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Indice
3
4-5
6
7
8-9
10-11
12
13
14
15
Editoriale : L’inizio dell’inizio
In altre parole : L’Articolo 1 della costituzione
Si torna tra i banchi di scuola: il solito inizio?
Campioni del mondo ... in ignegneria
Quando l’Arte insegna a vivere: Dalì
Rio 2016, i Giochi dell’esclusione
Notte Bianca 2016 ... Parola ai GIOVANI !
Fabio Rovazzi: Il trash diventa cash
Terremoto in italia e Charlie Hebdo
La fine dell’inizo
3
L’inizio dell’inizio
E forse non lo sappiamo neanche fare. O forse non siamo le persone giuste per farlo. Dopotut-
to, nessuno ce l’ha mai detto, nessuno ce l’ha mai consigliato. Una cosa, però, è certa. Noi non
siamo giornalisti e questo non è solo un giornale. Noi siamo i viaggiatori senza meta, quelli che
camminano per il puro gusto di andare, quelli che non sanno dove arriveranno, ma che sanno
cosa vogliono. Quelli che ogni sogno è un obiettivo e ogni attimo è la vita. Quelli per cui un limi-
te non esiste e che se malauguratamente dovessero convincersi del contrario, beh, poco impor-
ta, si supera, perché non esiste limite che non si pieghi alla passione. Non esiste niente di più
forte di giovani che si uniscono per creare, che prendono per mano l’entusiasmo e si gettano nel
nuovo. Tanto la paura non esiste, non c’è tempo per avere paura. C’è tempo per fare e fare tanto,
per guardarsi, capirsi e andare, senza pensarci e ripensarci, perchè, signori, a volte il pensare
ha un solo nemico, suo fratello, pensare troppo.
Sedici Pagine è nato. Cosa sia Sedici Pagine un po’ ve l’abbiamo già anticipato, un bel po’ lo sco-
prirete da oggi. Ognuno se ne farà un’i-
dea. C’è chi lo amerà, chi lo straccerà,
chi lo butterà nel primo cestino a dispo-
sizione dopo averlo sfogliato distratta-
mente, ma le poche parole che vogliamo
spendere per comporre questo “Inizio
dell’inizio” le utilizziamo per spiegarvi
cosa sia per noi, questa nuova rivista.
Sedici Pagine è una rivoluzione silen-
ziosa, quella che si fa giorno dopo gior-
no, con pazienza e quella sana voglia di
mangiare il mondo. È unione, collabora-
zione, serietà e divertimento. Impegno,
dimenticavamo l’impegno e la forza,
quel che basta per distruggere la mono-
tonia che ogni giorno prova a risucchiarci. È il grido di un giovane che ha capito non di AVERE
ma di ESSERE un’opportunità, poi lo capisce un altro e un altro ancora e si finisce, meraviglio-
samente, a costruire, progettare, ripeto, conoscendo i tuoi obiettivi, ma non la tua destinazione.
Tutto ciò che c’è da scoprire sarà vostro una volta girata questa pagina, ma prima di farlo, ecco
a voi un augurio, un inno alla vita, un motto perenne, che traduciamo in una semplice e sotti-
lissima poesia.
Non cercate la felicità, siate la felicità
Non cercate l’amicizia, siate l’amicizia
Non cercate la novità, siate la novità
Non cercate la compagnia, siate la compagnia
Non cercate il divertimento, siate il divertimento
Non cercate un’opportunità, siate un’opportunità
Non cercate una possibilità, siate una possibilità
Non cercate l’amore, siate l’amore
E così amerete
E così vi ameranno
Editoriale
In Altre Parole
4
22 dicembre del 1947: viene ap-
provata in via definitiva la Costi-
tuzione della Repubblica Italia-
na, promulgata dal Capo di Stato
provvisorio Enrico de Nicola il 27
dicembre dello stesso anno.
La Costituzione entra poi uffi-
cialmente in vigore il primo gen-
naio del 1948. Nasce così quella
che tuttora viene definita come
una delle più belle costituzioni
esistenti nel panorama inter-
nazionale.
Ogni singola parola, ogni com-
ma, ogni articolo in essa conte-
nuti, rivestono un ruolo essen-
ziale in tutti gli aspetti principali
della nostra vita.
È necessario a questo punto fare
un piccolo passo indietro, fon-
damentale per capire come la
nostra Costituzione rappresenti
prima di ogni altra cosa l’affer-
mazione della forza di un popo-
lo, un popolo che ha voglia di ri-
nascere dagli orrori della guerra,
e al contempo la certificazione
normativa di un nuovo inizio per
lo stato italiano;
Tutto ciò ha inizio il 2 giugno
1946, quando con il referendum
istituzionale, infatti, il popolo
italiano, in maniera tutt’altro
che omogenea, sceglie la repub-
blica come forma di stato, prefe-
rendola alla monarchia.
L’Articolo 1 della Costituzione
italiana, il suo esordio, vuole
dunque essere la viva rappresen-
tazione di questa scelta.
Rappresenta un monito, un pun-
to fermo, un dogma dal quale
ripartire e sul quale ricostruire
una realtà nuova e rinnovata.
La penisola italica infatti, che fu
culla dell’impero romano e del
sacro impero germanico, terra
di comuni e signorie, di ducati,
papati e monarchie raggiunge,
con la promulgazione della carta
fondamentale, la piena consa-
pevolezza del suo essere dimora
di un popolo, il popolo italiano,
che era riuscito a ri-
unirsi sotto un unico
vessillo soltanto poco
più di ottanta anni
prima, con l’unità d’I-
talia, compiutasi nel
1861.
È solo sapendo que-
sto che è possibile
cogliere a pieno la
forza dirompente
delle parole che com-
pongono l’inizio della
nostra Costituzione:
Sono parole nitide,
schiette e che non
devono mai apparire
banali perché alle
loro spalle si cela un
universo di intrecci
storici, lotte, sangue
e rivendicazioni che
oggi consentono a
tutti noi di vivere in
un paese che, al di là dei ben noti
difetti, deve essere considerato
un grande paese.
Sono parole che hanno un peso e,
come tali, devono essere sottopo-
ste ad un esame approfondito.
Uno per tutti!
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. »
(Articolo 1 della Costituzione italiana)
5
Innanzi tutto, la prima parola:
Italia. In alto, solenne, in modo
tale da chiarire subito che tutto
quanto seguirà è stato scritto per
Lei, per servirla.
È l’inizio dell’inizio; la nuova
Italia domina il proprio passato
e diventa padrona del pro-
prio destino.
È il trionfo di una
nuova creatura istituzionale
che ha come fondamento il
popolo, un popolo finalmente in
grado di decidere le sorti
del proprio Stato.
I padri costituenti
avrebbero potuto
limitarsi a questo,
senza proseguire in
ulteriori specifica-
zioni, ma non bastava,
c’era bisogno di altro
rispetto al semplice
sentimento di unione
incarnatosi nell’enunciato:
“l’Italia è una repubblica
democratica”.
Questi capirono, infatti, che c’e-
ra bisogno di un elemento comu-
ne, vivo e concreto che accom-
pagnasse tutto il popolo italiano
durante la costruzione di una co-
scienza sociale e che alimentasse
la fiamma della creazione di un
giovane paese che si accingeva a
diventare una grande nazione:
l’elemento è il lavoro.
Ma perché proprio il lavoro? Per-
ché il lavoro e non la libertà, la
pace, il rispetto o la fratellanza?
Perché si è scelto di porre un vo-
cabolo così semplice e concreto
in un contesto in cui anche la più
romantica ideologia sarebbe sta-
ta benaccetta?
La risposta è semplice. Semplice
e straordinaria. È soltanto grazie
al lavoro, infatti, che il popolo
italiano ha potuto emancipar-
si da tutte le differenziazio-
ni storiche legate ad ele-
menti come i titoli
nobiliari, il ceto
sociale o il ruolo
istituzionale.
Rappresenta
il trionfo
di
un’ideologia
che si incarna nel solidari-
smo e nella fortissima ricerca
dell’uguaglianza.
È la straordinaria capacità di
lavorare che libera l’uomo dall’e-
goismo e dall’ignoranza, dando
modo all’individuo di arricchirsi
fisicamente e mentalmente,
esaltando le proprie potenzialità,
esistendo e crescendo giorno
dopo giorno.
Per questo, ciò che leggeremo
dopo questo meraviglioso inizio,
ne risulta una naturale conse-
guenza. “La sovranità appartie-
ne al Popolo” finalmente libero
e consapevole, che per la prima
volta ha tra le mani le chiavi del
proprio futuro, padrone di sé
stesso, in quelle forme e limiti
racchiusi nel prezioso scrigno
che abbiamo ereditato dai nostri
padri costituenti, fonte di orgo-
glio dell’essere italiani: la nostra
Costituzione.
A cura di
Marco Nuzzi
Scuola
6
Con spaventosa puntualità,
settembre è arrivato. Il temuto
e inesorabile limite delle vacanze
estive di ogni studente è stato
abbondantemente superato. È
facile imbattersi in studenti in
piena crisi, già col fiato sul collo
tra esami da sostenere o compiti
a casa diventati (troppo in fretta)
un fardello insopportabile.
In effetti, guardando indietro
alla spensieratezza di un mese fa,
sembra passata un’eternità.
Ora, invece: ansia, scadenze,
ritmi ripetitivi e monotoni
colorano le giornate di uno
smorto verderame da cui sembra
difficile intravedere l’uscita,
ancora troppo lontana, della
pausa invernale.
“Neanche il tempo di tornare alla
realtà” è il commento sulla bocca
di tutti o quasi.
Tuttavia si rimane ben
consapevoli che la realtà è
diversa, che alla realtà non si
torna, che essa è tutt’intorno
e ci circonda. Ogni scalino, ogni
banco, ogni libro, ogni pagina
letta, studiata, amata è un
passo avanti, un passo verso
il futuro. A guardarci indietro,
non si rischia che di rimanere
impantanati nel passato.
L’altra faccia della medaglia è
composta dalle matricole di ogni
ordine e grado. Essi ci dimostrano
quanto la “nostra” realtà che
crediamo di dominare, di avere
in pugno, sia estremamente più
fragile di ogni certezza. E se ci
si mette bene
in ascolto si
arrivanoasentire
gli ansimi, le
paure, i respiri
affannosi di chi si
vede catapultato,
da un giorno
all’altro, in una
realtàchesembra
infinitamente
più grande ed
indomabile.
Sono i timori
che bussano
alla porta di
chi, quest’anno,
si trova al difficile passaggio
all’università o alla scuola
superiore. Per loro, come per
tutti dovrebbe essere, Settembre
ovvero questo Inizio, ha un
sapore diverso, ha il sapore di
una nuova avventura.
Purtroppo, come scrive il
cantautore romano Niccolò Fabi,
non si vive solo di inizi, ma “tra la
partenza ed il traguardo... in mezzo
c’è tutto il resto, e tutto il resto è,
silenziosamente, costruire”.
Un augurio sincero da parte di
tutta la redazione di 16 Pagine
affinché, a partire da questo
inizio, possiate costruire la vita a
vostra immagine e somiglianza,
trasformando ogni ostacolo in
opportunità per ricominciare
ed ogni vittoria, anche la più
piccola, nel punto di partenza
della sola
s t r a d a
su cui
c o n v i e n e
marciare,
la nostra.
SI TORNA TRA I BANCHI, SEMPRE IL SOLITO INIZIO?
Il ritorno per migliaia di studenti fra banchi, aule e libri (ormai) impolverati
A cura di
Giuseppe Tirelli
7
“Trascendere le limitazio-
ni umane e divenire signori
dell’universo”: così dichiarò fie-
ramente il siracusano Archime-
de (nell’immagine), il primo
grande ingegnere della storia
occidentale. Oggi, dopo più
di duemila anni, il compito
dell’ingegneria non è cambia-
to: facilitare la vita dell’uomo
sul pianeta, sottomettendo
alla sua volontà le inarresta-
bili forze della natura.
A partire dagli anni ‘40, il
progresso tecnologico ha rag-
giunto livelli straordinari:
siamo in grado di produrre
energia elettrica sfruttando la
luce solare, riscaldare cibi tra-
mite emissione di microonde,
stampare un oggetto in tre di-
mensioni, ecc..
Insomma, l’ingegneria ha
dato il suo contributo a tutti i
campi della conoscenza e noi
comuni mortali, ignari della
reale quantità di risorse im-
piegate nella ricerca, ci lasciamo
piacevolmente travolgere dalle
nuove invenzioni. Ma, ecco la no-
tizia. Vi siete mai chiesti di che
nazionalità siano i migliori in-
gegneri?
Forse, per sentito dire, potreste
pensare ai cinesi tuttofare, o ai
più rinomati ricercatori ameri-
cani, eppure i dati parlano chia-
ro: a tutti questi il primato è stato
soffiato dagli ingegneri italiani,
che, stando a quanto riferito da
Sandro De Poli, amministratore
delegato per l’Italia della General
Electric, sembrano più preparati
dei loro colleghi, che siano orien-
tali o oltreoceano e, indovinate
un po’, anche costare meno.
E’ il momento di rendersi conto
che, oltre lo sport e ogni discipli-
na olimpica, ci sono altre meda-
glie d’oro che è un onore colle-
zionare, una tra queste è proprio
quella conquistata dagli inge-
gneri italiani! Ma, volete sapere
un’altra curiosità? Si dà il caso
che molti di loro provengano dal
Sud Italia e abbiano condotto
gli studi in università meridio-
nali. Recentemente, ad esem-
pio, un’equipe di ingegneri
dell’Università di Palermo ha
realizzato un prototipo di ge-
neratore che produce energia
elettrica dall’acqua salata del
mare attraverso il processo di
elettrodialisi inversa.
Si tratta di una vera rivoluzio-
ne che fa onore alla “macchi-
na” creatrice della penisola.
Moltissimi potrebbero essere
gli esempi di invenzioni made
in Italy, ma per evitare di bat-
tere la grancassa, ci limitiamo
ad apprezzare il duro lavoro
dei nostri compatrioti i quali,
nonostante la crisi economica
che sta massacrando l’intera
Europa, continuano imperter-
riti ad
esclamare
“Eureka!”.
CAMPIONI DEL MONDO… IN INGEGNERIA!
Dalla radio di Guglielmo Marconi, al telefono di Antonio Meucci, alla pila di Ales-
sandro Volta. Gli Italiani non perdono la stoffa
Scienza
A cura di
Domenico Cornacchia
8
Arte
QUANDO L’ARTE INSEGNA A VIVERE
Dinanzi ad un mondo do-
minato dalla guerra, at-
tanagliato dalla paura e
sovrastato dalla mancan-
za di un’etica profonda-
mente umana, l’arte con
i suoi mille misteri e con
i suoi infiniti tasselli di
menti complesse e fuo-
ri dall’ordinario, può
condurci ad una presa
di coscienza, alla consa-
pevolezza di chi siamo
e di quello che la mente
umana può spingersi a
creare. Persino un sur-
realista, più conosciuto
per i suoi baffi che per
il suo genio, eccentrico,
colorato, bizzarro, come
Salvador Dalì può la-
sciarci un evocativo mes-
saggio attraverso le sue
inconfondibili pennella-
te.
Come nella maggior par-
te delle sue opere, anche
in “Bambino Geopolitico
guarda la nascita dell’uomo nuo-
vo” (a finaco ->) Dalì lascia spazio
a molteplici chiavi di lettura. L’o-
pera dipinta nel 1943, durante il
soggiorno di Dalì negli Stati Uni-
ti, ripercorre un tema frequen-
te della sua pittura: l’uovo come
simbolo di rinascita. Al centro
un uomo lotta con il duro guscio
di un uovo per nascere alla vita.
Il virtuosismo delle sue membra
lascia intendere il dolore che ac-
compagna la nascita, accentuato
dalla macchia rosso sangue che
sgorga lenta dalla crepa. L’uovo
non è altro che il nostro globo. La
mano dell’“uomo nuovo” copre
l’Inghilterra e sembra dirigersi
sulla Europa mentre il suo cor-
po diventa visibile al di sopra del
continente americano.
La critica vede nell’opera la paro-
dia della seconda guerra mon-
diale: la nuova potenza economi-
ca degli Stati Uniti emerge con
tutto il suo dinamismo dinanzi ad
un’Europa che ha fallito.
Tuttavia, un’attenta osservazio-
ne dell’opera non allontana la
A lezione da Salvador Dalì
www.sipremsrl.it
9
sua originaria ispirazione dalla
nostra attuale realtà geopolitica.
Il rombo di un’America che non
smette di imporsi segretamente
o no negli affari mondiali, il suo
invadente capitalismo, un’Euro-
pa ogni giorno sempre più debole
alle prese con il terrorismo inter-
nazionale sono gli incubi della
nostra generazione.
E tutti noi, impauriti da un uomo
nuovo che sembra incontrollabi-
le e poco razionale, non faccia-
mo altro che aggrapparci come
il bambino geopolitico di Dalì,
ad un adulto – nell’opera di sesso
incerto - che ha più paura di noi,
che con il corpo indietreggia spa-
ventato, ignaro della sua identità,
che rassegnato indica al bambino
terrorizzato l’uomo nuovo.
Uomo che l’adulto sa di aver
creato e nutrito da sé (infatti, la
posizione dell’adulto riprende,
secondo alcuni, la posa di Dio nel-
la “Creazione di Adamo” di Mi-
chelangelo). L’adulto dirige il dito
verso la zona del Medio Oriente,
ricettacolo di violenza, scontri,
egoismo delle potenze mondiali
e morte.
Al di sopra dell’uovo regna una
sortaditelosfuggente,chesembra
liquefarsi e che rappresenterebbe
un pericoloso fungo atomico, il
frutto di minacciose armi di mas-
sa.
L’uomo nuovo che nasce alla vita
è l’uomo del nostro tempo. Noi
come l’adulto e il bambino siamo
terrorizzati da lui, perché, proba-
bilmente, temiamo che quell’uo-
mo si riveli una bestia e che il
significato di “umanità” non sia
più comprensibile a noi che lo
stiamo a guardare inermi, nu-
trendolo inconsapevolmente.
Il bambino geopolitico, tuttavia,
viene dipinto mentre con la sua
poca forza si alza in piedi per cre-
scere, per diventare consapevole,
per quanto impaurito,
del-
la re-
altà che
gli si
p o n e
di fron-
te. Allo-
ra noi gio-
vani, come
quel 	
bambino, pos-
siamo anco-
r a r i a l z a r c i ,
s p e r a r e
non in un mon-
do nuovo, m a
in un mondo
migliore di quello
che gli adulti ci stanno
regalando. Noi abbiamo
in mano l’energia del cam-
biamento, la forza della me-
tamorfosi, la voglia di lottare
anche contro un’umanità che ci
terrorizza e ci inquieta, cercan-
do di capire chi siamo ora e dove
stiamo andando. Noi possiamo
imparare ad essere la rinascita
che vogliamo essere.
Iniziamo ad alzarci in piedi, a
camminare da soli, a far valere i
nostri talenti nascosti, a non es-
sere indifferenti alla realtà di cui
facciamo parte.
Dalì ci esorta indirettamente a
non lasciare trascorrere il tempo,
ad apprezzare il presente prima
che sia troppo tardi, ad usare le
nostre energie per cambiare nel
nostro piccolo universo quotidia-
no e nel nostro atteggiamento nei
confronti dei nostri simili. Guar-
diamo al “qui ed ora”, alle occa-
sio-
ni che abbiamo
per essere persone
migliori, per regalare
alle future generazioni un
mondo non di incubi irrisol-
ti, ma di sogni e di tentativi
coraggiosi.
A cura di
Annarita Incampo
10
Sport
Le Olimpiadi di Rio 2016 sono
terminate e l’Italia, piazzatasi
nona nel medagliere, non può
certo lamentarsi, dato che non
faceva così bene da molte edizio-
ni (Atene 2004, 32 medaglie ndr).
Ma, oltre all’Italvolley,t che ha
fatto appassionare tantissimi no-
stri concittadini ad uno sport che
per cultura non è seguito come
il calcio, c’è dell’altro, molto più
importante e delicato, che carat-
terizza praticamente ogni edizio-
ne Olimpica. Passando dai Giochi
nazisti del 1936, fino ad Atene
2004 che per molti economisti ha
rappresentato l’inizio del default
della Grecia, ogni Olimpiade ha
celato sempre qualcosa che non
dovrebbe minimamente avere a
che fare con lo spirito dei Giochi.
Rio non ha fatto altro che confer-
mare questa importanza sociale e
politica e, sicuramente, uno degli
eventi che più ha segnato questa
manifestazione è quello che ha
coinvolto l’atleta egiziano Islam
El Shehaby e l’israeliano Or Sas-
son nel Judo.
Al termine della gara, vinta dall’I-
sraeliano, El Shehaby non ha
stretto la mano allungatagli da
Sasson, comportamento che, ov-
viamente, non è passato inosser-
vato.
Anche con un pizzico di ipocrisia,
un po’ tutti, dagli atleti ai sempli-
ci spettatori o opinionisti, hanno
condannato il gesto del judoka
egiziano che è stato prontamente
squalificato dalla manifestazio-
ne. Per quanto il gesto sia con-
dannabile perché lontano dallo
spirito Olimpico, bisogna comun-
que contestualizzarlo. La decisio-
ne di El Shehaby nasce da anni
di sfruttamenti e soprusi subiti
dal popolo Egiziano e dall’inte-
ro Medio Oriente. In quelle zone
la Primavera araba e tutti gli
scontri precedenti non sono stati
dimenticati, anzi, ci sono ancora
tensioni fortissime. L’esempio
dell’atleta egiziano non è edifi-
cante, ma conferma il quesito
iniziale: forse è arrivato il mo-
mento di vedere i Giochi Olim-
pici sotto un’altra ottica, maga-
ri più cruda, ma, ahinoi reale. È
realmente cambiato qualcosa da
quando Goebbels provò, riuscen-
doci, a camuffare l’obbiettivo dei
Giochi, in quel caso dimostrando
il prestigio internazionale della
Germania Nazista, utilizzando le
Olimpiadi solo come propaganda
della purezza e della superiorità
della razza ariana, abbandonan-
do totalmente lo spirito Olimpi-
co di pace, fraternità e diverti-
mento? Perché, se concepiamo
le Olimpiadi così, lo dobbiamo
a loro. E se magari quei Giochi
volevano dimostrare qualcosa,
queste, a detta di molti econo-
misti e studiosi, hanno cercato
di occultare una realtà Brasilia-
na totalmente diversa da quella
mostrata.
Se alla vigilia le Olimpiadi era-
no viste come un antidoto per
sconfiggere definitivamente la
velenosa e instabile economia
Brasiliana, ora come ora, a Gio-
chi conclusi, l’obiettivo non sem-
bra essere stato raggiunto, tan-
to che nemmeno gli imbattibili
Sud Coreani del tiro con l’arco o
i pluri medagliati italiani nella
carabina avrebbero potuto cen-
trarlo. Caput, fine dei Giochi, in
tutti i sensi. La percezione che
queste Olimpiadi non sarebbero
RIO 2016, I GIOCHI DELL’ESCLUSIONE
Ecco cosa si nasconde dietro l’ultima edizione dei Giochi Olimpici.
11
andate a buon fine, prettamente
dal punto di vista organizzativo,
viaggiava nell’aria già dai primi
giorni.Dal pericolo del virus zika
alle modernissime e scintillanti
acque della piscina (sarcasmo),
se ne sono viste di tutti i colori,
tendenti al verde, soprattutto.
Mentre seguivo le qualificazioni
dei tuffi in quella broda, mi sono
rimbalzate nei ricordi, non visi-
vi ovviamente, le Olimpiadi del
1910, dove le gare di nuoto si svol-
sero in un fangoso canale. Inef-
ficienza o cotanta ammirazione
del passato tanto da volerlo ri-
prendere, come un bambino che
correndo, cerca di prendere una
farfalla, ma, distratto, inciampa
su ogni pietra? E mentre la Pen-
netta vinceva finalmente quella
medaglia Olimpica tanto deside-
rata, nelle favelas non si respira-
va un’aria positiva, la stessa aria
pesante che soffia da decenni, se
non secoli.
Juliana Portella, attivista as-
sai vicina alle favelas Brasiliane,
,ha chiaramente espresso il suo
dissenso rispetto a queste Olim-
piadi, considerate piene di ipo-
crisia: “Come si può parlare di
spirito olimpico in queste condi-
zioni? Queste Olimpiadi sono una
truffa per gli abitanti delle favelas
e la ragione è la disuguaglianza,
la povertà”. Quindi, il popolo Bra-
siliano non ha di certo vissuto le
Olimpiadi con lo stesso nostro
spirito, sulla sdraio, con una birra
in mano, e col sorriso sulle labbra.
E il disinteresse verso i Giochi è
stato ampiamente dimostrato da-
gli stadi quasi sempre semi-vuoti,
anche durante la gara più attesa,
quella dei 100m di Bolt. Come
mai? Non certo a causa di negli-
genza o di ignoranza del popolo
Brasiliano, ma, ci vien da pen-
sare, dal costo smisurato dei bi-
glietti (2mila reis contro i mille
reis equivalenti allo stipendio
minimo del popolo Carioca). Chi,
allora, ha goduto dello spettacolo
delle Olimpiadi e chi ne ha benefi-
ciato?Secondo Sandra Quintela,
economista e ricercatrice dell’I-
stituto di Politicas Alternativas
para o Cone Sul, queste Olimpia-
di sono i Giochi dell’esclusione,
i giochi ai quali il popolo non è
stato invitato. Basti pensare che
il 73% dei fondi destinati ai lavo-
ri siano stati incassati esclusiva-
mente da aziende private.
C’è bisogno di spendere circa 20
miliardi per finanziare un even-
to che non farà nient’altro che
incrementare le differenze so-
ciali della Cidade maravilhosa? A
quanto pare si è persa l’ennesima
occasione di cercare di ristabi-
lizzare un paese affetto da gros-
se differenze sociali, snobbando
nuovamente la periferia, e, come
dice Alessandro Couto, profes-
sore e membro del comite popu-
lar da copa e olimpiadas do Rio de
Janeiro, “sarà la certezza di una
città ancora più divisa ed elita-
ria che pas-
sa sopra ai
diritti dei
cittadini e
non cura
l’interesse
generale”.
Ben Feido,
Brasil!
A cura di
Giuseppe Mercadante
12
Voci dalla Piazza
La tendenza delle manifestazioni
popolari degli ultimi anni sembra
essere quella della ricerca dei
grandi numeri, come se fossero
l’unico scopo – perlomeno, quello
non dichiarato – e la ‘’punta di
diamante’’dellapoliticaculturale
altamurana persegue altrettanto.
Il formato delle Notti Bianche
nacque nel 2002 a Parigi,
riprendendo da Berlino l’idea
dell’apertura straordinaria dei
musei, con spettacoli diffusi
in città. Col tempo la centralità
dei musei è stata sostituita da
concerti pop, creando u n
format ripreso
da Altamura
– che della
centralità dei musei ha sempre
avutoideechiare.Conlacreazione
della ‘’Estate altamurana’’,
organizzata in Piazza Matteotti
lungo il mese di agosto, la Notte
Bianca ne è diventata la chiusura,
col concerto del nome di punta
prescelto: Pupo.
Ricordando i Righeira recenti
ospiti, vien quasi da ripescare
la quasi-citazione di McCarthy:
“l’Italia non è un paese per
giovani e Altamura ancor di più”.
Pur tralasciando la scelta di Pupo
– domandandoci perché qui il
pop debba essere quasi sempre
in chiave nostalgica – a lasciar
basiti è la poca attenzione
riposta nel resto del
programma. Sembrano
lontani i tempi dei palchi
in giro per la città, per
le esibizioni di musicisti
locali: al ‘’concertone’’
è stata affidata una
centralità quasi assoluta,
lasciando ai restanti eventi
visibilità ridottissima e
un senso di marginalità
cresciuto negli occhi degli
spettatori.
È interessante guardare
le opinioni dei ragazzi , per
ricordarsi come rappresentino
una fetta non marginale di
quello che dovrebbe essere il
pubblico dei grandi eventi e cui,
inoltre, spetterebbe maggiore
attenzione, per una vera
democrazia partecipata.
L’attenzione dei ragazzi è
parsa muoversi in due sole
direzioni: da una parte Pupo,
generazionalmente lontano,
e dall’altra il secondo polo
della serata, il Silent Party in
piazza Duomo. La folla che ha
riempito il centro in seconda
serata è sembrata casuale
e non il pubblico di un
grande evento culturale, come
se i più giovani fossero stati o si
fossero tagliati fuori. La lacuna
maggiore di questa edizione
della Notte Bianca, e dell’evento
in sé, sembra essere quella del
riproporre costantemente gli
stessi schemi, fossilizzando tutto
su programmi mai rinnovati: ad
emergere è la ripetitività della
proposta, centrata sugli stessi
generi artistici, a volte persino
sulle stesse figure.
Il concetto di Cultura che
ne emerge appare incrinato,
poiché, puntando solamente ad
una maggior partecipazione,
si perde di vista la profondità
della proposta, lontana da
eventi presenti anche in realtà
vicine: si ripete costantemente
il nome di Matera 2019 come
esempio da seguire, riferendosi,
però, solo all’aspetto turistico,
dimenticando come il percorso
intrapreso dai nostri vicini sia
stato denso anche di iniziative
ben distribuite e variegate,
promuovendo una più vera
partecipazione dal basso.
Guardando alla prima Notte
Bianca post candidatura come
Capitale italiana della Cultura,
è la cultura stessa ad uscirne
malconcia. Ripensare alla
cultura in termini non solo
quantitativi, ma soprattutto
qualitativi, è indispensabile
per seguire l’idea di una città
più felice
e matura.
C’è vita
oltre i
boom di
presenze.
Notte Bianca 2016: Parola ai GIOVANI !
A cura di
Michele Cornacchia
13
Oggi vi parliamo di Fabio Rovaz-
zi, l’unico uomo ad aver prepo-
tentemente preso posto sul trono
della musica italiana con il conse-
guimento di ben tre dischi di pla-
tino, pur dichiarando tra il fiero
e l’ironico: “Si ma io non sono un
cantante”. È questa la frase stam-
pata sulla maglia che esibisce in
ogni suo concerto, frase che ci
sbatte silenziosamente in faccia
la triste realtà dominante nel pa-
norama musicale dei nostri gior-
ni. Il figo vende, il bello no, non
sempre.
Ma ciò che non è ancora chiaro
è cosa ci sia di così affascinan-
te in una canzone dal testo ultra
banale, eseguita da un “cantate”
così semplice, mediocre, così an-
ti-idolo come Rovazzi. STOP! Non
possiamo certo continuare senza
prima risponde a una curiosissi-
ma domanda: Fabio Rovazzi, chi
è? Il Rovazzi ha appena 22 anni ed
è nel 2014 che guadagna un po’ di
spazio tra le “facebook stars” con
la pubblicazione di qualche video
comico-demenziale sulla sua pa-
gina, realizzandone contempo-
raneamente anche per artisti del
calibro di Merk & Kremont e Fred
De Palma. Poi, un giorno, la vita
gli regala la sua sorpresa miglio-
re: l’incontro con Fedez e J-Ax.
Nasce così una collaborazione
reciproca: Fabio inizia a produrre
video per i due, mentre il giudice
di X Factor e l’ex “Italiano Medio”
si prendono cura della sua imma-
gine, impegno che culmina in un
grande giorno: 28 Febbraio 2016.
Andiamo a Comandare è final-
mente sul web. È il principio di un
incontrollatosuccesso.Matornia-
mo al discorso iniziale: perché?
Analizziamo il fenomeno Rovazzi.
Premettendo che il mercato mu-
sicale degli ultimi anni sia forte-
mente inquinato dal concetto di
“immagine”, ci si aspetterebbe
che a sfondare sia un frontman
bello, carismatico, meglio se mu-
scoloso, tatuato, con il ciuffo che
cade appena sull’occhio, magari
laccato o tinto. Quelli che ciò che
importa è far agitare la folla, poi
se viene fuori anche una canzone
carina, tanto di guadagnato (vedi
Benji e Fede o i The Kolors). Ma,
ragazzi, quest’anno ogni candi-
dato al ruolo di “tormentone”, dal-
la Sofia di Soler alla stessa Vorrei
ma non Posto di Fedez e J-Ax, è
stato abissalmente oscurato da
un uomo che di ciò che abbiamo
scritto prima non ha ASSOLUTA-
MENTE NIENTE!
Pensiamoci, l’autore di Andia-
mo a Comandare di bello non ha
neanche i capelli, il fisico? Quasi
impresentabile, non ha neanche
un minimo di carriera, esperien-
ze in ambito musicale, neanche
ciò che logicamente potremmo
ritenere il minimo indispensabi-
le per navigare nel mare del mer-
cato musicale: una voce decente.
Cos’è, quindi, che ha fatto di un
uomo così apparentemente insi-
gnificante un idolo e di un brano
così evidentemente banale un
successone?
Ecco un tentativo di risposta:
Al brano del Rovazzi potremmo
indirizzare mille accuse, ma sulla
qualità della produzione c’è poco
da discutere. La base musicale è
semplice e coinvolgente e fareb-
be battere i piedi a tempo anche
a un bradipo. Il testo è assoluta-
mente anti convenzionale. Gioca
proprio sul mettere da parte tut-
ti gli elementi di trasgressione
ai quali molti brani solitamente
fanno riferimento e, ancor me-
glio, ridicolizzarli, così da tra-
sformare la Belvedere in acqua
minerale e un paio di mocassini
in ciabatte. Questo rende il testo
ironico, comico, quindi accatti-
vante. Poi, ecco il colpo di genio:
il ballo. Sostituire il ritornello
per un balletto stupido e demen-
ziale è uno degli ultimi passaggi
dell’algoritmo Rovazzi, algoritmo
simile a quello che ha fatto spo-
polare la Macarena, Asereje o la
più recente Uptown Funk. E così
otteniamo non solo una canzone
in cui rispecchiarci e con cui ri-
dere per la simpatia del testo, ma
anche una che permetta di scate-
nare i nostri istinti primordiali
con un balletto indiscussamente
idiota. E poi c’è lui. Rovazzi. Per-
ché proprio lui? Per dare una ri-
sposta è interessante appigliarsi
a una vecchia conoscenza.
Un saggio, scritto da Umberto
Eco, dal titolo Fenomenologia di
Mike Bongiorno, nel quale l’in-
tellettuale da poco scomparso
attribuiva il successo del famoso
presentatore alla sua palese me-
diocrità, alla simpatia delle sue
gaffes, al fatto di porsi dinanzi al
pubblico come una persona stra-
ordinariamente normale, quelle
che tutti i giorni potremmo ospi-
tare nelle nostre case, incontrare
nei luoghi pubblici, ecc... Ecco,
forse Rovazzi è proprio questo. E’
la voce di una società che non ha
più bisogno di idoli, ma di assolu-
ti mediomen, di persone mai trop-
po lontane, vicine alle abitudini e
alle esperienze della gente. Quel-
le a cui racconteremmo la no-
stra vita.
Le uni-
che di cui
a d e s s o
pensiamo
di poterci
fidare.
Fabio Rovazzi: Il trash diventa cash
A cura di
Marco Lorusso
Musica
14
Cronaca
Charlie Hebdo, giornale satirico
francese, ha pubblicato di recen-
te una vignetta intitolata “Seisme
a l’italienne” (terremoto all’italia-
na), in cui le vittime del sisma che
ha colpito il centro Italia vengono
paragonate a penne all’arrabbia-
ta, a penne gratinate, e infine a
delle lasagne, i cui strati di pasta
si alternano ai corpi delle vittime.
Questa vignetta ha ferito, offe-
so, umiliato. Abbiamo dichiarato
la nostra indignazione sui social
network, abbiamo affermato che
questa volta Charlie Hebdo ha
esagerato, che anche la satira
deve porsi dei limiti e rispettare
le sofferenze della gente: tutte
cose in larga parte condivisibili
o quanto meno accettabili. Pec-
cato, però, che di tutto questo ci
si ricordi solo ora. Peccato che, ai
tempi dell’attentato al giornale
francese, abbiamo scritto, affer-
mato e condiviso che noi erava-
mo Charlie, cioè che ci identifica-
vamo con un modo di fare satira
privo di ogni forma di rispetto.
Forse, travolti dall’ondata emo-
zionale dell’attentato, ci siamo
dimenticati che fare satira non
vuol dire soltanto offendere
l’altro in nome della libertà d’e-
spressione, ma suscitare il suo
risentimento per spingerlo alla
riflessione e al confronto, per
questo quando quest’arte diven-
ta un mezzo per la diffusione di
odio e intolleranza viene privata
del suo valore e del suo ruolo so-
ciale: non è più arte e non è più
utile. Quindi indigniamoci pure
quando le vittime di un terremo-
to avvenuto in Italia sono para-
gonate al ripieno di una lasagna,
ma la prossima volta facciamolo
anche quando le vittime sono
gli altri, quelli lontani, quelli
diversi, quelli che non ci riguar-
dano. Facciamolo ad esempio
quando Aylan, il bambino siriano
fotografato morto su una spiag-
gia turca, è descritto come un
palpatore di sederi. Facciamolo
in questa e in mille altre occa-
sioni. Ritroviamo, anche allora, il
coraggio e l’indignazione neces-
sari per affermare “Je ne suis pas
Charlie”.
CHARLIE HEBDO FERISCE ANCORA
La notte tra il 23 e il 24 agosto
è una di quelle notti eterne, ma
che a differenza di tutte le altre,
rimarrà impressa nella mente di
molti. Sono da poco passate le tre
e mezza quando tutto comincia.
Ci troviamo tra Amatrice e Accu-
moli. È qui che la terra comincia
a tremare. E poi… il nulla. Il silen-
zio assordante, opprimente, che
odora di polvere e sangue, che ha
il sapore del lamento disperato.
La paura all’improvviso invade
le strade, le menti, i cuori, i cor-
pi e i pochi muri rimasti in piedi.
La fine. La solitudine. La scossa
delle 3:36, di magnitudo 6.0, del
24 agosto è stata la più forte di
una serie di eventi sismici durati
tutto il mese. Il sisma e le scosse
di replica sono stati avvertiti in
gran parte del Centro Italia. Il bi-
lancio è di circa 290 morti e oltre
380 feriti. Ad oggi, ci sono anco-
ra dei dispersi.
A distanza di giorni la gente urla
ancora sotto le macerie, mentre
gli sfollati cercano di adeguarsi e
rassegnarsi alla loro nuova vita,
cercando di non essere preda di
“sciacalli” che non aspettavano
altro per infilare il coltello nelle
ferite già troppo profonde cau-
sate dal dolore del lutto, della
solitudine, della perdita. La soli-
darietà è tanta: arrivano subito
squadre di volontari da ovunque,
si raccolgono fondi e viveri.
Tuttavia, non aspettava altro
neppure tanta gente vestita di
ipocrisia, pronta ad addossare
colpe e a sperare in qualche “big
like” sui social, pubblicando mes-
saggi, stati, post e fotografie. E’ la
storia di una disperata ricerca di
popolarità anche nelle stragi. Sì,
perché quella del Centro Italia è
una strage… Complice di questa
definizione non solo l’agghiac-
ciante numero di vittime, o l’ul-
timo articolo dell’inviato speciale
che corre sul posto immediata-
mente per realizzare un servizio
dal sapore di verità, ma anche
l’estremo “sciacallaggio media-
tico”, nuova moda impazzata sul
finire dell’estate 2016. Ed è così
che tutto si trasforma in una
storia di giustizialismo e super-
ficialità umana. Una storia che
ha il sapore del nulla e del vuo-
to. E visto che parliamo di colpe
da addossare, dinanzi ad edifici
storici rasi al suolo, a case perse
per sempre e scuole ormai inesi-
stenti, si inizia respirare l’atmo-
sfera di una storia già sentita, già
scritta, che ci riporta al lontano
aprile del 2009, quando un’altra
città, qualche chilometro più a
est, fu lacerata dalle danze della
terra, lasciando amaro in bocca,
tristezza, disperazione, cordoglio,
solidarietà, ma anche tante altre
lezioni per il futuro, che forse è
il momento di capire di non aver
ancora imparato.
TERREMOTO ALL’ITALIANA
di Mariateresa Natuzzi
di Silvia Miglionico
Sedici Pagine Magazine
Periodico di cultura, informazione e attualità,
supplemento de La Nuova Murgia.
Anno I, n 0, Settembre 2016, Registrato presso
il tribunale di Bari il 09/11/2000 n 1493
Edito dall’Associazione Culturale
La Nuova Murgia
Piazza Zanardelli 22 70022 Altamura (BA)
Tel. 3293394234
e-mail: sedicipaginemagazine@gmail.com
Direttore: Antonio Molinari
Presidente: Domenico Stea
Caporedattore: Marco Lorusso
Presidente de La Nuova Murgia:
Michele Cannito
Diretto Responsabile: Giovanni Brunelli
Redazione del numero 0:
Marco Lorusso
Marco Nuzzi
Giuseppe Mercadante
Giuseppe Tirelli
Domenico Cornacchia
Mariateresa Natuzzi
Michele Cornacchia
Silvia Miglionico
Annarita Incampo
Michele Pellegrino
Mattia Pellegrino
Antonio Franco
Pubblicità:
Antonio Molinari 3293394234
Domenico Stea 3441139614
Progetto grafico e impaginazione:
Francesco Viscanti 3928759874
Stampa: Grafica & Stampa
Questo numero è stato chiuso il
13/09/2016 alle ore 21:00
15
Parlare di inizio, alla fine, non è un gioco di parole, ma un gioco di significato. É il gioco
di chi si diletta nella creazione del proprio presente che, nell’ immancabile susseguirsi
di attimi, rinnova la sua inossidabile offerta ad essere, la scintillante proposta a fare.
Siamo consapevoli dei nostri passi, muoviamone con audacia di nuovi, danziamo, af-
finchè un inizio non sia l’illusione più prossima alla labile dimenticanza della morte,
ma uno sguardo folle dinnanzi ad essa, un deliberato affronto, una
superba rivendicazione di vita. La fine, l’unica, sola, sta nell’ impos-
sibilità di ricominciare. Prima di allora noi nasceremo altre infinite
volte.
Siamo stati iniziati alla vita.
É ora di iniziare a viverla.
RITORNO DALLE VACANZE
A cura di Michele Pellegrino e Mattia Pellegrino
A cura di
Antonio Franco
La fine dell’inizio
Lo staff di 16 Pagine
Magazine ringrazia:
Maria Lorusso
Alessandro Cornacchia
Rossella Loizzo
Marica Basile 
Giuseppe Sardone
Teresa Rifino
Francesco Tirelli
Arianna Ninivaggi
Mariagiulia Capriati
Antonio Pillera
Giovanni Chironna
Francesco Barone
Francesco Lorusso
Tommaso Dambrosio
Maria Riviello
Gianpiero Andriulli
Vincenzo Carone
Giusi Langiulli
Gerry Nuzzi
Michele Masiello
Lucia Altamura
Giuseppe Cornacchia 
Alessandro Cornacchia
Clara Patella
16

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  • 2. 2 Indice 3 4-5 6 7 8-9 10-11 12 13 14 15 Editoriale : L’inizio dell’inizio In altre parole : L’Articolo 1 della costituzione Si torna tra i banchi di scuola: il solito inizio? Campioni del mondo ... in ignegneria Quando l’Arte insegna a vivere: Dalì Rio 2016, i Giochi dell’esclusione Notte Bianca 2016 ... Parola ai GIOVANI ! Fabio Rovazzi: Il trash diventa cash Terremoto in italia e Charlie Hebdo La fine dell’inizo
  • 3. 3 L’inizio dell’inizio E forse non lo sappiamo neanche fare. O forse non siamo le persone giuste per farlo. Dopotut- to, nessuno ce l’ha mai detto, nessuno ce l’ha mai consigliato. Una cosa, però, è certa. Noi non siamo giornalisti e questo non è solo un giornale. Noi siamo i viaggiatori senza meta, quelli che camminano per il puro gusto di andare, quelli che non sanno dove arriveranno, ma che sanno cosa vogliono. Quelli che ogni sogno è un obiettivo e ogni attimo è la vita. Quelli per cui un limi- te non esiste e che se malauguratamente dovessero convincersi del contrario, beh, poco impor- ta, si supera, perché non esiste limite che non si pieghi alla passione. Non esiste niente di più forte di giovani che si uniscono per creare, che prendono per mano l’entusiasmo e si gettano nel nuovo. Tanto la paura non esiste, non c’è tempo per avere paura. C’è tempo per fare e fare tanto, per guardarsi, capirsi e andare, senza pensarci e ripensarci, perchè, signori, a volte il pensare ha un solo nemico, suo fratello, pensare troppo. Sedici Pagine è nato. Cosa sia Sedici Pagine un po’ ve l’abbiamo già anticipato, un bel po’ lo sco- prirete da oggi. Ognuno se ne farà un’i- dea. C’è chi lo amerà, chi lo straccerà, chi lo butterà nel primo cestino a dispo- sizione dopo averlo sfogliato distratta- mente, ma le poche parole che vogliamo spendere per comporre questo “Inizio dell’inizio” le utilizziamo per spiegarvi cosa sia per noi, questa nuova rivista. Sedici Pagine è una rivoluzione silen- ziosa, quella che si fa giorno dopo gior- no, con pazienza e quella sana voglia di mangiare il mondo. È unione, collabora- zione, serietà e divertimento. Impegno, dimenticavamo l’impegno e la forza, quel che basta per distruggere la mono- tonia che ogni giorno prova a risucchiarci. È il grido di un giovane che ha capito non di AVERE ma di ESSERE un’opportunità, poi lo capisce un altro e un altro ancora e si finisce, meraviglio- samente, a costruire, progettare, ripeto, conoscendo i tuoi obiettivi, ma non la tua destinazione. Tutto ciò che c’è da scoprire sarà vostro una volta girata questa pagina, ma prima di farlo, ecco a voi un augurio, un inno alla vita, un motto perenne, che traduciamo in una semplice e sotti- lissima poesia. Non cercate la felicità, siate la felicità Non cercate l’amicizia, siate l’amicizia Non cercate la novità, siate la novità Non cercate la compagnia, siate la compagnia Non cercate il divertimento, siate il divertimento Non cercate un’opportunità, siate un’opportunità Non cercate una possibilità, siate una possibilità Non cercate l’amore, siate l’amore E così amerete E così vi ameranno Editoriale
  • 4. In Altre Parole 4 22 dicembre del 1947: viene ap- provata in via definitiva la Costi- tuzione della Repubblica Italia- na, promulgata dal Capo di Stato provvisorio Enrico de Nicola il 27 dicembre dello stesso anno. La Costituzione entra poi uffi- cialmente in vigore il primo gen- naio del 1948. Nasce così quella che tuttora viene definita come una delle più belle costituzioni esistenti nel panorama inter- nazionale. Ogni singola parola, ogni com- ma, ogni articolo in essa conte- nuti, rivestono un ruolo essen- ziale in tutti gli aspetti principali della nostra vita. È necessario a questo punto fare un piccolo passo indietro, fon- damentale per capire come la nostra Costituzione rappresenti prima di ogni altra cosa l’affer- mazione della forza di un popo- lo, un popolo che ha voglia di ri- nascere dagli orrori della guerra, e al contempo la certificazione normativa di un nuovo inizio per lo stato italiano; Tutto ciò ha inizio il 2 giugno 1946, quando con il referendum istituzionale, infatti, il popolo italiano, in maniera tutt’altro che omogenea, sceglie la repub- blica come forma di stato, prefe- rendola alla monarchia. L’Articolo 1 della Costituzione italiana, il suo esordio, vuole dunque essere la viva rappresen- tazione di questa scelta. Rappresenta un monito, un pun- to fermo, un dogma dal quale ripartire e sul quale ricostruire una realtà nuova e rinnovata. La penisola italica infatti, che fu culla dell’impero romano e del sacro impero germanico, terra di comuni e signorie, di ducati, papati e monarchie raggiunge, con la promulgazione della carta fondamentale, la piena consa- pevolezza del suo essere dimora di un popolo, il popolo italiano, che era riuscito a ri- unirsi sotto un unico vessillo soltanto poco più di ottanta anni prima, con l’unità d’I- talia, compiutasi nel 1861. È solo sapendo que- sto che è possibile cogliere a pieno la forza dirompente delle parole che com- pongono l’inizio della nostra Costituzione: Sono parole nitide, schiette e che non devono mai apparire banali perché alle loro spalle si cela un universo di intrecci storici, lotte, sangue e rivendicazioni che oggi consentono a tutti noi di vivere in un paese che, al di là dei ben noti difetti, deve essere considerato un grande paese. Sono parole che hanno un peso e, come tali, devono essere sottopo- ste ad un esame approfondito. Uno per tutti! L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. » (Articolo 1 della Costituzione italiana)
  • 5. 5 Innanzi tutto, la prima parola: Italia. In alto, solenne, in modo tale da chiarire subito che tutto quanto seguirà è stato scritto per Lei, per servirla. È l’inizio dell’inizio; la nuova Italia domina il proprio passato e diventa padrona del pro- prio destino. È il trionfo di una nuova creatura istituzionale che ha come fondamento il popolo, un popolo finalmente in grado di decidere le sorti del proprio Stato. I padri costituenti avrebbero potuto limitarsi a questo, senza proseguire in ulteriori specifica- zioni, ma non bastava, c’era bisogno di altro rispetto al semplice sentimento di unione incarnatosi nell’enunciato: “l’Italia è una repubblica democratica”. Questi capirono, infatti, che c’e- ra bisogno di un elemento comu- ne, vivo e concreto che accom- pagnasse tutto il popolo italiano durante la costruzione di una co- scienza sociale e che alimentasse la fiamma della creazione di un giovane paese che si accingeva a diventare una grande nazione: l’elemento è il lavoro. Ma perché proprio il lavoro? Per- ché il lavoro e non la libertà, la pace, il rispetto o la fratellanza? Perché si è scelto di porre un vo- cabolo così semplice e concreto in un contesto in cui anche la più romantica ideologia sarebbe sta- ta benaccetta? La risposta è semplice. Semplice e straordinaria. È soltanto grazie al lavoro, infatti, che il popolo italiano ha potuto emancipar- si da tutte le differenziazio- ni storiche legate ad ele- menti come i titoli nobiliari, il ceto sociale o il ruolo istituzionale. Rappresenta il trionfo di un’ideologia che si incarna nel solidari- smo e nella fortissima ricerca dell’uguaglianza. È la straordinaria capacità di lavorare che libera l’uomo dall’e- goismo e dall’ignoranza, dando modo all’individuo di arricchirsi fisicamente e mentalmente, esaltando le proprie potenzialità, esistendo e crescendo giorno dopo giorno. Per questo, ciò che leggeremo dopo questo meraviglioso inizio, ne risulta una naturale conse- guenza. “La sovranità appartie- ne al Popolo” finalmente libero e consapevole, che per la prima volta ha tra le mani le chiavi del proprio futuro, padrone di sé stesso, in quelle forme e limiti racchiusi nel prezioso scrigno che abbiamo ereditato dai nostri padri costituenti, fonte di orgo- glio dell’essere italiani: la nostra Costituzione. A cura di Marco Nuzzi
  • 6. Scuola 6 Con spaventosa puntualità, settembre è arrivato. Il temuto e inesorabile limite delle vacanze estive di ogni studente è stato abbondantemente superato. È facile imbattersi in studenti in piena crisi, già col fiato sul collo tra esami da sostenere o compiti a casa diventati (troppo in fretta) un fardello insopportabile. In effetti, guardando indietro alla spensieratezza di un mese fa, sembra passata un’eternità. Ora, invece: ansia, scadenze, ritmi ripetitivi e monotoni colorano le giornate di uno smorto verderame da cui sembra difficile intravedere l’uscita, ancora troppo lontana, della pausa invernale. “Neanche il tempo di tornare alla realtà” è il commento sulla bocca di tutti o quasi. Tuttavia si rimane ben consapevoli che la realtà è diversa, che alla realtà non si torna, che essa è tutt’intorno e ci circonda. Ogni scalino, ogni banco, ogni libro, ogni pagina letta, studiata, amata è un passo avanti, un passo verso il futuro. A guardarci indietro, non si rischia che di rimanere impantanati nel passato. L’altra faccia della medaglia è composta dalle matricole di ogni ordine e grado. Essi ci dimostrano quanto la “nostra” realtà che crediamo di dominare, di avere in pugno, sia estremamente più fragile di ogni certezza. E se ci si mette bene in ascolto si arrivanoasentire gli ansimi, le paure, i respiri affannosi di chi si vede catapultato, da un giorno all’altro, in una realtàchesembra infinitamente più grande ed indomabile. Sono i timori che bussano alla porta di chi, quest’anno, si trova al difficile passaggio all’università o alla scuola superiore. Per loro, come per tutti dovrebbe essere, Settembre ovvero questo Inizio, ha un sapore diverso, ha il sapore di una nuova avventura. Purtroppo, come scrive il cantautore romano Niccolò Fabi, non si vive solo di inizi, ma “tra la partenza ed il traguardo... in mezzo c’è tutto il resto, e tutto il resto è, silenziosamente, costruire”. Un augurio sincero da parte di tutta la redazione di 16 Pagine affinché, a partire da questo inizio, possiate costruire la vita a vostra immagine e somiglianza, trasformando ogni ostacolo in opportunità per ricominciare ed ogni vittoria, anche la più piccola, nel punto di partenza della sola s t r a d a su cui c o n v i e n e marciare, la nostra. SI TORNA TRA I BANCHI, SEMPRE IL SOLITO INIZIO? Il ritorno per migliaia di studenti fra banchi, aule e libri (ormai) impolverati A cura di Giuseppe Tirelli
  • 7. 7 “Trascendere le limitazio- ni umane e divenire signori dell’universo”: così dichiarò fie- ramente il siracusano Archime- de (nell’immagine), il primo grande ingegnere della storia occidentale. Oggi, dopo più di duemila anni, il compito dell’ingegneria non è cambia- to: facilitare la vita dell’uomo sul pianeta, sottomettendo alla sua volontà le inarresta- bili forze della natura. A partire dagli anni ‘40, il progresso tecnologico ha rag- giunto livelli straordinari: siamo in grado di produrre energia elettrica sfruttando la luce solare, riscaldare cibi tra- mite emissione di microonde, stampare un oggetto in tre di- mensioni, ecc.. Insomma, l’ingegneria ha dato il suo contributo a tutti i campi della conoscenza e noi comuni mortali, ignari della reale quantità di risorse im- piegate nella ricerca, ci lasciamo piacevolmente travolgere dalle nuove invenzioni. Ma, ecco la no- tizia. Vi siete mai chiesti di che nazionalità siano i migliori in- gegneri? Forse, per sentito dire, potreste pensare ai cinesi tuttofare, o ai più rinomati ricercatori ameri- cani, eppure i dati parlano chia- ro: a tutti questi il primato è stato soffiato dagli ingegneri italiani, che, stando a quanto riferito da Sandro De Poli, amministratore delegato per l’Italia della General Electric, sembrano più preparati dei loro colleghi, che siano orien- tali o oltreoceano e, indovinate un po’, anche costare meno. E’ il momento di rendersi conto che, oltre lo sport e ogni discipli- na olimpica, ci sono altre meda- glie d’oro che è un onore colle- zionare, una tra queste è proprio quella conquistata dagli inge- gneri italiani! Ma, volete sapere un’altra curiosità? Si dà il caso che molti di loro provengano dal Sud Italia e abbiano condotto gli studi in università meridio- nali. Recentemente, ad esem- pio, un’equipe di ingegneri dell’Università di Palermo ha realizzato un prototipo di ge- neratore che produce energia elettrica dall’acqua salata del mare attraverso il processo di elettrodialisi inversa. Si tratta di una vera rivoluzio- ne che fa onore alla “macchi- na” creatrice della penisola. Moltissimi potrebbero essere gli esempi di invenzioni made in Italy, ma per evitare di bat- tere la grancassa, ci limitiamo ad apprezzare il duro lavoro dei nostri compatrioti i quali, nonostante la crisi economica che sta massacrando l’intera Europa, continuano imperter- riti ad esclamare “Eureka!”. CAMPIONI DEL MONDO… IN INGEGNERIA! Dalla radio di Guglielmo Marconi, al telefono di Antonio Meucci, alla pila di Ales- sandro Volta. Gli Italiani non perdono la stoffa Scienza A cura di Domenico Cornacchia
  • 8. 8 Arte QUANDO L’ARTE INSEGNA A VIVERE Dinanzi ad un mondo do- minato dalla guerra, at- tanagliato dalla paura e sovrastato dalla mancan- za di un’etica profonda- mente umana, l’arte con i suoi mille misteri e con i suoi infiniti tasselli di menti complesse e fuo- ri dall’ordinario, può condurci ad una presa di coscienza, alla consa- pevolezza di chi siamo e di quello che la mente umana può spingersi a creare. Persino un sur- realista, più conosciuto per i suoi baffi che per il suo genio, eccentrico, colorato, bizzarro, come Salvador Dalì può la- sciarci un evocativo mes- saggio attraverso le sue inconfondibili pennella- te. Come nella maggior par- te delle sue opere, anche in “Bambino Geopolitico guarda la nascita dell’uomo nuo- vo” (a finaco ->) Dalì lascia spazio a molteplici chiavi di lettura. L’o- pera dipinta nel 1943, durante il soggiorno di Dalì negli Stati Uni- ti, ripercorre un tema frequen- te della sua pittura: l’uovo come simbolo di rinascita. Al centro un uomo lotta con il duro guscio di un uovo per nascere alla vita. Il virtuosismo delle sue membra lascia intendere il dolore che ac- compagna la nascita, accentuato dalla macchia rosso sangue che sgorga lenta dalla crepa. L’uovo non è altro che il nostro globo. La mano dell’“uomo nuovo” copre l’Inghilterra e sembra dirigersi sulla Europa mentre il suo cor- po diventa visibile al di sopra del continente americano. La critica vede nell’opera la paro- dia della seconda guerra mon- diale: la nuova potenza economi- ca degli Stati Uniti emerge con tutto il suo dinamismo dinanzi ad un’Europa che ha fallito. Tuttavia, un’attenta osservazio- ne dell’opera non allontana la A lezione da Salvador Dalì www.sipremsrl.it
  • 9. 9 sua originaria ispirazione dalla nostra attuale realtà geopolitica. Il rombo di un’America che non smette di imporsi segretamente o no negli affari mondiali, il suo invadente capitalismo, un’Euro- pa ogni giorno sempre più debole alle prese con il terrorismo inter- nazionale sono gli incubi della nostra generazione. E tutti noi, impauriti da un uomo nuovo che sembra incontrollabi- le e poco razionale, non faccia- mo altro che aggrapparci come il bambino geopolitico di Dalì, ad un adulto – nell’opera di sesso incerto - che ha più paura di noi, che con il corpo indietreggia spa- ventato, ignaro della sua identità, che rassegnato indica al bambino terrorizzato l’uomo nuovo. Uomo che l’adulto sa di aver creato e nutrito da sé (infatti, la posizione dell’adulto riprende, secondo alcuni, la posa di Dio nel- la “Creazione di Adamo” di Mi- chelangelo). L’adulto dirige il dito verso la zona del Medio Oriente, ricettacolo di violenza, scontri, egoismo delle potenze mondiali e morte. Al di sopra dell’uovo regna una sortaditelosfuggente,chesembra liquefarsi e che rappresenterebbe un pericoloso fungo atomico, il frutto di minacciose armi di mas- sa. L’uomo nuovo che nasce alla vita è l’uomo del nostro tempo. Noi come l’adulto e il bambino siamo terrorizzati da lui, perché, proba- bilmente, temiamo che quell’uo- mo si riveli una bestia e che il significato di “umanità” non sia più comprensibile a noi che lo stiamo a guardare inermi, nu- trendolo inconsapevolmente. Il bambino geopolitico, tuttavia, viene dipinto mentre con la sua poca forza si alza in piedi per cre- scere, per diventare consapevole, per quanto impaurito, del- la re- altà che gli si p o n e di fron- te. Allo- ra noi gio- vani, come quel bambino, pos- siamo anco- r a r i a l z a r c i , s p e r a r e non in un mon- do nuovo, m a in un mondo migliore di quello che gli adulti ci stanno regalando. Noi abbiamo in mano l’energia del cam- biamento, la forza della me- tamorfosi, la voglia di lottare anche contro un’umanità che ci terrorizza e ci inquieta, cercan- do di capire chi siamo ora e dove stiamo andando. Noi possiamo imparare ad essere la rinascita che vogliamo essere. Iniziamo ad alzarci in piedi, a camminare da soli, a far valere i nostri talenti nascosti, a non es- sere indifferenti alla realtà di cui facciamo parte. Dalì ci esorta indirettamente a non lasciare trascorrere il tempo, ad apprezzare il presente prima che sia troppo tardi, ad usare le nostre energie per cambiare nel nostro piccolo universo quotidia- no e nel nostro atteggiamento nei confronti dei nostri simili. Guar- diamo al “qui ed ora”, alle occa- sio- ni che abbiamo per essere persone migliori, per regalare alle future generazioni un mondo non di incubi irrisol- ti, ma di sogni e di tentativi coraggiosi. A cura di Annarita Incampo
  • 10. 10 Sport Le Olimpiadi di Rio 2016 sono terminate e l’Italia, piazzatasi nona nel medagliere, non può certo lamentarsi, dato che non faceva così bene da molte edizio- ni (Atene 2004, 32 medaglie ndr). Ma, oltre all’Italvolley,t che ha fatto appassionare tantissimi no- stri concittadini ad uno sport che per cultura non è seguito come il calcio, c’è dell’altro, molto più importante e delicato, che carat- terizza praticamente ogni edizio- ne Olimpica. Passando dai Giochi nazisti del 1936, fino ad Atene 2004 che per molti economisti ha rappresentato l’inizio del default della Grecia, ogni Olimpiade ha celato sempre qualcosa che non dovrebbe minimamente avere a che fare con lo spirito dei Giochi. Rio non ha fatto altro che confer- mare questa importanza sociale e politica e, sicuramente, uno degli eventi che più ha segnato questa manifestazione è quello che ha coinvolto l’atleta egiziano Islam El Shehaby e l’israeliano Or Sas- son nel Judo. Al termine della gara, vinta dall’I- sraeliano, El Shehaby non ha stretto la mano allungatagli da Sasson, comportamento che, ov- viamente, non è passato inosser- vato. Anche con un pizzico di ipocrisia, un po’ tutti, dagli atleti ai sempli- ci spettatori o opinionisti, hanno condannato il gesto del judoka egiziano che è stato prontamente squalificato dalla manifestazio- ne. Per quanto il gesto sia con- dannabile perché lontano dallo spirito Olimpico, bisogna comun- que contestualizzarlo. La decisio- ne di El Shehaby nasce da anni di sfruttamenti e soprusi subiti dal popolo Egiziano e dall’inte- ro Medio Oriente. In quelle zone la Primavera araba e tutti gli scontri precedenti non sono stati dimenticati, anzi, ci sono ancora tensioni fortissime. L’esempio dell’atleta egiziano non è edifi- cante, ma conferma il quesito iniziale: forse è arrivato il mo- mento di vedere i Giochi Olim- pici sotto un’altra ottica, maga- ri più cruda, ma, ahinoi reale. È realmente cambiato qualcosa da quando Goebbels provò, riuscen- doci, a camuffare l’obbiettivo dei Giochi, in quel caso dimostrando il prestigio internazionale della Germania Nazista, utilizzando le Olimpiadi solo come propaganda della purezza e della superiorità della razza ariana, abbandonan- do totalmente lo spirito Olimpi- co di pace, fraternità e diverti- mento? Perché, se concepiamo le Olimpiadi così, lo dobbiamo a loro. E se magari quei Giochi volevano dimostrare qualcosa, queste, a detta di molti econo- misti e studiosi, hanno cercato di occultare una realtà Brasilia- na totalmente diversa da quella mostrata. Se alla vigilia le Olimpiadi era- no viste come un antidoto per sconfiggere definitivamente la velenosa e instabile economia Brasiliana, ora come ora, a Gio- chi conclusi, l’obiettivo non sem- bra essere stato raggiunto, tan- to che nemmeno gli imbattibili Sud Coreani del tiro con l’arco o i pluri medagliati italiani nella carabina avrebbero potuto cen- trarlo. Caput, fine dei Giochi, in tutti i sensi. La percezione che queste Olimpiadi non sarebbero RIO 2016, I GIOCHI DELL’ESCLUSIONE Ecco cosa si nasconde dietro l’ultima edizione dei Giochi Olimpici.
  • 11. 11 andate a buon fine, prettamente dal punto di vista organizzativo, viaggiava nell’aria già dai primi giorni.Dal pericolo del virus zika alle modernissime e scintillanti acque della piscina (sarcasmo), se ne sono viste di tutti i colori, tendenti al verde, soprattutto. Mentre seguivo le qualificazioni dei tuffi in quella broda, mi sono rimbalzate nei ricordi, non visi- vi ovviamente, le Olimpiadi del 1910, dove le gare di nuoto si svol- sero in un fangoso canale. Inef- ficienza o cotanta ammirazione del passato tanto da volerlo ri- prendere, come un bambino che correndo, cerca di prendere una farfalla, ma, distratto, inciampa su ogni pietra? E mentre la Pen- netta vinceva finalmente quella medaglia Olimpica tanto deside- rata, nelle favelas non si respira- va un’aria positiva, la stessa aria pesante che soffia da decenni, se non secoli. Juliana Portella, attivista as- sai vicina alle favelas Brasiliane, ,ha chiaramente espresso il suo dissenso rispetto a queste Olim- piadi, considerate piene di ipo- crisia: “Come si può parlare di spirito olimpico in queste condi- zioni? Queste Olimpiadi sono una truffa per gli abitanti delle favelas e la ragione è la disuguaglianza, la povertà”. Quindi, il popolo Bra- siliano non ha di certo vissuto le Olimpiadi con lo stesso nostro spirito, sulla sdraio, con una birra in mano, e col sorriso sulle labbra. E il disinteresse verso i Giochi è stato ampiamente dimostrato da- gli stadi quasi sempre semi-vuoti, anche durante la gara più attesa, quella dei 100m di Bolt. Come mai? Non certo a causa di negli- genza o di ignoranza del popolo Brasiliano, ma, ci vien da pen- sare, dal costo smisurato dei bi- glietti (2mila reis contro i mille reis equivalenti allo stipendio minimo del popolo Carioca). Chi, allora, ha goduto dello spettacolo delle Olimpiadi e chi ne ha benefi- ciato?Secondo Sandra Quintela, economista e ricercatrice dell’I- stituto di Politicas Alternativas para o Cone Sul, queste Olimpia- di sono i Giochi dell’esclusione, i giochi ai quali il popolo non è stato invitato. Basti pensare che il 73% dei fondi destinati ai lavo- ri siano stati incassati esclusiva- mente da aziende private. C’è bisogno di spendere circa 20 miliardi per finanziare un even- to che non farà nient’altro che incrementare le differenze so- ciali della Cidade maravilhosa? A quanto pare si è persa l’ennesima occasione di cercare di ristabi- lizzare un paese affetto da gros- se differenze sociali, snobbando nuovamente la periferia, e, come dice Alessandro Couto, profes- sore e membro del comite popu- lar da copa e olimpiadas do Rio de Janeiro, “sarà la certezza di una città ancora più divisa ed elita- ria che pas- sa sopra ai diritti dei cittadini e non cura l’interesse generale”. Ben Feido, Brasil! A cura di Giuseppe Mercadante
  • 12. 12 Voci dalla Piazza La tendenza delle manifestazioni popolari degli ultimi anni sembra essere quella della ricerca dei grandi numeri, come se fossero l’unico scopo – perlomeno, quello non dichiarato – e la ‘’punta di diamante’’dellapoliticaculturale altamurana persegue altrettanto. Il formato delle Notti Bianche nacque nel 2002 a Parigi, riprendendo da Berlino l’idea dell’apertura straordinaria dei musei, con spettacoli diffusi in città. Col tempo la centralità dei musei è stata sostituita da concerti pop, creando u n format ripreso da Altamura – che della centralità dei musei ha sempre avutoideechiare.Conlacreazione della ‘’Estate altamurana’’, organizzata in Piazza Matteotti lungo il mese di agosto, la Notte Bianca ne è diventata la chiusura, col concerto del nome di punta prescelto: Pupo. Ricordando i Righeira recenti ospiti, vien quasi da ripescare la quasi-citazione di McCarthy: “l’Italia non è un paese per giovani e Altamura ancor di più”. Pur tralasciando la scelta di Pupo – domandandoci perché qui il pop debba essere quasi sempre in chiave nostalgica – a lasciar basiti è la poca attenzione riposta nel resto del programma. Sembrano lontani i tempi dei palchi in giro per la città, per le esibizioni di musicisti locali: al ‘’concertone’’ è stata affidata una centralità quasi assoluta, lasciando ai restanti eventi visibilità ridottissima e un senso di marginalità cresciuto negli occhi degli spettatori. È interessante guardare le opinioni dei ragazzi , per ricordarsi come rappresentino una fetta non marginale di quello che dovrebbe essere il pubblico dei grandi eventi e cui, inoltre, spetterebbe maggiore attenzione, per una vera democrazia partecipata. L’attenzione dei ragazzi è parsa muoversi in due sole direzioni: da una parte Pupo, generazionalmente lontano, e dall’altra il secondo polo della serata, il Silent Party in piazza Duomo. La folla che ha riempito il centro in seconda serata è sembrata casuale e non il pubblico di un grande evento culturale, come se i più giovani fossero stati o si fossero tagliati fuori. La lacuna maggiore di questa edizione della Notte Bianca, e dell’evento in sé, sembra essere quella del riproporre costantemente gli stessi schemi, fossilizzando tutto su programmi mai rinnovati: ad emergere è la ripetitività della proposta, centrata sugli stessi generi artistici, a volte persino sulle stesse figure. Il concetto di Cultura che ne emerge appare incrinato, poiché, puntando solamente ad una maggior partecipazione, si perde di vista la profondità della proposta, lontana da eventi presenti anche in realtà vicine: si ripete costantemente il nome di Matera 2019 come esempio da seguire, riferendosi, però, solo all’aspetto turistico, dimenticando come il percorso intrapreso dai nostri vicini sia stato denso anche di iniziative ben distribuite e variegate, promuovendo una più vera partecipazione dal basso. Guardando alla prima Notte Bianca post candidatura come Capitale italiana della Cultura, è la cultura stessa ad uscirne malconcia. Ripensare alla cultura in termini non solo quantitativi, ma soprattutto qualitativi, è indispensabile per seguire l’idea di una città più felice e matura. C’è vita oltre i boom di presenze. Notte Bianca 2016: Parola ai GIOVANI ! A cura di Michele Cornacchia
  • 13. 13 Oggi vi parliamo di Fabio Rovaz- zi, l’unico uomo ad aver prepo- tentemente preso posto sul trono della musica italiana con il conse- guimento di ben tre dischi di pla- tino, pur dichiarando tra il fiero e l’ironico: “Si ma io non sono un cantante”. È questa la frase stam- pata sulla maglia che esibisce in ogni suo concerto, frase che ci sbatte silenziosamente in faccia la triste realtà dominante nel pa- norama musicale dei nostri gior- ni. Il figo vende, il bello no, non sempre. Ma ciò che non è ancora chiaro è cosa ci sia di così affascinan- te in una canzone dal testo ultra banale, eseguita da un “cantate” così semplice, mediocre, così an- ti-idolo come Rovazzi. STOP! Non possiamo certo continuare senza prima risponde a una curiosissi- ma domanda: Fabio Rovazzi, chi è? Il Rovazzi ha appena 22 anni ed è nel 2014 che guadagna un po’ di spazio tra le “facebook stars” con la pubblicazione di qualche video comico-demenziale sulla sua pa- gina, realizzandone contempo- raneamente anche per artisti del calibro di Merk & Kremont e Fred De Palma. Poi, un giorno, la vita gli regala la sua sorpresa miglio- re: l’incontro con Fedez e J-Ax. Nasce così una collaborazione reciproca: Fabio inizia a produrre video per i due, mentre il giudice di X Factor e l’ex “Italiano Medio” si prendono cura della sua imma- gine, impegno che culmina in un grande giorno: 28 Febbraio 2016. Andiamo a Comandare è final- mente sul web. È il principio di un incontrollatosuccesso.Matornia- mo al discorso iniziale: perché? Analizziamo il fenomeno Rovazzi. Premettendo che il mercato mu- sicale degli ultimi anni sia forte- mente inquinato dal concetto di “immagine”, ci si aspetterebbe che a sfondare sia un frontman bello, carismatico, meglio se mu- scoloso, tatuato, con il ciuffo che cade appena sull’occhio, magari laccato o tinto. Quelli che ciò che importa è far agitare la folla, poi se viene fuori anche una canzone carina, tanto di guadagnato (vedi Benji e Fede o i The Kolors). Ma, ragazzi, quest’anno ogni candi- dato al ruolo di “tormentone”, dal- la Sofia di Soler alla stessa Vorrei ma non Posto di Fedez e J-Ax, è stato abissalmente oscurato da un uomo che di ciò che abbiamo scritto prima non ha ASSOLUTA- MENTE NIENTE! Pensiamoci, l’autore di Andia- mo a Comandare di bello non ha neanche i capelli, il fisico? Quasi impresentabile, non ha neanche un minimo di carriera, esperien- ze in ambito musicale, neanche ciò che logicamente potremmo ritenere il minimo indispensabi- le per navigare nel mare del mer- cato musicale: una voce decente. Cos’è, quindi, che ha fatto di un uomo così apparentemente insi- gnificante un idolo e di un brano così evidentemente banale un successone? Ecco un tentativo di risposta: Al brano del Rovazzi potremmo indirizzare mille accuse, ma sulla qualità della produzione c’è poco da discutere. La base musicale è semplice e coinvolgente e fareb- be battere i piedi a tempo anche a un bradipo. Il testo è assoluta- mente anti convenzionale. Gioca proprio sul mettere da parte tut- ti gli elementi di trasgressione ai quali molti brani solitamente fanno riferimento e, ancor me- glio, ridicolizzarli, così da tra- sformare la Belvedere in acqua minerale e un paio di mocassini in ciabatte. Questo rende il testo ironico, comico, quindi accatti- vante. Poi, ecco il colpo di genio: il ballo. Sostituire il ritornello per un balletto stupido e demen- ziale è uno degli ultimi passaggi dell’algoritmo Rovazzi, algoritmo simile a quello che ha fatto spo- polare la Macarena, Asereje o la più recente Uptown Funk. E così otteniamo non solo una canzone in cui rispecchiarci e con cui ri- dere per la simpatia del testo, ma anche una che permetta di scate- nare i nostri istinti primordiali con un balletto indiscussamente idiota. E poi c’è lui. Rovazzi. Per- ché proprio lui? Per dare una ri- sposta è interessante appigliarsi a una vecchia conoscenza. Un saggio, scritto da Umberto Eco, dal titolo Fenomenologia di Mike Bongiorno, nel quale l’in- tellettuale da poco scomparso attribuiva il successo del famoso presentatore alla sua palese me- diocrità, alla simpatia delle sue gaffes, al fatto di porsi dinanzi al pubblico come una persona stra- ordinariamente normale, quelle che tutti i giorni potremmo ospi- tare nelle nostre case, incontrare nei luoghi pubblici, ecc... Ecco, forse Rovazzi è proprio questo. E’ la voce di una società che non ha più bisogno di idoli, ma di assolu- ti mediomen, di persone mai trop- po lontane, vicine alle abitudini e alle esperienze della gente. Quel- le a cui racconteremmo la no- stra vita. Le uni- che di cui a d e s s o pensiamo di poterci fidare. Fabio Rovazzi: Il trash diventa cash A cura di Marco Lorusso Musica
  • 14. 14 Cronaca Charlie Hebdo, giornale satirico francese, ha pubblicato di recen- te una vignetta intitolata “Seisme a l’italienne” (terremoto all’italia- na), in cui le vittime del sisma che ha colpito il centro Italia vengono paragonate a penne all’arrabbia- ta, a penne gratinate, e infine a delle lasagne, i cui strati di pasta si alternano ai corpi delle vittime. Questa vignetta ha ferito, offe- so, umiliato. Abbiamo dichiarato la nostra indignazione sui social network, abbiamo affermato che questa volta Charlie Hebdo ha esagerato, che anche la satira deve porsi dei limiti e rispettare le sofferenze della gente: tutte cose in larga parte condivisibili o quanto meno accettabili. Pec- cato, però, che di tutto questo ci si ricordi solo ora. Peccato che, ai tempi dell’attentato al giornale francese, abbiamo scritto, affer- mato e condiviso che noi erava- mo Charlie, cioè che ci identifica- vamo con un modo di fare satira privo di ogni forma di rispetto. Forse, travolti dall’ondata emo- zionale dell’attentato, ci siamo dimenticati che fare satira non vuol dire soltanto offendere l’altro in nome della libertà d’e- spressione, ma suscitare il suo risentimento per spingerlo alla riflessione e al confronto, per questo quando quest’arte diven- ta un mezzo per la diffusione di odio e intolleranza viene privata del suo valore e del suo ruolo so- ciale: non è più arte e non è più utile. Quindi indigniamoci pure quando le vittime di un terremo- to avvenuto in Italia sono para- gonate al ripieno di una lasagna, ma la prossima volta facciamolo anche quando le vittime sono gli altri, quelli lontani, quelli diversi, quelli che non ci riguar- dano. Facciamolo ad esempio quando Aylan, il bambino siriano fotografato morto su una spiag- gia turca, è descritto come un palpatore di sederi. Facciamolo in questa e in mille altre occa- sioni. Ritroviamo, anche allora, il coraggio e l’indignazione neces- sari per affermare “Je ne suis pas Charlie”. CHARLIE HEBDO FERISCE ANCORA La notte tra il 23 e il 24 agosto è una di quelle notti eterne, ma che a differenza di tutte le altre, rimarrà impressa nella mente di molti. Sono da poco passate le tre e mezza quando tutto comincia. Ci troviamo tra Amatrice e Accu- moli. È qui che la terra comincia a tremare. E poi… il nulla. Il silen- zio assordante, opprimente, che odora di polvere e sangue, che ha il sapore del lamento disperato. La paura all’improvviso invade le strade, le menti, i cuori, i cor- pi e i pochi muri rimasti in piedi. La fine. La solitudine. La scossa delle 3:36, di magnitudo 6.0, del 24 agosto è stata la più forte di una serie di eventi sismici durati tutto il mese. Il sisma e le scosse di replica sono stati avvertiti in gran parte del Centro Italia. Il bi- lancio è di circa 290 morti e oltre 380 feriti. Ad oggi, ci sono anco- ra dei dispersi. A distanza di giorni la gente urla ancora sotto le macerie, mentre gli sfollati cercano di adeguarsi e rassegnarsi alla loro nuova vita, cercando di non essere preda di “sciacalli” che non aspettavano altro per infilare il coltello nelle ferite già troppo profonde cau- sate dal dolore del lutto, della solitudine, della perdita. La soli- darietà è tanta: arrivano subito squadre di volontari da ovunque, si raccolgono fondi e viveri. Tuttavia, non aspettava altro neppure tanta gente vestita di ipocrisia, pronta ad addossare colpe e a sperare in qualche “big like” sui social, pubblicando mes- saggi, stati, post e fotografie. E’ la storia di una disperata ricerca di popolarità anche nelle stragi. Sì, perché quella del Centro Italia è una strage… Complice di questa definizione non solo l’agghiac- ciante numero di vittime, o l’ul- timo articolo dell’inviato speciale che corre sul posto immediata- mente per realizzare un servizio dal sapore di verità, ma anche l’estremo “sciacallaggio media- tico”, nuova moda impazzata sul finire dell’estate 2016. Ed è così che tutto si trasforma in una storia di giustizialismo e super- ficialità umana. Una storia che ha il sapore del nulla e del vuo- to. E visto che parliamo di colpe da addossare, dinanzi ad edifici storici rasi al suolo, a case perse per sempre e scuole ormai inesi- stenti, si inizia respirare l’atmo- sfera di una storia già sentita, già scritta, che ci riporta al lontano aprile del 2009, quando un’altra città, qualche chilometro più a est, fu lacerata dalle danze della terra, lasciando amaro in bocca, tristezza, disperazione, cordoglio, solidarietà, ma anche tante altre lezioni per il futuro, che forse è il momento di capire di non aver ancora imparato. TERREMOTO ALL’ITALIANA di Mariateresa Natuzzi di Silvia Miglionico
  • 15. Sedici Pagine Magazine Periodico di cultura, informazione e attualità, supplemento de La Nuova Murgia. Anno I, n 0, Settembre 2016, Registrato presso il tribunale di Bari il 09/11/2000 n 1493 Edito dall’Associazione Culturale La Nuova Murgia Piazza Zanardelli 22 70022 Altamura (BA) Tel. 3293394234 e-mail: sedicipaginemagazine@gmail.com Direttore: Antonio Molinari Presidente: Domenico Stea Caporedattore: Marco Lorusso Presidente de La Nuova Murgia: Michele Cannito Diretto Responsabile: Giovanni Brunelli Redazione del numero 0: Marco Lorusso Marco Nuzzi Giuseppe Mercadante Giuseppe Tirelli Domenico Cornacchia Mariateresa Natuzzi Michele Cornacchia Silvia Miglionico Annarita Incampo Michele Pellegrino Mattia Pellegrino Antonio Franco Pubblicità: Antonio Molinari 3293394234 Domenico Stea 3441139614 Progetto grafico e impaginazione: Francesco Viscanti 3928759874 Stampa: Grafica & Stampa Questo numero è stato chiuso il 13/09/2016 alle ore 21:00 15 Parlare di inizio, alla fine, non è un gioco di parole, ma un gioco di significato. É il gioco di chi si diletta nella creazione del proprio presente che, nell’ immancabile susseguirsi di attimi, rinnova la sua inossidabile offerta ad essere, la scintillante proposta a fare. Siamo consapevoli dei nostri passi, muoviamone con audacia di nuovi, danziamo, af- finchè un inizio non sia l’illusione più prossima alla labile dimenticanza della morte, ma uno sguardo folle dinnanzi ad essa, un deliberato affronto, una superba rivendicazione di vita. La fine, l’unica, sola, sta nell’ impos- sibilità di ricominciare. Prima di allora noi nasceremo altre infinite volte. Siamo stati iniziati alla vita. É ora di iniziare a viverla. RITORNO DALLE VACANZE A cura di Michele Pellegrino e Mattia Pellegrino A cura di Antonio Franco La fine dell’inizio Lo staff di 16 Pagine Magazine ringrazia: Maria Lorusso Alessandro Cornacchia Rossella Loizzo Marica Basile  Giuseppe Sardone Teresa Rifino Francesco Tirelli Arianna Ninivaggi Mariagiulia Capriati Antonio Pillera Giovanni Chironna Francesco Barone Francesco Lorusso Tommaso Dambrosio Maria Riviello Gianpiero Andriulli Vincenzo Carone Giusi Langiulli Gerry Nuzzi Michele Masiello Lucia Altamura Giuseppe Cornacchia  Alessandro Cornacchia Clara Patella
  • 16. 16