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La verità (non) sta nel mezzo
Il futuro è la notte perenne della vita e sta al singolo
approcciarvisi come meglio crede.
Se questo è vero è altrettanto certo che la società, nel
suo insieme, può offrire ad ogni uomo gli strumenti per
affrontare il futuro, facendo in modo che lo si fronteggi
con serenità o con angoscia.
Schemi, strumenti, proposte e opportunità di per sé
vuote, in attesa di essere colmate di significato.
Il punto è questo: l’approccio all’ignoto.
C’è chi lo guarda con fiducia, chi con rassegnazione,
chi ha tutto da chiedere e chi ha già dato tutto, c’è chi
vive sul filo di un ciclico tramonto e chi vuole illuminare
il proprio futuro con la luce di un presente costellato di
punti fermi.
E poi ci sono i giovani, tra color che son sospesi per
definizione e anche un po’ per imposizione.
Il futuro è quindi un problema di prospettive, un non
luogo straripante di scelte astratte; in altre parole è il
ring perfetto per i contrasti generazionali.
E qui si entra, è giusto permetterlo per far capire come
in questo discorso non ci sia nulla di scientifico, nel
campo ostico e paludoso delle generalizzazioni.
È tuttavia più che ragionevole sostenere che un uomo
o una donna con una età compresa tra i 30 ed i 60 anni
sia tendenzialmente sfiducioso e sfiduciato rispetto al
futuro.
Le cause di questo fenomeno sono le più disparate.
I semplicisti penseranno alla crisi che ha soffocato i
sogni dei giovani d’allora e occluso le comode certezze
dei padri di famiglia, che si son trovati da un giorno
all’altro senza lavoro, molti incolperanno la politica, altri
ancora grideranno al complotto.
E se il problema venisse invece dall’interno?
E se tutto nascesse da un benessere poco guadagnato e fin
troppo interiorizzato?
E se tutti i mali appena elencati fossero il frutto e non la
causa dell’inerzia delle generazioni di mezzo?
Il linciaggio è dietro l’angolo e ovviamente ci sono
eccezioni, storie e circostanze, ritagli di vita vissuta che
esulano da un simile ragionamento ma che non ne
inficiano la verità di fondo.
Perché una verità di fondo, uno zoccolo duro suppor-
tato dai fatti esiste.
Negli occhi dei più giovani c’è un fuoco nuovo, eredita-
to, con un enorme salto generazionale, dai più anziani,
da coloro che hanno lottato per una comodità che ha
ingolfato i propri figli ma che ha fatto nascere il seme di
una nuova rinascita nelle menti dei propri nipoti.
Un “millennial” non ha paura dell’ignoto perché ama
viaggiare, è nato con l’idea che la sua casa sia il mondo,
un ragazzino ama scoprire e mettersi in gioco perché
non è schiavo della ricerca del posto fisso, un ventenne
vive la rivoluzione tecnologica come presupposto per
la nascita di una società nuova e non come una dege-
nerazione di un mondo preesistente ed immutabile.
Tutto questo accade a prescindere dal contorno perché
l’ignoto resta, gli strumenti diminuiscono sempre più e
le difficoltà persistono.
È la prospettiva che sta cambiando, muovendosi con
armonia e fiducia verso la ricerca di una serenità da
costruire e non da ereditare.
La verità sta dunque nell’eterna tensione positiva
verso il futuro, nel continuo ed incessante movimento,
nella ricerca costante di un modo per migliorare le pro-
prie condizioni e per aspirare a raggiungere la fine di un
percorso ideale, di un estremo.
Ecco perché la verità non sta nel mezzo.
Il concetto di futuro racchiude in sé, nella propria essenza,
una componente di incertezza che sfugge anche ai più incalliti pianificatori,
un’ombra lunga di ignoto che ha differenti angoli di visuale.
A cura di Marco Nuzzi
16 Pagine Magazine | Mondo
2
Una prospettiva oltre oceano
U
na prospettiva oltre oceano: un titolo che rimanda ad un tema ambiguo e dibattuto ma
che, allo stesso tempo, si allaccia indissolubilmente ad una storia, o meglio a milioni di
storie che non sono mai state raccontate, disperse in mare e custodite nei corpi di chi,
quello stesso mare, ha avuto il coraggio di affrontarlo, scommettendo con esso, una scommessa
impari ma che non è possibile perdere perché la posta in palio è la più alta.
Riuscire, un giorno, a raccontare quelle storie, rivivendole come un ricordo di una esperienza terri-
bile dal quale ognuno di quei corpi era riuscito a sfuggire; il ricordo di una salvezza insperata.
Molto spesso l’approccio al problema dell’immigrazione è ridotto alla sterile dicotomia sull’ “essere
contrari o meno” al proliferare di tale fenomeno. Una metodologia di analisi che, oltre ad essere
limitativa, è errata. Prima di tutto perché il fenomeno dell’immigrazione non si può arrestare,
trattandosi di un fenomeno ciclico che bisogna affrontare sapendo che non si può vincere perché
è connaturato alla natura dell’uomo. Si può regolamentare, arginare e gestire, ma non si può
assolutamente bloccare.
Da sempre, infatti, l’uomo ha avvertito la necessità di abbandonare la propria terra in cerca di un
futuro migliore a causa di povertà, carestie e guerre. Mai tuttavia in passato l’immigrazione aveva
raggiunto una tale portata nè aveva rappresentato un problema di così difficile soluzione per i
paesi occidentali.
È opportuno parlare di “problema” non perché sia necessario considerare l’immigrazione un fatto
negativo, bensì perché tale fenomeno ha assunto forme e dimensioni che hanno reso difficile, ove
non totalmente impossibile, la sua gestione.
Il punto, però, è un altro, perché il problema non risiede, come detto, nel fenomeno in sé, quanto
nell’approccio allo stesso.
Quanti, infatti, conoscono veramente le origini, le cause e le vicissitudini che spingono migliaia di
persone ogni giorno a lasciare il proprio paese i propri affetti, rischiando la vita, per raggiungere
un futuro migliore?
Non può esserci una risposta più adeguata rispetto a quella fornita da Papa Giovanni Paolo II
il quale aveva affermato che il primo e il più importante diritto di ogni uomo è quello di vivere
in pace e in prosperità nella propria patria. Un diritto che le potenze occidentali hanno negato
durante l’epoca delle grandi colonizzazioni e che oggi continuano a negare attraverso nuovi tipi di
dominio.
L’origine sta dunque nella ricerca incessante di un equilibrio che potrebbe essere raggiunto da
ciascuno nel proprio paese d’origine ma che anni di politiche imperialiste hanno minato alle fonda-
menta.
Fatta questa premessa, sono numerose le domande che necessitano di una risposta.
Le migrazioni sono una conseguenza della povertà?
No. È vero che le migrazioni hanno spesso a che fare con le disuguaglianze di opportunità, ma i
migranti non provengono dai paesi più poveri del pianeta, se non in minima parte. In Italia per
esempio, i primi paesi sono: Romania, Albania, Marocco, Cina e Ucraina.
Non sono tuttavia i più poveri ad avere la possibilità di emigrare, poiché occorrono risorse econo-
miche che le classi sociali più povere non posseggono.
C’è dunque chi non ha neanche il diritto di sperare.
A cura di Biagio Denora
3
Mondo | 16 Pagine Magazine
È vero che i rifugiati ci stanno invadendo?
No. L’84% dei rifugiati (65,6 milioni nel 2016) è accolto nei paesi del
c.d. Terzo Mondo mentre l’Unione Europea accoglie solamente il 10%
di essi. I paesi più coinvolti nell’accoglienza sono: Turchia (2,9 milioni),
Pakistan (1,4 milioni), Libano (1 milione), seguono Iran, Uganda,
Etiopia. (Dati tratti dal rapporto annuale UNHCR, 2016)
Gli attuali flussi verso l’Europa, globalmente modesti e selettivi, han-
no a che fare con la crisi dei sistemi di accoglienza nei paesi di primo
asilo e con l’insufficienza dei finanziamenti delle agenzie
internazionali.
L’immigrazione rappresenta un costo elevato per il Sistema
italiano?
No. Le spese che lo Stato italiano sostiene per la gestione del fenom-
eno dell’immigrazione sono pari allo 0.2 % del PIL, circa 3 miliardi di
euro.
D’altro canto gli immigrati ogni anno versano nelle casse dello Stato
oltre 8 miliardi di euro contribuendo in maniera sensibile, ad esem-
pio, a finanziare il sistema pensionistico.
È possibile dunque affermare che gli immigrati costituiscano una
risorsa del nostro paese.
Allora il problema dov’è?
Anche in questo caso risiede nell’approccio, spesso poco informato,
deviato e fazioso del cittadino medio e, in molti casi, in una ignoran-
za di fondo. Manca una visione che sia politicamente intelligente,
culturalmente aperta, socialmente prudente ma innanzitutto umana.
Sì umana, perché non va dimenticato che si parla sempre di esseri
umani, uomini e donne in balia di un destino incerto. Chiudere le
frontiere significherebbe divenire insensibili al grido di dolore che si
leva al di là del mare.
Allo stesso modo tuttavia, abbandonarsi ad una sostanziale anarchia
gestionale dei flussi rappresenterebbe una soluzione soltanto appa-
rente al problema, che andrebbe invece a creare fratture sociali, eco-
nomiche ed umane insanabili. In una situazione di crisi, di miseria e
competizione non può nascere un rapporto sano tra le varie culture.
Occorre dunque condividere le risorse, le esperienze, le aspirazioni,
i progetti, le culture, favorendo così la nascita di una società globale
e non semplicemente globalizzata, basata sul benessere distribuito,
sull’equilibrio dell’uomo con l’ambiente, sulla realizzazione dell’indi-
viduo come elemento fondante del bene collettivo.
Fino al giorno in cui questi obiettivi non saranno raggiunti e fino a che
nessun uomo sarà più costretto a divenire un “migrante” non sarà
in alcun modo possibile voltare le spalle a chi è costretto ad abban-
donare la propria terra.
Soltanto quando questo accadrà, potremo davvero definirci umani.
16 Pagine Magazine | Cinema
4
Black Mirror:
quando la realtà
supera la finzione
C
’è chi accusa Netflix di aver snaturato la serie, chi la
definisce troppo ‘leggera’ rispetto alle stagioni precedenti e
chi, nonostante tutto, l’apprezza. Definire la serie di Charlie
Brooker una delle migliori degli ultimi anni, comunque, non è
affatto azzardato, data l’estrema lucidità con la quale affronta temi
cupi, violenti. Ogni puntata, autoconclusiva, approfondisce il torbi-
do rapporto tra uomo e tecnologia, il cui esponenziale sviluppo sta
invadendo qualsiasi ambito della nostra vita. Il nome della serie
si riferisce sia agli oscuri schermi dei nostri device quotidiani, sia
all’azione della tecnologia di smascherare e ‘riflettere’ le nefandez-
ze dell’animo umano. Brooker, perciò, non commette il comune
errore di demonizzare il mezzo, bensì attribuisce la colpa di qual-
siasi uso nocivo della tecnologia all’uomo e ai suoi usuali vizi. Le
puntate son ambientate sia in un futuro prossimo sia nel presente
e son proprio quest’ultime ad avere un effetto disturbante sullo
spettatore, quasi come se il regista volesse dirgli: “ehi, è questa
la realtà che stai già vivendo, ma non ne sei consapevole!” A tal
proposito, “Nosedive” è forse la puntata più verosimile e terrifican-
te dell’intera serie: Lacie (Bryce Dallas Howard) vive in un America
in cui qualsiasi interazione umana è valutata su un app gestita da
altri esseri umani. Attraverso degli impianti alle retine ognuno può
vedere sia la valutazione dell’altro sia i suoi interessi, quindi ad
ogni volto corrisponde un voto che altri hanno precedentemente
assegnato. Troviamo quindi un ambiente color pastello (in cui
persino i biscotti sorridono) dove la gentilezza diventa un biglietto
da visita per raggiungere il miglior punteggio possibile, rasentando
l’aggressività. Più alto è il punteggio, più si ha accesso a dei benefit
materiali e luoghi elitari, creando quindi una diversificazione so-
ciale. L’episodio, tramite la satira, descrive l’ansia provocata dall’os-
sessione per la quantificazione, la classificazione e la valutazione
alle quali tutti siamo sottoposti. L’utilizzo di applicazioni come Trip
Advisor, Peeple o vari social network ci sta lentamente rendendo
schiavi dei pareri altrui, che con prepotenza influenzano i nostri.
Pensateci bene: quante volte vi è capitato di skippare un video
youtube solo perchè privo di molte visualizzazioni? O quante volte
vi siete detti che forse avreste dovuto considerare un qualsiasi
profilo instagram solo perchè dotato di molti followers? Pian piano
il giudizio e le votazioni implicite altrui, tramite un like, un follow,
una stellina o un commento, stanno sostituendo i nostri gusti e le
nostre scelte. La sorridente protagonista della puntata viene inva-
sa di punteggi negativi quando interrompe il circolo vizioso della
gentilezza finta, e viene trattata come un outsider, una minaccia. Il
rischio di guardarci attraverso gli occhi degli altri è quindi sempre
più vicino, la ricerca ossessiva di un’approvazione tramite social
può annebbiare il nostro spirito critico e renderci pericolosamente
insensibili.
L’attesissima quarta stagione della serie britannica
Black Mirror ha diviso il pubblico tra nostalgia e rabbia.
A cura di Chiara Genco
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Esteri | 16 Pagine Magazine
C’è un futuro per l’unione europea?
A cura di Andrea Lorusso
U
n’ Europa sicura, prospera, sociale e protagonista sulla
scena mondiale. È questa l’Europa che i capi di Stato
europei hanno immaginato il 25 marzo scorso durante le
celebrazioni per i 60 anni dei trattati di Roma del ’57. «Se l’Unione
dovesse andare in frantumi, l’Europa tornerebbe al passato, a un
mosaico di nazioni autoreferenziali ed egoistiche, riportando alla
luce vecchie ferite e vecchie ostilità, recitando il terzo atto di un’an-
tica tragedia che si trasforma in farsa» ha scritto Ágnes Heller il 7
dicembre su Repubblica. Ma non stiamo forse già assistendo a una
lenta disgregazione dell’UE? Siamo certi che l’Europa di cui Altiero
Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni parlavano nel Manifesto
di Ventotene sia l’Europa come la vediamo oggi?
Un’Europa libera e unita, con una struttura federale che consen-
tisse ai singoli Stati di godere di una certa autonomia ma che
«dovrà porsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione
per esse di condizioni più umane di vita». Tra gli obiettivi dell’Unione
Europea spicca la volontà di «offrire libertà, sicurezza e giustizia, sen-
za frontiere interne». Un obiettivo molto ambizioso e lontano anni
luce dall’essenza dell’attuale Europa, un progetto quasi utopico.
A far sì che il sogno degli Stati Uniti d’Europa si trasformasse in
un sogno lontano sono stati i numerosi trattati fallimentari, quello
di Dublino su tutti, ma anche l’azione di alcuni paesi che hanno
anteposto i singoli interessi nazionali al destino dell’Unione.
È il caso dell’Austria che, con il suo precedente governo, ha tentato
di chiudere la frontiera sul Brennero per impedire il passaggio
ai migranti provenienti dall’Italia e che, con il nuovo governo di
estrema destra si sta rendendo protagonista di una vera e propria
prova di forza, proponendo la doppia cittadinanza italiana ed
austriaca ai cittadini sudtirolesi. Il caso austriaco ci coinvolge
maggiormente poiché siamo i diretti interessati e tuttavia pensare
che costituisca un unicum nel panorama comunitario è un errore
poiché, in realtà, le decisioni del governo di Vienna hanno portato
anche gli Stati dell’Est Europa a fare altrettanto, con Slovenia,
Macedonia, Serbia e Croazia che hanno innalzato muri per chiud-
ere le frontiere.
L’Europa, però, ormai ben più attenta agli interessi macro-eco-
nomici piuttosto che a quelli, concreti ed immediati, dei singoli
individui ha sottovalutato fortemente la situazione rendendola
sempre più grave fino a quando, qualche mese fa, costretta dall’ev-
idenza drammatica dello scenario che si era delineato, ha minac-
ciato sanzioni nei confronti della stessa Austria, dell’Ungheria e
della Polonia, colpevoli di «non aver accolto un solo migrante» e
della Repubblica Ceca «che non fornisce posti disponibili da quasi
un anno.» .
L’espansione a macchia d’olio delle forze nazionaliste in quasi
tutti gli Stati europei – ed in particolare nella sopra citata Austria,
in Italia, in Francia e in Germania – dovrebbe far riflettere circa la
reale situazione dell’Europa e fungere da campanello d’allarme.
Si dovrebbe prestare meno attenzione agli aspetti economici,
alle logiche finanziarie e dei trattati e bisognerebbe tornare a
concentrarsi con maggior attenzione su ciò che circonda i palazzi
di Strasburgo o Bruxelles, immergendosi nella quotidianità di chi
vive le periferie, facendosi carico dei problemi della gente comune,
vero fulcro d’Europa, così lontana dai luoghi del potere.
Ai lettori, dunque, l’ardua sentenza: c’è un futuro per l’Unione
Europea?
16 Pagine Magazine | Categoria
6
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Categorie | 16 Pagine Magazine
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16 Pagine Magazine | Musica
Luce di speranza:
Sfera Ebbasta
20 ottobre 2015. 50.000 views in ventiquattr’ore. È fuori “Ciny”,
singolo che apre definitivamente l’inarrestabile ascesa dell’ac-
clamato “Trap King”, parliamo di Sfera Ebbasta. Chiaro riferi-
mento a Cinisello Balsamo, comune d’origine di Gionata Boschetti,
oggi completamente lontano dallo spazio in cui si muove “Rock-
star”, ultimo lavoro, fresco d’uscita, del suddetto artista. D’ora in
poi, parlerò in prima persona, capirete più avanti il perché.
Ho ascoltato “Rockstar” a mezzanotte del 19 gennaio, era dai tempi
di “Hellvisback” che non attendevo l’uscita di un album con così
tanta ansia. Non paragono di certo i due lavori, musicalmente par-
lando, e probabilmente non sarà mai il mio album preferito, ma
penso che l’impatto di “Rockstar” sul panorama rap, anzi “Hip
Hop” italiano, sia devastante. Che lo vogliate o meno, l’esplo-
sione della trap e di tutti gli artisti che affermano di non sentirsi
“rapper”, appartengono ad una cultura Hip Hop in continua evoluz-
ione, che influenza e viene influenza dagli stessi.
È della “versione internazionale” del disco che vorrei parlare. Già il
creare una “versione internazionale” denota la volontà dell’ar-
tista di andare oltre i confini italiani. Sarà l’occasione giusta
per allargare finalmente gli orizzonti del “rap made in Italy”? Essa
contiene grossissime collaborazioni con molti “big” della scena
europea ed internazionale: dal tedesco Miami Yacine, al portorica-
no Lary Over, per poi finire negli States con Rich The Kid e signori e
signori…Quavo!
Ma chi è questo fantomatico Quavo? Componente di spicco e
“frontman” dei Migos, gruppo hip hop statunitense che ha distrut-
to tutte le classifiche internazionali del 2017,
finendo addirittura all’ottavo posto nella
Billboard 200 degli album più venduti negli
Stati Uniti.
Ma esattamente, che cosa vuol dire avere
un nome così di rilievo a livello internazio-
nale nell’album di un rapper italiano?
Molti di voi staranno sicuramento pensando
a “Forever Jung” brano composto da Capa-
rezza e DMC (noto membro dei Run DMC)
presente in “Prisoner 709”, ma ricordiamoci
che mediaticamente parlando, una collab-
orazione con DMC non è in grado di avere
un’eco pari ad una collaborazione con uno
dei rapper più forti ed ascoltati del
momento, come Quavo.
È la prima volta in assoluto che
accade una cosa del genere in Italia ed al di là di
come i due artisti siano arrivati a collaborare, questo
è il più bel regalo per questo inizio d’anno per tutti gli
appassionati del genere. Come il rap francese è già
sbarcato da qualche anno nel panorama internazionale,
penso che il 2018 possa essere l’anno in cui anche
l’Italia aprirà definitivamente le sue porte all’Europa
ed al mondo.
Un vento di competizione è già soffiato sulla scena rap
italiana e dall’occhio del ciclone ci iniziano a guardare
da tutto il mondo. Questo fardello di speranza è figlio di
un 2017 che ha generato un mercato musicale, attorno
all’Hip Hop, più florido che mai per il nostro paese e di
questo, non posso esserne che felice.
Sfera Ebbasta ci ha creduto e ha lanciato una sper-
anza nel panorama rap italiano, costantemente vittima
dell’ombra degli States. Quella luce di speranza passa dal “rap”
alle mani di un ragazzo che continua ogni giorno instancabilmente
a coltivare le sue attività, i suoi progetti, le sue passioni ed il suo fu-
turo. “Rockstar” è l’emblema della forza che ogni giorno troviamo
attraverso la speranza di porre le basi per poter vivere in un luogo
migliore. È per questo che parlo in prima persona.
“Io non voglio essere un prodotto del mio ambiente, voglio che il
mio ambiente sia un mio prodotto” Credeteci.
A cura di Francesco Tirelli
Pleas
don’t
stop
the
musi
9
Musica | 16 Pagine Magazine
ease
n’t
op
e
usic
Il nuovo singolo “Me staje appennenn’ amò”
già primo tra le tendenze di Youtube dopo
poche ore.
Una rivoluzione culturale è in atto sulla sce-
na +dell’indie/ hip-hop: si chiama Liberato.
L’autore di “Tu T’e Scurdat’ ‘E Me” e “Nove
Maggio” continua a stupire i suoi followers
(sempre più numerosi) con un nuovo pezzo,
dal ritmo leggermente più “ballabile” del soli-
to. Cominciamo dall’inizio. Liberato ha scon-
volto la scena musicale (e non solo) per un
motivo: non si conosce la sua identità. Alla
base del fascino e dell’alone di mistero che
circondano la figura del cantante napoletano
c’è il fatto che nessuno abbia la minima idea
di chi si celi dietro quel cappuccio,
con cui si mostra nelle (poche)
apparizioni pubbliche.
A Napoli dicono “Zitt’ chi sape ‘o juoco”, il che è già
una piccola rivoluzione identitaria per un popolo (come
quello napoletano) che, storicamente, ama mostrarsi,
parlare e far parlare tanto di sé.
Il tema centrale dei testi di Liberato è un amore lonta-
no, nostalgico e disincantato, una specie di “impero alla
fine della decadenza”. A questo si aggiunge l’amore
puro che solo un vero napoletano può provare per i
luoghi della sua città (scennimmo a Mergellin’, chiove
‘ngopp’ a Procida) e le sue espressioni (come staje
‘nmmane all’arte) che, accostate ad inglesismi popolari,
creano un effetto magico e intrigante.
Il ritmo è incalzante; una volta inchiodatosi in testa si
fa fatica a farlo uscire. Liberato è la versione moderna
e rivisitata della musica popolare napoletana che
rischiava di sparire se qualcuno non l’avesse salvata
dall’oblio e dalla mediocrità. Si potrebbe parlare di “new
neo melodico” e Liberato è la forza in grado di rinno-
vare in maniera profonda un genere antico creando un mix tra
passato ed evoluzione.
La grandezza di Liberato risiede anche nel progetto socio-visuale
che fa da sfondo alle sue note. Tutti i suoi video sono dei piccoli
capolavori. L’ultimo è un omaggio alla comunità LGBT integrata-
si, sorniona e mimetizzata, nel panorama festaiolo di una Napoli
molto “popolare”, una Napoli tutta stadio, cori, rioni e motorini.
In “Tu T’e Scurdat’ ‘E Me”, ad esempio, si viaggia per i meravigliosi
luoghi di un amore ostacolato dalla differenza e dalla incomunica-
bilità tra classi sociali; le movimentate periferie partenopee fanno
invece da sfondo per il video di “Nove maggio” mentre una Napoli
vibrante, frizzante e multiculturale incornicia la bellissima “Gaiola
Portafortuna”. A differenza di Liberato, colui che si cela dietro
questo progetto ha un nome ed un cognome: Francesco Lettieri,
giovane regista partenopeo, che cura anche i videoclip di artisti del
calibro di Calcutta, Emis Killa, Thegiornalisti, l’unico a conoscere e a
tenere ben nascosta la vera identità di Liberato. Lettieri si discos-
ta dalle immagini di degrado e disincanto a cui tante produzioni
(Gomorra su tutte) ci hanno abituato. Questi video sono colmi di
realtà, una realtà staccata dalla spasmodica e asettica ricerca di
sentimenti a tinte forti e finte, sono il prodotto genuino della ricer-
ca di una bellezza profonda, reale, tangibile e relativamente facile
da cogliere, anche alla prima visione.
A Napoli lo fermano per fare una foto con lui, non potendo farla
con Liberato: “Un paradosso che dà la misura del fenomeno”,
spiega Lettieri, che continua: “Collettivi, operazioni di marketing,
poeti, musicisti famosi... sono speculazioni. Potrei anche essere io,
o tu. Se qualcuno domani decide che vuole essere Liberato lo
può fare”. Queste parole di Lettieri suggeriscono che per sapere
davvero chi è Liberato occorre un cambio di prospettiva. Se sem-
bra impossibile trovare Liberato è perché finora, forse, abbiamo
sbagliato luogo in cui cercarlo: lui non si trova “al di fuori”, ma
“dentro”. Liberato è in ogni parola che ci fa emozionare, in ogni
nota che ci fa cantare e ballare, in ogni immagine che ci fa pensare.
Se tutti noi siamo Liberato, allora necessariamente Liberato
sei (anche) tu!
Mistero svelato:
liberato sei tuA cura di Giuseppe Tirelli
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16 Pagine Magazine | Società
L’altra faccia della medaglia:
la vetta non raggiunta
F
ateci caso: tra le pagine dei giornali, sul web ed in televisi-
one, non si fa che inneggiare alle vittorie, parlare di successi,
osannare campioni. E chi perde dov’è?
La sconfitta fa parte di quel luogo interiore che si preferisce non
esplorare perché sa di fallimento, dolore, rassegnazione, tristezza,
sacrificio non ricompensato.
Così, seppure capiti a tutti di perdere una battaglia, essere sconfitti in
una gara, lasciarsi sfuggire un’occasione, farsi superare in una gra-
duatoria, parlarne diventa difficile; nascondere l’errore è ben più
facile, perché il conformismo ci insegna che la sconfitta è umiliazione,
ciò che conta invece, è vincere. Non a torto Pasolini scrisse: “Pen-
so che sia necessario educare le nuove generazioni al valore della
sconfitta. Alla sua gestione. All’umanità che ne scaturisce. A costruire
un’identità capace di avvertire una comunanza di destino, dove si può
fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati.
A non divenire uno sgomitatore sociale, a non passare sul corpo degli
altri per arrivare primo”.
Dal concetto di rivalità continua e voglia esasperata di emergere,
derivano poi la paura di perdere, l’ansia da prestazione, il non
sentirsi pronti, la costante e opprimente insicurezza; nemici indi-
scussi del genere umano. Eppure, in pochi ci pensano, ma è proprio
la sconfitta quella che fa crescere. L’antitesi di hegeliana memoria era
quella che garantiva la progressione, il vecchio proverbio “sbagliando
si impara”, l’apprendimento attraverso “prove ed errori” inneggiato
dalla psicologia comportamentale… Insomma, il nostro passato ci
insegna, che non c’è crescita senza sconfitta. Ma come superare il
dolore e lo sconforto che da essa scaturiscono?
Rispondere è difficile. Abituati da sempre a distinguere vittoria
e sconfitta tramite luoghi comuni, a riconoscere un vincitore e
un vinto da immagini allegoriche ricorrenti di eroi che indossano
corone di alloro, e altri, in disparte e a testa bassa decisamente “un
po’ meno eroi”. Dovremmo provare invece, a guardare questi concetti
come “due facce di una stessa medaglia”: una è la faccia del lavoro
duro, delle innumerevoli cadute, delle delusioni; l’altra è quella della
gioia, della soddisfazione, frutto maturo dei precedenti.
In Giappone esiste il concetto del “Kintsugi”, ovvero “delle cicatrici
d’oro”; secondo i giapponesi, infatti, poiché la vita non è fatta solo di
integrità bensì anche di fragilità e rottura, e poiché un vaso rotto
non può più tornare com’era prima, perché non ripararlo e render-
lo più bello con dell’oro? La consapevolezza dell’errore, l’ammis-
sione dei propri limiti è il mezzo più importante per andare oltre la
sconfitta.
Sarebbe giusto parlare un po’ più spesso della nostra fragilità.
Dopotutto, chiunque scriva, dovrebbe avere il piacere di raccontare
storie: chi l’ha detto che chi perde non abbia una bella storia?
A cura di Silvia Miglionico
Categorie | 16 Pagine Magazine
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16 Pagine Magazine | Società
Prospetticidio:
relazioni senza
prospettiva
S
entirsi colpevoli di tutto, rinunciare alle proprie
passioni. Avere l’impressione di essere controllati,
cambiare il proprio modo di pensare per adeguarsi
all’idea del partner.
“Si chiama ‘prospetticidio’ ed è probabilmente la più subdola delle
violenze psicologiche”- afferma Lisa Aronson Fontes, ricercatrice
dell’Università del Massachusetts. Dall’isolamento alla manipola-
zione, dall’abuso verbale alla violenza sessuale, il controllo
coercitivo, esercitato dal partner più forte della coppia, si muove
in un raggio d’azione così ampio da inglobare tutti gli spazi vitali
della vita dell’altro.
Analizzando i due soggetti protagonisti di questa relazione, si può
notare una costante caratteriale: c’è sempre un empatico e un
narcisista. Generalmente il narcisista, durante il corso della sua
vita, ha subito un trauma che lo porta alla costante e dispe-
rata ricerca di approvazione. Ed ecco che interviene l’empatico, il
crocerossino. Un empatico avrà come unica missione quella di ri-
solvere i problemi dell’altro, sperimentandone e condividendone i
sentimenti, le emozioni e i pensieri, quasi fossero suoi. Quello che
l’empatico tuttavia non sa è che il narcisista occuperà la sua vita in
maniera esclusiva e richiederà ogni tipo di attenzione e sforzo.
Con un fare quasi premuroso, il narcisista tenderà a volersi
sovrapporre all’empatico e a consigliarlo circa i tempi e le moda-
lità corrette per le sue frequentazioni. Parafrasando una celebre
immagine, ogni giorno un empatico si sveglia e sa che dovrà cor-
rere più veloce di un narcisista, se vorrà salvare la sua relazione.
Una volta insinuato il tarlo dell’insicurezza, la fragile zattera
della relazione ondeggia sui due scogli su cui tanti rapporti
si infrangono: accettazione incondizionata e prevaricazione
arrogante. Una trappola da cui è difficile scappare, perché nella
maggior parte dei casi il tentativo di ridurre ai minimi termini
l’altro, si alterna con periodi di gentilezza e dimostrazioni d’amore.
Ciò provoca un crescente bisogno di rendere felice il narcisista,
arrivando a temere di deluderlo.
Emotivamente stremato, perso e indebolito, l’empatico faticherà a
capire cosa è successo alla persona una volta amorevole, attenta e
carismatica dalla quale era attratto. E così, invece di guardare ver-
so l’esterno e di comprendere che le cause del proprio malessere
provengono da fuori, ribalterà la prospettiva verso l’interno per in-
colpare se stesso. Quando anche l’empatico comprenderà d’esser
degno d’amore, il narcisista probabilmente andrà alla ricerca della
prossima vittima.
Prospetticidio! Uccisione della prospettiva dell’altro. La relazione
odierna è simbolo di grande ambivalenza: deve essere leggera e
flessibile per poter dare la possibilità all’altro di potersi sottrarre
dall’impegno in qualsiasi momento. Quello che il sociologo polacco
Baumann chiamerebbe “liquidità di sentimenti”.
Prendere senza dare, chiedere senza offrire, opprimere senza
rasserenare. Oggi l’attenzione tende a concentrarsi sulle sod-
disfazioni che le relazioni si spera arrechino, proprio perché si
scopre che il prezzo da pagare è la perdita di libertà. In una cultura
consumistica come la nostra, che predilige prodotti pronti per
l’uso, risultati senza troppa fatica e garanzie del tipo “soddisfatto
o rimborsato”, quella di imparare ad amare è una promessa in-
gannevole, ma che si spera ardentemente possa essere vera.
La relazione intesa come accordo d’affari non è certo una cura per
l’insonnia: in una relazione puoi sentirti insicuro, tanto quanto lo
saresti senza di essa, o anche peggio. Cambiano solo i nomi che
dai alla tua ansia.
E noi, come protagonisti di un racconto di Calvino, non facciamo
altro che accogliere gli “spazzaturai” come angeli, e con un silenzio
quasi devoto, li osserviamo rimuovere i resti dell’esistenza di ieri.
Tanto che ci si chiede se la vera passione di noi abitanti di Leonia,
sia davvero, come dicono, il godere sempre di “cose nuove e diverse,
o non piuttosto l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricor-
rente impurità” (Le città invisibili – Calvino). Con quale risultato? Che
i sogni li abbiamo affidati alle stelle e ce li custodiscono loro. Noi
ci siam tenuti stretti il nostro cinismo e la nostra volubilità. Siamo
così: con la testa su per aria e l’autostima giù in cantina.
Come si può sfuggire a tutto questo?
Presta molta attenzione, gentile mio lettore. Mettiti comodo, che
tu sia narcisista o empatico non importa, trova il punto verso il
quale la tua prospettiva e quella del tuo partner in crime sembra-
no convergere. Bene, quello sarà il vostro “punto di fuga”. Non
dalla realtà o dai problemi, bensì dalla possibilità di inciampare
in una relazione priva di prospettive. Cerca i giusti compromessi,
A cura di Dora Farina
13
Società | 16 Pagine Magazine
cambia il modo di guardare chi ti sta intorno. Le emozioni
passano, i sentimenti andrebbero coltivati.
E che resta da fare se non sederci al tavolo del più famoso
ristorante di Parigi, al fianco del critico Anton Egò e ordi-
nare, come lui, della banale ratatouille, anche per recupera-
re una “chiara, fresca e ben condita prospettiva”!
14
16 Pagine Magazine | Arte
È bello ciò che è bello o
è bello ciò che piace?
È
noto a tutti che, dalla comparsa dell’uomo sulla Terra, esiste
l’arte. Se inizialmente essa aveva uno scopo religioso o
puramente decorativo, in epoca greca le attività artistiche
iniziano ad acquisire una loro definizione staccandosi dalle comuni
attività della vita sociale. L’artista greco è stato il primo a matura-
re la volontà di produrre l’arte per l’arte. Non a caso il concetto
più antico di bello risale ai Pitagorici, secondo i quali esso consiste
nella proporzione e nell’armonia. Tale idea, che per centinaia e
centinaia di anni non verrà mai messa in discussione, entrerà in
crisi sia a causa dell’Empirismo (e in particolare dello Scetticismo)
sia a causa del Romanticismo. Infatti, ci si chiese se quando si indi-
cava un oggetto come bello, gli si riconoscesse una proprietà che
possedeva o meno. Gradualmente, fino ai giorni nostri, si è giunti
ad abbandonare la ricerca di canoni che mirino a stabilire
cosa sia bello oppure no. Tuttavia, dinanzi ad innumerevoli opere
d’arte nessuno oserebbe mettere in discussione il valore artistico
che esse rappresentano. Eppure, dal momento che teoricamente il
bello in sé non esiste ed è soltanto questione di gusti, si potrebbe
affermare che tutto ciò che viene studiato e universalmente ap-
prezzato dalla critica in realtà non abbia nessuna valenza artistica.
È paradossale, ma astrattamente è così.
Però, se sosteniamo che in fondo il bello esiste, occorrereb-
be imitare quelli che vengono definiti universalmente “canoni
estetici”? Assolutamente no. Nonostante tali canoni nascano da
leggi matematiche, la loro validità è solo apparente perché non è
corretto applicare tali leggi in contesti diversi. Ad esempio, se si
iscrivesse un abominio nella sezione aurea, esso continuerebbe
ad essere un abomino e non acquisirebbe perfezione formale solo
perché rappresentato in essa. Inoltre, imitare all’infinito un de-
terminato canone estetico porterebbe ad una totale mancanza di
originalità nelle opere artistiche. In fondo l’arte si è evoluta proprio
A cura di Nicolò Mascolo
15
Arte | 16 Pagine Magazine
quando una corrente artistica si è distinta da un’altra.
Da questa contraddizione di fondo emerge un dato importante:
l’impossibilità di determinare con certezza se la bellezza
esiste ed è rappresentabile oppure se tutto è potenzialmente
apprezzabile ma criticabile.
Qual è, a questo punto, l’approccio corretto all’arte?
In realtà esistono due vie: la prima è quella percorsa da Kant
secondo il quale non è possibile definire se esista il Bello in sé per,
poiché tale attributo compete solo a Dio, ma è opportuno volere
che il Bello esista, cercando di ricondurlo nella sua piena essenza,
ossia un qualcosa di inesprimibile mediante concetti, libero da
ogni finalità utile e morale; la seconda è quella seguita da
Schelling secondo il quale l’arte non dovrebbe essere altro che
l’unione dell’ideale con il reale, quindi, essa ha la possibilità di
differenziarsi ed evolversi continuamente, avendo insita in sé il
concetto di Bello Assoluto.
Sebbene entrambe le opinioni siano affascinanti e suggestive,
l’idealista Schelling nella sua visione dell’arte fa sì che ogni tipo
di corrente artistica goda dello stesso rispetto. La citazione qui ri-
portata del filosofo tedesco ci aiuta meglio a comprendere questo
concetto: “Nulla, assolutamente nulla è in sé imperfetto, ma
tutto ciò che esiste appartiene, in quanto esiste, all’essere
della sostanza infinita... Questa è la santità di tutte le cose”.
Friedrich Schelling
è stato un filosofo tedesco, uno dei tre
grandi esponenti dell’idealismo tedesco,
insieme a Fichte ed Hegel.
16
16 Pagine Magazine | Scienza
Quando si cerca di spiegare cosa sia la
prospettiva ad un bambino, un esempio
efficace potrebbe essere l’immagine di un
paesaggio collinare, in cui i rilievi diventano
sempre più piccoli man mano che si avvici-
nano all’orizzonte, fino ad unirsi in un solo
punto infinitamente lontano. Un concetto
facile da immaginare, ma è non altrettanto
semplice lo studio che conduce ad una
esposizione completa di esso, usando un
corretto formalismo matematico-geomet-
rico; formalismo che, tuttavia, conferisce ai
dipinti di Raffaello e Piero Della Francesca
un realismo e una bellezza unici.
La prospettiva, dal latino perspicio, che
significa “osservare”, è un insieme di
procedimenti geometrici che permettono
di rappresentare la realtà tridimensionale
su un piano, quale una tela. Perché tanta
matematica nell’arte? Sicuramente, le
tecniche prospettiche nascono dall’esi-
genza di rendere verosimile un dipinto e
di organizzare lo spazio sulla tela: cosa, se
non la geometria, col sostegno di qualche
calcolo, può soddisfare questo bisogno?
Dando uno sguardo alla storia, scopri-
amo che i Greci, tra i quali Democrito,
furono i primi ad intraprendere la ricerca
di tecniche per simulare l’effetto della
profondità spaziale nel piano, dei risultati
delle quali, però, non abbiamo testimo-
nianze, se non in qualche decorazione
parietale romana. Dobbiamo attendere
il Quattrocento, con il lavoro mirabile del
fiorentino Brunelleschi, al quale dobbiamo
la trattazione sistematica della prospettiva
secondo precise regole. Appassionato di
matematica e ottica, giunse a delle scop-
erte sensazionali che, secondo gli studiosi,
hanno dato vita a quella che oggi viene
chiamata prospettiva lineare.
Essenzialmente, essa si compone di quat-
tro elementi: il punto di vista, ossia il pun-
to dal quale l’osservatore vede il soggetto
(ad esempio, un paesaggio), il piano di
proiezione, ossia il piano verticale virtuale
attraverso cui l’osservatore guarda il
soggetto, la linea dell’orizzonte, linea
orizzontale che attraversa il piano di
proiezione alla stessa altezza del punto
di vista, e i punti di fuga, posti sulla
linea dell’orizzonte. I punti di fuga sono
tre, cioè quello centrale e due laterali
equidistanti dal primo. In breve, per realiz-
zare una rappresentazione di un paesaggio
quanto più verosimile, si devono tracciare
delle rette che passano per punti di fuga e,
infine, disegnare i vari elementi che si os-
servano facendo sì che entrino in tali rette.
È chiaro che, avvicinandoci ai punti di fuga,
gli elementi diventano sempre più piccoli.
Spiegata in questo modo più rigoroso, la
prospettiva risulta un po’ più complicata da
comprendere rispetto alla spiegazione che
si dà ad un bambino.
Tutto questo discorso è finalizzato non a
rendere tediosa la lettura, bensì a rimar-
care l’importanza della matematica in un
campo apparentemente esente dall’ap-
plicazione delle scienze numeriche. Un
bravo artista può definirsi tale se possiede
conoscenze ad ampio spettro, sia tecniche
che teoriche. Picasso non avrebbe mai
smontato il concetto di prospettiva senza
conoscerla a pieno!
Prospettiva: il rigore
matematico nell’arte
A cura di Domenico Cornacchia
Evitare di parlarne non modifica la realtà
Via Umbria 17/A - Altamura (BA)
Tel. 080 310 56 52 - www.cogipaservizi.com
Periodico di cultura,
informazione e attualità,
supplemento de La Nuova Murgia.
Anno III, n.10, Febbraio/Marzo 2018,
Registrato presso il tribunale di Bari
il 09/11/2000 n 1493
Edito dall’Associazione Culturale
La Nuova Murgia
Piazza Zanardelli, 22 - 70022 Altamura (BA)
Tel. 329 339 42 34
e-mail: info@16pagine.it
Co-direttori:
Antonio Molinari
Domenico Stea
Claudio Nuzzi
Daniela Sforza
Caporedattore:
Marco Nuzzi
16Pagine online:
Francesco Tirelli
Paolo Micunco
Presidente de La Nuova Murgia:
Michele Cannito
Direttore Responsabile:
Giovanni Brunelli
Pubblicità:
Domenico Stea - 344 1139614
Redazione Numero :
Marco Nuzzi
Biagio Denora
Chiara Genco
Andrea Lorusso
Francesco Tirelli
Giuseppe Tirelli
Silvia Miglionico
Dora Farina
Nicolò Mascolo
Domenico Cornacchia
Impaginazione:
Domenica Ferrulli - 331 709 8690
Progetto Grafico Copertina:
Domenica Ferrulli
Paolo Micunco
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  • 1.
  • 2.
  • 3. 1 La verità (non) sta nel mezzo Il futuro è la notte perenne della vita e sta al singolo approcciarvisi come meglio crede. Se questo è vero è altrettanto certo che la società, nel suo insieme, può offrire ad ogni uomo gli strumenti per affrontare il futuro, facendo in modo che lo si fronteggi con serenità o con angoscia. Schemi, strumenti, proposte e opportunità di per sé vuote, in attesa di essere colmate di significato. Il punto è questo: l’approccio all’ignoto. C’è chi lo guarda con fiducia, chi con rassegnazione, chi ha tutto da chiedere e chi ha già dato tutto, c’è chi vive sul filo di un ciclico tramonto e chi vuole illuminare il proprio futuro con la luce di un presente costellato di punti fermi. E poi ci sono i giovani, tra color che son sospesi per definizione e anche un po’ per imposizione. Il futuro è quindi un problema di prospettive, un non luogo straripante di scelte astratte; in altre parole è il ring perfetto per i contrasti generazionali. E qui si entra, è giusto permetterlo per far capire come in questo discorso non ci sia nulla di scientifico, nel campo ostico e paludoso delle generalizzazioni. È tuttavia più che ragionevole sostenere che un uomo o una donna con una età compresa tra i 30 ed i 60 anni sia tendenzialmente sfiducioso e sfiduciato rispetto al futuro. Le cause di questo fenomeno sono le più disparate. I semplicisti penseranno alla crisi che ha soffocato i sogni dei giovani d’allora e occluso le comode certezze dei padri di famiglia, che si son trovati da un giorno all’altro senza lavoro, molti incolperanno la politica, altri ancora grideranno al complotto. E se il problema venisse invece dall’interno? E se tutto nascesse da un benessere poco guadagnato e fin troppo interiorizzato? E se tutti i mali appena elencati fossero il frutto e non la causa dell’inerzia delle generazioni di mezzo? Il linciaggio è dietro l’angolo e ovviamente ci sono eccezioni, storie e circostanze, ritagli di vita vissuta che esulano da un simile ragionamento ma che non ne inficiano la verità di fondo. Perché una verità di fondo, uno zoccolo duro suppor- tato dai fatti esiste. Negli occhi dei più giovani c’è un fuoco nuovo, eredita- to, con un enorme salto generazionale, dai più anziani, da coloro che hanno lottato per una comodità che ha ingolfato i propri figli ma che ha fatto nascere il seme di una nuova rinascita nelle menti dei propri nipoti. Un “millennial” non ha paura dell’ignoto perché ama viaggiare, è nato con l’idea che la sua casa sia il mondo, un ragazzino ama scoprire e mettersi in gioco perché non è schiavo della ricerca del posto fisso, un ventenne vive la rivoluzione tecnologica come presupposto per la nascita di una società nuova e non come una dege- nerazione di un mondo preesistente ed immutabile. Tutto questo accade a prescindere dal contorno perché l’ignoto resta, gli strumenti diminuiscono sempre più e le difficoltà persistono. È la prospettiva che sta cambiando, muovendosi con armonia e fiducia verso la ricerca di una serenità da costruire e non da ereditare. La verità sta dunque nell’eterna tensione positiva verso il futuro, nel continuo ed incessante movimento, nella ricerca costante di un modo per migliorare le pro- prie condizioni e per aspirare a raggiungere la fine di un percorso ideale, di un estremo. Ecco perché la verità non sta nel mezzo. Il concetto di futuro racchiude in sé, nella propria essenza, una componente di incertezza che sfugge anche ai più incalliti pianificatori, un’ombra lunga di ignoto che ha differenti angoli di visuale. A cura di Marco Nuzzi
  • 4. 16 Pagine Magazine | Mondo 2 Una prospettiva oltre oceano U na prospettiva oltre oceano: un titolo che rimanda ad un tema ambiguo e dibattuto ma che, allo stesso tempo, si allaccia indissolubilmente ad una storia, o meglio a milioni di storie che non sono mai state raccontate, disperse in mare e custodite nei corpi di chi, quello stesso mare, ha avuto il coraggio di affrontarlo, scommettendo con esso, una scommessa impari ma che non è possibile perdere perché la posta in palio è la più alta. Riuscire, un giorno, a raccontare quelle storie, rivivendole come un ricordo di una esperienza terri- bile dal quale ognuno di quei corpi era riuscito a sfuggire; il ricordo di una salvezza insperata. Molto spesso l’approccio al problema dell’immigrazione è ridotto alla sterile dicotomia sull’ “essere contrari o meno” al proliferare di tale fenomeno. Una metodologia di analisi che, oltre ad essere limitativa, è errata. Prima di tutto perché il fenomeno dell’immigrazione non si può arrestare, trattandosi di un fenomeno ciclico che bisogna affrontare sapendo che non si può vincere perché è connaturato alla natura dell’uomo. Si può regolamentare, arginare e gestire, ma non si può assolutamente bloccare. Da sempre, infatti, l’uomo ha avvertito la necessità di abbandonare la propria terra in cerca di un futuro migliore a causa di povertà, carestie e guerre. Mai tuttavia in passato l’immigrazione aveva raggiunto una tale portata nè aveva rappresentato un problema di così difficile soluzione per i paesi occidentali. È opportuno parlare di “problema” non perché sia necessario considerare l’immigrazione un fatto negativo, bensì perché tale fenomeno ha assunto forme e dimensioni che hanno reso difficile, ove non totalmente impossibile, la sua gestione. Il punto, però, è un altro, perché il problema non risiede, come detto, nel fenomeno in sé, quanto nell’approccio allo stesso. Quanti, infatti, conoscono veramente le origini, le cause e le vicissitudini che spingono migliaia di persone ogni giorno a lasciare il proprio paese i propri affetti, rischiando la vita, per raggiungere un futuro migliore? Non può esserci una risposta più adeguata rispetto a quella fornita da Papa Giovanni Paolo II il quale aveva affermato che il primo e il più importante diritto di ogni uomo è quello di vivere in pace e in prosperità nella propria patria. Un diritto che le potenze occidentali hanno negato durante l’epoca delle grandi colonizzazioni e che oggi continuano a negare attraverso nuovi tipi di dominio. L’origine sta dunque nella ricerca incessante di un equilibrio che potrebbe essere raggiunto da ciascuno nel proprio paese d’origine ma che anni di politiche imperialiste hanno minato alle fonda- menta. Fatta questa premessa, sono numerose le domande che necessitano di una risposta. Le migrazioni sono una conseguenza della povertà? No. È vero che le migrazioni hanno spesso a che fare con le disuguaglianze di opportunità, ma i migranti non provengono dai paesi più poveri del pianeta, se non in minima parte. In Italia per esempio, i primi paesi sono: Romania, Albania, Marocco, Cina e Ucraina. Non sono tuttavia i più poveri ad avere la possibilità di emigrare, poiché occorrono risorse econo- miche che le classi sociali più povere non posseggono. C’è dunque chi non ha neanche il diritto di sperare. A cura di Biagio Denora
  • 5. 3 Mondo | 16 Pagine Magazine È vero che i rifugiati ci stanno invadendo? No. L’84% dei rifugiati (65,6 milioni nel 2016) è accolto nei paesi del c.d. Terzo Mondo mentre l’Unione Europea accoglie solamente il 10% di essi. I paesi più coinvolti nell’accoglienza sono: Turchia (2,9 milioni), Pakistan (1,4 milioni), Libano (1 milione), seguono Iran, Uganda, Etiopia. (Dati tratti dal rapporto annuale UNHCR, 2016) Gli attuali flussi verso l’Europa, globalmente modesti e selettivi, han- no a che fare con la crisi dei sistemi di accoglienza nei paesi di primo asilo e con l’insufficienza dei finanziamenti delle agenzie internazionali. L’immigrazione rappresenta un costo elevato per il Sistema italiano? No. Le spese che lo Stato italiano sostiene per la gestione del fenom- eno dell’immigrazione sono pari allo 0.2 % del PIL, circa 3 miliardi di euro. D’altro canto gli immigrati ogni anno versano nelle casse dello Stato oltre 8 miliardi di euro contribuendo in maniera sensibile, ad esem- pio, a finanziare il sistema pensionistico. È possibile dunque affermare che gli immigrati costituiscano una risorsa del nostro paese. Allora il problema dov’è? Anche in questo caso risiede nell’approccio, spesso poco informato, deviato e fazioso del cittadino medio e, in molti casi, in una ignoran- za di fondo. Manca una visione che sia politicamente intelligente, culturalmente aperta, socialmente prudente ma innanzitutto umana. Sì umana, perché non va dimenticato che si parla sempre di esseri umani, uomini e donne in balia di un destino incerto. Chiudere le frontiere significherebbe divenire insensibili al grido di dolore che si leva al di là del mare. Allo stesso modo tuttavia, abbandonarsi ad una sostanziale anarchia gestionale dei flussi rappresenterebbe una soluzione soltanto appa- rente al problema, che andrebbe invece a creare fratture sociali, eco- nomiche ed umane insanabili. In una situazione di crisi, di miseria e competizione non può nascere un rapporto sano tra le varie culture. Occorre dunque condividere le risorse, le esperienze, le aspirazioni, i progetti, le culture, favorendo così la nascita di una società globale e non semplicemente globalizzata, basata sul benessere distribuito, sull’equilibrio dell’uomo con l’ambiente, sulla realizzazione dell’indi- viduo come elemento fondante del bene collettivo. Fino al giorno in cui questi obiettivi non saranno raggiunti e fino a che nessun uomo sarà più costretto a divenire un “migrante” non sarà in alcun modo possibile voltare le spalle a chi è costretto ad abban- donare la propria terra. Soltanto quando questo accadrà, potremo davvero definirci umani.
  • 6. 16 Pagine Magazine | Cinema 4 Black Mirror: quando la realtà supera la finzione C ’è chi accusa Netflix di aver snaturato la serie, chi la definisce troppo ‘leggera’ rispetto alle stagioni precedenti e chi, nonostante tutto, l’apprezza. Definire la serie di Charlie Brooker una delle migliori degli ultimi anni, comunque, non è affatto azzardato, data l’estrema lucidità con la quale affronta temi cupi, violenti. Ogni puntata, autoconclusiva, approfondisce il torbi- do rapporto tra uomo e tecnologia, il cui esponenziale sviluppo sta invadendo qualsiasi ambito della nostra vita. Il nome della serie si riferisce sia agli oscuri schermi dei nostri device quotidiani, sia all’azione della tecnologia di smascherare e ‘riflettere’ le nefandez- ze dell’animo umano. Brooker, perciò, non commette il comune errore di demonizzare il mezzo, bensì attribuisce la colpa di qual- siasi uso nocivo della tecnologia all’uomo e ai suoi usuali vizi. Le puntate son ambientate sia in un futuro prossimo sia nel presente e son proprio quest’ultime ad avere un effetto disturbante sullo spettatore, quasi come se il regista volesse dirgli: “ehi, è questa la realtà che stai già vivendo, ma non ne sei consapevole!” A tal proposito, “Nosedive” è forse la puntata più verosimile e terrifican- te dell’intera serie: Lacie (Bryce Dallas Howard) vive in un America in cui qualsiasi interazione umana è valutata su un app gestita da altri esseri umani. Attraverso degli impianti alle retine ognuno può vedere sia la valutazione dell’altro sia i suoi interessi, quindi ad ogni volto corrisponde un voto che altri hanno precedentemente assegnato. Troviamo quindi un ambiente color pastello (in cui persino i biscotti sorridono) dove la gentilezza diventa un biglietto da visita per raggiungere il miglior punteggio possibile, rasentando l’aggressività. Più alto è il punteggio, più si ha accesso a dei benefit materiali e luoghi elitari, creando quindi una diversificazione so- ciale. L’episodio, tramite la satira, descrive l’ansia provocata dall’os- sessione per la quantificazione, la classificazione e la valutazione alle quali tutti siamo sottoposti. L’utilizzo di applicazioni come Trip Advisor, Peeple o vari social network ci sta lentamente rendendo schiavi dei pareri altrui, che con prepotenza influenzano i nostri. Pensateci bene: quante volte vi è capitato di skippare un video youtube solo perchè privo di molte visualizzazioni? O quante volte vi siete detti che forse avreste dovuto considerare un qualsiasi profilo instagram solo perchè dotato di molti followers? Pian piano il giudizio e le votazioni implicite altrui, tramite un like, un follow, una stellina o un commento, stanno sostituendo i nostri gusti e le nostre scelte. La sorridente protagonista della puntata viene inva- sa di punteggi negativi quando interrompe il circolo vizioso della gentilezza finta, e viene trattata come un outsider, una minaccia. Il rischio di guardarci attraverso gli occhi degli altri è quindi sempre più vicino, la ricerca ossessiva di un’approvazione tramite social può annebbiare il nostro spirito critico e renderci pericolosamente insensibili. L’attesissima quarta stagione della serie britannica Black Mirror ha diviso il pubblico tra nostalgia e rabbia. A cura di Chiara Genco
  • 7. 5 Esteri | 16 Pagine Magazine C’è un futuro per l’unione europea? A cura di Andrea Lorusso U n’ Europa sicura, prospera, sociale e protagonista sulla scena mondiale. È questa l’Europa che i capi di Stato europei hanno immaginato il 25 marzo scorso durante le celebrazioni per i 60 anni dei trattati di Roma del ’57. «Se l’Unione dovesse andare in frantumi, l’Europa tornerebbe al passato, a un mosaico di nazioni autoreferenziali ed egoistiche, riportando alla luce vecchie ferite e vecchie ostilità, recitando il terzo atto di un’an- tica tragedia che si trasforma in farsa» ha scritto Ágnes Heller il 7 dicembre su Repubblica. Ma non stiamo forse già assistendo a una lenta disgregazione dell’UE? Siamo certi che l’Europa di cui Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni parlavano nel Manifesto di Ventotene sia l’Europa come la vediamo oggi? Un’Europa libera e unita, con una struttura federale che consen- tisse ai singoli Stati di godere di una certa autonomia ma che «dovrà porsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita». Tra gli obiettivi dell’Unione Europea spicca la volontà di «offrire libertà, sicurezza e giustizia, sen- za frontiere interne». Un obiettivo molto ambizioso e lontano anni luce dall’essenza dell’attuale Europa, un progetto quasi utopico. A far sì che il sogno degli Stati Uniti d’Europa si trasformasse in un sogno lontano sono stati i numerosi trattati fallimentari, quello di Dublino su tutti, ma anche l’azione di alcuni paesi che hanno anteposto i singoli interessi nazionali al destino dell’Unione. È il caso dell’Austria che, con il suo precedente governo, ha tentato di chiudere la frontiera sul Brennero per impedire il passaggio ai migranti provenienti dall’Italia e che, con il nuovo governo di estrema destra si sta rendendo protagonista di una vera e propria prova di forza, proponendo la doppia cittadinanza italiana ed austriaca ai cittadini sudtirolesi. Il caso austriaco ci coinvolge maggiormente poiché siamo i diretti interessati e tuttavia pensare che costituisca un unicum nel panorama comunitario è un errore poiché, in realtà, le decisioni del governo di Vienna hanno portato anche gli Stati dell’Est Europa a fare altrettanto, con Slovenia, Macedonia, Serbia e Croazia che hanno innalzato muri per chiud- ere le frontiere. L’Europa, però, ormai ben più attenta agli interessi macro-eco- nomici piuttosto che a quelli, concreti ed immediati, dei singoli individui ha sottovalutato fortemente la situazione rendendola sempre più grave fino a quando, qualche mese fa, costretta dall’ev- idenza drammatica dello scenario che si era delineato, ha minac- ciato sanzioni nei confronti della stessa Austria, dell’Ungheria e della Polonia, colpevoli di «non aver accolto un solo migrante» e della Repubblica Ceca «che non fornisce posti disponibili da quasi un anno.» . L’espansione a macchia d’olio delle forze nazionaliste in quasi tutti gli Stati europei – ed in particolare nella sopra citata Austria, in Italia, in Francia e in Germania – dovrebbe far riflettere circa la reale situazione dell’Europa e fungere da campanello d’allarme. Si dovrebbe prestare meno attenzione agli aspetti economici, alle logiche finanziarie e dei trattati e bisognerebbe tornare a concentrarsi con maggior attenzione su ciò che circonda i palazzi di Strasburgo o Bruxelles, immergendosi nella quotidianità di chi vive le periferie, facendosi carico dei problemi della gente comune, vero fulcro d’Europa, così lontana dai luoghi del potere. Ai lettori, dunque, l’ardua sentenza: c’è un futuro per l’Unione Europea?
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  • 10. 8 16 Pagine Magazine | Musica Luce di speranza: Sfera Ebbasta 20 ottobre 2015. 50.000 views in ventiquattr’ore. È fuori “Ciny”, singolo che apre definitivamente l’inarrestabile ascesa dell’ac- clamato “Trap King”, parliamo di Sfera Ebbasta. Chiaro riferi- mento a Cinisello Balsamo, comune d’origine di Gionata Boschetti, oggi completamente lontano dallo spazio in cui si muove “Rock- star”, ultimo lavoro, fresco d’uscita, del suddetto artista. D’ora in poi, parlerò in prima persona, capirete più avanti il perché. Ho ascoltato “Rockstar” a mezzanotte del 19 gennaio, era dai tempi di “Hellvisback” che non attendevo l’uscita di un album con così tanta ansia. Non paragono di certo i due lavori, musicalmente par- lando, e probabilmente non sarà mai il mio album preferito, ma penso che l’impatto di “Rockstar” sul panorama rap, anzi “Hip Hop” italiano, sia devastante. Che lo vogliate o meno, l’esplo- sione della trap e di tutti gli artisti che affermano di non sentirsi “rapper”, appartengono ad una cultura Hip Hop in continua evoluz- ione, che influenza e viene influenza dagli stessi. È della “versione internazionale” del disco che vorrei parlare. Già il creare una “versione internazionale” denota la volontà dell’ar- tista di andare oltre i confini italiani. Sarà l’occasione giusta per allargare finalmente gli orizzonti del “rap made in Italy”? Essa contiene grossissime collaborazioni con molti “big” della scena europea ed internazionale: dal tedesco Miami Yacine, al portorica- no Lary Over, per poi finire negli States con Rich The Kid e signori e signori…Quavo! Ma chi è questo fantomatico Quavo? Componente di spicco e “frontman” dei Migos, gruppo hip hop statunitense che ha distrut- to tutte le classifiche internazionali del 2017, finendo addirittura all’ottavo posto nella Billboard 200 degli album più venduti negli Stati Uniti. Ma esattamente, che cosa vuol dire avere un nome così di rilievo a livello internazio- nale nell’album di un rapper italiano? Molti di voi staranno sicuramento pensando a “Forever Jung” brano composto da Capa- rezza e DMC (noto membro dei Run DMC) presente in “Prisoner 709”, ma ricordiamoci che mediaticamente parlando, una collab- orazione con DMC non è in grado di avere un’eco pari ad una collaborazione con uno dei rapper più forti ed ascoltati del momento, come Quavo. È la prima volta in assoluto che accade una cosa del genere in Italia ed al di là di come i due artisti siano arrivati a collaborare, questo è il più bel regalo per questo inizio d’anno per tutti gli appassionati del genere. Come il rap francese è già sbarcato da qualche anno nel panorama internazionale, penso che il 2018 possa essere l’anno in cui anche l’Italia aprirà definitivamente le sue porte all’Europa ed al mondo. Un vento di competizione è già soffiato sulla scena rap italiana e dall’occhio del ciclone ci iniziano a guardare da tutto il mondo. Questo fardello di speranza è figlio di un 2017 che ha generato un mercato musicale, attorno all’Hip Hop, più florido che mai per il nostro paese e di questo, non posso esserne che felice. Sfera Ebbasta ci ha creduto e ha lanciato una sper- anza nel panorama rap italiano, costantemente vittima dell’ombra degli States. Quella luce di speranza passa dal “rap” alle mani di un ragazzo che continua ogni giorno instancabilmente a coltivare le sue attività, i suoi progetti, le sue passioni ed il suo fu- turo. “Rockstar” è l’emblema della forza che ogni giorno troviamo attraverso la speranza di porre le basi per poter vivere in un luogo migliore. È per questo che parlo in prima persona. “Io non voglio essere un prodotto del mio ambiente, voglio che il mio ambiente sia un mio prodotto” Credeteci. A cura di Francesco Tirelli Pleas don’t stop the musi
  • 11. 9 Musica | 16 Pagine Magazine ease n’t op e usic Il nuovo singolo “Me staje appennenn’ amò” già primo tra le tendenze di Youtube dopo poche ore. Una rivoluzione culturale è in atto sulla sce- na +dell’indie/ hip-hop: si chiama Liberato. L’autore di “Tu T’e Scurdat’ ‘E Me” e “Nove Maggio” continua a stupire i suoi followers (sempre più numerosi) con un nuovo pezzo, dal ritmo leggermente più “ballabile” del soli- to. Cominciamo dall’inizio. Liberato ha scon- volto la scena musicale (e non solo) per un motivo: non si conosce la sua identità. Alla base del fascino e dell’alone di mistero che circondano la figura del cantante napoletano c’è il fatto che nessuno abbia la minima idea di chi si celi dietro quel cappuccio, con cui si mostra nelle (poche) apparizioni pubbliche. A Napoli dicono “Zitt’ chi sape ‘o juoco”, il che è già una piccola rivoluzione identitaria per un popolo (come quello napoletano) che, storicamente, ama mostrarsi, parlare e far parlare tanto di sé. Il tema centrale dei testi di Liberato è un amore lonta- no, nostalgico e disincantato, una specie di “impero alla fine della decadenza”. A questo si aggiunge l’amore puro che solo un vero napoletano può provare per i luoghi della sua città (scennimmo a Mergellin’, chiove ‘ngopp’ a Procida) e le sue espressioni (come staje ‘nmmane all’arte) che, accostate ad inglesismi popolari, creano un effetto magico e intrigante. Il ritmo è incalzante; una volta inchiodatosi in testa si fa fatica a farlo uscire. Liberato è la versione moderna e rivisitata della musica popolare napoletana che rischiava di sparire se qualcuno non l’avesse salvata dall’oblio e dalla mediocrità. Si potrebbe parlare di “new neo melodico” e Liberato è la forza in grado di rinno- vare in maniera profonda un genere antico creando un mix tra passato ed evoluzione. La grandezza di Liberato risiede anche nel progetto socio-visuale che fa da sfondo alle sue note. Tutti i suoi video sono dei piccoli capolavori. L’ultimo è un omaggio alla comunità LGBT integrata- si, sorniona e mimetizzata, nel panorama festaiolo di una Napoli molto “popolare”, una Napoli tutta stadio, cori, rioni e motorini. In “Tu T’e Scurdat’ ‘E Me”, ad esempio, si viaggia per i meravigliosi luoghi di un amore ostacolato dalla differenza e dalla incomunica- bilità tra classi sociali; le movimentate periferie partenopee fanno invece da sfondo per il video di “Nove maggio” mentre una Napoli vibrante, frizzante e multiculturale incornicia la bellissima “Gaiola Portafortuna”. A differenza di Liberato, colui che si cela dietro questo progetto ha un nome ed un cognome: Francesco Lettieri, giovane regista partenopeo, che cura anche i videoclip di artisti del calibro di Calcutta, Emis Killa, Thegiornalisti, l’unico a conoscere e a tenere ben nascosta la vera identità di Liberato. Lettieri si discos- ta dalle immagini di degrado e disincanto a cui tante produzioni (Gomorra su tutte) ci hanno abituato. Questi video sono colmi di realtà, una realtà staccata dalla spasmodica e asettica ricerca di sentimenti a tinte forti e finte, sono il prodotto genuino della ricer- ca di una bellezza profonda, reale, tangibile e relativamente facile da cogliere, anche alla prima visione. A Napoli lo fermano per fare una foto con lui, non potendo farla con Liberato: “Un paradosso che dà la misura del fenomeno”, spiega Lettieri, che continua: “Collettivi, operazioni di marketing, poeti, musicisti famosi... sono speculazioni. Potrei anche essere io, o tu. Se qualcuno domani decide che vuole essere Liberato lo può fare”. Queste parole di Lettieri suggeriscono che per sapere davvero chi è Liberato occorre un cambio di prospettiva. Se sem- bra impossibile trovare Liberato è perché finora, forse, abbiamo sbagliato luogo in cui cercarlo: lui non si trova “al di fuori”, ma “dentro”. Liberato è in ogni parola che ci fa emozionare, in ogni nota che ci fa cantare e ballare, in ogni immagine che ci fa pensare. Se tutti noi siamo Liberato, allora necessariamente Liberato sei (anche) tu! Mistero svelato: liberato sei tuA cura di Giuseppe Tirelli
  • 12. 10 16 Pagine Magazine | Società L’altra faccia della medaglia: la vetta non raggiunta F ateci caso: tra le pagine dei giornali, sul web ed in televisi- one, non si fa che inneggiare alle vittorie, parlare di successi, osannare campioni. E chi perde dov’è? La sconfitta fa parte di quel luogo interiore che si preferisce non esplorare perché sa di fallimento, dolore, rassegnazione, tristezza, sacrificio non ricompensato. Così, seppure capiti a tutti di perdere una battaglia, essere sconfitti in una gara, lasciarsi sfuggire un’occasione, farsi superare in una gra- duatoria, parlarne diventa difficile; nascondere l’errore è ben più facile, perché il conformismo ci insegna che la sconfitta è umiliazione, ciò che conta invece, è vincere. Non a torto Pasolini scrisse: “Pen- so che sia necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta. Alla sua gestione. All’umanità che ne scaturisce. A costruire un’identità capace di avvertire una comunanza di destino, dove si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati. A non divenire uno sgomitatore sociale, a non passare sul corpo degli altri per arrivare primo”. Dal concetto di rivalità continua e voglia esasperata di emergere, derivano poi la paura di perdere, l’ansia da prestazione, il non sentirsi pronti, la costante e opprimente insicurezza; nemici indi- scussi del genere umano. Eppure, in pochi ci pensano, ma è proprio la sconfitta quella che fa crescere. L’antitesi di hegeliana memoria era quella che garantiva la progressione, il vecchio proverbio “sbagliando si impara”, l’apprendimento attraverso “prove ed errori” inneggiato dalla psicologia comportamentale… Insomma, il nostro passato ci insegna, che non c’è crescita senza sconfitta. Ma come superare il dolore e lo sconforto che da essa scaturiscono? Rispondere è difficile. Abituati da sempre a distinguere vittoria e sconfitta tramite luoghi comuni, a riconoscere un vincitore e un vinto da immagini allegoriche ricorrenti di eroi che indossano corone di alloro, e altri, in disparte e a testa bassa decisamente “un po’ meno eroi”. Dovremmo provare invece, a guardare questi concetti come “due facce di una stessa medaglia”: una è la faccia del lavoro duro, delle innumerevoli cadute, delle delusioni; l’altra è quella della gioia, della soddisfazione, frutto maturo dei precedenti. In Giappone esiste il concetto del “Kintsugi”, ovvero “delle cicatrici d’oro”; secondo i giapponesi, infatti, poiché la vita non è fatta solo di integrità bensì anche di fragilità e rottura, e poiché un vaso rotto non può più tornare com’era prima, perché non ripararlo e render- lo più bello con dell’oro? La consapevolezza dell’errore, l’ammis- sione dei propri limiti è il mezzo più importante per andare oltre la sconfitta. Sarebbe giusto parlare un po’ più spesso della nostra fragilità. Dopotutto, chiunque scriva, dovrebbe avere il piacere di raccontare storie: chi l’ha detto che chi perde non abbia una bella storia? A cura di Silvia Miglionico
  • 13. Categorie | 16 Pagine Magazine 11
  • 14. 12 16 Pagine Magazine | Società Prospetticidio: relazioni senza prospettiva S entirsi colpevoli di tutto, rinunciare alle proprie passioni. Avere l’impressione di essere controllati, cambiare il proprio modo di pensare per adeguarsi all’idea del partner. “Si chiama ‘prospetticidio’ ed è probabilmente la più subdola delle violenze psicologiche”- afferma Lisa Aronson Fontes, ricercatrice dell’Università del Massachusetts. Dall’isolamento alla manipola- zione, dall’abuso verbale alla violenza sessuale, il controllo coercitivo, esercitato dal partner più forte della coppia, si muove in un raggio d’azione così ampio da inglobare tutti gli spazi vitali della vita dell’altro. Analizzando i due soggetti protagonisti di questa relazione, si può notare una costante caratteriale: c’è sempre un empatico e un narcisista. Generalmente il narcisista, durante il corso della sua vita, ha subito un trauma che lo porta alla costante e dispe- rata ricerca di approvazione. Ed ecco che interviene l’empatico, il crocerossino. Un empatico avrà come unica missione quella di ri- solvere i problemi dell’altro, sperimentandone e condividendone i sentimenti, le emozioni e i pensieri, quasi fossero suoi. Quello che l’empatico tuttavia non sa è che il narcisista occuperà la sua vita in maniera esclusiva e richiederà ogni tipo di attenzione e sforzo. Con un fare quasi premuroso, il narcisista tenderà a volersi sovrapporre all’empatico e a consigliarlo circa i tempi e le moda- lità corrette per le sue frequentazioni. Parafrasando una celebre immagine, ogni giorno un empatico si sveglia e sa che dovrà cor- rere più veloce di un narcisista, se vorrà salvare la sua relazione. Una volta insinuato il tarlo dell’insicurezza, la fragile zattera della relazione ondeggia sui due scogli su cui tanti rapporti si infrangono: accettazione incondizionata e prevaricazione arrogante. Una trappola da cui è difficile scappare, perché nella maggior parte dei casi il tentativo di ridurre ai minimi termini l’altro, si alterna con periodi di gentilezza e dimostrazioni d’amore. Ciò provoca un crescente bisogno di rendere felice il narcisista, arrivando a temere di deluderlo. Emotivamente stremato, perso e indebolito, l’empatico faticherà a capire cosa è successo alla persona una volta amorevole, attenta e carismatica dalla quale era attratto. E così, invece di guardare ver- so l’esterno e di comprendere che le cause del proprio malessere provengono da fuori, ribalterà la prospettiva verso l’interno per in- colpare se stesso. Quando anche l’empatico comprenderà d’esser degno d’amore, il narcisista probabilmente andrà alla ricerca della prossima vittima. Prospetticidio! Uccisione della prospettiva dell’altro. La relazione odierna è simbolo di grande ambivalenza: deve essere leggera e flessibile per poter dare la possibilità all’altro di potersi sottrarre dall’impegno in qualsiasi momento. Quello che il sociologo polacco Baumann chiamerebbe “liquidità di sentimenti”. Prendere senza dare, chiedere senza offrire, opprimere senza rasserenare. Oggi l’attenzione tende a concentrarsi sulle sod- disfazioni che le relazioni si spera arrechino, proprio perché si scopre che il prezzo da pagare è la perdita di libertà. In una cultura consumistica come la nostra, che predilige prodotti pronti per l’uso, risultati senza troppa fatica e garanzie del tipo “soddisfatto o rimborsato”, quella di imparare ad amare è una promessa in- gannevole, ma che si spera ardentemente possa essere vera. La relazione intesa come accordo d’affari non è certo una cura per l’insonnia: in una relazione puoi sentirti insicuro, tanto quanto lo saresti senza di essa, o anche peggio. Cambiano solo i nomi che dai alla tua ansia. E noi, come protagonisti di un racconto di Calvino, non facciamo altro che accogliere gli “spazzaturai” come angeli, e con un silenzio quasi devoto, li osserviamo rimuovere i resti dell’esistenza di ieri. Tanto che ci si chiede se la vera passione di noi abitanti di Leonia, sia davvero, come dicono, il godere sempre di “cose nuove e diverse, o non piuttosto l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricor- rente impurità” (Le città invisibili – Calvino). Con quale risultato? Che i sogni li abbiamo affidati alle stelle e ce li custodiscono loro. Noi ci siam tenuti stretti il nostro cinismo e la nostra volubilità. Siamo così: con la testa su per aria e l’autostima giù in cantina. Come si può sfuggire a tutto questo? Presta molta attenzione, gentile mio lettore. Mettiti comodo, che tu sia narcisista o empatico non importa, trova il punto verso il quale la tua prospettiva e quella del tuo partner in crime sembra- no convergere. Bene, quello sarà il vostro “punto di fuga”. Non dalla realtà o dai problemi, bensì dalla possibilità di inciampare in una relazione priva di prospettive. Cerca i giusti compromessi, A cura di Dora Farina
  • 15. 13 Società | 16 Pagine Magazine cambia il modo di guardare chi ti sta intorno. Le emozioni passano, i sentimenti andrebbero coltivati. E che resta da fare se non sederci al tavolo del più famoso ristorante di Parigi, al fianco del critico Anton Egò e ordi- nare, come lui, della banale ratatouille, anche per recupera- re una “chiara, fresca e ben condita prospettiva”!
  • 16. 14 16 Pagine Magazine | Arte È bello ciò che è bello o è bello ciò che piace? È noto a tutti che, dalla comparsa dell’uomo sulla Terra, esiste l’arte. Se inizialmente essa aveva uno scopo religioso o puramente decorativo, in epoca greca le attività artistiche iniziano ad acquisire una loro definizione staccandosi dalle comuni attività della vita sociale. L’artista greco è stato il primo a matura- re la volontà di produrre l’arte per l’arte. Non a caso il concetto più antico di bello risale ai Pitagorici, secondo i quali esso consiste nella proporzione e nell’armonia. Tale idea, che per centinaia e centinaia di anni non verrà mai messa in discussione, entrerà in crisi sia a causa dell’Empirismo (e in particolare dello Scetticismo) sia a causa del Romanticismo. Infatti, ci si chiese se quando si indi- cava un oggetto come bello, gli si riconoscesse una proprietà che possedeva o meno. Gradualmente, fino ai giorni nostri, si è giunti ad abbandonare la ricerca di canoni che mirino a stabilire cosa sia bello oppure no. Tuttavia, dinanzi ad innumerevoli opere d’arte nessuno oserebbe mettere in discussione il valore artistico che esse rappresentano. Eppure, dal momento che teoricamente il bello in sé non esiste ed è soltanto questione di gusti, si potrebbe affermare che tutto ciò che viene studiato e universalmente ap- prezzato dalla critica in realtà non abbia nessuna valenza artistica. È paradossale, ma astrattamente è così. Però, se sosteniamo che in fondo il bello esiste, occorrereb- be imitare quelli che vengono definiti universalmente “canoni estetici”? Assolutamente no. Nonostante tali canoni nascano da leggi matematiche, la loro validità è solo apparente perché non è corretto applicare tali leggi in contesti diversi. Ad esempio, se si iscrivesse un abominio nella sezione aurea, esso continuerebbe ad essere un abomino e non acquisirebbe perfezione formale solo perché rappresentato in essa. Inoltre, imitare all’infinito un de- terminato canone estetico porterebbe ad una totale mancanza di originalità nelle opere artistiche. In fondo l’arte si è evoluta proprio A cura di Nicolò Mascolo
  • 17. 15 Arte | 16 Pagine Magazine quando una corrente artistica si è distinta da un’altra. Da questa contraddizione di fondo emerge un dato importante: l’impossibilità di determinare con certezza se la bellezza esiste ed è rappresentabile oppure se tutto è potenzialmente apprezzabile ma criticabile. Qual è, a questo punto, l’approccio corretto all’arte? In realtà esistono due vie: la prima è quella percorsa da Kant secondo il quale non è possibile definire se esista il Bello in sé per, poiché tale attributo compete solo a Dio, ma è opportuno volere che il Bello esista, cercando di ricondurlo nella sua piena essenza, ossia un qualcosa di inesprimibile mediante concetti, libero da ogni finalità utile e morale; la seconda è quella seguita da Schelling secondo il quale l’arte non dovrebbe essere altro che l’unione dell’ideale con il reale, quindi, essa ha la possibilità di differenziarsi ed evolversi continuamente, avendo insita in sé il concetto di Bello Assoluto. Sebbene entrambe le opinioni siano affascinanti e suggestive, l’idealista Schelling nella sua visione dell’arte fa sì che ogni tipo di corrente artistica goda dello stesso rispetto. La citazione qui ri- portata del filosofo tedesco ci aiuta meglio a comprendere questo concetto: “Nulla, assolutamente nulla è in sé imperfetto, ma tutto ciò che esiste appartiene, in quanto esiste, all’essere della sostanza infinita... Questa è la santità di tutte le cose”. Friedrich Schelling è stato un filosofo tedesco, uno dei tre grandi esponenti dell’idealismo tedesco, insieme a Fichte ed Hegel.
  • 18. 16 16 Pagine Magazine | Scienza Quando si cerca di spiegare cosa sia la prospettiva ad un bambino, un esempio efficace potrebbe essere l’immagine di un paesaggio collinare, in cui i rilievi diventano sempre più piccoli man mano che si avvici- nano all’orizzonte, fino ad unirsi in un solo punto infinitamente lontano. Un concetto facile da immaginare, ma è non altrettanto semplice lo studio che conduce ad una esposizione completa di esso, usando un corretto formalismo matematico-geomet- rico; formalismo che, tuttavia, conferisce ai dipinti di Raffaello e Piero Della Francesca un realismo e una bellezza unici. La prospettiva, dal latino perspicio, che significa “osservare”, è un insieme di procedimenti geometrici che permettono di rappresentare la realtà tridimensionale su un piano, quale una tela. Perché tanta matematica nell’arte? Sicuramente, le tecniche prospettiche nascono dall’esi- genza di rendere verosimile un dipinto e di organizzare lo spazio sulla tela: cosa, se non la geometria, col sostegno di qualche calcolo, può soddisfare questo bisogno? Dando uno sguardo alla storia, scopri- amo che i Greci, tra i quali Democrito, furono i primi ad intraprendere la ricerca di tecniche per simulare l’effetto della profondità spaziale nel piano, dei risultati delle quali, però, non abbiamo testimo- nianze, se non in qualche decorazione parietale romana. Dobbiamo attendere il Quattrocento, con il lavoro mirabile del fiorentino Brunelleschi, al quale dobbiamo la trattazione sistematica della prospettiva secondo precise regole. Appassionato di matematica e ottica, giunse a delle scop- erte sensazionali che, secondo gli studiosi, hanno dato vita a quella che oggi viene chiamata prospettiva lineare. Essenzialmente, essa si compone di quat- tro elementi: il punto di vista, ossia il pun- to dal quale l’osservatore vede il soggetto (ad esempio, un paesaggio), il piano di proiezione, ossia il piano verticale virtuale attraverso cui l’osservatore guarda il soggetto, la linea dell’orizzonte, linea orizzontale che attraversa il piano di proiezione alla stessa altezza del punto di vista, e i punti di fuga, posti sulla linea dell’orizzonte. I punti di fuga sono tre, cioè quello centrale e due laterali equidistanti dal primo. In breve, per realiz- zare una rappresentazione di un paesaggio quanto più verosimile, si devono tracciare delle rette che passano per punti di fuga e, infine, disegnare i vari elementi che si os- servano facendo sì che entrino in tali rette. È chiaro che, avvicinandoci ai punti di fuga, gli elementi diventano sempre più piccoli. Spiegata in questo modo più rigoroso, la prospettiva risulta un po’ più complicata da comprendere rispetto alla spiegazione che si dà ad un bambino. Tutto questo discorso è finalizzato non a rendere tediosa la lettura, bensì a rimar- care l’importanza della matematica in un campo apparentemente esente dall’ap- plicazione delle scienze numeriche. Un bravo artista può definirsi tale se possiede conoscenze ad ampio spettro, sia tecniche che teoriche. Picasso non avrebbe mai smontato il concetto di prospettiva senza conoscerla a pieno! Prospettiva: il rigore matematico nell’arte A cura di Domenico Cornacchia
  • 19. Evitare di parlarne non modifica la realtà Via Umbria 17/A - Altamura (BA) Tel. 080 310 56 52 - www.cogipaservizi.com
  • 20. Periodico di cultura, informazione e attualità, supplemento de La Nuova Murgia. Anno III, n.10, Febbraio/Marzo 2018, Registrato presso il tribunale di Bari il 09/11/2000 n 1493 Edito dall’Associazione Culturale La Nuova Murgia Piazza Zanardelli, 22 - 70022 Altamura (BA) Tel. 329 339 42 34 e-mail: info@16pagine.it Co-direttori: Antonio Molinari Domenico Stea Claudio Nuzzi Daniela Sforza Caporedattore: Marco Nuzzi 16Pagine online: Francesco Tirelli Paolo Micunco Presidente de La Nuova Murgia: Michele Cannito Direttore Responsabile: Giovanni Brunelli Pubblicità: Domenico Stea - 344 1139614 Redazione Numero : Marco Nuzzi Biagio Denora Chiara Genco Andrea Lorusso Francesco Tirelli Giuseppe Tirelli Silvia Miglionico Dora Farina Nicolò Mascolo Domenico Cornacchia Impaginazione: Domenica Ferrulli - 331 709 8690 Progetto Grafico Copertina: Domenica Ferrulli Paolo Micunco Stampa: Grafica & Stampa Questo numero è stato chiuso il 22/02/2018 alle ore 22:45 Follow us: