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Repubblica - Supplemento Affari e Finanza

ultimo aggiornamento 20 Febbraio 2012
FINANZA

Poste senza Banco, spunta il piano B
ADRIANO BONAFEDE


Separare nettamente il Bancoposta dalle Poste per poi arrivare, in un secondo tempo, alla sua vendita
con una fuoriuscita dello Stato dall’attività creditizia? L’idea non è più tabù. È stato il ministro dello
Sviluppo Economico, Corrado Passera, in una recente audizione in Parlamento ad annunciare che sul
suo tavolo c’è anche questo dossier. Una mossa richiesta da anni dall’Antitrust che darebbe una svolta
a quelle liberalizzazioni che finora non sono per niente decollate.
Ma separare e vendere parte o tutto il Bancoposta non è un’impresa facile, tanto che se ne parla da
moltissimi anni e il dossier dopo un po’ di tempo viene regolarmente archiviato in qualche armadio
polveroso in attesa di tempi migliori. Il punto è che per cedere questo asset bisognerebbe prima di tutto
dividerlo fisicamente dal resto, ovvero dalla casa madre, Poste Italiane. Un problema immenso perché
Poste e Bancoposta sono da sempre intrecciati fra di loro, a cominciare naturalmente dai luoghi fisici in
cui operano, che sono gli stessi, dal personale e dalle apparecchiature tecnologiche. In più le Poste
Italiane, senza Bancoposta diventerebbero un’impresa senza reale capacità di produrre reddito, con
150 mila persone da mantenere e 14 mila sportelli. Così fra i tecnici si sta facendo strada un Piano B, di
più facile e immediata realizzazione: vendere un pezzo di tutto il complesso Poste Italiane con
l’obiettivo almeno di far cassa introducendo una parziale liberalizzazione con l’ingresso dei privati.
M quanto può valere Poste Italiane? La stima fatta da Deutsche Bank due anni fa in occasione dello
swap di partecipazioni tra la Cdp e il Tesoro, 10 miliardi, sembra lontana dalla realtà. C’è chi parla del
doppio o anche del triplo. Cifre possibili per un gruppo che custodisce un forziere da 400 miliardi di
risparmi, effettua investimenti autofinanziati per 700 milioni all’anno e produce utili di 1 miliardo, che
finiscono in gran parte nelle casse del Tesoro sotto forma di dividendi.
La separazione tra Bancoposta e casa madre potrebbe intanto andare avanti creando le condizioni per
una futura vendita. E comunque è un processo che è iniziato da anni. Fu la Banca d’Italia a chiederla
molti anni fa e si cominciò con una distinzione contabile fra le due entità. L’ultimo step di questo
processo è stato introdotto con il Milleproroghe di un anno fa quando è stato richiesto al Bancoposta di
costituire un patrimonio destinato a coprire la propria attività specifica. Una sorta di Core Tier 1, che
però non copre dal rischio di credito, che il Bancoposta non ha in quanto vende soltanto prodotti di altri
in cui sono gli altri a rischiare in proprio, ma dal rischio operativo (ad esempio, errori contabili).
Proprio questo processo di separazione ha creato alcuni fatti nuovi nella contabilità delle Poste.
Nonostante sia l’attività del Bancoposta a produrre i veri utili della gestione (quella solo postale ha
generato lo scorso anno una perdita di 130 milioni) in realtà alla branca di Poste Industriale fa capo il
60 per cento degli utili (ovverosia, 600 milioni di quel miliardo di cui abbiamo parlato). Com’è possibile?
Per comprenderlo bisogna pensare che Poste Industriale fornisce un’infrastruttura fisica, logistica e
informatica a tutte le attività che in essa si svolgono. Dunque all’attività di Bancoposta per i conti
correnti e i prodotti finanziari, ma anche a Poste Mobile (l’operatore virtuale telefonico di Poste), alla
Cassa depositi e prestiti per i libretti e i Buoni postali fruttiferi, a Poste Vita (oggi il primo operatore
italiano del ramo) per la vendita di assicurazioni. Con ognuno di questi soggetti – siano essi interni al
gruppo o esterni come la Cdp – esistono appositi contratti di servizio che fissano le commissioni per
Poste Italiane.
Scorporare il Bancoposta è dunque possibile ma forse, per chi comprerebbe una quota o il tutto,
sarebbe meno remunerativo di quanto non sembri. Inoltre, il governo deve porsi un altro problema.
Cedendo la parte più ricca del business, che produce un cash flow positivo di circa 1 miliardo all’anno,
lo Stato certo incasserebbe qualche miliardo con cui abbattere il debito pubblico e dare un segnale
positivo alla comunità finanziaria, ma dovrebbe rinunciare agli utili futuri. Se poi il governo dovesse
decidere per una vendita in toto del Bancoposta – com’è stato fatto in Germania, dove è finito a
Deutsche Bank – gli utili futuri sarebbero ancora più bassi e allo Stato rimarrebbe soltanto il servizio
postale, che è in perdita. È comunque vero che rimarrebbero le pingui commissioni per il contratto di
servizio.
Queste considerazioni hanno indotto alcuni tecnici dello Stato a formulare anche l’altra ipotesi, appunto
il piano B: vendere una quota non del Bancoposta ma di tutte le Poste Italiane. Cioè tutto il bene ma
anche, per così dire, tutto il "male". Una possibilità sarebbe quella di fare un private placement presso
alcuni investitori istituzionali intenzionati a fare un investimento di lungo termine. Il modello sarebbe
quello della Cdp, dove un terzo del capitale è in mano alle Fondazioni. Purtroppo, però, le Fondazioni
oggi hanno ben altri problemi. L’ingresso di fondi pensione o investitori istituzionali di altri paesi sarebbe
possibile, anche se c’è chi teme che questi soggetti possano condizionare le future politiche, magari in
un senso più marcatamente di mercato, andando contro le esigenze più "sociali".
Il modello italiano, simile in tutta Europa solo a quello francese, è fatto in modo che l’insieme regga il
tutto. Ovvero ciò che è conveniente fare per la collettività e ciò che è remunerativo convivono in un
crogiuolo indistinto, da cui però emerge un sicuro dividendo.
Un’altra possibilità – ancora tutta da studiare sarebbe quella di portare in Borsa una quota di Poste
Italiane da distribuire ai piccoli investitori con pacchetti molti frazionati. Così l’interferenza con le
politiche di gestione sarebbe minore, mentre lo Stato farebbe un po’ di cassa.
Qualunque sarà la decisione di Passera, di certo ha in mano una patata bollente.




il manifesto 2012.02.19 - 06 POLITICA & SOCIETÀ

CONTROPIANO

C'è la crisi? Riprendiamoci la Cassa Depositi e Prestiti
APERTURA - MARCO BERSANI *


Non è vero che «i soldi non ci sono». Sono tanti e bastano a invertire la rotta, iniziando a
costruire un altro modello sociale, basato sui diritti collettivi
L'analisi espressa, con usuale lucidità, da Guido Viale nel suo articolo La Grecia siamo noi» ( il
manifesto del 17/2/2011), andrebbe a mio avviso integrata con una riflessione da aprire a
tutto campo su come sia possibile finanziare i necessari cambiamenti che volenti perché
collettivamente ci riprendiamo in mano il nostro destino - o nolenti - se continuiamo a credere
alle favole del governo dei professori dovremo affrontare. A chi continua a ripetere come un
mantra «i soldi non ci sono» occorre certo rispondere con l'argomentazione che una diversa
finalizzazione della fiscalità generale - drastica riduzione delle spese militari in primis -
renderebbe disponibili risorse oggi non utilizzabili. Ma allo stesso tempo occorre contestare
l'assunto in quanto palesemente falso. Perché i soldi ci sono, sono tanti e più che sufficienti per
invertire la rotta, chiudendo definitivamente con le politiche liberiste e iniziando a costruire un
altro modello sociale, basato sui diritti collettivi, sulla riappropriazione sociale dei beni comuni,
sulla riconversione ecologica e democratica dell'economia. Dodici milioni di persone affidano i
propri risparmi a Poste Italiane, attraverso i libretti di risparmio e i buoni fruttiferi. La massa di
questi risparmi viene raccolta dalla Cassa Depositi e Prestiti, che, dalla sua nascita nel 1860 e
fino al 2003, la utilizzava per permettere agli enti locali territoriali di poter fare investimenti
con mutui a tasso agevolato. Nel 2003, la Cassa Depositi e Prestiti è stata tramutata in società
per azioni e nel suo capitale societario sono entrate (30%) le fondazioni bancarie. Da allora, la
Cassa Depositi e Prestiti si è progressivamente trasformata in una merchant bank che continua
a finanziare gli enti locali ma a tassi di mercato e che investe in diversi fondi con finalità di
profitto. La massa di denaro mossa annualmente dalla Cassa Deposti e Prestiti è enorme: circa
250 miliardi di euro, con una liquidità disponibile di quasi 130 miliardi di euro; si tratta di gran
lunga della "banca" più solida e nello stesso tempo più "liquida" del Paese. E allora alcune
riflessioni diventano necessarie. 1. La natura di bene comune della Cassa Depositi e Prestiti
risulta evidente dalla provenienza del suo ingente patrimonio, che per oltre l'80% deriva dalla
raccolta postale, ovvero è il frutto del risparmio dei lavoratori e dei cittadini di questo Paese.
Tale natura è del resto anche giuridicamente sostenuta dall'art.10 del D. M. Economia del 6
ottobre 2004 (decreto attuativo della trasformazione della Cassa Depositi e Prestiti in società
per azioni ) che così recita: «I finanziamenti della Cassa Depositi e Prestiti rivolti a Stato,
Regioni, Enti Locali, enti pubblici e organismi di diritto pubblico, costituiscono servizio di
interesse economico generale . Il paradosso risiede nel fatto che, mentre si afferma ciò, la
Cassa Depositi e Prestiti è stata trasformata in una società per azioni a capitale misto, la cui
parte privata (30%) è appannaggio delle fondazioni bancarie, facendo sorgere un'inevitabile
prima domanda: come possono un ente di diritto privato (tale è la SpA) e soggetti di diritto
privato presenti al suo interno, come le fondazioni bancarie, decidere per l'interesse generale?
2. Pur continuando la Cassa Depositi e Prestiti a mantenere, tra i settori principali delle proprie
attività, quello "tradizionale" relativo al finanziamento degli investimenti degli enti pubblici, con
la trasformazione in SpA, questa attività deve avvenire assicurando un adeguato ritorno
economico agli azionisti. Come recita l'art. 30 dello Statuto della società «Gli utili netti annuali
risultanti dal bilancio (..) saranno assegnati (..) alle azioni ordinarie e privilegiate in
proporzione al capitale da ciascuna di esse rappresentato». E la relazione annuale societaria,
relativa al 2010, dichiara con soddisfazione la chiusura del bilancio con un utile netto di 2,7
miliardi di euro, nonché il fatto di aver garantito agli azionisti, dall'avvenuta privatizzazione ad
oggi, un rendimento medio annuo superiore al 13%. Se l'unità di misura delle scelte di
investimento è la redditività economica delle stesse, è evidente il "vulnus" di democrazia
rispetto alla loro qualifica di servizio di primario interesse pubblico. 3. Altrettanto paradossale
appare il fatto che, con la privatizzazione della Cassa Depositi e Prestiti, siano state proprio le
fondazioni bancarie quelle chiamate a partecipare al capitale sociale della nuova società per
azioni. Le fondazioni bancarie sono spesso i principali azionisti delle banche di riferimento, con
le quali la Cassa Depositi e Prestiti fino ad allora competeva, fornendo agli enti pubblici risorse
finanziarie a condizioni più convenienti. Sarà forse un caso che da allora, attraverso una scelta
di elevati tassi di interesse sui mutui accesi, le condizioni di finanziamento privilegiato da
sempre rivolte agli enti pubblici siano progressivamente svanite, spalancando le porte degli
stessi all'indebitamento coi mercati finanziari? 4. Se più dell'80% delle entrate della CDP SpA
deriva dal risparmio dei lavoratori e dei cittadini, si pongono problemi rilevanti di diritto
all'informazione e di diritto alla partecipazione alle scelte di destinazione degli investimenti. Se
infatti per 150 anni la destinazione al finanziamento degli investimenti degli enti locali
territoriali era scontata (e tacitamente condivisa dai cittadini "prestatori"), con la
trasformazione di Cassa Depositi e Prestiti in società per azioni nasce una questione ineludibile
di democrazia partecipativa: i lavoratori e i cittadini devono avere voce sulla destinazione dei
soldi prestati e partecipare all'indirizzo delle scelte sugli investimenti da intraprendere , ad
esempio ponendo vincoli di destinazione a finalità sociali ed ambientali degli stessi. 5 . Appare
sempre più evidente come Cassa Depositi e Prestiti SpA, pur continuando a raccogliere i fondi
dal risparmio dei cittadini e dalle necessità di investimento degli enti locali territoriali, sia oggi
un vero e proprio fondo sovrano , con un intervento a largo raggio nell'economia e sui mercati
finanziari di tutto il mondo Quella stessa economia e finanza di mercato messa alle corde dalla
crisi sistemica in corso e dalla perdita di consenso fra le persone, come i referendum sull'acqua
e i beni comuni dello scorso giugno hanno pienamente dimostrato. D'altronde , i temi della
riappropriazione sociale dell'acqua e dei beni comuni da una parte e di una nuova finanza
pubblica dall'altra sono fra loro strettamente connessi: chiedendo la ripubblicizzazione del
servizio idrico integrato, il movimento per l'acqua afferma le necessità di una nuova fiscalità
generale e di nuovi strumenti di finanza pubblica; allo stesso modo, la rivendicazione di una
nuova finanza pubblica rimanda immediatamente a beni comuni da affermare come
indisponibili al mercato e a servizi pubblici di qualità da garantire a tutte e tutti. Sono tutte
riflessioni che hanno indotto Attac Italia e molti altri soggetti singoli e associativi ad avviare lo
studio di una campagna per la socializzazione del sistema creditizio e per la riutilizzazione con
finalità sociali e ambientali dell'enorme quantità di soldi raccolta dalla Casa Depositi e Prestiti e
oggi destinata a ben altri scopi. Riappropriarsi collettivamente di questo denaro diviene la
precondizione per poter indirizzare e finanziare il cambiamento necessario, immaginare
un'altra uscita dalla crisi, rendere effettiva la ripubblicizzazione di beni comuni come l'acqua,
realizzando concretamente quanto deciso dalla maggioranza assoluta del popolo italiano con la
straordinaria vittoria referendaria del giugno 2011. Tutti assieme è possibile.
* Attac Italia

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Bancoposta20feb2012

  • 1. Repubblica - Supplemento Affari e Finanza ultimo aggiornamento 20 Febbraio 2012 FINANZA Poste senza Banco, spunta il piano B ADRIANO BONAFEDE Separare nettamente il Bancoposta dalle Poste per poi arrivare, in un secondo tempo, alla sua vendita con una fuoriuscita dello Stato dall’attività creditizia? L’idea non è più tabù. È stato il ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera, in una recente audizione in Parlamento ad annunciare che sul suo tavolo c’è anche questo dossier. Una mossa richiesta da anni dall’Antitrust che darebbe una svolta a quelle liberalizzazioni che finora non sono per niente decollate. Ma separare e vendere parte o tutto il Bancoposta non è un’impresa facile, tanto che se ne parla da moltissimi anni e il dossier dopo un po’ di tempo viene regolarmente archiviato in qualche armadio polveroso in attesa di tempi migliori. Il punto è che per cedere questo asset bisognerebbe prima di tutto dividerlo fisicamente dal resto, ovvero dalla casa madre, Poste Italiane. Un problema immenso perché Poste e Bancoposta sono da sempre intrecciati fra di loro, a cominciare naturalmente dai luoghi fisici in cui operano, che sono gli stessi, dal personale e dalle apparecchiature tecnologiche. In più le Poste Italiane, senza Bancoposta diventerebbero un’impresa senza reale capacità di produrre reddito, con 150 mila persone da mantenere e 14 mila sportelli. Così fra i tecnici si sta facendo strada un Piano B, di più facile e immediata realizzazione: vendere un pezzo di tutto il complesso Poste Italiane con l’obiettivo almeno di far cassa introducendo una parziale liberalizzazione con l’ingresso dei privati. M quanto può valere Poste Italiane? La stima fatta da Deutsche Bank due anni fa in occasione dello swap di partecipazioni tra la Cdp e il Tesoro, 10 miliardi, sembra lontana dalla realtà. C’è chi parla del doppio o anche del triplo. Cifre possibili per un gruppo che custodisce un forziere da 400 miliardi di risparmi, effettua investimenti autofinanziati per 700 milioni all’anno e produce utili di 1 miliardo, che finiscono in gran parte nelle casse del Tesoro sotto forma di dividendi. La separazione tra Bancoposta e casa madre potrebbe intanto andare avanti creando le condizioni per una futura vendita. E comunque è un processo che è iniziato da anni. Fu la Banca d’Italia a chiederla molti anni fa e si cominciò con una distinzione contabile fra le due entità. L’ultimo step di questo processo è stato introdotto con il Milleproroghe di un anno fa quando è stato richiesto al Bancoposta di costituire un patrimonio destinato a coprire la propria attività specifica. Una sorta di Core Tier 1, che però non copre dal rischio di credito, che il Bancoposta non ha in quanto vende soltanto prodotti di altri in cui sono gli altri a rischiare in proprio, ma dal rischio operativo (ad esempio, errori contabili). Proprio questo processo di separazione ha creato alcuni fatti nuovi nella contabilità delle Poste. Nonostante sia l’attività del Bancoposta a produrre i veri utili della gestione (quella solo postale ha generato lo scorso anno una perdita di 130 milioni) in realtà alla branca di Poste Industriale fa capo il 60 per cento degli utili (ovverosia, 600 milioni di quel miliardo di cui abbiamo parlato). Com’è possibile? Per comprenderlo bisogna pensare che Poste Industriale fornisce un’infrastruttura fisica, logistica e informatica a tutte le attività che in essa si svolgono. Dunque all’attività di Bancoposta per i conti correnti e i prodotti finanziari, ma anche a Poste Mobile (l’operatore virtuale telefonico di Poste), alla Cassa depositi e prestiti per i libretti e i Buoni postali fruttiferi, a Poste Vita (oggi il primo operatore
  • 2. italiano del ramo) per la vendita di assicurazioni. Con ognuno di questi soggetti – siano essi interni al gruppo o esterni come la Cdp – esistono appositi contratti di servizio che fissano le commissioni per Poste Italiane. Scorporare il Bancoposta è dunque possibile ma forse, per chi comprerebbe una quota o il tutto, sarebbe meno remunerativo di quanto non sembri. Inoltre, il governo deve porsi un altro problema. Cedendo la parte più ricca del business, che produce un cash flow positivo di circa 1 miliardo all’anno, lo Stato certo incasserebbe qualche miliardo con cui abbattere il debito pubblico e dare un segnale positivo alla comunità finanziaria, ma dovrebbe rinunciare agli utili futuri. Se poi il governo dovesse decidere per una vendita in toto del Bancoposta – com’è stato fatto in Germania, dove è finito a Deutsche Bank – gli utili futuri sarebbero ancora più bassi e allo Stato rimarrebbe soltanto il servizio postale, che è in perdita. È comunque vero che rimarrebbero le pingui commissioni per il contratto di servizio. Queste considerazioni hanno indotto alcuni tecnici dello Stato a formulare anche l’altra ipotesi, appunto il piano B: vendere una quota non del Bancoposta ma di tutte le Poste Italiane. Cioè tutto il bene ma anche, per così dire, tutto il "male". Una possibilità sarebbe quella di fare un private placement presso alcuni investitori istituzionali intenzionati a fare un investimento di lungo termine. Il modello sarebbe quello della Cdp, dove un terzo del capitale è in mano alle Fondazioni. Purtroppo, però, le Fondazioni oggi hanno ben altri problemi. L’ingresso di fondi pensione o investitori istituzionali di altri paesi sarebbe possibile, anche se c’è chi teme che questi soggetti possano condizionare le future politiche, magari in un senso più marcatamente di mercato, andando contro le esigenze più "sociali". Il modello italiano, simile in tutta Europa solo a quello francese, è fatto in modo che l’insieme regga il tutto. Ovvero ciò che è conveniente fare per la collettività e ciò che è remunerativo convivono in un crogiuolo indistinto, da cui però emerge un sicuro dividendo. Un’altra possibilità – ancora tutta da studiare sarebbe quella di portare in Borsa una quota di Poste Italiane da distribuire ai piccoli investitori con pacchetti molti frazionati. Così l’interferenza con le politiche di gestione sarebbe minore, mentre lo Stato farebbe un po’ di cassa. Qualunque sarà la decisione di Passera, di certo ha in mano una patata bollente. il manifesto 2012.02.19 - 06 POLITICA & SOCIETÀ CONTROPIANO C'è la crisi? Riprendiamoci la Cassa Depositi e Prestiti APERTURA - MARCO BERSANI * Non è vero che «i soldi non ci sono». Sono tanti e bastano a invertire la rotta, iniziando a costruire un altro modello sociale, basato sui diritti collettivi L'analisi espressa, con usuale lucidità, da Guido Viale nel suo articolo La Grecia siamo noi» ( il manifesto del 17/2/2011), andrebbe a mio avviso integrata con una riflessione da aprire a tutto campo su come sia possibile finanziare i necessari cambiamenti che volenti perché collettivamente ci riprendiamo in mano il nostro destino - o nolenti - se continuiamo a credere alle favole del governo dei professori dovremo affrontare. A chi continua a ripetere come un mantra «i soldi non ci sono» occorre certo rispondere con l'argomentazione che una diversa
  • 3. finalizzazione della fiscalità generale - drastica riduzione delle spese militari in primis - renderebbe disponibili risorse oggi non utilizzabili. Ma allo stesso tempo occorre contestare l'assunto in quanto palesemente falso. Perché i soldi ci sono, sono tanti e più che sufficienti per invertire la rotta, chiudendo definitivamente con le politiche liberiste e iniziando a costruire un altro modello sociale, basato sui diritti collettivi, sulla riappropriazione sociale dei beni comuni, sulla riconversione ecologica e democratica dell'economia. Dodici milioni di persone affidano i propri risparmi a Poste Italiane, attraverso i libretti di risparmio e i buoni fruttiferi. La massa di questi risparmi viene raccolta dalla Cassa Depositi e Prestiti, che, dalla sua nascita nel 1860 e fino al 2003, la utilizzava per permettere agli enti locali territoriali di poter fare investimenti con mutui a tasso agevolato. Nel 2003, la Cassa Depositi e Prestiti è stata tramutata in società per azioni e nel suo capitale societario sono entrate (30%) le fondazioni bancarie. Da allora, la Cassa Depositi e Prestiti si è progressivamente trasformata in una merchant bank che continua a finanziare gli enti locali ma a tassi di mercato e che investe in diversi fondi con finalità di profitto. La massa di denaro mossa annualmente dalla Cassa Deposti e Prestiti è enorme: circa 250 miliardi di euro, con una liquidità disponibile di quasi 130 miliardi di euro; si tratta di gran lunga della "banca" più solida e nello stesso tempo più "liquida" del Paese. E allora alcune riflessioni diventano necessarie. 1. La natura di bene comune della Cassa Depositi e Prestiti risulta evidente dalla provenienza del suo ingente patrimonio, che per oltre l'80% deriva dalla raccolta postale, ovvero è il frutto del risparmio dei lavoratori e dei cittadini di questo Paese. Tale natura è del resto anche giuridicamente sostenuta dall'art.10 del D. M. Economia del 6 ottobre 2004 (decreto attuativo della trasformazione della Cassa Depositi e Prestiti in società per azioni ) che così recita: «I finanziamenti della Cassa Depositi e Prestiti rivolti a Stato, Regioni, Enti Locali, enti pubblici e organismi di diritto pubblico, costituiscono servizio di interesse economico generale . Il paradosso risiede nel fatto che, mentre si afferma ciò, la Cassa Depositi e Prestiti è stata trasformata in una società per azioni a capitale misto, la cui parte privata (30%) è appannaggio delle fondazioni bancarie, facendo sorgere un'inevitabile prima domanda: come possono un ente di diritto privato (tale è la SpA) e soggetti di diritto privato presenti al suo interno, come le fondazioni bancarie, decidere per l'interesse generale? 2. Pur continuando la Cassa Depositi e Prestiti a mantenere, tra i settori principali delle proprie attività, quello "tradizionale" relativo al finanziamento degli investimenti degli enti pubblici, con la trasformazione in SpA, questa attività deve avvenire assicurando un adeguato ritorno economico agli azionisti. Come recita l'art. 30 dello Statuto della società «Gli utili netti annuali risultanti dal bilancio (..) saranno assegnati (..) alle azioni ordinarie e privilegiate in proporzione al capitale da ciascuna di esse rappresentato». E la relazione annuale societaria, relativa al 2010, dichiara con soddisfazione la chiusura del bilancio con un utile netto di 2,7 miliardi di euro, nonché il fatto di aver garantito agli azionisti, dall'avvenuta privatizzazione ad oggi, un rendimento medio annuo superiore al 13%. Se l'unità di misura delle scelte di investimento è la redditività economica delle stesse, è evidente il "vulnus" di democrazia rispetto alla loro qualifica di servizio di primario interesse pubblico. 3. Altrettanto paradossale appare il fatto che, con la privatizzazione della Cassa Depositi e Prestiti, siano state proprio le fondazioni bancarie quelle chiamate a partecipare al capitale sociale della nuova società per azioni. Le fondazioni bancarie sono spesso i principali azionisti delle banche di riferimento, con le quali la Cassa Depositi e Prestiti fino ad allora competeva, fornendo agli enti pubblici risorse finanziarie a condizioni più convenienti. Sarà forse un caso che da allora, attraverso una scelta di elevati tassi di interesse sui mutui accesi, le condizioni di finanziamento privilegiato da sempre rivolte agli enti pubblici siano progressivamente svanite, spalancando le porte degli stessi all'indebitamento coi mercati finanziari? 4. Se più dell'80% delle entrate della CDP SpA deriva dal risparmio dei lavoratori e dei cittadini, si pongono problemi rilevanti di diritto all'informazione e di diritto alla partecipazione alle scelte di destinazione degli investimenti. Se infatti per 150 anni la destinazione al finanziamento degli investimenti degli enti locali territoriali era scontata (e tacitamente condivisa dai cittadini "prestatori"), con la trasformazione di Cassa Depositi e Prestiti in società per azioni nasce una questione ineludibile di democrazia partecipativa: i lavoratori e i cittadini devono avere voce sulla destinazione dei soldi prestati e partecipare all'indirizzo delle scelte sugli investimenti da intraprendere , ad esempio ponendo vincoli di destinazione a finalità sociali ed ambientali degli stessi. 5 . Appare
  • 4. sempre più evidente come Cassa Depositi e Prestiti SpA, pur continuando a raccogliere i fondi dal risparmio dei cittadini e dalle necessità di investimento degli enti locali territoriali, sia oggi un vero e proprio fondo sovrano , con un intervento a largo raggio nell'economia e sui mercati finanziari di tutto il mondo Quella stessa economia e finanza di mercato messa alle corde dalla crisi sistemica in corso e dalla perdita di consenso fra le persone, come i referendum sull'acqua e i beni comuni dello scorso giugno hanno pienamente dimostrato. D'altronde , i temi della riappropriazione sociale dell'acqua e dei beni comuni da una parte e di una nuova finanza pubblica dall'altra sono fra loro strettamente connessi: chiedendo la ripubblicizzazione del servizio idrico integrato, il movimento per l'acqua afferma le necessità di una nuova fiscalità generale e di nuovi strumenti di finanza pubblica; allo stesso modo, la rivendicazione di una nuova finanza pubblica rimanda immediatamente a beni comuni da affermare come indisponibili al mercato e a servizi pubblici di qualità da garantire a tutte e tutti. Sono tutte riflessioni che hanno indotto Attac Italia e molti altri soggetti singoli e associativi ad avviare lo studio di una campagna per la socializzazione del sistema creditizio e per la riutilizzazione con finalità sociali e ambientali dell'enorme quantità di soldi raccolta dalla Casa Depositi e Prestiti e oggi destinata a ben altri scopi. Riappropriarsi collettivamente di questo denaro diviene la precondizione per poter indirizzare e finanziare il cambiamento necessario, immaginare un'altra uscita dalla crisi, rendere effettiva la ripubblicizzazione di beni comuni come l'acqua, realizzando concretamente quanto deciso dalla maggioranza assoluta del popolo italiano con la straordinaria vittoria referendaria del giugno 2011. Tutti assieme è possibile. * Attac Italia