascesa all’Eurotower da par-
te del nostro Mario Draghi – apprezzatissimo successore di
Fazio – ha contribuito ad aumentare il prestigio di via Na-
zionale. Che la vigilanza dopo la tempesta del 2005 sia una
delle poche best practices tricolori?
A cura di Luca Bellardini
Mail luca.bellardini@gmail.com
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visionecreditizia
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