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“L’EDUCATORE IMPERFETTO” Sergio Tramma
(Pedagogia generale – Facoltà Scienze dell’Educazione – Università Milano Bicocca)
CAPITOLO 1 – La figura professionale, ovvero: dell’incertezza e della salutare
debolezza
La figura dell’educatore professionale è incerta e costantemente in via di definizione.
E’ una figura, come dice Bauman a proposito della società contemporanea, liquida ma non per
questo eterea.
La “debolezza” dell’educatore è strutturale e non eliminabile. Questa debolezza è salutare ed è
paradossalmente anche la sua forza, se intesa come ricerca sul senso dell’agire educativo e
come messa in discussione delle finalità.
Oggi poi la figura professionale dell’educatore è investita di molte responsabilità sia riguardo
ai compiti che ai soggetti di riferimento.
Oggi si può dire che tutta l’esistenza di tutte le persone è potenzialmente oggetto del pensiero e
dell’azione dell’educatore professionale.
Formidabili quegli anni (anni Sessanta e Settanta)
La condizione di incertezza dell’educatore professionale è il risultato di una lunga storia che ha
avuto inizio negli anni Sessanta- Settanta.
Fino agli inizi degli anni Sessanta, gli educatori professionali erano figure che lavoravano in
istituzioni

chiuse per l’educazione o la rieducazione dei minori. Luoghi finalizzati

all’adattamento costrittivo dei soggetti alle norme sociali e culturali esistenti, alla prevenzione
e alla “riparazione” di comportamenti individuali ritenuti particolarmente “pericolosi”.
Negli anni Sessanta, con il cosiddetto “miracolo economico” e con il passaggio da una
economia prevalentemente agricola a una industriale, si viene a creare una nuova realtà sociale
e culturale.
Entrano così in crisi le pratiche educative custodialistiche che avevano lo scopo di provvedere
al soddisfacimento dei bisogni vitali (orfanatrofi, manicomi, carceri) e nasce l’esigenza di
politiche volte a garantire diritti di cittadinanza al benessere.
I servizi non sono più diretti esclusivamente alle tradizionali frange emarginate della società,
ma si orientano all’insieme dei cittadini con l’intento non solo di ridurre il malessere ma anche
di promuovere il benessere.
Gli educatori vengono coinvolti in un movimento di contestazione che mette in discussione:
1
 La rigida distinzione tra salute e follia e devianza e normalità;
 L’esclusione e la segregazione come strumenti di controllo sociale;
 I metodi “autoritari” non più in grado di affrontare i cambiamenti derivanti dalla
modernizzazione.
All’operatore educativo che tende alla normalizzazione con metodi autoritari, si affianca
l’operatore che tenta tale normalizzazione con metodi non autoritari, fino ad arrivare
all’operatore che mette in dubbio il concetto stesso di normalizzazione.
Nascono così nuove figure educative, sempre più specializzate.
Inizia a strutturarsi il dilemma, ancora in parte attuale, se:
•

L’educatore debba essere una figura generalista, cioè in grado di operare a tutto campo,
con tutti gli utenti e in tutti i contesti;

•

Oppure un operatore che si è formato per lavorare con alcuni soggetti e non con altri
per rispondere a specifici bisogni.

Oggi l’educatore professionale:
♦

Risponde a richieste esterne di controllo e contenimento sociale, ma lo fa
cercando di trasformare tali richieste in possibilità di crescita per il soggetto
problematico;

♦

Ha ampliato il campo d’azione, gli obiettivi e i problemi di riferimento;

♦

E’ diventato, nell’intenzione, un consapevole agente di cambiamento che cerca
di operare una sintesi tra i bisogni sociali e i bisogni delle diverse utenze.

L’educatore professionale è differenziato dalle altre figure professionali, ma l’insieme delle
abilità e competenze sviluppate non è ancora in grado di definire con certezza il suo ruolo
rispetto a quello degli altri operatori.
I tratti essenziali
Benché non si possa ricostruire, per i motivi detti sopra, un profilo completo dell’educatore, si
possono però individuare alcuni tratti essenziali, sempre però aperti a nuovi sviluppi.
Infatti l’educatore professionale oggi è ritenuto un operatore che ha come compito
dichiarato quello di individuare, promuovere, sviluppare le potenzialità (cognitive,
affettive, relazionali) dei soggetti individuali e collettivi.
Le azioni nei confronti delle potenzialità si esplicano su più piani:

2
1) il piano promozionale: con azioni educative finalizzate a rendere abili i soggetti e cioè a
far sì che le potenzialità diventino atti cognitivi, affettivi e relazionali;
2) il piano preventivo: con azioni finalizzate a far sì che le potenzialità diminuiscano il
rischio di non trasformarsi in atti;
3) il piano riabilitativo: con azioni finalizzate a riconsegnare al soggetto le possibilità di
riacquistare il processo di trasformazione delle potenzialità in atti.
I diversi piani sono vincolati da un mandato sociale del quale l’educatore è esecutore e
coautore. L’operatività educativa si esplica in ambiti organizzati (i servizi) connotati da
riconoscibilità e intenzionalità.
Per raggiungere gli obiettivi l’educatore deve instaurare con gli utenti una relazione educativa.
Il suo lavoro è relazionale sia in rapporto ai soggetti destinatari delle sue azioni educative, sia
in rapporto ad altri educatori e ad altre figure professionali.
L’educazione professionale, l’educazione non professionale
I motivi per i quali una determinata attività viene affidata a professionisti e non è realizzata
direttamente dalle persone alle quali necessitano i risultati che l’attività può produrre, possono
essere:
 funzionale divisione del lavoro, nel caso in cui le competenze richieste siano acquisibili
solo attraverso una formazione specifica;
 produrre beni e servizi in maggiore quantità e minori tempi e costi.
Anche l’educazione è sottoposta a dinamiche di affidamento, delega o realizzazione in proprio.
La delega educativa è prevista e legittimata quando la complessità degli scopi educativi rende
necessario l’intervento di operatori specializzati.
Vi sono però alcune dimensioni, in particolare quella familiare, che non sono, in linea di
massima, affidabili ad altri. Questo perché sono attività insite nel ruolo di genitori e considerate
quindi “naturali”.
La famiglia non delega molti aspetti della propria potenzialità educativa perché è ritenuta e si
ritiene, per il solo fatto di essere tale, in possesso del sapere necessario all’educazione.
La capacità di ben educare sarebbe connaturata alla posizione che si occupa in famiglia
(genitore, nonno, nonna). Quindi la capacità di educare potrebbe essere considerata
naturalmente presente nelle persone come potenzialità. Si trasformerebbe in atto quando il
ruolo lo richiede (esempio diventando genitori). La conseguenza logica è che il sapere
necessario per educare acquisterebbe per il solo fatto di essere stati, a propria volta, educati.
3
La domanda che ci si pone è:
la capacità di educare dell’educatore professionale è naturale o deriva da un’intensa opera di
professionalizzazione?
La risposta alla precedente domanda darebbe vita a due immagini di educatore:
•

un educatore ‘caldo’, genitoriale, emotivamente coinvolto, intuitivo, unico;

•

un educatore ‘freddo’, tecnicista, distaccato, riproducibile in serie.

L’educatore professionale dovrebbe essere un mix degli aspetti migliori presenti nelle due
figure descritte sopra.
Il lavoro educativo, in quanto attività professionale, è in sé altro rispetto a qualsiasi pratica
educativa non professionale.
Esempi – Un educatore non potrà mai essere “amico” di un educando; le componenti di
affettività presenti in una comunità per minori non potranno mai replicare quelle familiari.
Le caratteristiche della relazione educativa/professionale sono:
 essere all’interno di un contratto pubblico
 prevedere un compenso economico
 essere costruita ad hoc, ossia artificialmente, in funzione degli scopi auspicati
 essere un servizio connotato da riconoscibilità e intenzionalità.
La capacità di essere in relazione educativa professionale dipende sia da una disposizione
vocazionale, sia da una solida preparazione di base, sia da costanti pratiche di aggiornamento
che dotino l’educatore di idonei strumenti disciplinari e metodologici.
Formare gli educatori: la prassi e la teoria
L’educatori professionale deve essere professionalizzato. In questo senso si pongono 3
problemi:
1) individuare le istituzioni che devono formare gli educatori.
Tali istituzioni sono le università.
2) individuare gli obiettivi formativi.
3) come deve essere impostata la formazione.
Rispetto agli ultimi due punti, gli obiettivi e la modalità della formazione non sono definibili se
non nelle loro linee generali. Ciò perché essi dipendono dalle impostazioni diverse dei vari
indirizzi individuabili nel campo educativo (socio-sanitario, formatore degli adulti, operatori
per l’infanzia, ecc).
4
Un aspetto importante nel dibattito sulla formazione degli educatori riguarda il rapporto tra la
pratica e la teoria.
Il primato della formazione pratica su quella teorica, nasce dalla convinzione che la professione
dell’educatore sia una professione “plastica” e che non si possa acquisire sapere se non facendo
prassi.
Si manifesta però il rischio che si sottovaluti la padronanza della teoria che è invece
indispensabile.
Il primato della teoria sulla pratica, nasce perché il pensiero sull’educazione è stato considerato
di pertinenza disciplinare della filosofia. In questa posizione c’è il rischio che si sopravvaluti
ciò che è intellettuale e che si pensi che la padronanza del pensiero educativo renda di per sé
capaci di educare.
In realtà gli elementi formativi teorici e pratici devono essere integrati.
Infatti nell’operatività dell’educatore, il generale (l’astratto) serve a leggere il particolare (il
caso concreto e contestualizzato) che a sua volta contribuisce a ridefinire il generale.
CAPITOLO 2 – L’irriducibile pluralità delle esperienze educative
Le categorie dell’educazione
Nel corso della loro esistenza i soggetti individuali e collettivi sono esposti a una molteplicità
di esperienze educative. Alcune di queste esperienze hanno obiettivi comuni considerabili tra
loro coerenti. Altre presentano obiettivi diversi ma tra loro compatibili. Altre, infine,
presentano intenzioni e obiettivi tra loro conflittuali e antagonisti.
Le esperienze educative hanno peso diverso e concorrono in misura differente alla formazione.
La “formatività” delle esperienze educative è solo parzialmente quantificabile nel corso del
loro realizzarsi.
I risultati sono sondabili e valutabili soprattutto dai soggetti destinatari, solo retrospettivamente
quando le esperienze sono rievocate e ricostruite nel tentativo di comprendere ciò che hanno o
non hanno determinato.
Siccome, come si è detto, le esperienze educative sono complesse, incerte e poliformi, non è
possibile classificarle e ordinarle.
Si può invece tentare di individuare alcuni addensati relativamente omogenei di accadimenti
educativi, indicando gli elementi che li distinguono, sempre consapevoli della fragilità dei loro
confini.
A) La prima possibile ripartizione distingue tra:
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A.1) esperienze formali (che possono essere fatte coincidere con l’esperienza scolastica) che
hanno le seguenti caratteristiche:
 Sono fortemente intenzionali ed organizzate
 Si svolgono in luoghi e tempi regolati da norme nazionali e locali
 Sono in parte obbligatorie, in quanto i soggetti coinvolti lo sono senza aver posto
nessuna domanda formativa
 Fanno conseguire e rilasciano un titolo di studio.
A.2) esperienze non formali (sono esterne all’istituzione scolastica)
 Sono dotate di intenzionalità, progetto e contratto
 Perseguono l’obiettivo di far apprendere conoscenze, abilità e competenze che
riguardano diversi ambiti della vita dei soggetti
 Rientrano in questa categoria: l’università della terza età, i corsi di lingua, di
educazione motoria, ecc.
La principale differenza tra le esperienze formali e quelle non formali, è che le prime
rappresentano un investimento collettivo finalizzato a fornire alle giovani generazioni gli
strumenti per raggiungere la condizione adulta. Inoltre, sempre le prime, sono parzialmente
obbligatorie.
A.3) esperienze informali (in questa categoria rientrano tutte le esperienze che non rientrano
nelle due precedenti aree)
 Riguardano la complessità della vita quotidiana e dell’esistenza dei soggetti
 Non hanno un progetto e una intenzionalità chiari
 Non si “dichiarano” educative a non sono percepite come tali dai soggetti coinvolti
 Sono le esperienze che cambiano, fanno maturare e capire
 Sono comunque educative
 Esempi: incontro con figure considerate mentori (cioè maestri), con prodotti artistici,
culturali, avvenimenti pubblici, ecc.
Questa ripartizione delle esperienze educative rispetto al loro livello di formalizzazione serve a
tre scopi:
1) a ricostruire quanti e quali interventi educativi i soggetti incontrano nella
loro vita;
2) a ridimensionare l’eccessivo peso educativo della scuola;

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3) a sottolineare, da un lato, l’importanza che riveste l’azione professionale
degli educatori extra-scolastici e, dall’altra, l’importanza delle pratiche
educative non formali in una società, come l’attuale, nella quale è
necessario un continuo aggiornamento.
B) Un seconda ripartizione delle esperienze educative si basa sul loro grado di intenzionalità:
B.1) esperienze intenzionali
 Si dichiarano “educative” e sono considerate tali dai “produttori” e dalla maggior parte
dei “consumatori”
 In esse c’è sempre la presenza di un soggetto (persona, gruppo, comunità) che ha lo
scopo di “educare l’altro”
 Sono esperienze intenzionali la scuola, la formazione aziendale, i corsi di vario tipo
 Rientrano anche le esperienze (esempio l’esperienza carceraria) nelle quali il soggetto
destinatario non ne riconosce la componente educativa
B.2) esperienze non dichiaratamente intenzionali
 Sono esperienze educative che tendono a modificare o a instaurare comportamenti nei
destinatari senza che ciò sia direttamente esplicitato
 La gestione e l’articolazione dell’intervento sono solo dei promotori
 Può succedere che “il bene” perseguito dai produttori, non sia quello dei destinatari, ma
il loro
 Esempi: le campagne pubblicitarie, l’organizzazione di spazi di incontro all’interno
delle città, ecc.
B.3) esperienze non intenzionali
 Non hanno una progettualità educativa né esplicita né celata
 Se ci sono i produttori non sono consapevoli di essere produttori di esperienze
educative
 I risultati educativi possono essere prodotti anche da eventi
 Esempi: rapporti interpersonali, esperienze piacevoli e non, esperienze collettive
coinvolgenti le catastrofi naturali
 In queste esperienze il margine di controllabilità pedagogica è ristretto o nullo.
In qualsiasi esperienza educativa interagiscono più ripartizioni, quindi anche nelle esperienze
più istituzionalizzate sono presenti aree non regolate da intenzionalità, che possono risultare
più formative rispetto agli aspetti intenzionali.
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La mappa delle esperienze educative
La vita dei soggetti è costellata da esperienze educative che non si possono ridurre ad un elenco
in quanto sono molto complesse.
L’elencazione che segue ha lo scopo di prospettare una griglia (non esaustiva) che serva a
orientare nella ricerca e nell’analisi delle storie di formazione di qualsiasi soggetto.
A) La famiglia
La famiglia è un’ esperienza multiforme e complessa che va analizzata con il concorso di più
discipline.
In famiglia avviene gran parte della socializzazione precoce, si sviluppano i primi meccanismi
di apprendimento, si interiorizzano la prime norme e modelli, si impara a tener conto delle
aspettative degli altri e a rispondervi in modo adeguato.
Lo scopo dell’educazione familiare è l’autonomia dei discendenti, cioè il distacco armonico e
funzionale dei figli dal nucleo familiare originario.
L’azione educativa della famiglia tende a trasmettere codici di condotta e valori morali propri
del gruppo sociale di appartenenza, può favorire il proseguimento di alcune storie familiari e
l’interruzione di altre (esempio: può favorire il proseguimento o meno dell’attività
professionale familiare, la permanenza nella stessa classe sociale o il “salto di classe”
attraverso, per esempio, il conseguimento di un titolo di studio superiore rispetto a quello della
generazione precedente).
L’educazione familiare oggi può essere considerata in crisi, perché sminuita nel prestigio da
altri ambiti educativi e perché ci si chiede se il sapere familiare sia sempre valido.
Oggi il possesso del sapere funzionale alla crescita è delegato ad altri (pediatri, insegnanti,
psicologi, educatori professionali).
Inoltre, mentre per molto tempo il modello famiglia è stato quello di una coppia composta da
persone di sesso diverso, finalizzata a generare figli e convalidata dalla Chiesa, oggi, in molti
casi, ci si è allontanati da questo modello.
Ciò è dovuto al fatto che è stato istituito il divorzio, sono aumentate le convivenze senza
contratto matrimoniale, si chiede la legittimazione di convivenze di persone dello stesso sesso.
Questa situazione ha importanti implicazioni per il lavoro educativo professionale, che deve
accettare la molteplicità di valori in fatto di famiglia senza bollarli come “diversità” da tollerare
e curare.

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B) il gruppo di pari
Il grippo dei pari è un insieme di soggetti della stessa età che condividono un rapporto
genericamente definibile di amicizia.
I rapporti tra pari sono più “democratici” di quelli familiari e scolastici e in essi si verificano
intensi scambi affettive e comunicativi.
Si possono tracciare varie tipologie di gruppi dei pari.
Un elemento di classificazione può essere la “base materiale” che consente la formazione di
queste relazioni paritarie:
 gruppi legati a luoghi aperti (incontri in piazza, in giardini, ecc)
 gruppi che si formano nel corso di attività formative (professionali, sportive, ecc)
All’interno dei gruppi dei pari si apprendono saperi e saper fare aggiuntivi e a volte conflittuali,
rispetto a quelli della famiglia e della scuola.
Il gruppo è il luogo formativo per l’educazione affettiva e sessuale, dove sperimentare
(soprattutto in adolescenza) l’avventura, la solidarietà e la trasgressione.
Dagli anni Cinquanta si assiste al fenomeno dei teenagers: i giovani diventano autonomi
soggetti di consumo, sviluppano stili e comportamenti in discontinuità con le generazioni
precedenti. Ciò non può più essere ricondotto alla “marginalità” e alla devianza e mette in crisi
le concezioni educative esclusivamente autoritarie nei confronti dell’adolescenza.
C) la scuola
La scuola è, almeno nelle intenzioni, il progetto educativo extra familiare per eccellenza, che
ha come scopi:
 fornire un’alfabetizzazione di base;
 tentare la formazione del “buon cittadino”
 fornire gli strumenti per un inserimento produttivo nel mondo del lavoro.
La scuola è l’esperienza nella quale, più che in ogni altra, si verifica la discordanza tra gli
obiettivi auspicati e dichiarati e quelli effettivamente praticati e raggiunti.
Ciò avviene perché:
 c’è differenza tra ciò che è previsto dai programmi didattici e ciò che viene
effettivamente verificato ed acquisito

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 all’interno dell’esperienza scolastica, vi sono sfumature informali non intenzionali che
risultano più educative di quelle formali ed intenzionali (incontro con figure adulte
significativa, possibilità di accettazione e di rifiuto di ciò che viene proposto).
La scuola oggi vive una profonda crisi di senso che è iniziata negli anni Sessanta, quando
l’obbligo scolastico (prima limitato ai 5 anni di scuola elementare) è stato esteso ai 3 anni di
scuola media. La scuola media viene unificata (scompare il triennio di avviamento
professionale) e diventa relativamente “di massa”.
La scuola viene inoltre investita dalle critiche del movimento studentesco che svelano il
carattere selettivo e di costruzione del consenso.
Oggi la scuola:
 ha perso il suo primato di luogo formativo
 si rivolge agli studenti motivati ma anche a quelli disillusi e oppositivi e a quelli
provenienti da famiglie e contesti multiproblematici
 gli insegnanti hanno perso in considerazione sociale e in autostima
 agli insegnanti viene richiesto di rispondere a sempre nuovi compiti educativi.
Malgrado tutto ciò, la scuola pubblica rimane una delle più solide istituzioni per consentire a
tutti i cittadini di acquisire risorse spendibili nella dimensione professionale e sociale.
D) i mezzi di comunicazione di massa
Gli effetti educativi dei mass media diventano evidenti con la diffusione della radio che:
 è un mezzo più alla portata di tutti rispetto ai giornali
 ha consentito di comunicare lo stesso messaggio a più persone molto distanti tra loro e
di fruire di molteplici prodotti culturali.
La radio prima e la televisione poi, sono stati mezzi educativi rilevanti perché:
•

hanno veicolato e veicolano modelli di comportamento

•

producono educative campagne pubblicitarie

•

hanno contribuito all’unificazione culturale e linguistica del Paese.

La televisione influenza non solo gli adolescenti, ma tutti coloro che ne fruiscono.
La televisione può essere educativa verso direzioni non auspicate quando:
♦

mostra modelli di comportamento discutibili e negativi e, mostrandoli, li rende possibili ed
accettabili

♦

pur mostrando contenuti “virtuosi”, stabilisce con il telespettatore un rapporto solo
“unidirezionale”
10
♦

riduce le occasioni di socialità

♦

tende a omologare (= rendere uguali) le abitudini e i consumi

♦

collabora a trasformare, attraverso la pubblicità, i soggetti da produttori a consumatori

♦

attraverso le immagini, rende povera l’intelligenza verbale e logica

♦

suggerisce punti di riferimento (veri o immaginari) per valutare le proprie condizioni
economiche e sociali, mostrando come vivono popoli di altre aree geografiche.

E) il lavoro
Il lavoro è una rilevante esperienza educativa perché:
o l’organizzazione nella quale i soggetti operano, dichiara e persegue i propri intenti
educativi, sottolineando le caratteristiche del lavoratore ideale, sia in termini di
comportamenti produttivi, sia di atteggiamenti generali verso la vita (esempio
motivazione, aspettative, abbigliamento)
o all’interno dell’organizzazione nella quale i soggetti operano, coabitano culture diverse
da quelle dell’impresa (esempio cultura delle organizzazioni sindacali) che trasmettono
valori e quindi educano
o nell’ambiente di lavoro si creano rapporti tra pari e con l’autorità
o alcune professioni si configurano come un processo di costante auto-apprendimento
F) le dimensioni collettive
Le dimensioni collettive generano nei soggetti un senso di appartenenza e di comunità. Esse
presentano una componente educativa sotto tre aspetti:
•

intenti educativi espliciti e intenzionali rivolti ai propri componenti

•

aspetti non intenzionali e non formali, connessi alla modalità di partecipazione e alla
struttura organizzativa

•

eventuali attività di proselitismo (= tentativo di far condividere ad altri la propria
concezione di vita) prodotte dall’organizzazione.

Tra le dimensioni collettive ci sono:
o la dimensione politica, che è educativa perché prevede un progetto di società,
una formula organizzativa, un programma. Ciò implica l’esistenza di una prassi
educativa capace di produrre un’ampia adesione al progetto
o la dimensione religiosa, che è educativa perché vengono esplicitati e indicati la
concezione del mondo, i valori e i comportamenti
o esperienze di carattere solidaristico e di volontariato
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o associazionismo culturale, professionale, ricreativo e sportivo.
G) le cose
Pasolini afferma che le cose, specialmente nella prima fase della vita, rappresentano
un’importante fonte educativa.
Le cose (gli oggetti materiali) che circondano le perone durante, in particolare, l’infanzia,
contribuiscono a creare un ambiente vissuto come dato e “naturale”. Si tratta di ambienti e cose
che solo in seguito, sottoposte a un ripensamento, si evidenzieranno per le persone come aventi
valore educativo.
La vita è educazione?
Sorgono spontanee alcune domande:
1) Qualsiasi atto relazionale e comunicativo e qualsiasi evento può essere considerato
educativo?
Secondo Bertolini, moltissimi sono gli eventi che si possono definire “educativi”. Infatti sono
moltissimi quelli che generano trasformazioni negli individui e quindi una loro crescita e
sviluppo.
Occorre però che il soggetto a cui è rivolto l’intervento educativo, si mostri ricettivo e
disponibile.
2) Esistono sovrapposizioni e coincidenza tra vita ed educazione?
La risposta può essere positiva o negativa:
 positiva se si considerano tutte le possibili sfumature di formalizzazione e
intenzionalità. In questo senso qualsiasi esperienza è potenzialmente educativa
 negativa se si prendono in considerazione solo le esperienze intenzionalmente
educative, cioè quelle esperienze nelle quali c’è la volontà di un soggetto di educare un
altro soggetto, indipendentemente dall’accordo del soggetto destinatario dell’azione
educativa.
Papi, riferendosi in particolare all’educazione dei bambini, afferma che, nonostante la scuola,
la maggioranza dei bambini per lo più cresce dove e come può, imparando soprattutto dalla
realtà che lo circonda.
In questo senso tutta la vita dei soggetti è interessabile da esperienze educative.
Ma affermare che i confini della vita e quelli dell’educazione coincidono, non comporta
necessariamente la conseguenza che la vita è educazione. La vita cioè non può essere
considerata un flusso continuo di apprendimenti in ogni suo istante. Alcune esperienze sono
considerabili educative, altre meno se non del tutto non educative.
12
Inoltre “l’educatività” delle esperienze, quando queste vengono riconosciute come tali, non è
direttamente proporzionale all’intenzionalità educativa, all’autorità di chi educa e alle speranze
sociali.
3) Come si combinano tra loro le esperienze educative nella storia del soggetto? Quali
sono i loro pesi relativi?
La storia formativa di una persona è unica e imprevedibile. Solo in fase di ripensamento, e
secondo un progetto proiettato o meno nel futuro, sarà possibile individuare una gerarchia degli
eventi educativi e il loro peso.
4) E’ possibile governare la complessità del processo produttivo ed, eventualmente, a chi
spetta tale compito?
Nella vita di un soggetto si presentano esperienze educative molto intenzionali (esempio la
scuola) e occasioni non intenzionali, spontanee e imprevedibili. In parte i soggetti subiscono il
sistema educativo, in parte contribuiscono a costruirlo.
Nessuno è mai riuscito ad educare qualcun altro ad una piena e completa adesione di
comportamenti alla propria concezione del mondo.
Neppure è pensabile che un soggetto riesca ad autogovernre il proprio percorso educativo in
piena libertà e senza condizionamenti.
E’ illusorio, come ritenere di poter governare la vita.
Un’azione educativa che si prefigga l’obiettivo dell’autonomia dei soggetti, deve tener conto:
•

Della complessità del sistema educativo

•

Dell’esistenza di condizionamenti

•

Dell’esistenza di margini di libertà.

Lo scopo è quello di stimolare i soggetti a diventare “pedagogisti” delle proprie esperienze
educative.
CAPITOLO 3 – L’irriducibile pluralità del levoro educativo
L’educatore (professionale extrascolastico) è l’operatore che, all’interno di un servizio stabile o
di un progetto ad hoc, può entrare in gioco quando si verifica una situazione di crisi all’interno
del sistema delle esperienze educative.
Le crisi possono essere catalogate in:
•

Crisi da carenza educativa: quando l’esperienza educativa non è ritenuta in grado di
raggiungere gli obiettivi oppure il soggetto non è coinvolto in una esperienza ritenuta
auspicabile.

13
•

Eccesso educativo: quando l’esperienza è educativa, ma verso obiettivi non auspicabili,
cioè quando si pensa che l’esperienza possa evolvere verso direzioni non legittime.

•

Conflitto educativo: quando all’interno dell’esperienza esistono diversità non
conciliabili di obiettivi e prassi educativa.

Davanti ad una crisi educativa, l’educatore professionale può intervenire quando si verificano
alcune condizioni sequenziali, cioè:
1) la crisi supera la soglia di accettabilità (è l’osservatore, interno o esterno,
che decide la soglia, tenendo presente che essa è mutevole e dipende
dall’ambiente, dalle condizioni sociali, ecc);
2) la notizia della crisi giunge, direttamente o indirettamente, a chi
istituzionalmente è preposto a conoscerla, analizzarla e intervenire;
3) la crisi viene riconosciuta come caso specifico, che rientra nelle tipologie
di crisi che comportano l’attivazione di un intervento educativo;
4) esistono le risorse finanziarie, professionali e metodologiche più idonee
per affrontare e cercare di risolvere la crisi.
Sostituire, aggiungere, compensare
L’educatore professionale, nei confronti delle crisi educative, è impegnato in interventi
sostitutivi, aggiuntivi e compensativi.
 Interventi sostitutivi: si hanno quando gli ambiti educativi naturali (esempio la
famiglia) non sono più ritenuti adeguati alla normale crescita dei soggetti (esempio per
mancanza di risorse economiche). Tali interventi sono realizzati, ad esempio, da
comunità per minori, per disabili, ricoveri per anziani.
 Interventi aggiuntivi: si hanno quando, pur non essendoci patologie che rendano
necessario un intervento sostitutivo, le esperienze educative non sono considerate
adeguate a formare il soggetto. Gli interventi aggiuntivi si affiancano alle azioni in atto
per rafforzarle, ma non per sostituirle. Esempio: sostegno a scuola, assistenza
domiciliare ai disabili.
 Interventi compensativi: si hanno quando gli ambienti educativi sono ritenuti tali, ma
verso direzioni non volute. Questi interventi servono a contrapporsi o a controbilanciare
i processi educativi in atto. Ciò può avvenire in ambienti estremamente chiusi come il
carcere, o in ambienti estremamente aperti, come la strada (ove si possono formare
gruppi di adolescenti o soggetti marginali).
Come già detto, le azioni educative sono, per la loro natura e senso, molto complesse.
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E’ allora possibile riprendere la precedente classificazione ed arricchirla ulteriormente,
considerando congiuntamente l’incrocio tra tipo d’azione e tempo di svolgimento delle stesse.
Avremo:
 Interventi sostitutivi
o A breve periodo: sono necessari quando si verificano crisi acute. I soggetti hanno
bisogno di soluzioni totalizzanti provvisorie, che hanno l’obiettivo di far tornare il
soggetto nella situazione originaria sanata, o l’inserimento in una situazione del tutto
diversa.
o A medio periodo: sono interventi finalizzati a promuovere nei soggetti dei
cambiamenti, così da consentire al soggetto il ritorno al suo ambiente originario.
o A lungo periodo: sono interventi che non prevedono il ritorno dei soggetti nei
contesti di provenienza e che si pongono come obiettivo quello di preservare un
minimo di livello di autonomia e benessere (esempi: ricovero per anziani, comunità
alloggio).
 Interventi aggiuntivi
o A breve periodo: finalizzati a sostenere il soggetto in particolari momenti di difficoltà
o di passaggio (esempio: inserimento lavorativo, insuccesso scolastico).
o A medio periodo: si rivolgono a soggetti portatori di disagio psico-fisico e
relazionale. Prevedono processi riabilitativi che la famiglia non è in grado di produrre.
o A lungo periodo: sono interventi che accompagnano il soggetto per lunghi periodi o
per tutto il corso della vita (esempio: centri per disabili), cioè in tutti quei casi in cui
l’insufficienza educativa ha carattere cronico.
 Interventi compensativi
o A breve periodo: azioni a tempo limitato, finalizzate a prevenire e ridurre
comportamenti a rischio (esempio: campagne pubblicitarie contro droga e alcool).
o A medio periodo: interventi su soggetti che presentano problemi, ma non stabili né
irreversibili. Forniscono strumenti in grado di compensare l’azione educativa
(esempio: progetto giovani).
o A lungo periodo: interventi su soggetti con problemi cronici.
La missione dell’educatore
Nonostante la complessità della “missione” educativa, se ne possono tracciare alcuni tratti
distintivi.

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Si può dire che il compito generale dell’educatore è quello di intervenire dove le normali
dinamiche educative non consentono o non consentirebbero un autonomo percorso di crescita
(sia degli individui che dei gruppi) verso un’auspicata condizione adulta e una permanenza il
più prolungata possibile all’interno di questa condizione.
Non si intende però il tentativo di ritardare l’ingresso nella vecchiaia. La vecchiaia, infatti, non
è un problema di età anagrafica, ma dipende dal contesto sociale.
Non si intende neppure il favorire l’acquisizione precoce di tratti della condizione adulta.
Infatti il lavoro dell’educatore è anche quello di evitare esperienze di adultizzazione precoce,
come ad esempio l’espulsione scolastica o gli abusi sessuali.
La condizione adulta è caratterizzata dal possesso di alcuni diritti, doveri, beni materiali e
immateriali.
In generale, gli interventi educativi si attuano per consentire ai soggetti di avvicinarsi ai tratti
della condizione adulta e cioè:
1) disporre di un reddito sufficiente, proveniente da fonti leciti, e utilizzarlo per ottenere beni
che vadano oltre la soglia (variabile e socialmente negoziata) della essenzialità, ma che non
vadano oltre la soglia (variabile e incerta) del consumo alienante.
2) Poter accedere, sia personalmente che a favore dei familiari, ai servizi essenziali connessi
alla condizione di cittadino. Un problema aperto è il seguente: l’accesso ai servizi deve
avvenire per il solo fatto di essere cittadino o deve essere legato al reddito?
3) Essere in grado di praticare un’attività professionale. Il lavoro infatti:
•

È una fonte di reddito;

•

Contribuisce a creare identità e a costruire ruoli sociali;

•

È un progetto portante per la vita.

Un’area di criticità è rappresentata dal fatto che oggi il lavoro ha perso il suo carattere
continuativo e solido, perché è diventato discontinuo e frammentario.
4) Disporre di una rete di relazioni familiari e sociali soddisfacenti. Oggi la quantità delle
relazioni “strutturali”si è ridotta (famiglia meno estesa, più deboli legami con i luoghi che
producevano relazioni). Oggi la possibilità di costruire relazioni è meno data e più
“cercata”.
5) Godere di buona salute, sia nel senso di assenza di patologie, sia nel senso di “stato di
benessere fisico, psichico e sociale”. Nelle società sviluppate si è passati parzialmente da
patologie che aggrediscono l’individuo (esempio epidemie) a patologie a carattere cronico,
conseguenti allo stile di vita.

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Dal punto di vista educativo ciò implica la necessità di una educazione volta a
sensibilizzare i soggetti orientandoli verso uno stile di vita sano.
6) fornire prestazioni fisiche e psichiche adeguate per la fascia di età e per il genere di
appartenenza. Se in alcuni contesti (esempio lo sport), le prestazioni in eccesso sono
ritenute positive, così non è per le prestazioni in difetto.
7) Disporre di un livello di istruzione sufficiente. La soglia di accettazione è mutevole, perché
dipende dal contesto sociale, dalla disabilità, dalla necessità di formazione per tutta la vita.
8) Esercitare la capacità critica, intesa come capacità di riflettere costantemente su di sé e sul
mondo.Quando la capacità critica diventa capacità di trasformare sé e il mondo, può
succedere che essa si scontri con le logiche sociali che regolano i limiti di espressione. La
capacità critica oggi, ha inoltre di fronte a sé molti piani (globalizzazione,
multiculturalismo) e molti linguaggi.
9) Essere autosufficienti nell’affrontare le competenze della vita quotidiana. Il livello di
autosufficienza NON è considerabile un valore assoluto, ma dipende dal rapporto tra i
compiti che il soggetto deve svolgere e le forme di sostegno di cui può disporre.
10) Partecipare al benessere collettivo, cioè percepirsi parte di una comunità e agire per
aumentare il benessere dei suoi membri, senza però porsi in contrasto con le altre
collettività.
11) Essere in grado di prendersi cura degli altri. L’adulto, in particolare le donne, è inserito in
un contesto familiare nel quale la cura degli altri è diventata una condizione prolungata e
diffusa.
L’associare la missione dell’educatore professionale alla condizione adulta ha lo scopo di
ancorare il lavoro educativo ad una dimensione di concretezza.
Il cambiamento
Il lavoro dell’educatore non può ridursi a comprendere e spiegare il mondo, ma deve spingersi
fino a cambiarlo (a differenza, ad esempio, del lavoro del sociologo che potrebbe fermarsi ad
indagarlo).
Il cambiamento in area educativa, è inteso come un bilancio qualitativamente e
quantitativamente positivo tra la situazione iniziale e la situazione finale. I soggetti, alla fine
dell’esperienza educativa, dovrebbero risultare più abili, più competenti ed autonomi.
L’educatore è uno stimolatore di cambiamento che a volte agisce direttamente sull’individuo,
altre volte contribuisce a strutturare contesti di vita nei quali può verificarsi il cambiamento
auspicato.
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La metafora adatta è quella del catalizzatore (= sostanza che aggiunta ad una soluzione,
favorisce la reazione attesa). Questa metafora, però, ha un limite: senza l’educatore alcuni
processi non potrebbero avvenire, ma, al termine del processo, l’educatore, a differenza del
catalizzatore, sarà esso stesso cambiato.
Il cambiamento, inoltre, può avvenire anche verso uno stato non previsto, negativo o assumere
il volto della resistenza al cambiamento. In questi casi sono necessari interventi di recupero e
compensazione.
L’autonomia
L’autonomia è una finalità educativa indeterminata, che va definita di volta in volta, nelle
concrete situazioni operative.
Etimologicamente, la parola “autonomia” significa “governarsi con leggi proprie” e cioè poter
esercitare la libertà di scelta tra alternative praticabili. Si deve quindi tener conto dei margini di
scelta consentiti per quel soggetto, in relazione al genere, età, condizioni psicologiche.
L’autonomia dipende quindi da molte variabili e non è teoricamente determinabile. Inoltre la
propria autonomia non deve causare la riduzione dell’autonomia di altri.
Compito dell’educatore è promuovere l’autonomia, ma anche ridurre l’autonomia di scelta
dell’educando in base ai suoi e altrui vantaggi.
L’esperienza educativa, per potersi dire compiuta, deve anche generare l’autonomia da se
stessa, operando per la propria inutilità, cioè per l’autonomia del soggetto dal processo che ha
prodotto il suo cambiamento.
L’indipendenza dei soggetti dall’esperienza educativa può assumere la forma dal vero e
definitivo distacco dagli operatori oppure quello di un minimo livello di dipendenza
funzionale.
Il rischio è quello della “falsa autonomia”. Infatti mentre nella sfera privata (familiare ed
affettiva) il bisogno degli altri è ritenuto legittimo, nella sfera pubblica, la dipendenza diventa
umiliante e così si finisce nella solitudine e nell’abbandono.
CAPITOLO 4 – L’educazione tra formazione e deformazione
Ci si chiede chi e che cosa autorizza l’educazione (la civilizzazione) dei ragazzi selvaggi o dei
selvaggi nativi di quella terra che gli europei chiamarono America?
Se oggi a qualcuno capitasse di vedere un ragazzo selvaggio, segnalerebbe sicuramente
l’avvistamento a qualche autorità. La cattura sarebbe giustificata dall’intento funzionale di

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provocare il benessere del ragazzo, anche se egli non potrebbe comunicare mediante un
linguaggio condiviso, il suo assenso o dissenso.
La stessa azione protettiva scatterebbe automaticamente se qualcuno, per esempio, vedesse una
persona su un ponte con chiari intenti suicidi.
Uno dei più noti ragazzi selvaggi è Victor il “sauvage dell’Aveyron” catturato alla fine degli
anno Ottanta del 1700 e vissuto per circa trent’anni dopo la cattura. Il suo caso è noto perché il
medico Itard lo prese in carico con intenti educativi, inserendolo nel suo contesto familiare.
Diverso è il caso di Nell, la protagonista del film “Nell” di M. Apted. Nell ha vissuto parte
della sua vita nel bosco, come Victor, ma, a differenza di lui, non è stata abbandonata dalla
famiglia (formata dalla madre disabile, che comunica con un linguaggio tutto suo, e la sorella).
Quindi Nell ha vissuto in un microgruppo dal quale ha appreso valori, saperi e culti. Viene
scoperta dopo la morte della madre e affidata a figure professionali che tentano un trattamento
finalizzato a una completa socializzazione. Qui si confrontano due scuole di pensiero: un
trattamento laboratoriale e quantitativo (in ospedale) o un trattamento ecologico e qualitativo
(nel suo ambiente, cioè nella casa del bosco).
Prevarrà la seconda ipotesi. La storia ha un lieto fine non solo per Nell, ma per tutte le persone
coinvolte nella vicenda.
Che cosa hanno in comune i due casi?
I soggetti con i quali sono venuti a contatto Victor e Nell dopo la loro cattura, non tollerano
l’esistenza di loro simili in condizione selvaggia e vogliono riportarli alla “normalità”
nonostante i due soggetti non abbiano chiesto aiuto.
Ciò succede, in piccolo, anche per le due principali esperienze educative: la famiglia e la
scuola.
In tutte e due le situazioni, ma anche in altre, i soggetti sono coinvolti nella prassi educativa
indipendentemente da una loro domanda e senza una negoziazione preventiva circa il processo
e gli obiettivi del percorso che li coinvolge.
La famiglia ha come compito la socializzazione di base, con l’intento di far acquisire al
bambino quei valori ritenuti opportuni dal contesto sociale al quale il soggetto appartiene.
La scuola (esperienza senza domanda, infatti è “dell’obbligo” e spesso “sopportata” per gran
parte del percorso), educa nella convinzione che sia necessario fornire ai soggetti strumenti e
competenze per affrontare la vita e diventare autonomi.
In tutti i casi, l’autorizzazione ad educare viene dal malessere del soggetto educante, che si
basa sulla percezione della distanza esistente tra ciò che l’altro è e ciò che l’altro potrebbe e
dovrebbe essere.
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Formazione e/o educazione
Secondo Cambi, i due termini sono equipollenti. L’educazione avrebbe un carattere più sociale
e istituzionale, pone l’accento sull’informazione, è affidata ad un educatore adulto e non al
soggetto stesso. Quindi l’educazione è conformativa, direttiva e autoritaria.
La formazione invece è un percorso del soggetto, che tende a prendere forma personale,
secondo la personalità di ciascuno.
Secondo Duccio Demetrio, il concetto di formazione sintetizza in un unico termmine due
modalità di trasmissione del sapere: quella educativa, attinente al mondo dei valori e dei
comportamenti, e quella istruttiva e addestrativa.
Riccardo Massa afferma che il termine “formazione” oggi indica interventi specialistici di
saperi professionali (esempio formazione di chi opera in una azienda).
Il concetto di formazione quindi:
•

Da una parte esprime una tensione verso temi universali “più alti” dell’educazione;

•

Dall’altra può ridursi alla ricerca di metodi per raggiungere obiettivi isolabili e
verificabili.

Formazione ed educazione, al di là del loro significato, pongono delle questioni differenti
riguardo:
1) ai luoghi nei quali si apprende;
2) alla controllabilità dei processi di apprendimento;
3) all’autonomia dei soggetti;
4) ai valori che si intendono trasmettere;
5) alle finalità generali dell’azione educativa.
La buona educazione
La formazione è un percorso che accompagna tutta la vita.
Le diverse culture e le diverse “visioni del mondo” hanno ideali di formazione diversi.
Sono quindi molte le concezioni di “buona educazione”.
La “buona educazione” immagina per gli altri un modo di essere e gli strumenti per giungervi,
ma deve fare i conti con la possibilità dei soggetti di immaginare il modo di essere per sé.
E’ questa la variabile che spesso determina lo stallo nel lavoro educativo. I soggetti prefigurano
il loro futuro basandosi su quelle che ritengono le risorse in loro possesso, al sistema di simboli
del gruppo sociale di appartenenza e al confronto con gli altri.
Per questo nell’attività dell’educatore professionale è prevista un’azione che aiuti il soggetto a
scoprire le proprie risorse e a prefigurarsi un futuro diverso da quello fino a quel momento
immaginato.
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Darsi una filosofia
L’educatore deve dotarsi di una sua filosofia facendosi delle domande alle quali non sempre si
può dare una risposta.
Una di queste è se l’educazione è un modellamento (cioè un’imposizione) oppure un
disvelamento di un progetto presente in nuce (maieutica).
La parola “formazione” si usa oggi per indicare l’istruttivo. E’ bene richiamare il primato
dell’educativo, perché richiama la storia educativa del soggetto e la sua complessità.
CAPITOLO 5 - La relazione educativa
La relazione è una delle caratteristiche distintive dell’educazione professionale, infatti dove
non c’è relazione non c’è la possibilità di rendere attuali le intenzioni educative.
La relazione educativa, secondo Bertolini, si fonda sulle seguenti prospettive:
•

la globalità: l’educatore deve considerare la persona nel suo insieme, senza enfatizzare
una sola dimensione umana a scapito delle altre;

•

l’operatività: l’azione educativa deve stimolare a muoversi verso nuove direzioni;

•

l’integrazione: l’educazione deve stimolare l’autonomia personale e la comprensione
dei limiti (principio di realtà).

La relazione educativa, oggi, a causa dei numerosi campi nei quali è impegnato l’educatore, è
abbastanza indefinita. Come dice Demetrio, tale relazione c’è e c’è sempre, ma non basta.
La relazione educativa deve infatti diventare oggetto di razionalizzazione e di
problematizzazione.
La relazione assumerà sfumature diverse a seconda di diverse variabili:
o luogo (aperto meno formale/chiuso più formale);
o età;
o il fatto di essere stata scelta o meno;
o la presenza o meno di altri operatori.
La relazione educativa è caratterizzata ed influenzata da alcune caratteristiche che
rappresentano anche aree problematiche e di sofferenza. Tra esse consideriamo:
 Asimmetria
E’ un dato di fatto che la relazione educativa debba essere asimmetrica. Non però
nel senso di dipendenza del più piccolo dal più grande, del più debole dal più forte,
dal meno formato al più formato.

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In realtà la superiorità dell’educatore sull’educando non è qualcosa di acquisito una
volta per tutte. Ci può essere infatti asimmetria su un singolo contenuto che non
comporta automaticamente asimmetria su altri.
Ciò che non può cambiare è l’asimmetria

riguardante la consapevolezza e la

responsabilità dell’azione educativa. Consapevolezza del carattere educativo della
relazione e quindi delle mete e responsabilità riguardo al futuro del soggetto
educato.
 Pregiudizio
Per pregiudizio si intendono idee e opinioni anteriori alla diretta conoscenza dei
fatti e delle persone. Nel lavoro educativo, “pregiudizio” è uno dei termini
considerati di per sé un limite, un condizionamento non auspicabile. Il pregiudizio
in educazione comprometterebbe la neutralità osservativa dell’educatore.
Ci sono però verie interpretazioni della parola “pregiudizio”. Secondo Gadamer, il
pregiudizio non è solo un giudizio falso e negativo, ma la condizione del nostro
incontro con la realtà, la precondizione che orienta lo sguardo e fa da stimolo per la
riflessione.
Quindi i pregiudizi, se intesi come le coordinate con le quali ci apprestiamo
all’incontro con l’altro che potrà, eventualmente, cambiarle, sono legittimi anche
nella relazione educativa.
Non lo sono invece se queste coordinate si trasformano in immobilità
classificatoria, arroccata su se stessa e immutabile.
L’importante è l’esplicitazione e la condivisione delle proprie idee e l’esercizio del
dubbio.
 Il coinvolgimento emotivo
Secondo Santerini, la relazione educativa comprende sempre una dimensione
affettiva che coinvolge pensiero e sentimento.
Secondo alcuni la dimensione affettiva comprometterebbe l’azione educativa.
Ma nella relazione tra educatore ed educando non si può non essere coinvolti
emotivamente.
Il problema sta nel non cadere in un eccessivo coinvolgimento (surplus di
vicinanza) o nell’opposto scarso coinvolgimento (surplus di distanza).
Bisogna quindi cercare metodi per modulare la distanza opportuna, che però non
può essere stabilita a priori, una volta per tutte.

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Il coinvolgimento può essere diverso da operatore a operatore, da caso a caso, da
momento a momento. Ogni volta bisogna affidarsi al salutare esercizio del dubbio.
 I valori propri e i valori altrui
Luciano Gallino afferma che i valori rappresentano i criteri in base ai quali si
valutano la correttezza, l’efficacia e la dignità delle azioni proprie e altrui.
Nella vita quotidiana i valori si traducono in norme sociali, che decidono anche la
qualità e il grado della devianza.
A proposito di valori, si pongono dei quesiti che coinvolgono anche il lavoro
educativo:
1) se alcuni valori sono universali e assoluti, oppure se sono storicamente generati
e quindi relativi;
2) se esistono valori

che sono ormai da ritenersi universali, cioè praticati o

desiderati dall’intera umanità;
3) se i valori che nascono in differenti contesti sono comparabili tra di loro o se
devono essere riferiti esclusivamente alla cultura che li ha generati;
4) se i rapporti tra i diversi valori debbano essere di integrazione e riconoscimento
o di rifiuto; di tolleranza o di conflitto;
5) se il rapporto tra i valori individuali e sociali debba essere di imposizione o di
negoziazione o di libera scelta;
6) se esistono zone di esperienza che si sottraggono alla valutazione dei valori
sociali e sono affidate esclusivamente a quelli individuali o di gruppo.
In questo contesto possiamo solo segnalare le questioni aperte, nella
consapevolezza che la trattazione richiederebbe troppo spazio, in quanto ad esse non esiste una
sola risposta, ma delle risposte che ciascuno trae dalla propria visione del mondo, cioè dai
propri valori di riferimento
Nella relazione educativa:
o è impossibile non possedere dei valori;
o è impossibile non giudicare i valori altrui (si può “sospendere il giudizio” ma il giudizio
sotterraneo continua);
o è impossibile non proporre dei valori (anche solo nel comportamento).
Quindi ciò a cui si deve tendere non è un’assenza di valori, ma la consapevolezza della
presenza dei valori e della loro influenza sulla relazione. E’ quindi necessario conoscere i

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propri valori, governarli, sottoporli a critica costante. E’ necessario anche esplicitarli, in modo
da permettere all’altro di capire i comportamenti dell’educatore.
CAPITOLO 6 – Alcuni nodi del lavoro educativo
Ci sono alcune zone nel lavoro educativo che vanno sottoposte a riflessione. Ciò non per
indicare certezze metodologiche, ma per coglierne alcuni aspetti e tentarne una riformulazione.
Essi sono:
1) prevenzione
L’opera di prevenzione può assumere diverse forme: dalle campagne informative a opere di
presidio di alcune realtà territoriali.
La prevenzione non si può ridurre ad informazione e spiegazione, come se alcuni
comportamenti si sviluppassero per mancanza di informazioni.
Si deve invece utilizzare una logica che punta alla acquisizione di strumenti per “leggere” le
esperienze (prevenzione anche come ascolto delle ragioni dell’altro).
Così a scuola, ci potrebbero essere degli operatori, slegati da vincoli istituzionali scolastici, non
valutativi, che interagiscono e dialogano con gli studenti.
Una caratteristica del lavoro di prevenzione è l’incertezza dell’esito, ma in educazione non
tutto il lavoro è verificabile. Ciò non toglie che questo tipo di intervento vada tentato
ugualmente.
2) Legalità ed illegalità
L’educatore professionale è un operatore che assume funzioni di ponte tra l’area della legalità e
quella dell’illegalità. La legalità dovrebbe sempre essere presente in termini di:
 Comunicazione dell’esistenza di questa dimensione
 Spiegazione della funzionalità della stessa
 Possibili conseguenze legate ai comportamenti illegali.
In questo ambito possiamo evidenziare due tipi di educatore:
o Educatore normativo: che agisce per stimolare alla condivisione della
legalità
o Educatore non normativo: che illustra le conseguenze di azioni illegali,
ma lascia libera scelta al soggetto di decidere se attuare o meno
comportamenti illegali.

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Davanti a un adolescente che commette un’infrazione alla norma (esempio compie atti di
vandalismo), l’operatore dovrà valutare nel caso specifico come comportarsi, tenendo conto del
momento e del tipo di atto (ad esempio valutando se l’atto comporta o meno danni per gli altri).
3) Accanimento educativo
L’accanimento educativo è l’eccesso di insistenza operativa dove non esistono effettive
possibilità di successo.
Nell’azione educativa può essere visto come il tentativo di non ammettere la sconfitta.
Può avere due aspetti:
1) l’eccesso di azioni educative rivolte a soggetti che hanno tutte le potenzialità psicofisiche;
2) l’eccesso di azioni educative rivolte a soggetti che non possiedono i prerequisiti psicofisici,
o perché non li hanno mai avuti o perché li hanno persi.
Nel primo caso si tratta di soggetti che sembrano sfuggire alle intenzioni educative
dell’educatore. Prima di arrendersi, l’educatore dovrà ripensare al percorso proposto, alla
relazione instaurata e ai tempi, per valutare le eventuali modifiche da compiere. Qualora non
emergano modifiche efficaci, non resta che rielaborare l’accaduto, ricordando che il fallimento
dell’educatore è anche segno dell’autonomia dell’educando.
Nel secondo caso, quando le possibilità di intervento sono esaurite, non resta che consegnare
l’operatività ad altri operatori.
3) Il burnout
Con il termine “burnout” si intende l’esaurimento delle motivazioni e delle energie rispetto alla
propria professione, l’incapacità di dotarsi di un progetto di cambiamento di sé e della
situazione, la sfiducia nelle possibilità degli utenti da parte dell’educatore.
Il riconoscimento scientifico della sindrome del burnout, ha messo in luce quanto possa essere
faticoso il lavoro educativo.
Nello stesso tempo la sindrome di burnout può essere considerata una via di fuga, una
razionalizzazione di altri disagi non ancora esplicitati.
Ad esempio: la distanza tra l’auspicato e l’effettivo negli obiettivi e nella prassi educativa
4) La supervisione
Nel lavoro educativo esiste una diffusa pratica di supervisione educativa.
Per supervisione si intende il rapporto con qualcuno che, in virtù di esperienze e competenza,
può esprimere un parere su un’esperienza nella quale il richiedente è impegnato.
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Il supervisore deve avere una necessaria posizione di distacco dall’esperienza che deve
valutare.
Nel lavoro educativo distinguiamo:
o Supervisione psicologica: rivolta a un gruppo di lavoro composto da pari o a un
singolo individuo. Si interroga rispetto al vissuto individuale o collettivo
dell’esperienza operativa.
o Supervisione pedagogica: ha lo scopo di favorire la lettura pedagogica dei fatti
educativi ed è finalizzata:
1) individuare e sciogliere alcune situazioni di intoppo che non consentono il
proseguimento del progetto;
2) evidenziare il senso dell’azione educativa, scoprire educazione pensata e pratica
educativa anche dove non sembra esserci né l’una né l’altra;
3) favorire il confronto tra le dichiarazioni di intenti educativi e gli effetti educativi.
Può esservi supervisione anche in assenza di momenti critici, per l’intera progettazione
educativa o solo per alcune sue fasi.
5) Radicale alterità
Il concetto di “follia” è relativo, e va collocato sempre all’interno di un contesto di riferimento.
Ci sono soggetti con profonde alterazioni della mente e dell’esperienza, nei quali è
parzialmente o totalmente assente la percezione della propria patologia. Sono persone ritenute
“malate” (psicotici, dementi) che non condividono con gli altri nemmeno un insieme minimo di
linguaggi e codici. Per questo motivo con loro è reciprocamente impossibile ogni relazione.
Sono soggetti sempre inquietanti perché:
 Trasmettono un’immagine di “pericolosità”
 Non sono interpretabili con gli schemi cognitivi consueti
 Sono portatori di quella “anormalità” che può far luce sul limite della “normalità”.
Le esperienze di alterazione della mente (follia, demenza senile, ritardo mentale) NON vanno
confuse con il disagio psichico (ansia, depressione, fobie).
Nei confronti della psicosi esistono diversi approcci:
1) quello che considera la psicosi un difetto di funzionamento rispetto alla “normalità”, senza
però porsi il problema del significato del sintomo;
2) Civita pensa che le manifestazioni psicotiche siano incomprensibili per le persone
“normali”, perché queste ultime non possono immedesimarsi in esperienze mentali
completamente estranee al loro universo;
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3) Il mondo psicotico devia da ciò che il sano considera “normale”, ma ha un suo significato.
E’ cioè un mondo regolato da una norma che assegna alla vita dello psicotico una sua
fisionomia.
L’atteggiamento dell’educatore nei confronti della alterità radicale dovrebbe comprendere
ambedue gli approcci 2) e 3).
Da una parte la consapevolezza di non potersi immedesimare nei panni dell’altro; dall’altra lo
sforzo di concepire un’esistenza diversa dalla propria, ma non per questo priva di senso.
Questo atteggiamento non riguarda solo le alterità estreme, ma anche le altre alterità e culture
(esempio culture dove sono previste la lapidazione, la pena di morte, l’obbligo di indossare il
burka).
Nell’educatore deve esistere una tensione verso la comprensione delle ragioni dell’altro. Ciò
deve provocare un costante dubbio sulle proprie convinzioni. Dubbio però che non deve
bloccare ogni decisione.
6) I fantasmi del lavoro educativo
Fantasma significa letteralmente “un’immagine creata dalla fantasia che non ha alcuna
corrispondenza con la realtà dei fatti”. E’ un prodotto illusorio che può rappresentare un
desiderio o un timore.
L’educatore è naturalmente abitato da fantasmi, cioè da possibili concezioni del proprio ruolo.
I fantasmi elencati da Enriquez sono:
o Il formatore: colui che vuole dare una buona forma. L’educando viene percepito come
inadeguato, l’educatore ha il compito di dare una forma ideale, di “plasmare”
l’educando secondo un modello prestabilito.
Rischio: produrre soggetti in serie, senza tener conto del patrimonio individuale del
soggetto.
o Il terapeuta: colui che vuole “guarire” e “restaurare”. L’educatore opera per riportare a
un presunto stato originario di salute, compromesso da agenti esterni, l’individuo.
Rischio: valutare il soggetto come “scarto” da una situazione normale.
o Il maieuta: colui che vuole fare emergere. L’educando è visto come una persona
naturalmente ricca di potenzialità che l’educatore deve fare emergere.
Rischio: idealizzare il soggetto e pensare che l’azione educativa si risolva solo
stabilendo un buon clima relazionale e un ascolto comprensivo.

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o L’interpretante: colui che vuole far prendere coscienza. Si tratta dell’educatore che, a
ogni costo, assegna significato ad ogni azione e comportamento, cercando di spiegare
tutto ciò che accade.
Rischio: non essere mai sfiorato da un salutare dubbio.
o Il militante: colui che vuole cambiare il mondo. E’ l’educatore che ritiene che tutto il
male sia nel mondo di cui l’educando è vittima.
Rischio: non tiene conto della realtà.
o Il riparatore: colui che ha la logica del sacrificio, che tende a riparare il male che è
stato fatto.
Rischio: mantenere in vita il disagio perché, in fondo, ha bisogno del malessere degli
altri.
o Il trasgressore: colui che ritiene che le norme siano solo divieti tendenti a reprimere il
“piacere”.
Rischio: teorizzare la rottura sempre e comunque.
o Il distruttore: colui che trasforma il desiderio di formare in volontà di distruggere, il
desiderio di guarire in volontà di rendere l’altro malato.
Rischio: sviluppare progetti educativi per appartenenti a collettività nazionali o etniche.
I fantasmi non sono da considerare di per sé degli elementi patologici nella relazione
educativa.Come le medicine che fanno male se prese ad alte dosi, ma guariscono in piccole
dosi, così i fantasmi possono rivelarsi funzionali al buon esito del lavoro educativo senza
cadere nei rischi ad essi connessi.
CAPITOLO 7 – La complessità del soggetto e il rapporto con le altre figure professionali
L’educatore ha dei rapporti con altre figure professionali (assistenti sociali, insegnanti,
psicologi, medici, infermieri).
Si potrebbe parlare del rapporto tra educatore e altre figure professionali che condividono con
lui gli spazi operativi, partendo da:
 Tipo di sapere di cui le diverse figure sono portatrici
 Il profilo professionale formale previsto dalle normative
 Le diverse aree e bisogni verso i quali le diverse figure sono delegate ad intervenire.
Oppure si potrebbe partire dalla centralità e unitarietà del soggetto che con tali figure entra in
relazione.

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Il soggetto destinatario degli interventi è sempre “unitario”, cioè è portatore di bisogni che
potenzialmente coinvolgono contemporaneamente operatori e azioni appartenenti a diversi
campi disciplinari. Nel soggetto destinatario, gli interventi interagiscono, sono ricomposti e
non sono neppure percepiti come dimensioni a sé stanti.
Quindi, nel concreto, significa analizzare il caso. Considerare paritarie le discipline e i
comportamenti connessi.
Il rapporto educativo e il lavoro sanitario
L’esperienza della patologia può rappresentare per il soggetto coinvolto un’esperienza
educativa non intenzionale. In questa esperienza però possono essere rintracciati tratti di
intenzionalità grazie al modo con cui educandi e operatori la affrontano.
La malattia e il suo trattamento possono essere considerati esperienze educative in quanto
possono modificare:
o

la percezione che il soggetto ha di se stesso

o la percezione delle proprie possibilità e dei propri limiti
o la propria riflessione su suo percorso di vita
o la collocazione nel rapporto con gli altri, ponendo il soggetto in una situazione di
dipendenza da altri in cui si sperimenta l’asimmetria.
Le precedenti osservazioni sono valide però solo a livello di ciò che sarebbe auspicabile, infatti
nella realtà, in ospedale, il lavoro educativo è scarso, perché si riduce spesso al solo
riempimento del tempo “vuoto” durante la degenza, soprattutto per i bambini.
La presenza dell’educatore in campo sanitario si registra prevalentemente:
•

nelle attività di prevenzione delle dipendenze

•

nei servizi diurni per soggetti portatori di patologie psichiatriche

•

nelle strutture riabilitative per abuso di sostanze psico-attive.

In queste situazioni il lavoro educativo può essere interpretato in due modi:
1) come strumento sanitario affiancato ad altri strumenti. L’operatore attua programmi
terapeutici (riabilitativi e contenitivi);
2) come processo autonomo, con i suoi obiettivi e metodi, che si affianca al lavoro sanitario,
senza però esserne uno strumento attuattivo. In questo caso l’educatore contribuisce
all’attuazione di progetti nei quali sono importanti il recupero, il mantenimento
dell’autonomia del soggetto, che riacquista la propria centralità.

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Il lavoro educativo e il lavoro assistenziale
A volte si può percepire il rischio che il lavoro educativo sconfini nel lavoro assistenziale. Ma
mentre il lavoro educativo deve produrre dei cambiamenti, il lavoro assistenziale produce il
mantenimento dello stato vitale e il soddisfacimento dei bisogni primari.
Tutte e due le pratiche hanno come obiettivo quello di prendersi cura dell’altro.
L’unione tra operatori assistenziali, educatori e utenti avviene nei luoghi dove le patologie sono
conclamate e dove esiste la centralità dell’utente e l’intreccio tra i due tipi di attività.
La relazione psicoterapeutica
La relazione psicoterapeutica nasce dalla domanda di aiuto da parte di un soggetto che è
portatore di una sofferenza psichica non sopportabile nella vita quotidiana.
La relazione educativa, invece, interessa tutti i tipi di soggetti (esempio i soggetti marginali o
devianti).
Il lavoro educativo si intreccia con il lavoro sanitario, assistenziale e psicoterapeutico. E’ un
intreccio che stimola a cercare e a preservare la propria identità, ma anche a convivere con le
altre componenti educative.
CAPITOLO 8 – Non possiamo non dirci educati
Ogni educatore, come qualsiasi altro soggetto, è portatore di una storia di educazione donata ed
erogata ma anche di una storia di educazione ricevuta. Tutte e due contribuiscono a costruire la
cultura dell’educatore.
Gli educatori quindi arrivano agli appuntamenti formativi e professionali con una loro cultura
che:
o a volte viene considerata come un ostacolo da rimuovere per far posto alla “vera”
cultura dell’educazione;
o altre volte viene considerata come una riserva di esperienza e di sapere che può aiutare
nelle esperienze operative.
La scoperta dell’utente
La didattica autobiografica, di cui Duccio Demetrio sottolinea l’importanza, favorisce la
conoscenza dell’utente, perché nell’autobiografia si fanno emergere le esperienze nelle quali
l’educatore è stato a sua volta utente, cioè soggetto di esperienze educative.
L’autoriflessione sulle proprie esperienze educative è utile per ripensare a:
30
 la quantità delle esperienze educative;
 gli elementi costitutivi di ogni esperienza;
 il confronto tra intenzioni educative ed effetti ottenuti;
 le componenti (formali, non formali, ecc) di ogni esperienza;
 i fattori che si sono dimostrati più educativi di altri.
Mettersi nei panni dell’utente significa, in primo luogo, “mettersi nei propri panni”.e capire che
esiste una convivenza tra certezze ed incertezze.
La didattica autobiografica non può essere pensata come un momento di presentazione di sé,
nemmeno come separata dal resto della formazione o come laboratorio a sé stante.
Il “mettersi nei propri panni” aiuta a capire le trasgressioni degli altri e l’illusoria imparzialità
relazionale.

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  • 1. “L’EDUCATORE IMPERFETTO” Sergio Tramma (Pedagogia generale – Facoltà Scienze dell’Educazione – Università Milano Bicocca) CAPITOLO 1 – La figura professionale, ovvero: dell’incertezza e della salutare debolezza La figura dell’educatore professionale è incerta e costantemente in via di definizione. E’ una figura, come dice Bauman a proposito della società contemporanea, liquida ma non per questo eterea. La “debolezza” dell’educatore è strutturale e non eliminabile. Questa debolezza è salutare ed è paradossalmente anche la sua forza, se intesa come ricerca sul senso dell’agire educativo e come messa in discussione delle finalità. Oggi poi la figura professionale dell’educatore è investita di molte responsabilità sia riguardo ai compiti che ai soggetti di riferimento. Oggi si può dire che tutta l’esistenza di tutte le persone è potenzialmente oggetto del pensiero e dell’azione dell’educatore professionale. Formidabili quegli anni (anni Sessanta e Settanta) La condizione di incertezza dell’educatore professionale è il risultato di una lunga storia che ha avuto inizio negli anni Sessanta- Settanta. Fino agli inizi degli anni Sessanta, gli educatori professionali erano figure che lavoravano in istituzioni chiuse per l’educazione o la rieducazione dei minori. Luoghi finalizzati all’adattamento costrittivo dei soggetti alle norme sociali e culturali esistenti, alla prevenzione e alla “riparazione” di comportamenti individuali ritenuti particolarmente “pericolosi”. Negli anni Sessanta, con il cosiddetto “miracolo economico” e con il passaggio da una economia prevalentemente agricola a una industriale, si viene a creare una nuova realtà sociale e culturale. Entrano così in crisi le pratiche educative custodialistiche che avevano lo scopo di provvedere al soddisfacimento dei bisogni vitali (orfanatrofi, manicomi, carceri) e nasce l’esigenza di politiche volte a garantire diritti di cittadinanza al benessere. I servizi non sono più diretti esclusivamente alle tradizionali frange emarginate della società, ma si orientano all’insieme dei cittadini con l’intento non solo di ridurre il malessere ma anche di promuovere il benessere. Gli educatori vengono coinvolti in un movimento di contestazione che mette in discussione: 1
  • 2.  La rigida distinzione tra salute e follia e devianza e normalità;  L’esclusione e la segregazione come strumenti di controllo sociale;  I metodi “autoritari” non più in grado di affrontare i cambiamenti derivanti dalla modernizzazione. All’operatore educativo che tende alla normalizzazione con metodi autoritari, si affianca l’operatore che tenta tale normalizzazione con metodi non autoritari, fino ad arrivare all’operatore che mette in dubbio il concetto stesso di normalizzazione. Nascono così nuove figure educative, sempre più specializzate. Inizia a strutturarsi il dilemma, ancora in parte attuale, se: • L’educatore debba essere una figura generalista, cioè in grado di operare a tutto campo, con tutti gli utenti e in tutti i contesti; • Oppure un operatore che si è formato per lavorare con alcuni soggetti e non con altri per rispondere a specifici bisogni. Oggi l’educatore professionale: ♦ Risponde a richieste esterne di controllo e contenimento sociale, ma lo fa cercando di trasformare tali richieste in possibilità di crescita per il soggetto problematico; ♦ Ha ampliato il campo d’azione, gli obiettivi e i problemi di riferimento; ♦ E’ diventato, nell’intenzione, un consapevole agente di cambiamento che cerca di operare una sintesi tra i bisogni sociali e i bisogni delle diverse utenze. L’educatore professionale è differenziato dalle altre figure professionali, ma l’insieme delle abilità e competenze sviluppate non è ancora in grado di definire con certezza il suo ruolo rispetto a quello degli altri operatori. I tratti essenziali Benché non si possa ricostruire, per i motivi detti sopra, un profilo completo dell’educatore, si possono però individuare alcuni tratti essenziali, sempre però aperti a nuovi sviluppi. Infatti l’educatore professionale oggi è ritenuto un operatore che ha come compito dichiarato quello di individuare, promuovere, sviluppare le potenzialità (cognitive, affettive, relazionali) dei soggetti individuali e collettivi. Le azioni nei confronti delle potenzialità si esplicano su più piani: 2
  • 3. 1) il piano promozionale: con azioni educative finalizzate a rendere abili i soggetti e cioè a far sì che le potenzialità diventino atti cognitivi, affettivi e relazionali; 2) il piano preventivo: con azioni finalizzate a far sì che le potenzialità diminuiscano il rischio di non trasformarsi in atti; 3) il piano riabilitativo: con azioni finalizzate a riconsegnare al soggetto le possibilità di riacquistare il processo di trasformazione delle potenzialità in atti. I diversi piani sono vincolati da un mandato sociale del quale l’educatore è esecutore e coautore. L’operatività educativa si esplica in ambiti organizzati (i servizi) connotati da riconoscibilità e intenzionalità. Per raggiungere gli obiettivi l’educatore deve instaurare con gli utenti una relazione educativa. Il suo lavoro è relazionale sia in rapporto ai soggetti destinatari delle sue azioni educative, sia in rapporto ad altri educatori e ad altre figure professionali. L’educazione professionale, l’educazione non professionale I motivi per i quali una determinata attività viene affidata a professionisti e non è realizzata direttamente dalle persone alle quali necessitano i risultati che l’attività può produrre, possono essere:  funzionale divisione del lavoro, nel caso in cui le competenze richieste siano acquisibili solo attraverso una formazione specifica;  produrre beni e servizi in maggiore quantità e minori tempi e costi. Anche l’educazione è sottoposta a dinamiche di affidamento, delega o realizzazione in proprio. La delega educativa è prevista e legittimata quando la complessità degli scopi educativi rende necessario l’intervento di operatori specializzati. Vi sono però alcune dimensioni, in particolare quella familiare, che non sono, in linea di massima, affidabili ad altri. Questo perché sono attività insite nel ruolo di genitori e considerate quindi “naturali”. La famiglia non delega molti aspetti della propria potenzialità educativa perché è ritenuta e si ritiene, per il solo fatto di essere tale, in possesso del sapere necessario all’educazione. La capacità di ben educare sarebbe connaturata alla posizione che si occupa in famiglia (genitore, nonno, nonna). Quindi la capacità di educare potrebbe essere considerata naturalmente presente nelle persone come potenzialità. Si trasformerebbe in atto quando il ruolo lo richiede (esempio diventando genitori). La conseguenza logica è che il sapere necessario per educare acquisterebbe per il solo fatto di essere stati, a propria volta, educati. 3
  • 4. La domanda che ci si pone è: la capacità di educare dell’educatore professionale è naturale o deriva da un’intensa opera di professionalizzazione? La risposta alla precedente domanda darebbe vita a due immagini di educatore: • un educatore ‘caldo’, genitoriale, emotivamente coinvolto, intuitivo, unico; • un educatore ‘freddo’, tecnicista, distaccato, riproducibile in serie. L’educatore professionale dovrebbe essere un mix degli aspetti migliori presenti nelle due figure descritte sopra. Il lavoro educativo, in quanto attività professionale, è in sé altro rispetto a qualsiasi pratica educativa non professionale. Esempi – Un educatore non potrà mai essere “amico” di un educando; le componenti di affettività presenti in una comunità per minori non potranno mai replicare quelle familiari. Le caratteristiche della relazione educativa/professionale sono:  essere all’interno di un contratto pubblico  prevedere un compenso economico  essere costruita ad hoc, ossia artificialmente, in funzione degli scopi auspicati  essere un servizio connotato da riconoscibilità e intenzionalità. La capacità di essere in relazione educativa professionale dipende sia da una disposizione vocazionale, sia da una solida preparazione di base, sia da costanti pratiche di aggiornamento che dotino l’educatore di idonei strumenti disciplinari e metodologici. Formare gli educatori: la prassi e la teoria L’educatori professionale deve essere professionalizzato. In questo senso si pongono 3 problemi: 1) individuare le istituzioni che devono formare gli educatori. Tali istituzioni sono le università. 2) individuare gli obiettivi formativi. 3) come deve essere impostata la formazione. Rispetto agli ultimi due punti, gli obiettivi e la modalità della formazione non sono definibili se non nelle loro linee generali. Ciò perché essi dipendono dalle impostazioni diverse dei vari indirizzi individuabili nel campo educativo (socio-sanitario, formatore degli adulti, operatori per l’infanzia, ecc). 4
  • 5. Un aspetto importante nel dibattito sulla formazione degli educatori riguarda il rapporto tra la pratica e la teoria. Il primato della formazione pratica su quella teorica, nasce dalla convinzione che la professione dell’educatore sia una professione “plastica” e che non si possa acquisire sapere se non facendo prassi. Si manifesta però il rischio che si sottovaluti la padronanza della teoria che è invece indispensabile. Il primato della teoria sulla pratica, nasce perché il pensiero sull’educazione è stato considerato di pertinenza disciplinare della filosofia. In questa posizione c’è il rischio che si sopravvaluti ciò che è intellettuale e che si pensi che la padronanza del pensiero educativo renda di per sé capaci di educare. In realtà gli elementi formativi teorici e pratici devono essere integrati. Infatti nell’operatività dell’educatore, il generale (l’astratto) serve a leggere il particolare (il caso concreto e contestualizzato) che a sua volta contribuisce a ridefinire il generale. CAPITOLO 2 – L’irriducibile pluralità delle esperienze educative Le categorie dell’educazione Nel corso della loro esistenza i soggetti individuali e collettivi sono esposti a una molteplicità di esperienze educative. Alcune di queste esperienze hanno obiettivi comuni considerabili tra loro coerenti. Altre presentano obiettivi diversi ma tra loro compatibili. Altre, infine, presentano intenzioni e obiettivi tra loro conflittuali e antagonisti. Le esperienze educative hanno peso diverso e concorrono in misura differente alla formazione. La “formatività” delle esperienze educative è solo parzialmente quantificabile nel corso del loro realizzarsi. I risultati sono sondabili e valutabili soprattutto dai soggetti destinatari, solo retrospettivamente quando le esperienze sono rievocate e ricostruite nel tentativo di comprendere ciò che hanno o non hanno determinato. Siccome, come si è detto, le esperienze educative sono complesse, incerte e poliformi, non è possibile classificarle e ordinarle. Si può invece tentare di individuare alcuni addensati relativamente omogenei di accadimenti educativi, indicando gli elementi che li distinguono, sempre consapevoli della fragilità dei loro confini. A) La prima possibile ripartizione distingue tra: 5
  • 6. A.1) esperienze formali (che possono essere fatte coincidere con l’esperienza scolastica) che hanno le seguenti caratteristiche:  Sono fortemente intenzionali ed organizzate  Si svolgono in luoghi e tempi regolati da norme nazionali e locali  Sono in parte obbligatorie, in quanto i soggetti coinvolti lo sono senza aver posto nessuna domanda formativa  Fanno conseguire e rilasciano un titolo di studio. A.2) esperienze non formali (sono esterne all’istituzione scolastica)  Sono dotate di intenzionalità, progetto e contratto  Perseguono l’obiettivo di far apprendere conoscenze, abilità e competenze che riguardano diversi ambiti della vita dei soggetti  Rientrano in questa categoria: l’università della terza età, i corsi di lingua, di educazione motoria, ecc. La principale differenza tra le esperienze formali e quelle non formali, è che le prime rappresentano un investimento collettivo finalizzato a fornire alle giovani generazioni gli strumenti per raggiungere la condizione adulta. Inoltre, sempre le prime, sono parzialmente obbligatorie. A.3) esperienze informali (in questa categoria rientrano tutte le esperienze che non rientrano nelle due precedenti aree)  Riguardano la complessità della vita quotidiana e dell’esistenza dei soggetti  Non hanno un progetto e una intenzionalità chiari  Non si “dichiarano” educative a non sono percepite come tali dai soggetti coinvolti  Sono le esperienze che cambiano, fanno maturare e capire  Sono comunque educative  Esempi: incontro con figure considerate mentori (cioè maestri), con prodotti artistici, culturali, avvenimenti pubblici, ecc. Questa ripartizione delle esperienze educative rispetto al loro livello di formalizzazione serve a tre scopi: 1) a ricostruire quanti e quali interventi educativi i soggetti incontrano nella loro vita; 2) a ridimensionare l’eccessivo peso educativo della scuola; 6
  • 7. 3) a sottolineare, da un lato, l’importanza che riveste l’azione professionale degli educatori extra-scolastici e, dall’altra, l’importanza delle pratiche educative non formali in una società, come l’attuale, nella quale è necessario un continuo aggiornamento. B) Un seconda ripartizione delle esperienze educative si basa sul loro grado di intenzionalità: B.1) esperienze intenzionali  Si dichiarano “educative” e sono considerate tali dai “produttori” e dalla maggior parte dei “consumatori”  In esse c’è sempre la presenza di un soggetto (persona, gruppo, comunità) che ha lo scopo di “educare l’altro”  Sono esperienze intenzionali la scuola, la formazione aziendale, i corsi di vario tipo  Rientrano anche le esperienze (esempio l’esperienza carceraria) nelle quali il soggetto destinatario non ne riconosce la componente educativa B.2) esperienze non dichiaratamente intenzionali  Sono esperienze educative che tendono a modificare o a instaurare comportamenti nei destinatari senza che ciò sia direttamente esplicitato  La gestione e l’articolazione dell’intervento sono solo dei promotori  Può succedere che “il bene” perseguito dai produttori, non sia quello dei destinatari, ma il loro  Esempi: le campagne pubblicitarie, l’organizzazione di spazi di incontro all’interno delle città, ecc. B.3) esperienze non intenzionali  Non hanno una progettualità educativa né esplicita né celata  Se ci sono i produttori non sono consapevoli di essere produttori di esperienze educative  I risultati educativi possono essere prodotti anche da eventi  Esempi: rapporti interpersonali, esperienze piacevoli e non, esperienze collettive coinvolgenti le catastrofi naturali  In queste esperienze il margine di controllabilità pedagogica è ristretto o nullo. In qualsiasi esperienza educativa interagiscono più ripartizioni, quindi anche nelle esperienze più istituzionalizzate sono presenti aree non regolate da intenzionalità, che possono risultare più formative rispetto agli aspetti intenzionali. 7
  • 8. La mappa delle esperienze educative La vita dei soggetti è costellata da esperienze educative che non si possono ridurre ad un elenco in quanto sono molto complesse. L’elencazione che segue ha lo scopo di prospettare una griglia (non esaustiva) che serva a orientare nella ricerca e nell’analisi delle storie di formazione di qualsiasi soggetto. A) La famiglia La famiglia è un’ esperienza multiforme e complessa che va analizzata con il concorso di più discipline. In famiglia avviene gran parte della socializzazione precoce, si sviluppano i primi meccanismi di apprendimento, si interiorizzano la prime norme e modelli, si impara a tener conto delle aspettative degli altri e a rispondervi in modo adeguato. Lo scopo dell’educazione familiare è l’autonomia dei discendenti, cioè il distacco armonico e funzionale dei figli dal nucleo familiare originario. L’azione educativa della famiglia tende a trasmettere codici di condotta e valori morali propri del gruppo sociale di appartenenza, può favorire il proseguimento di alcune storie familiari e l’interruzione di altre (esempio: può favorire il proseguimento o meno dell’attività professionale familiare, la permanenza nella stessa classe sociale o il “salto di classe” attraverso, per esempio, il conseguimento di un titolo di studio superiore rispetto a quello della generazione precedente). L’educazione familiare oggi può essere considerata in crisi, perché sminuita nel prestigio da altri ambiti educativi e perché ci si chiede se il sapere familiare sia sempre valido. Oggi il possesso del sapere funzionale alla crescita è delegato ad altri (pediatri, insegnanti, psicologi, educatori professionali). Inoltre, mentre per molto tempo il modello famiglia è stato quello di una coppia composta da persone di sesso diverso, finalizzata a generare figli e convalidata dalla Chiesa, oggi, in molti casi, ci si è allontanati da questo modello. Ciò è dovuto al fatto che è stato istituito il divorzio, sono aumentate le convivenze senza contratto matrimoniale, si chiede la legittimazione di convivenze di persone dello stesso sesso. Questa situazione ha importanti implicazioni per il lavoro educativo professionale, che deve accettare la molteplicità di valori in fatto di famiglia senza bollarli come “diversità” da tollerare e curare. 8
  • 9. B) il gruppo di pari Il grippo dei pari è un insieme di soggetti della stessa età che condividono un rapporto genericamente definibile di amicizia. I rapporti tra pari sono più “democratici” di quelli familiari e scolastici e in essi si verificano intensi scambi affettive e comunicativi. Si possono tracciare varie tipologie di gruppi dei pari. Un elemento di classificazione può essere la “base materiale” che consente la formazione di queste relazioni paritarie:  gruppi legati a luoghi aperti (incontri in piazza, in giardini, ecc)  gruppi che si formano nel corso di attività formative (professionali, sportive, ecc) All’interno dei gruppi dei pari si apprendono saperi e saper fare aggiuntivi e a volte conflittuali, rispetto a quelli della famiglia e della scuola. Il gruppo è il luogo formativo per l’educazione affettiva e sessuale, dove sperimentare (soprattutto in adolescenza) l’avventura, la solidarietà e la trasgressione. Dagli anni Cinquanta si assiste al fenomeno dei teenagers: i giovani diventano autonomi soggetti di consumo, sviluppano stili e comportamenti in discontinuità con le generazioni precedenti. Ciò non può più essere ricondotto alla “marginalità” e alla devianza e mette in crisi le concezioni educative esclusivamente autoritarie nei confronti dell’adolescenza. C) la scuola La scuola è, almeno nelle intenzioni, il progetto educativo extra familiare per eccellenza, che ha come scopi:  fornire un’alfabetizzazione di base;  tentare la formazione del “buon cittadino”  fornire gli strumenti per un inserimento produttivo nel mondo del lavoro. La scuola è l’esperienza nella quale, più che in ogni altra, si verifica la discordanza tra gli obiettivi auspicati e dichiarati e quelli effettivamente praticati e raggiunti. Ciò avviene perché:  c’è differenza tra ciò che è previsto dai programmi didattici e ciò che viene effettivamente verificato ed acquisito 9
  • 10.  all’interno dell’esperienza scolastica, vi sono sfumature informali non intenzionali che risultano più educative di quelle formali ed intenzionali (incontro con figure adulte significativa, possibilità di accettazione e di rifiuto di ciò che viene proposto). La scuola oggi vive una profonda crisi di senso che è iniziata negli anni Sessanta, quando l’obbligo scolastico (prima limitato ai 5 anni di scuola elementare) è stato esteso ai 3 anni di scuola media. La scuola media viene unificata (scompare il triennio di avviamento professionale) e diventa relativamente “di massa”. La scuola viene inoltre investita dalle critiche del movimento studentesco che svelano il carattere selettivo e di costruzione del consenso. Oggi la scuola:  ha perso il suo primato di luogo formativo  si rivolge agli studenti motivati ma anche a quelli disillusi e oppositivi e a quelli provenienti da famiglie e contesti multiproblematici  gli insegnanti hanno perso in considerazione sociale e in autostima  agli insegnanti viene richiesto di rispondere a sempre nuovi compiti educativi. Malgrado tutto ciò, la scuola pubblica rimane una delle più solide istituzioni per consentire a tutti i cittadini di acquisire risorse spendibili nella dimensione professionale e sociale. D) i mezzi di comunicazione di massa Gli effetti educativi dei mass media diventano evidenti con la diffusione della radio che:  è un mezzo più alla portata di tutti rispetto ai giornali  ha consentito di comunicare lo stesso messaggio a più persone molto distanti tra loro e di fruire di molteplici prodotti culturali. La radio prima e la televisione poi, sono stati mezzi educativi rilevanti perché: • hanno veicolato e veicolano modelli di comportamento • producono educative campagne pubblicitarie • hanno contribuito all’unificazione culturale e linguistica del Paese. La televisione influenza non solo gli adolescenti, ma tutti coloro che ne fruiscono. La televisione può essere educativa verso direzioni non auspicate quando: ♦ mostra modelli di comportamento discutibili e negativi e, mostrandoli, li rende possibili ed accettabili ♦ pur mostrando contenuti “virtuosi”, stabilisce con il telespettatore un rapporto solo “unidirezionale” 10
  • 11. ♦ riduce le occasioni di socialità ♦ tende a omologare (= rendere uguali) le abitudini e i consumi ♦ collabora a trasformare, attraverso la pubblicità, i soggetti da produttori a consumatori ♦ attraverso le immagini, rende povera l’intelligenza verbale e logica ♦ suggerisce punti di riferimento (veri o immaginari) per valutare le proprie condizioni economiche e sociali, mostrando come vivono popoli di altre aree geografiche. E) il lavoro Il lavoro è una rilevante esperienza educativa perché: o l’organizzazione nella quale i soggetti operano, dichiara e persegue i propri intenti educativi, sottolineando le caratteristiche del lavoratore ideale, sia in termini di comportamenti produttivi, sia di atteggiamenti generali verso la vita (esempio motivazione, aspettative, abbigliamento) o all’interno dell’organizzazione nella quale i soggetti operano, coabitano culture diverse da quelle dell’impresa (esempio cultura delle organizzazioni sindacali) che trasmettono valori e quindi educano o nell’ambiente di lavoro si creano rapporti tra pari e con l’autorità o alcune professioni si configurano come un processo di costante auto-apprendimento F) le dimensioni collettive Le dimensioni collettive generano nei soggetti un senso di appartenenza e di comunità. Esse presentano una componente educativa sotto tre aspetti: • intenti educativi espliciti e intenzionali rivolti ai propri componenti • aspetti non intenzionali e non formali, connessi alla modalità di partecipazione e alla struttura organizzativa • eventuali attività di proselitismo (= tentativo di far condividere ad altri la propria concezione di vita) prodotte dall’organizzazione. Tra le dimensioni collettive ci sono: o la dimensione politica, che è educativa perché prevede un progetto di società, una formula organizzativa, un programma. Ciò implica l’esistenza di una prassi educativa capace di produrre un’ampia adesione al progetto o la dimensione religiosa, che è educativa perché vengono esplicitati e indicati la concezione del mondo, i valori e i comportamenti o esperienze di carattere solidaristico e di volontariato 11
  • 12. o associazionismo culturale, professionale, ricreativo e sportivo. G) le cose Pasolini afferma che le cose, specialmente nella prima fase della vita, rappresentano un’importante fonte educativa. Le cose (gli oggetti materiali) che circondano le perone durante, in particolare, l’infanzia, contribuiscono a creare un ambiente vissuto come dato e “naturale”. Si tratta di ambienti e cose che solo in seguito, sottoposte a un ripensamento, si evidenzieranno per le persone come aventi valore educativo. La vita è educazione? Sorgono spontanee alcune domande: 1) Qualsiasi atto relazionale e comunicativo e qualsiasi evento può essere considerato educativo? Secondo Bertolini, moltissimi sono gli eventi che si possono definire “educativi”. Infatti sono moltissimi quelli che generano trasformazioni negli individui e quindi una loro crescita e sviluppo. Occorre però che il soggetto a cui è rivolto l’intervento educativo, si mostri ricettivo e disponibile. 2) Esistono sovrapposizioni e coincidenza tra vita ed educazione? La risposta può essere positiva o negativa:  positiva se si considerano tutte le possibili sfumature di formalizzazione e intenzionalità. In questo senso qualsiasi esperienza è potenzialmente educativa  negativa se si prendono in considerazione solo le esperienze intenzionalmente educative, cioè quelle esperienze nelle quali c’è la volontà di un soggetto di educare un altro soggetto, indipendentemente dall’accordo del soggetto destinatario dell’azione educativa. Papi, riferendosi in particolare all’educazione dei bambini, afferma che, nonostante la scuola, la maggioranza dei bambini per lo più cresce dove e come può, imparando soprattutto dalla realtà che lo circonda. In questo senso tutta la vita dei soggetti è interessabile da esperienze educative. Ma affermare che i confini della vita e quelli dell’educazione coincidono, non comporta necessariamente la conseguenza che la vita è educazione. La vita cioè non può essere considerata un flusso continuo di apprendimenti in ogni suo istante. Alcune esperienze sono considerabili educative, altre meno se non del tutto non educative. 12
  • 13. Inoltre “l’educatività” delle esperienze, quando queste vengono riconosciute come tali, non è direttamente proporzionale all’intenzionalità educativa, all’autorità di chi educa e alle speranze sociali. 3) Come si combinano tra loro le esperienze educative nella storia del soggetto? Quali sono i loro pesi relativi? La storia formativa di una persona è unica e imprevedibile. Solo in fase di ripensamento, e secondo un progetto proiettato o meno nel futuro, sarà possibile individuare una gerarchia degli eventi educativi e il loro peso. 4) E’ possibile governare la complessità del processo produttivo ed, eventualmente, a chi spetta tale compito? Nella vita di un soggetto si presentano esperienze educative molto intenzionali (esempio la scuola) e occasioni non intenzionali, spontanee e imprevedibili. In parte i soggetti subiscono il sistema educativo, in parte contribuiscono a costruirlo. Nessuno è mai riuscito ad educare qualcun altro ad una piena e completa adesione di comportamenti alla propria concezione del mondo. Neppure è pensabile che un soggetto riesca ad autogovernre il proprio percorso educativo in piena libertà e senza condizionamenti. E’ illusorio, come ritenere di poter governare la vita. Un’azione educativa che si prefigga l’obiettivo dell’autonomia dei soggetti, deve tener conto: • Della complessità del sistema educativo • Dell’esistenza di condizionamenti • Dell’esistenza di margini di libertà. Lo scopo è quello di stimolare i soggetti a diventare “pedagogisti” delle proprie esperienze educative. CAPITOLO 3 – L’irriducibile pluralità del levoro educativo L’educatore (professionale extrascolastico) è l’operatore che, all’interno di un servizio stabile o di un progetto ad hoc, può entrare in gioco quando si verifica una situazione di crisi all’interno del sistema delle esperienze educative. Le crisi possono essere catalogate in: • Crisi da carenza educativa: quando l’esperienza educativa non è ritenuta in grado di raggiungere gli obiettivi oppure il soggetto non è coinvolto in una esperienza ritenuta auspicabile. 13
  • 14. • Eccesso educativo: quando l’esperienza è educativa, ma verso obiettivi non auspicabili, cioè quando si pensa che l’esperienza possa evolvere verso direzioni non legittime. • Conflitto educativo: quando all’interno dell’esperienza esistono diversità non conciliabili di obiettivi e prassi educativa. Davanti ad una crisi educativa, l’educatore professionale può intervenire quando si verificano alcune condizioni sequenziali, cioè: 1) la crisi supera la soglia di accettabilità (è l’osservatore, interno o esterno, che decide la soglia, tenendo presente che essa è mutevole e dipende dall’ambiente, dalle condizioni sociali, ecc); 2) la notizia della crisi giunge, direttamente o indirettamente, a chi istituzionalmente è preposto a conoscerla, analizzarla e intervenire; 3) la crisi viene riconosciuta come caso specifico, che rientra nelle tipologie di crisi che comportano l’attivazione di un intervento educativo; 4) esistono le risorse finanziarie, professionali e metodologiche più idonee per affrontare e cercare di risolvere la crisi. Sostituire, aggiungere, compensare L’educatore professionale, nei confronti delle crisi educative, è impegnato in interventi sostitutivi, aggiuntivi e compensativi.  Interventi sostitutivi: si hanno quando gli ambiti educativi naturali (esempio la famiglia) non sono più ritenuti adeguati alla normale crescita dei soggetti (esempio per mancanza di risorse economiche). Tali interventi sono realizzati, ad esempio, da comunità per minori, per disabili, ricoveri per anziani.  Interventi aggiuntivi: si hanno quando, pur non essendoci patologie che rendano necessario un intervento sostitutivo, le esperienze educative non sono considerate adeguate a formare il soggetto. Gli interventi aggiuntivi si affiancano alle azioni in atto per rafforzarle, ma non per sostituirle. Esempio: sostegno a scuola, assistenza domiciliare ai disabili.  Interventi compensativi: si hanno quando gli ambienti educativi sono ritenuti tali, ma verso direzioni non volute. Questi interventi servono a contrapporsi o a controbilanciare i processi educativi in atto. Ciò può avvenire in ambienti estremamente chiusi come il carcere, o in ambienti estremamente aperti, come la strada (ove si possono formare gruppi di adolescenti o soggetti marginali). Come già detto, le azioni educative sono, per la loro natura e senso, molto complesse. 14
  • 15. E’ allora possibile riprendere la precedente classificazione ed arricchirla ulteriormente, considerando congiuntamente l’incrocio tra tipo d’azione e tempo di svolgimento delle stesse. Avremo:  Interventi sostitutivi o A breve periodo: sono necessari quando si verificano crisi acute. I soggetti hanno bisogno di soluzioni totalizzanti provvisorie, che hanno l’obiettivo di far tornare il soggetto nella situazione originaria sanata, o l’inserimento in una situazione del tutto diversa. o A medio periodo: sono interventi finalizzati a promuovere nei soggetti dei cambiamenti, così da consentire al soggetto il ritorno al suo ambiente originario. o A lungo periodo: sono interventi che non prevedono il ritorno dei soggetti nei contesti di provenienza e che si pongono come obiettivo quello di preservare un minimo di livello di autonomia e benessere (esempi: ricovero per anziani, comunità alloggio).  Interventi aggiuntivi o A breve periodo: finalizzati a sostenere il soggetto in particolari momenti di difficoltà o di passaggio (esempio: inserimento lavorativo, insuccesso scolastico). o A medio periodo: si rivolgono a soggetti portatori di disagio psico-fisico e relazionale. Prevedono processi riabilitativi che la famiglia non è in grado di produrre. o A lungo periodo: sono interventi che accompagnano il soggetto per lunghi periodi o per tutto il corso della vita (esempio: centri per disabili), cioè in tutti quei casi in cui l’insufficienza educativa ha carattere cronico.  Interventi compensativi o A breve periodo: azioni a tempo limitato, finalizzate a prevenire e ridurre comportamenti a rischio (esempio: campagne pubblicitarie contro droga e alcool). o A medio periodo: interventi su soggetti che presentano problemi, ma non stabili né irreversibili. Forniscono strumenti in grado di compensare l’azione educativa (esempio: progetto giovani). o A lungo periodo: interventi su soggetti con problemi cronici. La missione dell’educatore Nonostante la complessità della “missione” educativa, se ne possono tracciare alcuni tratti distintivi. 15
  • 16. Si può dire che il compito generale dell’educatore è quello di intervenire dove le normali dinamiche educative non consentono o non consentirebbero un autonomo percorso di crescita (sia degli individui che dei gruppi) verso un’auspicata condizione adulta e una permanenza il più prolungata possibile all’interno di questa condizione. Non si intende però il tentativo di ritardare l’ingresso nella vecchiaia. La vecchiaia, infatti, non è un problema di età anagrafica, ma dipende dal contesto sociale. Non si intende neppure il favorire l’acquisizione precoce di tratti della condizione adulta. Infatti il lavoro dell’educatore è anche quello di evitare esperienze di adultizzazione precoce, come ad esempio l’espulsione scolastica o gli abusi sessuali. La condizione adulta è caratterizzata dal possesso di alcuni diritti, doveri, beni materiali e immateriali. In generale, gli interventi educativi si attuano per consentire ai soggetti di avvicinarsi ai tratti della condizione adulta e cioè: 1) disporre di un reddito sufficiente, proveniente da fonti leciti, e utilizzarlo per ottenere beni che vadano oltre la soglia (variabile e socialmente negoziata) della essenzialità, ma che non vadano oltre la soglia (variabile e incerta) del consumo alienante. 2) Poter accedere, sia personalmente che a favore dei familiari, ai servizi essenziali connessi alla condizione di cittadino. Un problema aperto è il seguente: l’accesso ai servizi deve avvenire per il solo fatto di essere cittadino o deve essere legato al reddito? 3) Essere in grado di praticare un’attività professionale. Il lavoro infatti: • È una fonte di reddito; • Contribuisce a creare identità e a costruire ruoli sociali; • È un progetto portante per la vita. Un’area di criticità è rappresentata dal fatto che oggi il lavoro ha perso il suo carattere continuativo e solido, perché è diventato discontinuo e frammentario. 4) Disporre di una rete di relazioni familiari e sociali soddisfacenti. Oggi la quantità delle relazioni “strutturali”si è ridotta (famiglia meno estesa, più deboli legami con i luoghi che producevano relazioni). Oggi la possibilità di costruire relazioni è meno data e più “cercata”. 5) Godere di buona salute, sia nel senso di assenza di patologie, sia nel senso di “stato di benessere fisico, psichico e sociale”. Nelle società sviluppate si è passati parzialmente da patologie che aggrediscono l’individuo (esempio epidemie) a patologie a carattere cronico, conseguenti allo stile di vita. 16
  • 17. Dal punto di vista educativo ciò implica la necessità di una educazione volta a sensibilizzare i soggetti orientandoli verso uno stile di vita sano. 6) fornire prestazioni fisiche e psichiche adeguate per la fascia di età e per il genere di appartenenza. Se in alcuni contesti (esempio lo sport), le prestazioni in eccesso sono ritenute positive, così non è per le prestazioni in difetto. 7) Disporre di un livello di istruzione sufficiente. La soglia di accettazione è mutevole, perché dipende dal contesto sociale, dalla disabilità, dalla necessità di formazione per tutta la vita. 8) Esercitare la capacità critica, intesa come capacità di riflettere costantemente su di sé e sul mondo.Quando la capacità critica diventa capacità di trasformare sé e il mondo, può succedere che essa si scontri con le logiche sociali che regolano i limiti di espressione. La capacità critica oggi, ha inoltre di fronte a sé molti piani (globalizzazione, multiculturalismo) e molti linguaggi. 9) Essere autosufficienti nell’affrontare le competenze della vita quotidiana. Il livello di autosufficienza NON è considerabile un valore assoluto, ma dipende dal rapporto tra i compiti che il soggetto deve svolgere e le forme di sostegno di cui può disporre. 10) Partecipare al benessere collettivo, cioè percepirsi parte di una comunità e agire per aumentare il benessere dei suoi membri, senza però porsi in contrasto con le altre collettività. 11) Essere in grado di prendersi cura degli altri. L’adulto, in particolare le donne, è inserito in un contesto familiare nel quale la cura degli altri è diventata una condizione prolungata e diffusa. L’associare la missione dell’educatore professionale alla condizione adulta ha lo scopo di ancorare il lavoro educativo ad una dimensione di concretezza. Il cambiamento Il lavoro dell’educatore non può ridursi a comprendere e spiegare il mondo, ma deve spingersi fino a cambiarlo (a differenza, ad esempio, del lavoro del sociologo che potrebbe fermarsi ad indagarlo). Il cambiamento in area educativa, è inteso come un bilancio qualitativamente e quantitativamente positivo tra la situazione iniziale e la situazione finale. I soggetti, alla fine dell’esperienza educativa, dovrebbero risultare più abili, più competenti ed autonomi. L’educatore è uno stimolatore di cambiamento che a volte agisce direttamente sull’individuo, altre volte contribuisce a strutturare contesti di vita nei quali può verificarsi il cambiamento auspicato. 17
  • 18. La metafora adatta è quella del catalizzatore (= sostanza che aggiunta ad una soluzione, favorisce la reazione attesa). Questa metafora, però, ha un limite: senza l’educatore alcuni processi non potrebbero avvenire, ma, al termine del processo, l’educatore, a differenza del catalizzatore, sarà esso stesso cambiato. Il cambiamento, inoltre, può avvenire anche verso uno stato non previsto, negativo o assumere il volto della resistenza al cambiamento. In questi casi sono necessari interventi di recupero e compensazione. L’autonomia L’autonomia è una finalità educativa indeterminata, che va definita di volta in volta, nelle concrete situazioni operative. Etimologicamente, la parola “autonomia” significa “governarsi con leggi proprie” e cioè poter esercitare la libertà di scelta tra alternative praticabili. Si deve quindi tener conto dei margini di scelta consentiti per quel soggetto, in relazione al genere, età, condizioni psicologiche. L’autonomia dipende quindi da molte variabili e non è teoricamente determinabile. Inoltre la propria autonomia non deve causare la riduzione dell’autonomia di altri. Compito dell’educatore è promuovere l’autonomia, ma anche ridurre l’autonomia di scelta dell’educando in base ai suoi e altrui vantaggi. L’esperienza educativa, per potersi dire compiuta, deve anche generare l’autonomia da se stessa, operando per la propria inutilità, cioè per l’autonomia del soggetto dal processo che ha prodotto il suo cambiamento. L’indipendenza dei soggetti dall’esperienza educativa può assumere la forma dal vero e definitivo distacco dagli operatori oppure quello di un minimo livello di dipendenza funzionale. Il rischio è quello della “falsa autonomia”. Infatti mentre nella sfera privata (familiare ed affettiva) il bisogno degli altri è ritenuto legittimo, nella sfera pubblica, la dipendenza diventa umiliante e così si finisce nella solitudine e nell’abbandono. CAPITOLO 4 – L’educazione tra formazione e deformazione Ci si chiede chi e che cosa autorizza l’educazione (la civilizzazione) dei ragazzi selvaggi o dei selvaggi nativi di quella terra che gli europei chiamarono America? Se oggi a qualcuno capitasse di vedere un ragazzo selvaggio, segnalerebbe sicuramente l’avvistamento a qualche autorità. La cattura sarebbe giustificata dall’intento funzionale di 18
  • 19. provocare il benessere del ragazzo, anche se egli non potrebbe comunicare mediante un linguaggio condiviso, il suo assenso o dissenso. La stessa azione protettiva scatterebbe automaticamente se qualcuno, per esempio, vedesse una persona su un ponte con chiari intenti suicidi. Uno dei più noti ragazzi selvaggi è Victor il “sauvage dell’Aveyron” catturato alla fine degli anno Ottanta del 1700 e vissuto per circa trent’anni dopo la cattura. Il suo caso è noto perché il medico Itard lo prese in carico con intenti educativi, inserendolo nel suo contesto familiare. Diverso è il caso di Nell, la protagonista del film “Nell” di M. Apted. Nell ha vissuto parte della sua vita nel bosco, come Victor, ma, a differenza di lui, non è stata abbandonata dalla famiglia (formata dalla madre disabile, che comunica con un linguaggio tutto suo, e la sorella). Quindi Nell ha vissuto in un microgruppo dal quale ha appreso valori, saperi e culti. Viene scoperta dopo la morte della madre e affidata a figure professionali che tentano un trattamento finalizzato a una completa socializzazione. Qui si confrontano due scuole di pensiero: un trattamento laboratoriale e quantitativo (in ospedale) o un trattamento ecologico e qualitativo (nel suo ambiente, cioè nella casa del bosco). Prevarrà la seconda ipotesi. La storia ha un lieto fine non solo per Nell, ma per tutte le persone coinvolte nella vicenda. Che cosa hanno in comune i due casi? I soggetti con i quali sono venuti a contatto Victor e Nell dopo la loro cattura, non tollerano l’esistenza di loro simili in condizione selvaggia e vogliono riportarli alla “normalità” nonostante i due soggetti non abbiano chiesto aiuto. Ciò succede, in piccolo, anche per le due principali esperienze educative: la famiglia e la scuola. In tutte e due le situazioni, ma anche in altre, i soggetti sono coinvolti nella prassi educativa indipendentemente da una loro domanda e senza una negoziazione preventiva circa il processo e gli obiettivi del percorso che li coinvolge. La famiglia ha come compito la socializzazione di base, con l’intento di far acquisire al bambino quei valori ritenuti opportuni dal contesto sociale al quale il soggetto appartiene. La scuola (esperienza senza domanda, infatti è “dell’obbligo” e spesso “sopportata” per gran parte del percorso), educa nella convinzione che sia necessario fornire ai soggetti strumenti e competenze per affrontare la vita e diventare autonomi. In tutti i casi, l’autorizzazione ad educare viene dal malessere del soggetto educante, che si basa sulla percezione della distanza esistente tra ciò che l’altro è e ciò che l’altro potrebbe e dovrebbe essere. 19
  • 20. Formazione e/o educazione Secondo Cambi, i due termini sono equipollenti. L’educazione avrebbe un carattere più sociale e istituzionale, pone l’accento sull’informazione, è affidata ad un educatore adulto e non al soggetto stesso. Quindi l’educazione è conformativa, direttiva e autoritaria. La formazione invece è un percorso del soggetto, che tende a prendere forma personale, secondo la personalità di ciascuno. Secondo Duccio Demetrio, il concetto di formazione sintetizza in un unico termmine due modalità di trasmissione del sapere: quella educativa, attinente al mondo dei valori e dei comportamenti, e quella istruttiva e addestrativa. Riccardo Massa afferma che il termine “formazione” oggi indica interventi specialistici di saperi professionali (esempio formazione di chi opera in una azienda). Il concetto di formazione quindi: • Da una parte esprime una tensione verso temi universali “più alti” dell’educazione; • Dall’altra può ridursi alla ricerca di metodi per raggiungere obiettivi isolabili e verificabili. Formazione ed educazione, al di là del loro significato, pongono delle questioni differenti riguardo: 1) ai luoghi nei quali si apprende; 2) alla controllabilità dei processi di apprendimento; 3) all’autonomia dei soggetti; 4) ai valori che si intendono trasmettere; 5) alle finalità generali dell’azione educativa. La buona educazione La formazione è un percorso che accompagna tutta la vita. Le diverse culture e le diverse “visioni del mondo” hanno ideali di formazione diversi. Sono quindi molte le concezioni di “buona educazione”. La “buona educazione” immagina per gli altri un modo di essere e gli strumenti per giungervi, ma deve fare i conti con la possibilità dei soggetti di immaginare il modo di essere per sé. E’ questa la variabile che spesso determina lo stallo nel lavoro educativo. I soggetti prefigurano il loro futuro basandosi su quelle che ritengono le risorse in loro possesso, al sistema di simboli del gruppo sociale di appartenenza e al confronto con gli altri. Per questo nell’attività dell’educatore professionale è prevista un’azione che aiuti il soggetto a scoprire le proprie risorse e a prefigurarsi un futuro diverso da quello fino a quel momento immaginato. 20
  • 21. Darsi una filosofia L’educatore deve dotarsi di una sua filosofia facendosi delle domande alle quali non sempre si può dare una risposta. Una di queste è se l’educazione è un modellamento (cioè un’imposizione) oppure un disvelamento di un progetto presente in nuce (maieutica). La parola “formazione” si usa oggi per indicare l’istruttivo. E’ bene richiamare il primato dell’educativo, perché richiama la storia educativa del soggetto e la sua complessità. CAPITOLO 5 - La relazione educativa La relazione è una delle caratteristiche distintive dell’educazione professionale, infatti dove non c’è relazione non c’è la possibilità di rendere attuali le intenzioni educative. La relazione educativa, secondo Bertolini, si fonda sulle seguenti prospettive: • la globalità: l’educatore deve considerare la persona nel suo insieme, senza enfatizzare una sola dimensione umana a scapito delle altre; • l’operatività: l’azione educativa deve stimolare a muoversi verso nuove direzioni; • l’integrazione: l’educazione deve stimolare l’autonomia personale e la comprensione dei limiti (principio di realtà). La relazione educativa, oggi, a causa dei numerosi campi nei quali è impegnato l’educatore, è abbastanza indefinita. Come dice Demetrio, tale relazione c’è e c’è sempre, ma non basta. La relazione educativa deve infatti diventare oggetto di razionalizzazione e di problematizzazione. La relazione assumerà sfumature diverse a seconda di diverse variabili: o luogo (aperto meno formale/chiuso più formale); o età; o il fatto di essere stata scelta o meno; o la presenza o meno di altri operatori. La relazione educativa è caratterizzata ed influenzata da alcune caratteristiche che rappresentano anche aree problematiche e di sofferenza. Tra esse consideriamo:  Asimmetria E’ un dato di fatto che la relazione educativa debba essere asimmetrica. Non però nel senso di dipendenza del più piccolo dal più grande, del più debole dal più forte, dal meno formato al più formato. 21
  • 22. In realtà la superiorità dell’educatore sull’educando non è qualcosa di acquisito una volta per tutte. Ci può essere infatti asimmetria su un singolo contenuto che non comporta automaticamente asimmetria su altri. Ciò che non può cambiare è l’asimmetria riguardante la consapevolezza e la responsabilità dell’azione educativa. Consapevolezza del carattere educativo della relazione e quindi delle mete e responsabilità riguardo al futuro del soggetto educato.  Pregiudizio Per pregiudizio si intendono idee e opinioni anteriori alla diretta conoscenza dei fatti e delle persone. Nel lavoro educativo, “pregiudizio” è uno dei termini considerati di per sé un limite, un condizionamento non auspicabile. Il pregiudizio in educazione comprometterebbe la neutralità osservativa dell’educatore. Ci sono però verie interpretazioni della parola “pregiudizio”. Secondo Gadamer, il pregiudizio non è solo un giudizio falso e negativo, ma la condizione del nostro incontro con la realtà, la precondizione che orienta lo sguardo e fa da stimolo per la riflessione. Quindi i pregiudizi, se intesi come le coordinate con le quali ci apprestiamo all’incontro con l’altro che potrà, eventualmente, cambiarle, sono legittimi anche nella relazione educativa. Non lo sono invece se queste coordinate si trasformano in immobilità classificatoria, arroccata su se stessa e immutabile. L’importante è l’esplicitazione e la condivisione delle proprie idee e l’esercizio del dubbio.  Il coinvolgimento emotivo Secondo Santerini, la relazione educativa comprende sempre una dimensione affettiva che coinvolge pensiero e sentimento. Secondo alcuni la dimensione affettiva comprometterebbe l’azione educativa. Ma nella relazione tra educatore ed educando non si può non essere coinvolti emotivamente. Il problema sta nel non cadere in un eccessivo coinvolgimento (surplus di vicinanza) o nell’opposto scarso coinvolgimento (surplus di distanza). Bisogna quindi cercare metodi per modulare la distanza opportuna, che però non può essere stabilita a priori, una volta per tutte. 22
  • 23. Il coinvolgimento può essere diverso da operatore a operatore, da caso a caso, da momento a momento. Ogni volta bisogna affidarsi al salutare esercizio del dubbio.  I valori propri e i valori altrui Luciano Gallino afferma che i valori rappresentano i criteri in base ai quali si valutano la correttezza, l’efficacia e la dignità delle azioni proprie e altrui. Nella vita quotidiana i valori si traducono in norme sociali, che decidono anche la qualità e il grado della devianza. A proposito di valori, si pongono dei quesiti che coinvolgono anche il lavoro educativo: 1) se alcuni valori sono universali e assoluti, oppure se sono storicamente generati e quindi relativi; 2) se esistono valori che sono ormai da ritenersi universali, cioè praticati o desiderati dall’intera umanità; 3) se i valori che nascono in differenti contesti sono comparabili tra di loro o se devono essere riferiti esclusivamente alla cultura che li ha generati; 4) se i rapporti tra i diversi valori debbano essere di integrazione e riconoscimento o di rifiuto; di tolleranza o di conflitto; 5) se il rapporto tra i valori individuali e sociali debba essere di imposizione o di negoziazione o di libera scelta; 6) se esistono zone di esperienza che si sottraggono alla valutazione dei valori sociali e sono affidate esclusivamente a quelli individuali o di gruppo. In questo contesto possiamo solo segnalare le questioni aperte, nella consapevolezza che la trattazione richiederebbe troppo spazio, in quanto ad esse non esiste una sola risposta, ma delle risposte che ciascuno trae dalla propria visione del mondo, cioè dai propri valori di riferimento Nella relazione educativa: o è impossibile non possedere dei valori; o è impossibile non giudicare i valori altrui (si può “sospendere il giudizio” ma il giudizio sotterraneo continua); o è impossibile non proporre dei valori (anche solo nel comportamento). Quindi ciò a cui si deve tendere non è un’assenza di valori, ma la consapevolezza della presenza dei valori e della loro influenza sulla relazione. E’ quindi necessario conoscere i 23
  • 24. propri valori, governarli, sottoporli a critica costante. E’ necessario anche esplicitarli, in modo da permettere all’altro di capire i comportamenti dell’educatore. CAPITOLO 6 – Alcuni nodi del lavoro educativo Ci sono alcune zone nel lavoro educativo che vanno sottoposte a riflessione. Ciò non per indicare certezze metodologiche, ma per coglierne alcuni aspetti e tentarne una riformulazione. Essi sono: 1) prevenzione L’opera di prevenzione può assumere diverse forme: dalle campagne informative a opere di presidio di alcune realtà territoriali. La prevenzione non si può ridurre ad informazione e spiegazione, come se alcuni comportamenti si sviluppassero per mancanza di informazioni. Si deve invece utilizzare una logica che punta alla acquisizione di strumenti per “leggere” le esperienze (prevenzione anche come ascolto delle ragioni dell’altro). Così a scuola, ci potrebbero essere degli operatori, slegati da vincoli istituzionali scolastici, non valutativi, che interagiscono e dialogano con gli studenti. Una caratteristica del lavoro di prevenzione è l’incertezza dell’esito, ma in educazione non tutto il lavoro è verificabile. Ciò non toglie che questo tipo di intervento vada tentato ugualmente. 2) Legalità ed illegalità L’educatore professionale è un operatore che assume funzioni di ponte tra l’area della legalità e quella dell’illegalità. La legalità dovrebbe sempre essere presente in termini di:  Comunicazione dell’esistenza di questa dimensione  Spiegazione della funzionalità della stessa  Possibili conseguenze legate ai comportamenti illegali. In questo ambito possiamo evidenziare due tipi di educatore: o Educatore normativo: che agisce per stimolare alla condivisione della legalità o Educatore non normativo: che illustra le conseguenze di azioni illegali, ma lascia libera scelta al soggetto di decidere se attuare o meno comportamenti illegali. 24
  • 25. Davanti a un adolescente che commette un’infrazione alla norma (esempio compie atti di vandalismo), l’operatore dovrà valutare nel caso specifico come comportarsi, tenendo conto del momento e del tipo di atto (ad esempio valutando se l’atto comporta o meno danni per gli altri). 3) Accanimento educativo L’accanimento educativo è l’eccesso di insistenza operativa dove non esistono effettive possibilità di successo. Nell’azione educativa può essere visto come il tentativo di non ammettere la sconfitta. Può avere due aspetti: 1) l’eccesso di azioni educative rivolte a soggetti che hanno tutte le potenzialità psicofisiche; 2) l’eccesso di azioni educative rivolte a soggetti che non possiedono i prerequisiti psicofisici, o perché non li hanno mai avuti o perché li hanno persi. Nel primo caso si tratta di soggetti che sembrano sfuggire alle intenzioni educative dell’educatore. Prima di arrendersi, l’educatore dovrà ripensare al percorso proposto, alla relazione instaurata e ai tempi, per valutare le eventuali modifiche da compiere. Qualora non emergano modifiche efficaci, non resta che rielaborare l’accaduto, ricordando che il fallimento dell’educatore è anche segno dell’autonomia dell’educando. Nel secondo caso, quando le possibilità di intervento sono esaurite, non resta che consegnare l’operatività ad altri operatori. 3) Il burnout Con il termine “burnout” si intende l’esaurimento delle motivazioni e delle energie rispetto alla propria professione, l’incapacità di dotarsi di un progetto di cambiamento di sé e della situazione, la sfiducia nelle possibilità degli utenti da parte dell’educatore. Il riconoscimento scientifico della sindrome del burnout, ha messo in luce quanto possa essere faticoso il lavoro educativo. Nello stesso tempo la sindrome di burnout può essere considerata una via di fuga, una razionalizzazione di altri disagi non ancora esplicitati. Ad esempio: la distanza tra l’auspicato e l’effettivo negli obiettivi e nella prassi educativa 4) La supervisione Nel lavoro educativo esiste una diffusa pratica di supervisione educativa. Per supervisione si intende il rapporto con qualcuno che, in virtù di esperienze e competenza, può esprimere un parere su un’esperienza nella quale il richiedente è impegnato. 25
  • 26. Il supervisore deve avere una necessaria posizione di distacco dall’esperienza che deve valutare. Nel lavoro educativo distinguiamo: o Supervisione psicologica: rivolta a un gruppo di lavoro composto da pari o a un singolo individuo. Si interroga rispetto al vissuto individuale o collettivo dell’esperienza operativa. o Supervisione pedagogica: ha lo scopo di favorire la lettura pedagogica dei fatti educativi ed è finalizzata: 1) individuare e sciogliere alcune situazioni di intoppo che non consentono il proseguimento del progetto; 2) evidenziare il senso dell’azione educativa, scoprire educazione pensata e pratica educativa anche dove non sembra esserci né l’una né l’altra; 3) favorire il confronto tra le dichiarazioni di intenti educativi e gli effetti educativi. Può esservi supervisione anche in assenza di momenti critici, per l’intera progettazione educativa o solo per alcune sue fasi. 5) Radicale alterità Il concetto di “follia” è relativo, e va collocato sempre all’interno di un contesto di riferimento. Ci sono soggetti con profonde alterazioni della mente e dell’esperienza, nei quali è parzialmente o totalmente assente la percezione della propria patologia. Sono persone ritenute “malate” (psicotici, dementi) che non condividono con gli altri nemmeno un insieme minimo di linguaggi e codici. Per questo motivo con loro è reciprocamente impossibile ogni relazione. Sono soggetti sempre inquietanti perché:  Trasmettono un’immagine di “pericolosità”  Non sono interpretabili con gli schemi cognitivi consueti  Sono portatori di quella “anormalità” che può far luce sul limite della “normalità”. Le esperienze di alterazione della mente (follia, demenza senile, ritardo mentale) NON vanno confuse con il disagio psichico (ansia, depressione, fobie). Nei confronti della psicosi esistono diversi approcci: 1) quello che considera la psicosi un difetto di funzionamento rispetto alla “normalità”, senza però porsi il problema del significato del sintomo; 2) Civita pensa che le manifestazioni psicotiche siano incomprensibili per le persone “normali”, perché queste ultime non possono immedesimarsi in esperienze mentali completamente estranee al loro universo; 26
  • 27. 3) Il mondo psicotico devia da ciò che il sano considera “normale”, ma ha un suo significato. E’ cioè un mondo regolato da una norma che assegna alla vita dello psicotico una sua fisionomia. L’atteggiamento dell’educatore nei confronti della alterità radicale dovrebbe comprendere ambedue gli approcci 2) e 3). Da una parte la consapevolezza di non potersi immedesimare nei panni dell’altro; dall’altra lo sforzo di concepire un’esistenza diversa dalla propria, ma non per questo priva di senso. Questo atteggiamento non riguarda solo le alterità estreme, ma anche le altre alterità e culture (esempio culture dove sono previste la lapidazione, la pena di morte, l’obbligo di indossare il burka). Nell’educatore deve esistere una tensione verso la comprensione delle ragioni dell’altro. Ciò deve provocare un costante dubbio sulle proprie convinzioni. Dubbio però che non deve bloccare ogni decisione. 6) I fantasmi del lavoro educativo Fantasma significa letteralmente “un’immagine creata dalla fantasia che non ha alcuna corrispondenza con la realtà dei fatti”. E’ un prodotto illusorio che può rappresentare un desiderio o un timore. L’educatore è naturalmente abitato da fantasmi, cioè da possibili concezioni del proprio ruolo. I fantasmi elencati da Enriquez sono: o Il formatore: colui che vuole dare una buona forma. L’educando viene percepito come inadeguato, l’educatore ha il compito di dare una forma ideale, di “plasmare” l’educando secondo un modello prestabilito. Rischio: produrre soggetti in serie, senza tener conto del patrimonio individuale del soggetto. o Il terapeuta: colui che vuole “guarire” e “restaurare”. L’educatore opera per riportare a un presunto stato originario di salute, compromesso da agenti esterni, l’individuo. Rischio: valutare il soggetto come “scarto” da una situazione normale. o Il maieuta: colui che vuole fare emergere. L’educando è visto come una persona naturalmente ricca di potenzialità che l’educatore deve fare emergere. Rischio: idealizzare il soggetto e pensare che l’azione educativa si risolva solo stabilendo un buon clima relazionale e un ascolto comprensivo. 27
  • 28. o L’interpretante: colui che vuole far prendere coscienza. Si tratta dell’educatore che, a ogni costo, assegna significato ad ogni azione e comportamento, cercando di spiegare tutto ciò che accade. Rischio: non essere mai sfiorato da un salutare dubbio. o Il militante: colui che vuole cambiare il mondo. E’ l’educatore che ritiene che tutto il male sia nel mondo di cui l’educando è vittima. Rischio: non tiene conto della realtà. o Il riparatore: colui che ha la logica del sacrificio, che tende a riparare il male che è stato fatto. Rischio: mantenere in vita il disagio perché, in fondo, ha bisogno del malessere degli altri. o Il trasgressore: colui che ritiene che le norme siano solo divieti tendenti a reprimere il “piacere”. Rischio: teorizzare la rottura sempre e comunque. o Il distruttore: colui che trasforma il desiderio di formare in volontà di distruggere, il desiderio di guarire in volontà di rendere l’altro malato. Rischio: sviluppare progetti educativi per appartenenti a collettività nazionali o etniche. I fantasmi non sono da considerare di per sé degli elementi patologici nella relazione educativa.Come le medicine che fanno male se prese ad alte dosi, ma guariscono in piccole dosi, così i fantasmi possono rivelarsi funzionali al buon esito del lavoro educativo senza cadere nei rischi ad essi connessi. CAPITOLO 7 – La complessità del soggetto e il rapporto con le altre figure professionali L’educatore ha dei rapporti con altre figure professionali (assistenti sociali, insegnanti, psicologi, medici, infermieri). Si potrebbe parlare del rapporto tra educatore e altre figure professionali che condividono con lui gli spazi operativi, partendo da:  Tipo di sapere di cui le diverse figure sono portatrici  Il profilo professionale formale previsto dalle normative  Le diverse aree e bisogni verso i quali le diverse figure sono delegate ad intervenire. Oppure si potrebbe partire dalla centralità e unitarietà del soggetto che con tali figure entra in relazione. 28
  • 29. Il soggetto destinatario degli interventi è sempre “unitario”, cioè è portatore di bisogni che potenzialmente coinvolgono contemporaneamente operatori e azioni appartenenti a diversi campi disciplinari. Nel soggetto destinatario, gli interventi interagiscono, sono ricomposti e non sono neppure percepiti come dimensioni a sé stanti. Quindi, nel concreto, significa analizzare il caso. Considerare paritarie le discipline e i comportamenti connessi. Il rapporto educativo e il lavoro sanitario L’esperienza della patologia può rappresentare per il soggetto coinvolto un’esperienza educativa non intenzionale. In questa esperienza però possono essere rintracciati tratti di intenzionalità grazie al modo con cui educandi e operatori la affrontano. La malattia e il suo trattamento possono essere considerati esperienze educative in quanto possono modificare: o la percezione che il soggetto ha di se stesso o la percezione delle proprie possibilità e dei propri limiti o la propria riflessione su suo percorso di vita o la collocazione nel rapporto con gli altri, ponendo il soggetto in una situazione di dipendenza da altri in cui si sperimenta l’asimmetria. Le precedenti osservazioni sono valide però solo a livello di ciò che sarebbe auspicabile, infatti nella realtà, in ospedale, il lavoro educativo è scarso, perché si riduce spesso al solo riempimento del tempo “vuoto” durante la degenza, soprattutto per i bambini. La presenza dell’educatore in campo sanitario si registra prevalentemente: • nelle attività di prevenzione delle dipendenze • nei servizi diurni per soggetti portatori di patologie psichiatriche • nelle strutture riabilitative per abuso di sostanze psico-attive. In queste situazioni il lavoro educativo può essere interpretato in due modi: 1) come strumento sanitario affiancato ad altri strumenti. L’operatore attua programmi terapeutici (riabilitativi e contenitivi); 2) come processo autonomo, con i suoi obiettivi e metodi, che si affianca al lavoro sanitario, senza però esserne uno strumento attuattivo. In questo caso l’educatore contribuisce all’attuazione di progetti nei quali sono importanti il recupero, il mantenimento dell’autonomia del soggetto, che riacquista la propria centralità. 29
  • 30. Il lavoro educativo e il lavoro assistenziale A volte si può percepire il rischio che il lavoro educativo sconfini nel lavoro assistenziale. Ma mentre il lavoro educativo deve produrre dei cambiamenti, il lavoro assistenziale produce il mantenimento dello stato vitale e il soddisfacimento dei bisogni primari. Tutte e due le pratiche hanno come obiettivo quello di prendersi cura dell’altro. L’unione tra operatori assistenziali, educatori e utenti avviene nei luoghi dove le patologie sono conclamate e dove esiste la centralità dell’utente e l’intreccio tra i due tipi di attività. La relazione psicoterapeutica La relazione psicoterapeutica nasce dalla domanda di aiuto da parte di un soggetto che è portatore di una sofferenza psichica non sopportabile nella vita quotidiana. La relazione educativa, invece, interessa tutti i tipi di soggetti (esempio i soggetti marginali o devianti). Il lavoro educativo si intreccia con il lavoro sanitario, assistenziale e psicoterapeutico. E’ un intreccio che stimola a cercare e a preservare la propria identità, ma anche a convivere con le altre componenti educative. CAPITOLO 8 – Non possiamo non dirci educati Ogni educatore, come qualsiasi altro soggetto, è portatore di una storia di educazione donata ed erogata ma anche di una storia di educazione ricevuta. Tutte e due contribuiscono a costruire la cultura dell’educatore. Gli educatori quindi arrivano agli appuntamenti formativi e professionali con una loro cultura che: o a volte viene considerata come un ostacolo da rimuovere per far posto alla “vera” cultura dell’educazione; o altre volte viene considerata come una riserva di esperienza e di sapere che può aiutare nelle esperienze operative. La scoperta dell’utente La didattica autobiografica, di cui Duccio Demetrio sottolinea l’importanza, favorisce la conoscenza dell’utente, perché nell’autobiografia si fanno emergere le esperienze nelle quali l’educatore è stato a sua volta utente, cioè soggetto di esperienze educative. L’autoriflessione sulle proprie esperienze educative è utile per ripensare a: 30
  • 31.  la quantità delle esperienze educative;  gli elementi costitutivi di ogni esperienza;  il confronto tra intenzioni educative ed effetti ottenuti;  le componenti (formali, non formali, ecc) di ogni esperienza;  i fattori che si sono dimostrati più educativi di altri. Mettersi nei panni dell’utente significa, in primo luogo, “mettersi nei propri panni”.e capire che esiste una convivenza tra certezze ed incertezze. La didattica autobiografica non può essere pensata come un momento di presentazione di sé, nemmeno come separata dal resto della formazione o come laboratorio a sé stante. Il “mettersi nei propri panni” aiuta a capire le trasgressioni degli altri e l’illusoria imparzialità relazionale. 31