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1
IL CONCETTO DI POVERTA’ IN GREGORIO I MAGNO
In questa tesina cerco di approfondire e delineare il concetto di povertà in papa Gregorio Magno
(590-604) all’interno della sua vita e nel contesto storico-religioso del suo tempo. La biografia su
questo papa, giustamente annoverato con l’appellativo di Magno e considerato dalla tradizione
cattolica uno dei quattro dottori della Chiesa dei primi secoli, rivela la grandezza e ricchezza del suo
pensiero e della sua azione. La bibliografia è vastissima1
..
Inizio presentando le tappe fondamentali della sua vita, poi alcuni aspetti del contesto storico-
religioso dei secoli VI e VII, poi un’analisi del concetto di povertà in Gregorio, infine provo a
delineare alcune mie conclusioni.
VITA DI PAPA GREGORIO I MAGNO
Papa Gregorio I (590-604) nacque a Roma nel 540 da una famiglia di profonda e vissuta fede
cristiana, ricca e potente appartenente all’aristocrazia romana, la gens Anicia, anche se Sofia Boesch
Gajano ne contesta la veridicità (“non è invece in alcun modo provato il rapporto di parentela con
la famiglia Anicia, sorta di luogo comune spesso usato per sancire l'identità sociale di un
personaggio.”)2
. Il padre Gordiano era stato magistrato di Roma, probabilmente in un ufficio minore
("regionarius" lo definisce Giovanni Diacono (Sancti Gregorii Magni Vita IV, 83), da intendere
forse come uno dei "curatores regionum", preposti all'ordine pubblico; la madre Silvia, discendente
dalla gens Octavia, viene di solito considerata di origine siciliana e proprietaria di quei beni fondiari
che Gregorio devolverà ai sei monasteri da lui fondati nell'isola. La loro casa si trovava sulla collina
del Coelio tra il Clivus Scauri ed il vicus Trium Ararium. La fisionomia sociale, religiosa e
culturale, della famiglia è confermata dalla parentela con il pontefice Felice III (483-492), definito
dallo stesso Gregorio come "atavus meus" (Homiliae XL in Evangelia, XXXVIII, 15; Dialogi IV,
17): probabilmente suo bisnonno. 3
La parentela con il pontefice Agapito (535-536) non è invece provata se non dal comune ambiente
sociale, e ancor più dalla vicinanza delle dimore familiari, entrambe poste sul Celio lungo il “clivus
Scauri”4
.
Gregorio fece tutto il cursus di formazione dell’amministrazione pubblica romana e nel 573 divenne
prefectus Urbs5
che esercitò per cinque anni con grande senso di responsabilità fino al 578, allorché
decise di dedicarsi totalmente al servizio di Dio. Per comprendere l'alto senso del dovere
nell'esercizio della sua carica riportiamo un passo di una sua lettera ad un funzionario imperiale,
scritta nel settembre del 600 (quando era già papa): “…in tutti i nostri atti, la prima cosa da fare è
tutelare la giustizia e garantirla con la stessa passione con cui difendete la vostra. E come non volete
essere trattati ingiustamente dai vostri superiori, così dovete custodire con grande rispetto la libertà
dei vostri sudditi”.
1
Bastino le note 11 e 12 in E. Caliri I mancipia nel registrum epistularum di Gregorio pp. 349-369.Atti dell’Accademia
romanistica costantiniana, XVIII convegno internazionale in onore di Remo Martini.
2
http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-gregorio-i_(Enciclopedia-dei-Papi)/ vedi anche Rajko Bratož – Treccani,
Enciclopedia dei Papi (2000), papa Felice III
3
S. Boesch in Treccani, Enciclopedia dei Papi, Gregorio I
4
S. Boesch, Ibidem
5
A.Franzen, Breve storia della Chiesa, Queriniana, p.96
2
Questa carica rivestiva ruoli importanti anche nelle questioni ecclesiastiche. Infatti nel 573
Gregorio, come prefetto, sottoscrisse la condanna dei Tre Capitoli da parte di Lorenzo vescovo
di Milano, in quanto tale ruolo prevedeva il controllo della legge e dell'ordine nella città e nei suoi
immediati dintorni, l'esercizio dell'autorità giudiziaria nei confronti dei membri dell'ordine senatorio
e di alcune corporazioni romane, nonché il compito di presiedere alle riunioni del Senato, che, già
monopolio dell'aristocrazia senatoriale romana, nel corso del VI secolo aveva perso molto del suo
prestigio e delle sue stesse competenze a favore del prefetto del Pretorio, posto a Roma
da Belisario dopo la conquista della città nel 5376
.
L'immagine di Gregorio a passeggio per le vie di Roma vestito di seta e adorno di gemme,
tratteggiata da Gregorio di Tours, è certamente efficace nel simboleggiare il prestigio inerente allo
stato sociale e alla carica pubblica, in contrapposizione con la successiva scelta monastica.
La vocazione monastica rappresenta una componente fondamentale dell'identità biografica di
Gregorio: "cercavo ogni giorno di estraniarmi dal mondo e dalla carne, di allontanare dagli occhi
della mente tutti i fantasmi corporali, di contemplare con gli occhi dello spirito le gioie del cielo
anelando alla visione di Dio", scriverà subito dopo l'elezione a pontefice a Teoctista, sorella
dell'imperatore (Registrum epistolarum I, nr. 5). Le espressioni di rimpianto, una costante delle sue
opere, si accompagnano con l'amarezza per non avere difeso a sufficienza la sua vita monastica,
come risulta dalla lettera-dedica dei Moralia. La pratica fondamentale del monastero era la “lectio
divina” e Gregorio ricorderà sempre il tempo passato nel monastero di Sant'Andrea come il più
felice della sua vita. Non è certo né sicuro sul rapporto con la vita monastica delineata dalla Regola
di san Benedetto, in quanto questo tipo di scelta di vita cristiana era presente già dal III secolo in
Oriente e poi in Occidente. Si ipotizza una certa vicinanza alla regola di san Benedetto in quanto lui
stesso ne scrisse la prima biografia nel secondo Libro dei Dialoghi, dimostrando quindi
un’ammirazione e condivisione di intenti, come lui stesso racconta all’inizio della Vita di san
Benedetto: “parleremo oggi di un uomo veramente insigne, degno di ogni venerazione. Si chiamava
Benedetto questo uomo e fu davvero benedetto di nome e di grazia”.7
Come riferisce Marrou: la
fioritura di monasteri “si attua in un’atmosfera un po’ anarchica: come in Oriente ogni monastero
adotta l’organizzazione o lo spirito definit dal proprio fondatore; di qui il caratteristico pullulare
delle Regole”8
.
Dall'austerità del monastero Gregorio passò al fasto della corte bizantina nel 579, da Roma quasi
deserta ad una città animatissima di corse e di giuochi all'ippodromo; ma non risulta ch’egli abbia
mai subito il fascino della fastosità e dello splendore mondano. Come nunzio del Sommo Pontefice
gli era stata assegnata una residenza sontuosa accanto al palazzo imperiale, ma Gregorio con “molti
fratelli” che l'avevano seguito vi creò un clima ed uno stile di vita monastico continuando a
dedicarsi alla meditazione della Parola di Dio e alla vita contemplativa come nel suo monastero di
Sant'Andrea al Celio.
Nella primavera del 586 papa Pelagio II lo richiamò a Roma come suo consigliere. Poté rientrare
nella pace del suo monastero al Celio, ma fu per breve tempo. L'autunno del 589 fu per l'Italia una
stagione calamitosa e per Roma addirittura catastrofica. Il Tevere inondò Roma con tanta violenza
da far crollare antichi edifici e da devastare quasi totalmente i depositi di grano della Chiesa. Seguì
una pestilenza, che scoppiò verso la metà di gennaio del 590: papa Pelagio II fu tra i primi ad
esserne colpito e in breve tempo morì. La mortalità del popolo fu enorme e Roma cominciò a
6
Treccani Enciclopedia dei papi
7
LA VITA DI SAN BENEDETTO, Testo integrale tratto dal Libro II° dei "Dialoghi" di San Gregorio Magno, Traduzione a
cura dei PP. Benedettini di Subiaco. Pubblicato nella collana "Spiritualità nei secoli" di Città Nuova Editrice, p. 3.
8
H. Marrou, Nuova storia della Chiesa, p. 490
3
spopolarsi. Provata da tante calamità la popolazione vide la necessità di avere subito un nuovo
pastore e la scelta unanime cadde su Gregorio. Il popolo accorse al Celio per acclamarlo Papa. Egli
cercò in tutti i modi di sottrarsi e scrisse persino all'imperatore scongiurandolo di non ratificare
l'elezione popolare; ma alla fine pur non riuscendo a nascondere il suo turbamento, accettò e fu
consacrato vescovo di Roma il 3 settembre del 590 nella basilica di S. Pietro.
Secondo H. Marrou9
la “crescente barbarie dei costumi, il generale impoverimento della cultura
rendevano difficile la scelta di buoni vescovi, ecco perché diventa sempre più importante il
contributo del monachesimo al reclutamento del corpo episcopale. Il fenomeno inizia in Gallia, con
il famoso monastero dell’isola di Lerin, poi si sviluppa in Africa, Spagna e Roma, dove sarà proprio
Gregorio il primo papa-monaco”. Questi monaci, poi, divenuti vescovi o papa, come Gregorio, non
perderanno il loro primitivo ideale: resteranno monaci di cuore e di fatto.
Gregorio fece un po’ di tutto, dall’amministratore al pacificatore, guidò la Chiesa e la società civile,
che non era meno confusa e provata, consolò gli afflitti di una Roma umiliata e spinse il Vangelo
fino a sfidare i popoli della Britannia, istruì e risollevò vescovi inetti o scoraggiati, affrontò a viso
aperto quel che restava di un potere imperiale e tese la mano ai barbari invasori, fece persino una
riforma agraria dei patrimoni ecclesiastici. Era un cercatore di Dio, ma anche uno che si interessava
del “rispetto dei contratti di lavoro o del controllo dei pesi e delle misure” (Leclercq). Il vescovo è
designato da Gregorio attraverso una terminologia molto varia: pastor (la guida delle anime),
sacerdos (colui che presiede al culto liturgico; fino al VI sec., il termine designa il vescovo1),
doctor (con riferimento alla funzione di insegnare), praedicator; ma il termine più usato in assoluto
è rector, che rivela un’insistenza sulla funzione di governo, e quindi sull’incarico episcopale vero e
proprio (regere, dirigere, governare una Chiesa), ma che evoca pure l’idea di rectitudo, che è la
dirittura morale, la fedeltà al dovere ma anche la dignità che comporta il servizio episcopale.
Il vescovo, dunque, non come uomo di potere, bensì come maestro spirituale, l’infaticabile maestro
che punta al rinnovamento della società cristiana, fatta di singoli uomini da convertire e da portare a
un alto livello di adesione a Cristo. Gregorio vuole recuperare la dimensione spirituale originaria
dell’episcopato, quella primaria funzione apostolica che dia al suo impegno sociale e civile il puro
senso del servizio, richiesto dall’amore ai fratelli, sullo stile di Cristo. Egli vuole che i suoi vescovi
sentano la responsabilità di guide alla fede. Gregorio è interessato al recupero della autentica
fisionomia spirituale del vescovo10
.
L’azione di Gregorio fu tanto ampia e decisa a difesa della città e dei poveri che a ragione è stato
definito anche con l’appellativo di consul Dei.11
Lo si può vedere anche dal tono e dalla
grandissima varietà di interlocutori (dal contadino all’imperatore, dai funzionari statali al patriarca
di Costantinopoli) della sua corrispondenza: da un lato un’umile deferenza, dall’altro un tono molto
imperativo, quasi degli ordini; san Gregorio traccia un programma di azione ai suoi interlocutori. Si
delinea con chiarezza la dottrina della funzione ministeriale del sovrano, ministerium regis: il potere
gli viene conferito perchè il suo regno terreno sia posto al servizio del regno dei cieli12
.
9
H. Marrou, Nuova Storia della Chiesa, p.490.
10
Ibidem, p.2
11
H-C. Puech, Storia del cristianesimo, p. 252
12
H. Marrou, Nuova storia della Chiesa, p. 512.
4
In Papa Gregorio Magno era perfettamente presente la consapevolezza che per l'Urbe era ormai
iniziata la decadenza tanto che in un sermone la paragonò ad un vaso di argilla infranto ed il suo
popolo ad un'aquila spennacchiata e morente sulle sponde del Tevere. Da questa consapevolezza
ebbero origine le opere e gli scritti che, con il fine di ridare coraggio e speranza all'occidente, Papa
Gregorio mise in atto e per le quali si deve riconoscere che l'appellativo di Magno fu quanto mai
giusto13
.
Qualcun altro è incerto nel trovare la giusta definizione, collocandolo sulla linea di demarcazione
tra tarda antichità e inizio del Medioevo: “definito “personaggio-simbolo di un’epoca, l’ultimo dei
romani o il primo dei cristiani della nascente Europa”.
CONTESTO STORICO-CULTURALE E RELIGIOSO
Gregorio sta all’inizio di un’epoca nuova. Più che alla fine dell’epoca patristica, potremmo meglio
collocarlo all’inizio dell’era della nuova società romano-barbarica, di cui il cristianesimo che egli
vive e predica diventerà uno dei principali fattori costitutivi. R. A. Markus afferma che “per
comprendere Gregorio dobbiamo considerarlo partecipe, allo stesso tempo, di due diversi mondi…:
il mondo di Ambrogio, di Agostino, di Giovanni Cassiano e dei loro contemporanei, e il mondo dei
loro eredi medievali” (Gregorio Magno e il suo mondo, XII)14
.
È interessante sottolineare anche l’idea di società presente nei secoli della tarda antichità, di cui
anche Gregorio si rende portavoce ed espressione nelle sue omelie e nei suoi testi. Dal IV secolo,
infatti, lo pseudo Dionigi aveva sistematizzato il concetto di gerarchia come “ordine, cioè una
disposizione ontologica voluta da Dio che caratterizza i diversi gradi o classi nella società”.15
In
questo autore l’ordine gerarchico è assoluto e permanente. La libertà non è vanificata, in quanto
l’uomo con la sua libertà aderisce o meno a questo ordine e raggiunge la perfezione solo se segue le
disposizioni del suo status. Questa tesi porta all’ineguaglianza dei membri della società. Da qui il
passo logico che caratterizzerà tutto il Medioevo: il corporativismo, cioè l’ordinamento del popolo
in categorie unificate in proprie organizzazioni. Infatti la Chiesa stessa non aveva mai riconosciuto
l’eguaglianza di tutti gli uomini. L’uguale dignità si, ma non aveva mai condannato la
diseguaglianza, quella che noi oggi chiamiamo una diseguaglianza strutturale. Lo stesso Gregorio
Magno giustifica tale principio. Egli dichiarava che se anche la natura aveva creato tutti gli uomini
eguali, interveniva una “dispensatio occulta” secondo la quale alcuni venivano posti al di sopra
degli altri per la diversità dei meriti, come emanazione dell’ordine divino.16
L’individuo quindi
doveva spogliarsi delle proprie personali ed individuali prerogative per seguire le disposizioni
dall’alto e aderire all’ordine prestabilito in cui si trovava dalla nascita. Per questo ciò che conta in
epoca medioevale è il bene comune, il bene pubblico, la prosperità pubblica della societas
christiana.
13
https://www.romeandart.eu/it/arte-papa-gregorio-magno.html
14
G. Como, La figura spirituale di Gregorio Magno, p. 7
15
O. Bazzichi, Alle radici del capitalismo, p.26
16
Ibidem, p.27, cfr J.P. Migne, Patrologiae cursus comletus. Series Latina, 66, col 203 “sed variante meritorum ordine
alios aliis dispensatio occulta postponit”.
5
Come ha sottolineato Parves17
aveva un’idea di società ben precisa, e che influenzerà tutto il
Medioevo: una società divisa sociologicamente ma unita sotto la guida e l’ordine creato da Dio. Per
questo si sentiva in dovere di proteggere le popolazioni italiane e la salvaguardia di persone, terre,
case, diocesi da nuove violenze e devastazioni.
Gregorio è inserito in questo contesto, per cui si spiega come lui stesso non abbia mai condannato la
diseguaglianza sociale ed economica, nè abbia mai stimolato o aiutato i poveri a ‘ribellarsi’ alla loro
condizione, piuttosto miserevole e dura. Anzi in diverse lettere rimproverava gli schiavi o i
contadini o i servi se non seguivano ed obbedivano agli ordini dei loro padroni. Si veda ad esempio
la sua ‘politica’ verso gli schiavi o mancipia, acquistati nei territori del Patrimonium Petri come le
Gallie e la Sardegna e poi impiegati soprattutto nelle proprietà della Sicilia e della Campania18
,
dove pur richiamando la correttezza dei rapporti da per scontata la realtà dei lavoratori schiavi o
quasi.
Altro elemento culturale importante in cui si inserisce e si comprende l’azione di governo di
Gregorio è la concezione di vescovo maturata negli ultimi due secoli, dopo Costantino e Teodosio e
la caduta dell’Impero romano. Alla fine del VI sec. il vescovo aveva un notevole spessore civile; lo
spazio in cui si muove non era solo quello religioso: all’ufficio di giudice si erano aggiunti incarichi
in campo amministrativo (gestione dei viveri, costruzione di opere pubbliche, controllo della
finanza locale ecc.), e in più, in Italia, la direzione della difesa militare di fronte all’avanzata
longobarda e in assenza di quella bizantina. Il vescovo era un uomo potente, autorevole, colto,
spesso ricco, almeno nell’area della civiltà romana.19
Su questo sostrato sociologico e culturale,
Gregorio elabora e diffonde la sua idea di papa, vescovo di Roma, e del suo ruolo ecclesiale e
‘politico’. La competenza di governo maturata con la formazione amministrativa, l’esperienza
diplomatica a Costantinopoli e la frequentazione della Scrittura, giocarono un ruolo importante nel
delineare la figura di vescovo che lui stesso cercherà di vivere e di trasmettere attraverso i suoi
scritti, soprattutto nella Regola pastorale, e la sua predicazione.
L’impostazione della sua formazione culturale pur manifestando “un atteggiamento di condanna
della cultura classica”, come fa intendere nella celebre lettera al vescovo Desiderio di Vienne,
rimproverato di insegnare la grammatica e di unire, cosa "grave e nefanda per un vescovo", "le lodi
a Giove con quelle a Cristo" (Registrum epistolarum XI, nr. 34),[…..] è da ricondurre alla
convinzione che la cultura antica di carattere profano costituisse uno strumento in funzione della
comprensione e della comunicazione della verità divina contenuta nella Sacra Scrittura, in una linea
di continuità con una tradizione che ha i suoi esponenti più illustri in Girolamo, Agostino e
Cassiodoro”.20
Al tempo di Gregorio, la chiesa di Roma, aveva una vastissima proprietà terriera in tutta l’Italia, pur
nella disomogeneità dei territori e dei confini. Era il cosiddetto “patrimonium Petri”. Si trattava di
un patrimonio ingente, ma territorialmente non omogeneo. La Sicilia era la proprietà più estesa, con
17
in Pastoral Care, Gregory worked out a theory of hierarchy that contradicted his own egalitarian leanings and
influenced the church for centuries. Church historians have credited him with a legacy that guided the church until the
Reformation”. Purves, Pastoral Theology, 5,.in Priscilla Papers Vol. 22 , No. 1, Winter 2008.
18
E. Caliri I mancipia nel registrum epistularum di Gregorio pp. 354. Atti dell’Accademia romanistica costantiniana,
XVIII convegno internazionale in onore di Remo Martini
19
La figura spirituale di Gregorio Magno, Giuseppe Como, p. 1
20
Treccani, Enciclopedia dei papi, Gregorio I
6
circa 137.600 ettari, corrispondenti a circa un diciannovesimo della superficie dell'isola (L.
Ruggini), tanto da essere da Gregorio diviso in due ("Panormitanum" e "Syracusanum"). Le pur
scarse testimonianze relative alla storia dei beni ecclesiastici a partire da Costantino hanno
permesso di giungere alla conclusione che i Patrimoni della Chiesa romana fossero i "patrimonia"
della chiesa cattedrale della diocesi di Roma, cioè del Laterano (F. Marazzi).21
Il Registro delle Lettere rivela una straordinaria progettualità organizzativa di papa Gregorio, volta
a garantire un'amministrazione gerarchicamente disposta sotto il controllo diretto del pontefice,
costituita da personale selezionato, incardinato nell'istituzione ecclesiastica, preparato sul piano
culturale e controllato sul piano morale [….]. La prima preoccupazione di Gregorio fu di assicurare
un'amministrazione efficiente dei Patrimoni della Chiesa: "per procuratores ecclesiasticorum
patrimoniorum, velut Argus quidam luminosissimus, per totius mundi latitudinem suae pastoralis
sollicitudinis oculos circumtulerit [...]", sintetizza efficacemente Giovanni Diacono (Sancti Gregorii
Magni Vita II, 55). 22
Ogni Patrimonio era affidato a un amministratore nominato dal papa, il "rector", scelto tra il
personale delle "scholae": suddiaconi, per i patrimoni più importanti, oppure notai o "defensores",
Una gestione attenta ai diritti e pronta ad atti di carità, considerata modello di amministrazione
improntata a principi cristiani (V. Recchia, Gregorio Magno e la società agricola), non impedisce
di vedere le reali condizioni economiche e sociali dei "rustici", sottoposti giuridicamente a
condizioni durissime, ulteriormente oppressi da pratiche economiche scorrette e ancora vittime della
"comparatio" o "coemptio": la fornitura di derrate alimentari a prezzo di calmiere per soddisfare le
esigenze dell'annona. E neppure impedisce di cogliere le reali finalità della correttezza
amministrativa: Gregorio si preoccupa di "assicurare un minimo di benessere ai coloni ecclesiastici
tanto per buona coscienza cristiana, quanto per esigenze di avveduta amministrazione, dal momento
che proprio questi 'rustici' costituivano la sorgente prima di tutto il frumento fiscale e no,
annualmente convogliato agli 'horrea' provinciali e urbani della Chiesa […. ]. A quei contadini, pur
protetti dai soprusi, il pontefice poteva rivolgersi con toni molto duri per indurli a obbedire al
"defensor", autorizzato a punire chi disobbediva o chi era contumace, ad applicare la legge in
merito agli schiavi che si fossero nascosti e a eventuali appropriazioni indebite di terre confinanti.
Così come con grande durezza interveniva per stroncare pratiche religiose tradizionali, bollate come
insopportabili persistenze dell'antico paganesimo, da estirpare imponendo l'aumento del canone;
La cura nell'amministrazione dei Patrimoni appare strettamente legata alle preoccupazioni per
l'approvvigionamento di Roma: quattro volte l'anno erano previste le elargizioni per il clero e i
monasteri; ogni primo del mese avvenivano le elargizioni in natura ai poveri, categoria di persone di
cui è difficile stabilire l'identità, ma che certamente non corrisponde più all'insieme della
popolazione romana beneficiaria dell'annona pubblica. Il vescovo provvedeva inoltre con la sua
parte, non solo ad alcuni casi particolari di "poveri decaduti", ma anche a elargizioni munifiche.
Questo compito diventava spesso per Gregorio motivo di preoccupazione se non di tristezza, come
racconta nella lettera alla sorella dell’Imperatore, dove si pone il problema se il pontefice fosse un
21
idem
22
idem
7
mero amministratore o avesse invece il ruolo di guida spirituale del popolo romano: “in questo
luogo [a Roma] chiunque sia detto pastore è così gravosamente preso dalle occupazioni esterne da
essere sempre incerto se del pastore eserciti anche la funzione o non piuttosto quella di grande di
questa terra" ( nr. 5).
Gregorio vide e visse l’effetto delle drammatiche circostanze del suo tempo e aveva maturato la
persuasione di assistere al drammatico tramonto di una società e di trovarsi ad una svolta epocale. Il
panorama che si dispiegava ai suoi occhi era desolante: “Dovunque vediamo lutti, dovunque
sentiamo gemiti. Distrutte le città, invasi i villaggi, devastate le campagne, la terra è stata ridotta a
un deserto. Non è rimasto nessun abitante nei villaggi, quasi nessuno nelle città; e tuttavia anche
questi piccoli resti del genere umano sono colpiti continuamente ogni giorno… Vedete com’è
ridotta Roma stessa, che un tempo pareva la dominatrice del mondo. Schiacciata in tanti modi da
immensi dolori, dalla desolazione dei cittadini” (In Ez. II,6,22). Erano gli ultimi mesi del 593 e i
primi del 594, mentre Roma era assediata e invasa dai Longobardi.
Come sottolineato da G. Cracco “il papato così come crescerà in ruolo e in peso politico dopo il
Mille [….] al tempo di Gregorio è ancora ben lungi dall’esistere, dall’essere operante. Il papato di
Gregorio è un papato non già di potere bensì di servizio”23
. Su questa linea di pensiero Gregorio
viene presentato come colui che ricostruisce ex novo un mondo senza romanità, essendo questa
concepita come radicalmente anticristiana, e di farlo basandosi su nuove fondamenta: i poveri e i
reietti. Non a caso quasi tutti gli interlocutori delle sue omelie sono persone povere, come i deboli
gli ignoranti, le donne (ma non le matrone aristocratiche).
Ancora Cracco azzarda una definizione interessante: Gregorio “profeta dell’Occidente del VI-VII
secolo” e come il “Maometto dell’Occidente, nel senso che anche lui rifondò la sua religione e ne fu
per così dire profeta”24
, anche se avvisa di non fare un comparativismo forzato. I due “giganti si
equivalgono perché entrambi seppero innalzare la religione dal ruolo equivoco di ‘variante dello
Stato’ a forza autonoma in grado di trainare il mondo”25
.
Un’altra lettura e presentazione di Gregorio è data da Jacques Fontaine, per il quale Gregorio
Magno, contrapposto a Isidoro di Siviglia, “appare schiacciato dalle sciagure dell’Italia
contemporanea, laddove spesso animato da una fede nell’Apocalisse, ne fa un già autentico
esponente dell’alto Medioevo, quanto il vescovo di Siviglia era sereno e ottimista26
.
SIGNIFICATO DI POVERTA’ E POVERI
Sin dalla vita e dalla predicazione stessa di Gesù, il concetto e la pratica della povertà hanno avuto
un ruolo decisivo per la vita e l’identità dei cristiani.
Nell’idea di equilibrio sociale e in ottica religiosa di riscatto dei propri peccati fin dall’antichità
secondo la dottrina cristiana uno dei mezzi più importanti che Dio offre all’uomo per riscattarsi dai
peccati commessi dopo il Battesimo è costituito dalle opere di misericordia e specialmente
23
Il Papato e l’Europa, p. 20
24
Idem, p.39
25
Idem, p.44
26
H-C. Puech, Storia del cristianesimo, p. 250
8
dell’elemosina […]tutti i cristiani, non solo i poveri, hanno bisogno di carità. Allo stesso modo tutti,
non solo i ricchi, sono tenuti a farla, come la vedova del vangelo che offre il suo obolo secondo le
sue possibilità (Mc,), la beneficienza offre al cristiano la possibilità di riscattare almeno in parte le
sue colpe27
.
Cogliendo solo alcuni dei passaggi più importanti della sua evoluzione, sottolineiamo che mentre la
predicazione del IV-V secolo di Giovanni Crisostomo (come quella di Basilio e degli altri padri
orientali) si rivolgeva ad un mondo che aveva da poco riconosciuto il cristianesimo come religione
dell’impero, in Occidente le sfide che venivano poste agli uomini di Chiesa erano diverse: nuovi
popoli arrivavano dell’est e dal nord e mettevano in discussione tutte le strutture di potere fino ad
allora esistenti. In questo contesto la povertà aumentava, sia a causa delle guerre, sia perché non vi
erano più le magistrature tradizionali che si occupavano dei bisognosi.
Anche davanti a un contesto del tutto diverso da quello orientale, i padri della chiesa sottolinearono
il dovere cristiano della carità verso i più poveri, fondato sull’esempio di Cristo stesso, che per noi
si fece povero28
.
La povertà, nello specifico del popolo romano, secondo Brown, aveva dato un valore simbolico al
gesto dell’elemosina e della carità. Lo studioso inglese parla di una trasformazione del popolo: da
plebs romana a plebs Dei. Il cambiamento è in atto già dal V secolo, cioè “la proposta di non
considerare le pratiche caritative associate alla devozione cristiana soltanto come un atto privato di
misericordia (come potrebbe fare un cristiano moderno), e neppure (come potrebbe fare un uomo
politico moderno) come una misura di assistenza economica: piuttosto, dovremmo guardare al
fenomeno delle elemosine cristiane con occhi tardoromani - dovremmo vederlo cioè come un
catalizzatore simbolico, la cui vera forza sta meno nelle somme elargite che nella definizione nuova
di comunità urbana implicita nella definizione cristiana, tanto dei potenziali fruitori quanto dei
potenziali distributori di elemosine”. Infine, Brown indica il significato per i romani del
cambiamento: “il dono allo scopo di esprimere nuovi legami di coesione nella loro città, nel
turbolento secolo che vide la fine dell'Impero Romano d'Occidente”29
. Nell'Occidente latino del
quinto e sesto secolo, lo spettacolare sviluppo della pratica cristiana delle elemosine è intimamente
connesso alla necessità delle aristocrazie locali di provvedere ai propri dipendenti in un mondo che
non ha più un Impero30
.
In questa prospettiva si leggerebbe l’azione di Gregorio come un modo per rafforzare i legami
sociali del popolo e col popolo, sulla linea della tradizione tipicamente romana.
José Ignacio Gonzalez Faus spiega il principio sempre affermato dai Padri greci: “l'obbligo
dell'elemosina è un dovere non tanto della sfera della carità, quanto piuttosto dell'area della giustizia
pura e semplice, pressappoco com'è per l'obbligo di non tenere per sé ciò che si è rubato. Questa è la
volontà dell'unico Proprietario della ricchezza. Per i padri, “dare” è in realtà “restituire”, e nel fare
l'elemosina non si consegna “del proprio”, bensì si restituisce “l'altrui”. L'elemosina non è dunque
un atto meritorio o supererogatorio, ma semplicemente riparatore. Siamo dunque in presenza di due
elementi da prendere in esame. Da una parte, è certo che i padri greci ricerchino la soluzione del
problema dei poveri passando non attraverso una qualche trasformazione di carattere strutturale, ma
soltanto per l'azione (e la conversione) personale. Con tutto ciò, resta comunque molto importante
27
Storia del cristianesimo, a cura di Marina Benedetti, p.
28
Appunti di storia della marginalità, p. 91
29
P. Brown O. CapitaniF. Cardini M. Rosa Povertà e carità dalla Roma tardo antica al ‘700 italiano, Quattro lezioni,
p.22 (28)
30
Ibidem, p. 24(30)
9
sottolineare come, d'altro canto, essi attribuiscano a questa azione personale il carattere di giustizia:
non si ha a che fare allora con un puro e semplice invito alla generosità, ma con un appello all'
ordine elementare delle cose.
Il fatto che essi non siano alla ricerca di soluzioni strutturali va presumibilmente riferito a una
situazione di ordine meramente culturale: all'epoca non era certo possibile ipotizzare qualcosa di più
(vedasi ad esempio lo schema filosofico proposto dallo pseudo-Dionigi). Quanto all'altro elemento,
si può dire che per quanto ribadiscano con insistenza l'obbligo che il ricco ha di dare, tuttavia essi
non sottolineano con eguale chiarezza come a tale obbligo corrisponda un vero e proprio diritto del
povero; semmai, insistono sul fatto che il ricco ha sì l'obbligo di dare, ma comunque sempre
secondo la propria libera volontà; e che il povero deve... essere paziente31
. La via del volontarismo
non era una carenza dell’impostazione dei Padri, ma una precisa scelta consapevole32
.
Una simile posizione si riscontra anche nella vita e nella pratica dei Padri latini, come il diacono
Paolino nella Vita di Ambrogio fa un preciso riferimento alla sensibilità del vescovo di Milano
verso i poveri: “Egli era fin troppo sollecito in favore dei poveri: infatti, allorché fu ordinato
vescovo, donò alla Chiesa e ai poveri tutto l'oro e "argento di cui disponeva» (n. 38). “Si rattristava
nell'intimo al vedere come l'avarizia, radice di ogni male, che non può essere diminuita né
dall'abbondanza né dalla miseria, aumentava sempre più fra gli uomini, specie in coloro che
avevano posti di comando, dove tutto si vendeva per denaro. Per lui era assai grave e difficile
intervenire di fronte a costoro. Questo malcostume provocò una serie di mali all'Italia, mentre tutto
degrada verso il peggio” (n. 41).
Le stesse parole di Gregorio verso i ricchi e i poveri sembrano confermare questa impostazione.
Gregorio esigeva dagli uomini di Chiesa sincero rispetto per le leggi dello Stato e leale attuazione
dei loro doveri civici. Egli fu davvero quell'amministratore fedele e saggio messo dal Signore a
capo dei suoi servi perché, a tempo opportuno, desse a ciascuno ciò di cui aveva bisogno. La sua
capacità amministrativa rese possibile la stessa sopravvivenza di Roma, poiché il Papa attinse alle
risorse della Chiesa per sfamare e difendere la città. Egli era giunto alla convinzione che la terra
appartiene a tutti, per cui l'elemosina fatta con la rendita della terra non è che una restituzione. Nella
“Regola Pastorale” si esprime così: “.... Quando si dà ai poveri ciò di cui essi hanno stretto bisogno,
si compie un atto di restituzione più che un dono, si rende omaggio alla giustizia più che compiere
un atto di generosità”. I suoi ideali erano: tutelare la giustizia e rispettare la libertà; (ovviamente non
considerava opera di misericordia ciò che è dovuto per giustizia). Nel Commento a Giobbe dice:
“dona in modo più autentico colui che mentre elargisce il dono a chi è nell'afflizione, ne assume
anche lo stato d'animo; cioè prima fa sua la sofferenza di lui e, allora, lo aiuta soccorrendone il
bisogno”. Gregorio tutti i giorni inviava per la città carri di vettovaglie cotte per i deboli e per gli
infermi; invitava alla sua tavola dodici pellegrini, a cui prima del pranzo lavava egli stesso le mani.
Una pia leggenda narra che una volta Gregorio vide sedere a mensa un tredicesimo commensale che
si rivelò come un angelo del Signore venuto a dire quanto fosse gradita a Dio l'opera di Gregorio.
Un giorno fu trovato morto sotto un portico un poveretto e si disse che fosse morto di fame. Fu tale
il dolore del Papa, ch’egli si astenne per alcuni giorni dalla celebrazione dei divini misteri, come se
lo avesse ucciso con le proprie mani. Gregorio operò per la giustizia lasciandosi vincere dalla pietà.
Tra giustizia e carità egli vide un legame inscindibile: se non è fondata sulla giustizia, la carità è
31
J. I. Gonzalez Faus, I poveri, vicari di Cristo, p. 66-68.
32
Appunti per una marginalità, p.79, M. Mollat, I poveri nel Medioevo, p. 20
10
corrotta. A Giustino, pretore della Sicilia, scrisse fra l'altro: “... Non succeda che per qualche
prospettiva di lucro siate trascinato all'ingiustizia: nè minacce nè amicizie riescano mai a
distogliervi dalla linea della rettitudine”33
.
La carità appartenne realmente all’azione di Gregorio poiché con lui, secondo quanto è attestato da
Giovanni Diacono, “la chiesa universale sembrava una dispensa per tutti”.
E ancora una volta nella sua vita e nei suoi scritti emerge forte il connubio tra povertà e ricerca di
Dio, il significato spirituale di povertà. In un passo del commento a Giobbe si può intendere che la
povertà per Gregorio è il modo per potersi dedicare meglio a Dio e alle cose interiori, in quanto per
contrapposizione ”l'avarizia, quando il cuore, confuso, ha perso il bene della letizia interiore, cerca
all'esterno motivi di consolazione e non potendo ricorrere alla gioia interiore, desidera tanto più
ardentemente possedere i beni esteriori” (Gregorio Magno, Moralia in Iob, XXXI, XLV).
Il rapporto tra povertà, necessità materiali e predicazione è molto presente in san Gregorio, in
quanto “la parola della dottrina non penetra nella mente del bisognoso se una mano misericordiosa
non la raccomanda al suo cuore” e i pastori, “ferventi degli interessi spirituali dei loro sudditi” non
devono tralasciare in questo “di provvedere pure alla loro vita esteriore”34
.
Secondo Lamendola, vi è stata una lunga epoca nella storia della nostra civiltà - l’epoca medievale -
nella quale, per secoli e secoli, la povertà non è stata considerata affatto come una vergogna, un
disonore, un vizio; e ciò non solo per la banale constatazione che essa era largamente diffusa, e si
inscriveva in un quadro sociale complessivo caratterizzato da una forte tendenza alla sobrietà e al
pieno utilizzo delle risorse (cioè l’esatto contrario della odierna civiltà dei consumi e dello spreco),
ma anche per una ragione di fondo di tipo culturale e religioso: ossia in ragione della “imitatio
Christi”, dell’essere simili a Gesù e in linea con la sua Buona Novella; per il fatto, cioè, di prendere
molto sul serio l’ammonimento evangelico sulla difficoltà di entrare, da ricchi, nel regno dei Cieli, e
sulla impossibilità di servire a due padroni, Dio e Mammona. Il vagabondo, il povero, il malato, si
presentavano come l’immagine vivente del Cristo: “Se avrete fatto del bene all’ultimo dei vostri
fratelli, l’avrete fatta a me”, aveva detto Gesù in persona, nella maniera più esplicita.35
Una lettura interessante del rapporto tra povertà, fede e ruolo sociale, viene data da Gregorio nel
libro II,7 della sua Regola pastorale dal titolo significativo: “la guida delle anime non attenui la
cura della vita interiore nelle occupazioni esterne, né tralasci di provvedere alle necessità esteriori
per la sollecitudine del bene interiore”36
. Il papa monaco spiega che c’è una diversità di ruoli e di
‘attitudine’ nei confronti delle cose interiori e che perciò “all’amministrazione dei beni terreni
servano quelli che sono non dotati di alcun dono spirituale”. Come se dicesse che “poiché alcuni
non sanno penetrare le realtà interiori, operino almeno per le necessità esteriori”. Un modo per
confermare la differenza sociale tra ruoli legati ai beni spirituali e quelli terreni, una chiara
33
sangregoriomagnopadova.it
https://docs.google.com/viewer?url=http%3A%2F%2Fwww.sangregoriomagnopadova.it%2FStoriaSanGregorioMagno.
pdf
34
Gregorio Magno, Regola pastorale, II,7.
35
Francesco Lamendola, La povertà diventa un crimine da reprimere quando tramonta il “buio” Medioevo
36
Gregorio Magno, Regola pastorale II,7, Città nuova editrice, p. 90.
11
indicazione del significato di povertà come strumento, condizione, status ideale per poter accedere
alle verità spirituali del cristianesimo, in questo rifacendosi a san Paolo nella 2 lettera a Timoteo:
“nessuno che militi per Dio si immischi in affari secolari per poter piacere a colui che l’ha
arruolato” (2 Tm 2,4).
Gregorio stesso ne da esempio, come raccontato da Gregorio di Tours nella Vita di Gregorio
Magno: “il primo giorno di ogni mese distribuiva a tutti i poveri la parte dei redditi della chiesa
pagati in natura: nella stagione adatta, il frumento e, a seconda delle stagioni, vino, formaggio,
legumi, lardo, animali commestibili, pesce e olio venivano così assegnati con la massima
discrezione da questo capo della famiglia del Signore.... Inoltre ogni giorno servendosi di corrieri
adibiti a tale mansione inviava per vie e crocicchi di ogni regione della città alimenti cotti per i
malati e gli invalidi. Prima di prendere lui stesso il cibo, aveva cura di inviare una scodella della sua
mensa ai più poveri che non avevano coraggio di mostrarsi tali, di porta in porta”.
Non a caso sul suo sepolcro fu inciso un epitaffio nel quale, fra l’altro, fu scritto: “Questa tomba
contiene le membra di un Sommo Pontefice che sopravvive dovunque per innumerevoli opere
grandi. Vinse la fame col cibo, il freddo con le vesti e con i divini insegnamenti protesse le anime
dal nemico. Confermava con i fatti ciò che insegnava con le parole, esempio vivo della sua mistica
dottrina”.
La scelta della povertà ha un valore di libertà e di risveglio della coscienza, come Gregorio spiega
nella sua omelia al brano evangelico del figliol prodigo (Lc., 15, 17).: “Dio quindi elegge quelli che
il mondo disprezza, perché spesso proprio questo disprezzo fa ritornare l’uomo in sé[…]. Privo
invece di beni terreni, cominciò a pensare a quelli spirituali che aveva perduto. I poveri e i deboli, i
ciechi e gli zoppi vengono dunque chiamati e si presentano, come gli abbandonati e i disprezzati dal
mondo che spesso accolgono con maggior prontezza la voce di Dio perché in questo mondo non
sono incatenati dai piaceri. [Gregorio Magno, Omelia XXXVI, 7]
Secondo E.K. Rand nei tre secoli V-VIII sono emerse alcune grandi figure che lui ha chiamato “i
fondatori del Medioevo”, in quanto hanno fornito alcuni elementi basilari e i parametri culturali e
intellettuali agli uomini dei secoli successivi. Si tratta di Boezio (morto nel 524), Cassiodoro (morto
verso il 580) Gregorio Magno (papa dal 590 al 604), dello spagnolo Isidoo di Siviglia (mroto nel
636) e dell’inglese Beda (morto nel 735).
Ha scritto in proposito Jean Pierre Gutton nella sua monografia «La società e i poveri» (Milano,
Arnoldo Mondadori Editore, 1977, pp. 77-80):
“In via di principio la civiltà medievale esalta la povertà come una virtù. La povertà in spirito è
presentata come un ideale; la scelta volontaria della povertà costituisce un punto fondamentale delle
regole dei grandi ordini monastici. La povertà di fatto, poi, è considerata una conseguenza del
peccato, poiché le cause della miseria –guerre, calamità agricole…- sono altrettanti castighi inviati
da Dio per punire l’umanità dei suoi peccati. Ma il Cristo, con la sua vita terrena, ha voluto
santificare la povertà. Perciò i poveri si identificano con Cristo, sono le sue “membra sofferenti”, i
suoi rappresentanti sulla terra. Pierre de Blois indica il povero con l’appellativo di “vicarius
Christi” , e l’espressione “poveri di Gesù Cristo” è abituale. Una tale concezione valorizza la scelta
12
volontaria della povertà. Del povero essa fa un intercessore privilegiato presso Dio. La sua
preghiera attirerà benedizioni particolari sul suo benefattore. Così si scelgono volentieri dei poveri
per tenere a battesimo un bambino; così i membri di una confraternita fanno l’elemosina ai poveri
affinché preghino per i loro confratelli defunti. Inoltre la povertà ha una sua utilità sciale: essa
concorre alla redenzione degli uomini. Per i ricchi l’elemosina fatta ai poveri è una delle vie
possibili di salvezza. Per i poveri l’umiltà e la rassegnazione sono mezzi per guadagnarsi il
paradiso.
Tuttavia, alla fine del Medioevo, queste teorie riguardo ai poveri e alla povertà non sono più le sole.
Esse coesistono con una corrente di pensiero che nella povertà vede una maledizione e nei poveri
dei pericoli per la società. La povertà degrada l’uomo, lo rende ozioso e inutile. Vi è di più: negli
ultimi secoli del Medioevo si diffondono la criminalità, il furto e il brigantaggio. E poiché gli
indiziati sono d frequente poveri o vagabondi, guadagna terreno l’idea che il povero sia un pericolo
pubblico. Già nel Medioevo esiste dunque un atteggiamento ostile verso i poveri e la povertà.
Questo atteggiamento è riassunto da una frase del “Roman de la Rose”: “Maledetta sia l’ora in cui
fu concepito il povero”. È difficile dire quando e come questa seconda corrente di pensiero sia
venuta a contrapporsi alla prima. Si è supposto, non senza ragione, che almeno sino alla fine del XII
secolo, sino a che la povertà fu un fatto quasi esclusivamente rurale, essa venne considerata un
segno d’elezione per niente affatto una maledizione…..
L’idea che il povero è un “membro di Gesù Cristo” dominava dunque tutte le opere medievali di
assistenza”37
.
Quando si tenta di estrapolare la concreta condizione dei marginali e dei poveri nella società
medievale, occorre fare molta attenzione per non cadere nell’anacronismo, avverte giustamente
Bartoli: “è necessario non attribuire ai secoli passati idee e prassi sociali che sono proprie del nostro
tempo1. In questo senso è evidente il fatto che i Padri della Chiesa prima e i teologi medievali poi
avevano un’idea prevalentemente morale della riflessione sul povero. Le categorie politiche e
sociali di oggi sono improprie per spiegare fenomeni di altre epoche.”38
E aggiungiamo la spiegazione di Brown per il quale “il cristianesimo non è mai stato rivoluzionario.
Se c’è stata una rivoluzione del IV secolo questa non è certo stata sociale. I vescovi non hanno mai
spinto i poveri a ribellarsi o a rivendicare i loro diritti. La «rivoluzione del IV secolo» è stata una
rivoluzione culturale. I poveri che nei secoli precedenti erano invisibili, diventano non solo visibili,
ma pietra di paragone per misurare l’umanità di tutta la società.”39
Le opere di Bolkestein, Veyne e della Patlagean chiariscono che ci troviamo di fronte a un profondo
mutamento, nel corso dell'età tardoantica, dell'idea che di sé aveva la società antica… L'orgoglioso
modello “civico” dell'età classica soggiacque, nel corso del IV e del V secolo, non alla predicazione
o all'attività cristiana fra i poveri, ma ad una muta e irresistibile pressione dal basso. Le città si
rivelarono incapaci di assorbire le nuove forme di povertà create, nelle province orientali
dell'impero romano nel corso del IV, V e dei primi del VI secolo, da una costante crescita della
popolazione. Questa imprevista rivoluzione demografica gravò sia la città sia la campagna di un
numero di poveri senza precedenti. Le strutture esistenti della città - e il modello civico che era stato
loro associato - crollarono semplicemente sotto il peso di un desolante surplus umano, allorché le
città si riempirono di persone che erano tangibilmente “povere”. Esse non potevano essere trattate
37
Francesco Lamendola, La povertà diventa un crimine da reprimere quando tramonta il “buio” Medioevo
38
Marco Bartoli, Appunti per una storia della marginalità e della devianza nel Medioevo, Aracne edizioni, 2014, p.8
39
Marco Bartoli, idem p. 66
13
come “cittadini”, ma nemmeno potevano essere ignorati, come nel vecchio e più rigido modello
“civico” di comunità.
Brown contesta questa ricostruzione dei fatti, riconoscendo il merito agli studiosi citati di aver
identificato e descritto l’evoluzione, ma non quello di averne dato un’esauriente spiegazione.
In altri termini, secondo la Patlagean la carità cristiana rappresenta un sintomo, un effetto, delle
trasformazioni sociali mentre per Brown essa rappresenta una delle cause di quelle stesse
trasformazioni”40
.
L’autore spiega che i vescovi, si impegnarono attivamente in forme di esercizio del potere che
contribuirono a provocare tale transizione. I vescovi e i loro assistenti laici e chierici -
rappresentano qualcosa di più che dei sintomi di un processo. Essi erano, in prima persona, agenti
del cambiamento. Per dirla schiettamente: in un certo senso furono i vescovi cristiani ad aver
inventato i poveri: ascesero a posizioni di potere nella società tardo-romana focalizzando sempre
più l'attenzione sui poveri e presentavano le loro azioni come una risposta alle necessità di un'intera
categoria di persone (i poveri) che sostenevano di rappresentare. Furono queste azioni a contribuire
in maniera decisiva al cambiamento il cui significato generale Veyne e la Patlagean hanno descritto
in maniera così convincente. Passo passo essi impregnarono aree significative della società tardo-
antica della nozione di “amore per i poveri”. Si rovescia quindi il giudizio espresso soprattutto dalla
Patlagean.
La mobilità nelle campagne e l'immigrazione incontrollata nelle città sono state limpidamente
descritte da Eve1yne Patlagean come particolarmente comuni in età tardo-antica: a suo giudizio
avevano attivato il motore demografico che condusse alla sostituzione di una nozione classica di
società con una medievale e bizantina.
Ciò che contò, nella tarda antichità, potrebbe non essere stato l'aumento generale dell'immigrazione
degli indigenti. Piuttosto, fu la maniera in cui la Chiesa cristiana dava un significato nuovo a una
situazione antica. Essa designava i gruppi marginali che avevano sempre fatto pressione sulla città -
persone scomode, molte delle quali erano ben lontane dall'essere povere - come “i poveri”, aventi
diritto alla protezione e a un certo grado di integrazione nella comunità.41
Lo studioso fa un’avvertenza: il passaggio da un modello di società ad un altro non avviene
all’improvviso e non va letto in chiave moralistica, “i benefattori dell'età classica non erano
necessariamente più duri di cuore: guardavano semplicemente alla loro società e vedevano,
soprattutto, cittadini e non cittadini, mentre ebrei e cristiani erano giunti piuttosto a vedere ricchi e
poveri”42
.
Per renderci conto della tradizione e del peso che aveva a Roma il sistema dell’annona, per cui
anche i papi si sono trovati in qualche modo a risolvere un dato di fatto presente quasi fin dalla
fondazione della città eterna, diciamo che tale sistema dell'annona aveva da sempre comportato la
mobilitazione di grandi quantità di cibo perché fosse distribuito ai cittadini, gratis o a prezzo ridotto,
e non ai poveri.
Nella Roma del IV secolo, ad esempio, circa 150.000 cittadini ricevevano ancora l'annona civica,
alimentati da circa venticinque milioni di modii (166.750.000 chilogrammi) di grano. Nel VI
secolo, ne vennero trasportati via mare ventiquattro milioni di modii (160.080.000 chilogrammi),
40
P. Brown, Povertà e leadership, p. 12
41
Ibidem p. 14.
42
M. Bartoli, ibidem, p. 60
14
dall'Egitto a Costantinopoli. L'enorme sforzo amministrativo dedicato all'annona era mantenuto, che
funzionasse o no all' atto pratico, perché serviva a far risaltare il ruolo degli imperatori.
Gli imperatori erano rimasti euergétai, benefattori pubblici, alla vecchia maniera. La loro
preoccupazione per l'annona mostrava che essi “amavano” ancora la loro città e i suoi cittadini43
.
In questo contesto l’azione sociale della Chiesa si inserisce nel solco del sistema avviato da secoli e
ne apporta una sua specificità, esercita una forte attrattiva e spinge la gente ad avvicinarsi al
cristianesimo e, contemporaneamente, costituisce un fattore di evoluzione della società. Certamente,
nei secoli IV, V e VI, soprattutto, vescovi, comunità e singoli individui intervengono concretamente
in favore dei diseredati, come ammettono anche alcuni tra i loro avversari, che attribuiscono a ciò i
progressi della nuova religione: Giuliano l’Apostata rende indirettamente omaggio ai cristiani
dichiarando che i pagani non sono abbastanza generosi, mentre i cristiani soccorrono i bisognosi
senza distinzione di religione44
.
CONCLUSIONI
Gregorio Magno, può ben dirsi, insieme ad Agostino, il “padre spirituale e il dottore del Medioevo,
e anche se la sua opera non raggiunse mai l’altezza di quella del vescovo di Ippona, nondimeno la
sua attività di uomo vissuto in un periodo segnato da profonde trasformazioni storiche e di
precursore di tempi nuovi fu straordinariamente imponente”45
.
Dal percorso storico e religioso si vede come l’atteggiamento di Gregorio verso la povertà sia
conforme alla tradizione ecclesiale e romana allo stesso tempo. Forse questa è la prima grande
novità e originalità del pontefice che seppe unire nella sua persona e nel suo ruolo di capo della
chiesa le due grandi correnti culturali del tempo: la cura del popolo romano, attraverso una efficace
organizzazione amministrativa e gestione economica del patrimonium Petri, secondo la tradizione
dell’annona imperiale, e la cura spirituale del proprio gregge, ad immagine del Buon Pastore, in cui
la parte spirituale è strettamente congiunta al bene materiale. Papa Gregorio unisce, grazie anche
alla sua formazione culturale e alle sue vicende personali, la qualità organizzativa dello spirito
romano classico e l’apertura ed empatia gratuita e generosa verso il prossimo dello spirito
autenticante cristiano.
Un altro aspetto significativo e in linea con la tradizione cristina a è l’adesione pesonale al valore
della povertà come strumetno di maggiore efficacia per l’annuncio evangelico. Più volte ribadisce la
necessità che l’uomo ha bisogno di soddisfare in maniera sufficiente i suoi bisogni materiali per
poter accogliere la Parola, la novità del Vangelo.
Gregorio, inoltre, è consapevole del ruolo politico del vescovo e della chiesa di Roma nelle vicende
storiche del tempo, suo malgrado, cioè per la concomitanza di due fattori: il grande patrimonio
latifondistico della chiesa di Roma e il ‘disinteresse’, per non dire incapacità, sia dell’esarca di
Ravenna che dell’imperatore di Costantinopoli, ad essere politicamente presenti ed efficaci con la
minaccia longobarda e degli altri popoli germanici del nord Europa. Il papa-monaco seppe colmare
questo “vuoto di potere”, anche a volte contestato dalle autorità politiche imperiali, e nella logica
della difesa del popolo romano e della chiesa, in quel momento deboli e indifesi, utilizzò tutte le sue
43
M. Bartoli, ididem, p. 61
44
M. Bortoli, ibidem, p. 70
45
A: Franzen, Breve storia della Chiesa, p.98
15
‘armi’ per poter mantenere fede alla responsabilità che si era assunto con il papato. Forse in questo
lo si definisce il prio papa del Medioevo. Non ha paura di coinvolgersi nelle “faccende secolari” se
queste minacciano l’ordine sociale, la vita delle persone.
Proprio questa concezione rigida e predefinita della società in cui ci sono precisi ruoli,
responsabilità per ciascuno, lo rende forse un po’ lontano dalla nostra sensibilità e quindi poco
moderno, ma pur in questo contesto storico la sua grandezza e novità è di aver saputo “valorizzare”
ciascuno proprio dentro lo spazio assegnato. La visione che se ognuno facesse bene il suo compito,
in quanto assegnato da Dio, la società sarebbe ‘perfetta’. La povertà concepita e vissuta da papa
Gregorio non ha mia nulla di moralistico ma è sempre funzionale alla salvezza cristiana, all’ordine
della società, alla giustizia del diritto romano, alla responsabilità del ruolo. La struttura della società
necessità che ognuno faccia il suo compito con onestà, impegno e responsabilità. La povertà non è
del cittadino romano ma del cristiano.
La scelta della povertà come virtù personale è pienamente coerente con la tradizione cristiana che
dal suo inizio vede tale come uno dei segni della ‘sequela Christi’. Già sant’Antonio, il primo
eremita, a vent’anni dona tutti i suoi beni ai poveri così come faranno tanti altri monaci, vescovi nel
corso dei secoli. Interessante e per certi aspetti mi sembra nuova, che diventerà istituita negli ordini
monastici successivi, la scelta di Gregorio di essere povero personalmente ma restare ‘ricco’ di beni
materiali a titolo di vescovo di Roma, cioè aver mantenuto e in parte addirittura accresciuto il
patrimonium Petri. Ha certamente amministrato con grande oculatezza l’immenso patrimonio solo e
sempre a favore dei poveri e non per bisogni o interessi personali. Ha diviso chiaramente i beni
della chiesa, utili per aiutare i poveri, dai beni personali che vanno donati ai poveri. Il vescovo, il
monaco, il prete deve essere povero.
Il primato dello spirituale sul materiale è chiaramente di impronta cristiana e in qualche modo
platonica, per cui “tocca ai sudditi svolgere le attività di grado inferiore e alle guide delle anime
meditare le verità somme affinché il darsi alla cura della polvere non oscuri l’occhio preposto a fare
da guida nel cammino”46
. La povertà rende l’uomo libero di dedicarsi a Dio, di “non contaminare la
vita con attività terrestri”47
.
BIBLIOGRAFIA
G. Cracco Gregorio ‘morale’ la costruzione di un’identità, in Gregorio Magno nel XIV centenario
della morte (Roma 2004), p 171-198, nota 90
Ullmann, Il papato nel Medioevo, Laterza 1987
Il Papato e l’Europa, a cura di Garbiele De Rosa e Giorgio Cracco, Rubbettino 2001
E. Caliri, I mancipia nel registrum epistularum di Gregorio pp. 349-369. Atti dell’Accademia
romanistica costantiniana, XVIII convegno internazionale in onore di Remo Martini
Roberta Rizzo, Papa Gregorio Magno e la nobiltà in Sicilia, (Biblioteca dell’Officina di Studi
Medievali, 8) 2008
46
Gregorio Magno, Regola pastorale, II,7
47
Ibidem
16
Strutture monastiche, gestione e momenti di vita quotidiana nel Registrum epistularum di Gregorio
Magno, Carmelina Urso
V. Paglia, Storia della povertà, Rizzoli 2014
Gregorio Magno, La regola pastorale, Città nuova editrice, 1990
Marina Benedetti a cura di, Storia del Cristianesimo, II L’età Medievale, , Carocci editore 2006
J. Danielou, H. Marrou, Nuova Storia della Chiesa Dalle origini a s. Gregorio Magno, Marietti
1970
S. Gasparri, Italia Longobarda, Editori Laterza 2012
Brown P., Povertà e leadership nel tardo impero romano,
Laterza Ed., Roma – Bari 2003
G. L. Potestà- G.Vian, Storia del cristianesimo, il Mulino, 2010
H-C. Puech, Storia del cristianesimo, Mondadori Oscar, 1992
J. Lortz, Storia della Chiesa nello sviluppo delle sue idee, Paoline 1966
O. Bazzichi, Alle radici del capitalismo Medioevo e scienza economica, Effatà editrice, 2003
L. Bruni- A. Smerilli, Benedetta economia, Benedetto da Norcia e Francesco d’Assisi nella storia
economica europea, Città Nuova, 2010
K. A. Fink, Chiesa e papato nel Medioevo, il Mulino, 1998
Marcello Semeraro, vescovo, Lettera per il XIV centenario della morte di Gregorio Magno,
Manduria 2004
G. Como, La figura spirituale di Gregorio Magno,
https://docs.google.com/viewer?url=https%3A%2F%2Fwww.chiesadimilano.it%2Fformazioneper
manenteclero%2Ffiles%2F2017%2F05%2FCOMO-Gregorio__1.24454.pdf
www.festivaldelmedioevo.it/portal/i-doveri-verso-i-poveri-allalba-del-medioevo/
www.treccani.it/enciclopedia/santo-gregorio-i (Enciclopedia-dei-Papi)/

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Tesina papa gregorio i magno

  • 1. 1 IL CONCETTO DI POVERTA’ IN GREGORIO I MAGNO In questa tesina cerco di approfondire e delineare il concetto di povertà in papa Gregorio Magno (590-604) all’interno della sua vita e nel contesto storico-religioso del suo tempo. La biografia su questo papa, giustamente annoverato con l’appellativo di Magno e considerato dalla tradizione cattolica uno dei quattro dottori della Chiesa dei primi secoli, rivela la grandezza e ricchezza del suo pensiero e della sua azione. La bibliografia è vastissima1 .. Inizio presentando le tappe fondamentali della sua vita, poi alcuni aspetti del contesto storico- religioso dei secoli VI e VII, poi un’analisi del concetto di povertà in Gregorio, infine provo a delineare alcune mie conclusioni. VITA DI PAPA GREGORIO I MAGNO Papa Gregorio I (590-604) nacque a Roma nel 540 da una famiglia di profonda e vissuta fede cristiana, ricca e potente appartenente all’aristocrazia romana, la gens Anicia, anche se Sofia Boesch Gajano ne contesta la veridicità (“non è invece in alcun modo provato il rapporto di parentela con la famiglia Anicia, sorta di luogo comune spesso usato per sancire l'identità sociale di un personaggio.”)2 . Il padre Gordiano era stato magistrato di Roma, probabilmente in un ufficio minore ("regionarius" lo definisce Giovanni Diacono (Sancti Gregorii Magni Vita IV, 83), da intendere forse come uno dei "curatores regionum", preposti all'ordine pubblico; la madre Silvia, discendente dalla gens Octavia, viene di solito considerata di origine siciliana e proprietaria di quei beni fondiari che Gregorio devolverà ai sei monasteri da lui fondati nell'isola. La loro casa si trovava sulla collina del Coelio tra il Clivus Scauri ed il vicus Trium Ararium. La fisionomia sociale, religiosa e culturale, della famiglia è confermata dalla parentela con il pontefice Felice III (483-492), definito dallo stesso Gregorio come "atavus meus" (Homiliae XL in Evangelia, XXXVIII, 15; Dialogi IV, 17): probabilmente suo bisnonno. 3 La parentela con il pontefice Agapito (535-536) non è invece provata se non dal comune ambiente sociale, e ancor più dalla vicinanza delle dimore familiari, entrambe poste sul Celio lungo il “clivus Scauri”4 . Gregorio fece tutto il cursus di formazione dell’amministrazione pubblica romana e nel 573 divenne prefectus Urbs5 che esercitò per cinque anni con grande senso di responsabilità fino al 578, allorché decise di dedicarsi totalmente al servizio di Dio. Per comprendere l'alto senso del dovere nell'esercizio della sua carica riportiamo un passo di una sua lettera ad un funzionario imperiale, scritta nel settembre del 600 (quando era già papa): “…in tutti i nostri atti, la prima cosa da fare è tutelare la giustizia e garantirla con la stessa passione con cui difendete la vostra. E come non volete essere trattati ingiustamente dai vostri superiori, così dovete custodire con grande rispetto la libertà dei vostri sudditi”. 1 Bastino le note 11 e 12 in E. Caliri I mancipia nel registrum epistularum di Gregorio pp. 349-369.Atti dell’Accademia romanistica costantiniana, XVIII convegno internazionale in onore di Remo Martini. 2 http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-gregorio-i_(Enciclopedia-dei-Papi)/ vedi anche Rajko Bratož – Treccani, Enciclopedia dei Papi (2000), papa Felice III 3 S. Boesch in Treccani, Enciclopedia dei Papi, Gregorio I 4 S. Boesch, Ibidem 5 A.Franzen, Breve storia della Chiesa, Queriniana, p.96
  • 2. 2 Questa carica rivestiva ruoli importanti anche nelle questioni ecclesiastiche. Infatti nel 573 Gregorio, come prefetto, sottoscrisse la condanna dei Tre Capitoli da parte di Lorenzo vescovo di Milano, in quanto tale ruolo prevedeva il controllo della legge e dell'ordine nella città e nei suoi immediati dintorni, l'esercizio dell'autorità giudiziaria nei confronti dei membri dell'ordine senatorio e di alcune corporazioni romane, nonché il compito di presiedere alle riunioni del Senato, che, già monopolio dell'aristocrazia senatoriale romana, nel corso del VI secolo aveva perso molto del suo prestigio e delle sue stesse competenze a favore del prefetto del Pretorio, posto a Roma da Belisario dopo la conquista della città nel 5376 . L'immagine di Gregorio a passeggio per le vie di Roma vestito di seta e adorno di gemme, tratteggiata da Gregorio di Tours, è certamente efficace nel simboleggiare il prestigio inerente allo stato sociale e alla carica pubblica, in contrapposizione con la successiva scelta monastica. La vocazione monastica rappresenta una componente fondamentale dell'identità biografica di Gregorio: "cercavo ogni giorno di estraniarmi dal mondo e dalla carne, di allontanare dagli occhi della mente tutti i fantasmi corporali, di contemplare con gli occhi dello spirito le gioie del cielo anelando alla visione di Dio", scriverà subito dopo l'elezione a pontefice a Teoctista, sorella dell'imperatore (Registrum epistolarum I, nr. 5). Le espressioni di rimpianto, una costante delle sue opere, si accompagnano con l'amarezza per non avere difeso a sufficienza la sua vita monastica, come risulta dalla lettera-dedica dei Moralia. La pratica fondamentale del monastero era la “lectio divina” e Gregorio ricorderà sempre il tempo passato nel monastero di Sant'Andrea come il più felice della sua vita. Non è certo né sicuro sul rapporto con la vita monastica delineata dalla Regola di san Benedetto, in quanto questo tipo di scelta di vita cristiana era presente già dal III secolo in Oriente e poi in Occidente. Si ipotizza una certa vicinanza alla regola di san Benedetto in quanto lui stesso ne scrisse la prima biografia nel secondo Libro dei Dialoghi, dimostrando quindi un’ammirazione e condivisione di intenti, come lui stesso racconta all’inizio della Vita di san Benedetto: “parleremo oggi di un uomo veramente insigne, degno di ogni venerazione. Si chiamava Benedetto questo uomo e fu davvero benedetto di nome e di grazia”.7 Come riferisce Marrou: la fioritura di monasteri “si attua in un’atmosfera un po’ anarchica: come in Oriente ogni monastero adotta l’organizzazione o lo spirito definit dal proprio fondatore; di qui il caratteristico pullulare delle Regole”8 . Dall'austerità del monastero Gregorio passò al fasto della corte bizantina nel 579, da Roma quasi deserta ad una città animatissima di corse e di giuochi all'ippodromo; ma non risulta ch’egli abbia mai subito il fascino della fastosità e dello splendore mondano. Come nunzio del Sommo Pontefice gli era stata assegnata una residenza sontuosa accanto al palazzo imperiale, ma Gregorio con “molti fratelli” che l'avevano seguito vi creò un clima ed uno stile di vita monastico continuando a dedicarsi alla meditazione della Parola di Dio e alla vita contemplativa come nel suo monastero di Sant'Andrea al Celio. Nella primavera del 586 papa Pelagio II lo richiamò a Roma come suo consigliere. Poté rientrare nella pace del suo monastero al Celio, ma fu per breve tempo. L'autunno del 589 fu per l'Italia una stagione calamitosa e per Roma addirittura catastrofica. Il Tevere inondò Roma con tanta violenza da far crollare antichi edifici e da devastare quasi totalmente i depositi di grano della Chiesa. Seguì una pestilenza, che scoppiò verso la metà di gennaio del 590: papa Pelagio II fu tra i primi ad esserne colpito e in breve tempo morì. La mortalità del popolo fu enorme e Roma cominciò a 6 Treccani Enciclopedia dei papi 7 LA VITA DI SAN BENEDETTO, Testo integrale tratto dal Libro II° dei "Dialoghi" di San Gregorio Magno, Traduzione a cura dei PP. Benedettini di Subiaco. Pubblicato nella collana "Spiritualità nei secoli" di Città Nuova Editrice, p. 3. 8 H. Marrou, Nuova storia della Chiesa, p. 490
  • 3. 3 spopolarsi. Provata da tante calamità la popolazione vide la necessità di avere subito un nuovo pastore e la scelta unanime cadde su Gregorio. Il popolo accorse al Celio per acclamarlo Papa. Egli cercò in tutti i modi di sottrarsi e scrisse persino all'imperatore scongiurandolo di non ratificare l'elezione popolare; ma alla fine pur non riuscendo a nascondere il suo turbamento, accettò e fu consacrato vescovo di Roma il 3 settembre del 590 nella basilica di S. Pietro. Secondo H. Marrou9 la “crescente barbarie dei costumi, il generale impoverimento della cultura rendevano difficile la scelta di buoni vescovi, ecco perché diventa sempre più importante il contributo del monachesimo al reclutamento del corpo episcopale. Il fenomeno inizia in Gallia, con il famoso monastero dell’isola di Lerin, poi si sviluppa in Africa, Spagna e Roma, dove sarà proprio Gregorio il primo papa-monaco”. Questi monaci, poi, divenuti vescovi o papa, come Gregorio, non perderanno il loro primitivo ideale: resteranno monaci di cuore e di fatto. Gregorio fece un po’ di tutto, dall’amministratore al pacificatore, guidò la Chiesa e la società civile, che non era meno confusa e provata, consolò gli afflitti di una Roma umiliata e spinse il Vangelo fino a sfidare i popoli della Britannia, istruì e risollevò vescovi inetti o scoraggiati, affrontò a viso aperto quel che restava di un potere imperiale e tese la mano ai barbari invasori, fece persino una riforma agraria dei patrimoni ecclesiastici. Era un cercatore di Dio, ma anche uno che si interessava del “rispetto dei contratti di lavoro o del controllo dei pesi e delle misure” (Leclercq). Il vescovo è designato da Gregorio attraverso una terminologia molto varia: pastor (la guida delle anime), sacerdos (colui che presiede al culto liturgico; fino al VI sec., il termine designa il vescovo1), doctor (con riferimento alla funzione di insegnare), praedicator; ma il termine più usato in assoluto è rector, che rivela un’insistenza sulla funzione di governo, e quindi sull’incarico episcopale vero e proprio (regere, dirigere, governare una Chiesa), ma che evoca pure l’idea di rectitudo, che è la dirittura morale, la fedeltà al dovere ma anche la dignità che comporta il servizio episcopale. Il vescovo, dunque, non come uomo di potere, bensì come maestro spirituale, l’infaticabile maestro che punta al rinnovamento della società cristiana, fatta di singoli uomini da convertire e da portare a un alto livello di adesione a Cristo. Gregorio vuole recuperare la dimensione spirituale originaria dell’episcopato, quella primaria funzione apostolica che dia al suo impegno sociale e civile il puro senso del servizio, richiesto dall’amore ai fratelli, sullo stile di Cristo. Egli vuole che i suoi vescovi sentano la responsabilità di guide alla fede. Gregorio è interessato al recupero della autentica fisionomia spirituale del vescovo10 . L’azione di Gregorio fu tanto ampia e decisa a difesa della città e dei poveri che a ragione è stato definito anche con l’appellativo di consul Dei.11 Lo si può vedere anche dal tono e dalla grandissima varietà di interlocutori (dal contadino all’imperatore, dai funzionari statali al patriarca di Costantinopoli) della sua corrispondenza: da un lato un’umile deferenza, dall’altro un tono molto imperativo, quasi degli ordini; san Gregorio traccia un programma di azione ai suoi interlocutori. Si delinea con chiarezza la dottrina della funzione ministeriale del sovrano, ministerium regis: il potere gli viene conferito perchè il suo regno terreno sia posto al servizio del regno dei cieli12 . 9 H. Marrou, Nuova Storia della Chiesa, p.490. 10 Ibidem, p.2 11 H-C. Puech, Storia del cristianesimo, p. 252 12 H. Marrou, Nuova storia della Chiesa, p. 512.
  • 4. 4 In Papa Gregorio Magno era perfettamente presente la consapevolezza che per l'Urbe era ormai iniziata la decadenza tanto che in un sermone la paragonò ad un vaso di argilla infranto ed il suo popolo ad un'aquila spennacchiata e morente sulle sponde del Tevere. Da questa consapevolezza ebbero origine le opere e gli scritti che, con il fine di ridare coraggio e speranza all'occidente, Papa Gregorio mise in atto e per le quali si deve riconoscere che l'appellativo di Magno fu quanto mai giusto13 . Qualcun altro è incerto nel trovare la giusta definizione, collocandolo sulla linea di demarcazione tra tarda antichità e inizio del Medioevo: “definito “personaggio-simbolo di un’epoca, l’ultimo dei romani o il primo dei cristiani della nascente Europa”. CONTESTO STORICO-CULTURALE E RELIGIOSO Gregorio sta all’inizio di un’epoca nuova. Più che alla fine dell’epoca patristica, potremmo meglio collocarlo all’inizio dell’era della nuova società romano-barbarica, di cui il cristianesimo che egli vive e predica diventerà uno dei principali fattori costitutivi. R. A. Markus afferma che “per comprendere Gregorio dobbiamo considerarlo partecipe, allo stesso tempo, di due diversi mondi…: il mondo di Ambrogio, di Agostino, di Giovanni Cassiano e dei loro contemporanei, e il mondo dei loro eredi medievali” (Gregorio Magno e il suo mondo, XII)14 . È interessante sottolineare anche l’idea di società presente nei secoli della tarda antichità, di cui anche Gregorio si rende portavoce ed espressione nelle sue omelie e nei suoi testi. Dal IV secolo, infatti, lo pseudo Dionigi aveva sistematizzato il concetto di gerarchia come “ordine, cioè una disposizione ontologica voluta da Dio che caratterizza i diversi gradi o classi nella società”.15 In questo autore l’ordine gerarchico è assoluto e permanente. La libertà non è vanificata, in quanto l’uomo con la sua libertà aderisce o meno a questo ordine e raggiunge la perfezione solo se segue le disposizioni del suo status. Questa tesi porta all’ineguaglianza dei membri della società. Da qui il passo logico che caratterizzerà tutto il Medioevo: il corporativismo, cioè l’ordinamento del popolo in categorie unificate in proprie organizzazioni. Infatti la Chiesa stessa non aveva mai riconosciuto l’eguaglianza di tutti gli uomini. L’uguale dignità si, ma non aveva mai condannato la diseguaglianza, quella che noi oggi chiamiamo una diseguaglianza strutturale. Lo stesso Gregorio Magno giustifica tale principio. Egli dichiarava che se anche la natura aveva creato tutti gli uomini eguali, interveniva una “dispensatio occulta” secondo la quale alcuni venivano posti al di sopra degli altri per la diversità dei meriti, come emanazione dell’ordine divino.16 L’individuo quindi doveva spogliarsi delle proprie personali ed individuali prerogative per seguire le disposizioni dall’alto e aderire all’ordine prestabilito in cui si trovava dalla nascita. Per questo ciò che conta in epoca medioevale è il bene comune, il bene pubblico, la prosperità pubblica della societas christiana. 13 https://www.romeandart.eu/it/arte-papa-gregorio-magno.html 14 G. Como, La figura spirituale di Gregorio Magno, p. 7 15 O. Bazzichi, Alle radici del capitalismo, p.26 16 Ibidem, p.27, cfr J.P. Migne, Patrologiae cursus comletus. Series Latina, 66, col 203 “sed variante meritorum ordine alios aliis dispensatio occulta postponit”.
  • 5. 5 Come ha sottolineato Parves17 aveva un’idea di società ben precisa, e che influenzerà tutto il Medioevo: una società divisa sociologicamente ma unita sotto la guida e l’ordine creato da Dio. Per questo si sentiva in dovere di proteggere le popolazioni italiane e la salvaguardia di persone, terre, case, diocesi da nuove violenze e devastazioni. Gregorio è inserito in questo contesto, per cui si spiega come lui stesso non abbia mai condannato la diseguaglianza sociale ed economica, nè abbia mai stimolato o aiutato i poveri a ‘ribellarsi’ alla loro condizione, piuttosto miserevole e dura. Anzi in diverse lettere rimproverava gli schiavi o i contadini o i servi se non seguivano ed obbedivano agli ordini dei loro padroni. Si veda ad esempio la sua ‘politica’ verso gli schiavi o mancipia, acquistati nei territori del Patrimonium Petri come le Gallie e la Sardegna e poi impiegati soprattutto nelle proprietà della Sicilia e della Campania18 , dove pur richiamando la correttezza dei rapporti da per scontata la realtà dei lavoratori schiavi o quasi. Altro elemento culturale importante in cui si inserisce e si comprende l’azione di governo di Gregorio è la concezione di vescovo maturata negli ultimi due secoli, dopo Costantino e Teodosio e la caduta dell’Impero romano. Alla fine del VI sec. il vescovo aveva un notevole spessore civile; lo spazio in cui si muove non era solo quello religioso: all’ufficio di giudice si erano aggiunti incarichi in campo amministrativo (gestione dei viveri, costruzione di opere pubbliche, controllo della finanza locale ecc.), e in più, in Italia, la direzione della difesa militare di fronte all’avanzata longobarda e in assenza di quella bizantina. Il vescovo era un uomo potente, autorevole, colto, spesso ricco, almeno nell’area della civiltà romana.19 Su questo sostrato sociologico e culturale, Gregorio elabora e diffonde la sua idea di papa, vescovo di Roma, e del suo ruolo ecclesiale e ‘politico’. La competenza di governo maturata con la formazione amministrativa, l’esperienza diplomatica a Costantinopoli e la frequentazione della Scrittura, giocarono un ruolo importante nel delineare la figura di vescovo che lui stesso cercherà di vivere e di trasmettere attraverso i suoi scritti, soprattutto nella Regola pastorale, e la sua predicazione. L’impostazione della sua formazione culturale pur manifestando “un atteggiamento di condanna della cultura classica”, come fa intendere nella celebre lettera al vescovo Desiderio di Vienne, rimproverato di insegnare la grammatica e di unire, cosa "grave e nefanda per un vescovo", "le lodi a Giove con quelle a Cristo" (Registrum epistolarum XI, nr. 34),[…..] è da ricondurre alla convinzione che la cultura antica di carattere profano costituisse uno strumento in funzione della comprensione e della comunicazione della verità divina contenuta nella Sacra Scrittura, in una linea di continuità con una tradizione che ha i suoi esponenti più illustri in Girolamo, Agostino e Cassiodoro”.20 Al tempo di Gregorio, la chiesa di Roma, aveva una vastissima proprietà terriera in tutta l’Italia, pur nella disomogeneità dei territori e dei confini. Era il cosiddetto “patrimonium Petri”. Si trattava di un patrimonio ingente, ma territorialmente non omogeneo. La Sicilia era la proprietà più estesa, con 17 in Pastoral Care, Gregory worked out a theory of hierarchy that contradicted his own egalitarian leanings and influenced the church for centuries. Church historians have credited him with a legacy that guided the church until the Reformation”. Purves, Pastoral Theology, 5,.in Priscilla Papers Vol. 22 , No. 1, Winter 2008. 18 E. Caliri I mancipia nel registrum epistularum di Gregorio pp. 354. Atti dell’Accademia romanistica costantiniana, XVIII convegno internazionale in onore di Remo Martini 19 La figura spirituale di Gregorio Magno, Giuseppe Como, p. 1 20 Treccani, Enciclopedia dei papi, Gregorio I
  • 6. 6 circa 137.600 ettari, corrispondenti a circa un diciannovesimo della superficie dell'isola (L. Ruggini), tanto da essere da Gregorio diviso in due ("Panormitanum" e "Syracusanum"). Le pur scarse testimonianze relative alla storia dei beni ecclesiastici a partire da Costantino hanno permesso di giungere alla conclusione che i Patrimoni della Chiesa romana fossero i "patrimonia" della chiesa cattedrale della diocesi di Roma, cioè del Laterano (F. Marazzi).21 Il Registro delle Lettere rivela una straordinaria progettualità organizzativa di papa Gregorio, volta a garantire un'amministrazione gerarchicamente disposta sotto il controllo diretto del pontefice, costituita da personale selezionato, incardinato nell'istituzione ecclesiastica, preparato sul piano culturale e controllato sul piano morale [….]. La prima preoccupazione di Gregorio fu di assicurare un'amministrazione efficiente dei Patrimoni della Chiesa: "per procuratores ecclesiasticorum patrimoniorum, velut Argus quidam luminosissimus, per totius mundi latitudinem suae pastoralis sollicitudinis oculos circumtulerit [...]", sintetizza efficacemente Giovanni Diacono (Sancti Gregorii Magni Vita II, 55). 22 Ogni Patrimonio era affidato a un amministratore nominato dal papa, il "rector", scelto tra il personale delle "scholae": suddiaconi, per i patrimoni più importanti, oppure notai o "defensores", Una gestione attenta ai diritti e pronta ad atti di carità, considerata modello di amministrazione improntata a principi cristiani (V. Recchia, Gregorio Magno e la società agricola), non impedisce di vedere le reali condizioni economiche e sociali dei "rustici", sottoposti giuridicamente a condizioni durissime, ulteriormente oppressi da pratiche economiche scorrette e ancora vittime della "comparatio" o "coemptio": la fornitura di derrate alimentari a prezzo di calmiere per soddisfare le esigenze dell'annona. E neppure impedisce di cogliere le reali finalità della correttezza amministrativa: Gregorio si preoccupa di "assicurare un minimo di benessere ai coloni ecclesiastici tanto per buona coscienza cristiana, quanto per esigenze di avveduta amministrazione, dal momento che proprio questi 'rustici' costituivano la sorgente prima di tutto il frumento fiscale e no, annualmente convogliato agli 'horrea' provinciali e urbani della Chiesa […. ]. A quei contadini, pur protetti dai soprusi, il pontefice poteva rivolgersi con toni molto duri per indurli a obbedire al "defensor", autorizzato a punire chi disobbediva o chi era contumace, ad applicare la legge in merito agli schiavi che si fossero nascosti e a eventuali appropriazioni indebite di terre confinanti. Così come con grande durezza interveniva per stroncare pratiche religiose tradizionali, bollate come insopportabili persistenze dell'antico paganesimo, da estirpare imponendo l'aumento del canone; La cura nell'amministrazione dei Patrimoni appare strettamente legata alle preoccupazioni per l'approvvigionamento di Roma: quattro volte l'anno erano previste le elargizioni per il clero e i monasteri; ogni primo del mese avvenivano le elargizioni in natura ai poveri, categoria di persone di cui è difficile stabilire l'identità, ma che certamente non corrisponde più all'insieme della popolazione romana beneficiaria dell'annona pubblica. Il vescovo provvedeva inoltre con la sua parte, non solo ad alcuni casi particolari di "poveri decaduti", ma anche a elargizioni munifiche. Questo compito diventava spesso per Gregorio motivo di preoccupazione se non di tristezza, come racconta nella lettera alla sorella dell’Imperatore, dove si pone il problema se il pontefice fosse un 21 idem 22 idem
  • 7. 7 mero amministratore o avesse invece il ruolo di guida spirituale del popolo romano: “in questo luogo [a Roma] chiunque sia detto pastore è così gravosamente preso dalle occupazioni esterne da essere sempre incerto se del pastore eserciti anche la funzione o non piuttosto quella di grande di questa terra" ( nr. 5). Gregorio vide e visse l’effetto delle drammatiche circostanze del suo tempo e aveva maturato la persuasione di assistere al drammatico tramonto di una società e di trovarsi ad una svolta epocale. Il panorama che si dispiegava ai suoi occhi era desolante: “Dovunque vediamo lutti, dovunque sentiamo gemiti. Distrutte le città, invasi i villaggi, devastate le campagne, la terra è stata ridotta a un deserto. Non è rimasto nessun abitante nei villaggi, quasi nessuno nelle città; e tuttavia anche questi piccoli resti del genere umano sono colpiti continuamente ogni giorno… Vedete com’è ridotta Roma stessa, che un tempo pareva la dominatrice del mondo. Schiacciata in tanti modi da immensi dolori, dalla desolazione dei cittadini” (In Ez. II,6,22). Erano gli ultimi mesi del 593 e i primi del 594, mentre Roma era assediata e invasa dai Longobardi. Come sottolineato da G. Cracco “il papato così come crescerà in ruolo e in peso politico dopo il Mille [….] al tempo di Gregorio è ancora ben lungi dall’esistere, dall’essere operante. Il papato di Gregorio è un papato non già di potere bensì di servizio”23 . Su questa linea di pensiero Gregorio viene presentato come colui che ricostruisce ex novo un mondo senza romanità, essendo questa concepita come radicalmente anticristiana, e di farlo basandosi su nuove fondamenta: i poveri e i reietti. Non a caso quasi tutti gli interlocutori delle sue omelie sono persone povere, come i deboli gli ignoranti, le donne (ma non le matrone aristocratiche). Ancora Cracco azzarda una definizione interessante: Gregorio “profeta dell’Occidente del VI-VII secolo” e come il “Maometto dell’Occidente, nel senso che anche lui rifondò la sua religione e ne fu per così dire profeta”24 , anche se avvisa di non fare un comparativismo forzato. I due “giganti si equivalgono perché entrambi seppero innalzare la religione dal ruolo equivoco di ‘variante dello Stato’ a forza autonoma in grado di trainare il mondo”25 . Un’altra lettura e presentazione di Gregorio è data da Jacques Fontaine, per il quale Gregorio Magno, contrapposto a Isidoro di Siviglia, “appare schiacciato dalle sciagure dell’Italia contemporanea, laddove spesso animato da una fede nell’Apocalisse, ne fa un già autentico esponente dell’alto Medioevo, quanto il vescovo di Siviglia era sereno e ottimista26 . SIGNIFICATO DI POVERTA’ E POVERI Sin dalla vita e dalla predicazione stessa di Gesù, il concetto e la pratica della povertà hanno avuto un ruolo decisivo per la vita e l’identità dei cristiani. Nell’idea di equilibrio sociale e in ottica religiosa di riscatto dei propri peccati fin dall’antichità secondo la dottrina cristiana uno dei mezzi più importanti che Dio offre all’uomo per riscattarsi dai peccati commessi dopo il Battesimo è costituito dalle opere di misericordia e specialmente 23 Il Papato e l’Europa, p. 20 24 Idem, p.39 25 Idem, p.44 26 H-C. Puech, Storia del cristianesimo, p. 250
  • 8. 8 dell’elemosina […]tutti i cristiani, non solo i poveri, hanno bisogno di carità. Allo stesso modo tutti, non solo i ricchi, sono tenuti a farla, come la vedova del vangelo che offre il suo obolo secondo le sue possibilità (Mc,), la beneficienza offre al cristiano la possibilità di riscattare almeno in parte le sue colpe27 . Cogliendo solo alcuni dei passaggi più importanti della sua evoluzione, sottolineiamo che mentre la predicazione del IV-V secolo di Giovanni Crisostomo (come quella di Basilio e degli altri padri orientali) si rivolgeva ad un mondo che aveva da poco riconosciuto il cristianesimo come religione dell’impero, in Occidente le sfide che venivano poste agli uomini di Chiesa erano diverse: nuovi popoli arrivavano dell’est e dal nord e mettevano in discussione tutte le strutture di potere fino ad allora esistenti. In questo contesto la povertà aumentava, sia a causa delle guerre, sia perché non vi erano più le magistrature tradizionali che si occupavano dei bisognosi. Anche davanti a un contesto del tutto diverso da quello orientale, i padri della chiesa sottolinearono il dovere cristiano della carità verso i più poveri, fondato sull’esempio di Cristo stesso, che per noi si fece povero28 . La povertà, nello specifico del popolo romano, secondo Brown, aveva dato un valore simbolico al gesto dell’elemosina e della carità. Lo studioso inglese parla di una trasformazione del popolo: da plebs romana a plebs Dei. Il cambiamento è in atto già dal V secolo, cioè “la proposta di non considerare le pratiche caritative associate alla devozione cristiana soltanto come un atto privato di misericordia (come potrebbe fare un cristiano moderno), e neppure (come potrebbe fare un uomo politico moderno) come una misura di assistenza economica: piuttosto, dovremmo guardare al fenomeno delle elemosine cristiane con occhi tardoromani - dovremmo vederlo cioè come un catalizzatore simbolico, la cui vera forza sta meno nelle somme elargite che nella definizione nuova di comunità urbana implicita nella definizione cristiana, tanto dei potenziali fruitori quanto dei potenziali distributori di elemosine”. Infine, Brown indica il significato per i romani del cambiamento: “il dono allo scopo di esprimere nuovi legami di coesione nella loro città, nel turbolento secolo che vide la fine dell'Impero Romano d'Occidente”29 . Nell'Occidente latino del quinto e sesto secolo, lo spettacolare sviluppo della pratica cristiana delle elemosine è intimamente connesso alla necessità delle aristocrazie locali di provvedere ai propri dipendenti in un mondo che non ha più un Impero30 . In questa prospettiva si leggerebbe l’azione di Gregorio come un modo per rafforzare i legami sociali del popolo e col popolo, sulla linea della tradizione tipicamente romana. José Ignacio Gonzalez Faus spiega il principio sempre affermato dai Padri greci: “l'obbligo dell'elemosina è un dovere non tanto della sfera della carità, quanto piuttosto dell'area della giustizia pura e semplice, pressappoco com'è per l'obbligo di non tenere per sé ciò che si è rubato. Questa è la volontà dell'unico Proprietario della ricchezza. Per i padri, “dare” è in realtà “restituire”, e nel fare l'elemosina non si consegna “del proprio”, bensì si restituisce “l'altrui”. L'elemosina non è dunque un atto meritorio o supererogatorio, ma semplicemente riparatore. Siamo dunque in presenza di due elementi da prendere in esame. Da una parte, è certo che i padri greci ricerchino la soluzione del problema dei poveri passando non attraverso una qualche trasformazione di carattere strutturale, ma soltanto per l'azione (e la conversione) personale. Con tutto ciò, resta comunque molto importante 27 Storia del cristianesimo, a cura di Marina Benedetti, p. 28 Appunti di storia della marginalità, p. 91 29 P. Brown O. CapitaniF. Cardini M. Rosa Povertà e carità dalla Roma tardo antica al ‘700 italiano, Quattro lezioni, p.22 (28) 30 Ibidem, p. 24(30)
  • 9. 9 sottolineare come, d'altro canto, essi attribuiscano a questa azione personale il carattere di giustizia: non si ha a che fare allora con un puro e semplice invito alla generosità, ma con un appello all' ordine elementare delle cose. Il fatto che essi non siano alla ricerca di soluzioni strutturali va presumibilmente riferito a una situazione di ordine meramente culturale: all'epoca non era certo possibile ipotizzare qualcosa di più (vedasi ad esempio lo schema filosofico proposto dallo pseudo-Dionigi). Quanto all'altro elemento, si può dire che per quanto ribadiscano con insistenza l'obbligo che il ricco ha di dare, tuttavia essi non sottolineano con eguale chiarezza come a tale obbligo corrisponda un vero e proprio diritto del povero; semmai, insistono sul fatto che il ricco ha sì l'obbligo di dare, ma comunque sempre secondo la propria libera volontà; e che il povero deve... essere paziente31 . La via del volontarismo non era una carenza dell’impostazione dei Padri, ma una precisa scelta consapevole32 . Una simile posizione si riscontra anche nella vita e nella pratica dei Padri latini, come il diacono Paolino nella Vita di Ambrogio fa un preciso riferimento alla sensibilità del vescovo di Milano verso i poveri: “Egli era fin troppo sollecito in favore dei poveri: infatti, allorché fu ordinato vescovo, donò alla Chiesa e ai poveri tutto l'oro e "argento di cui disponeva» (n. 38). “Si rattristava nell'intimo al vedere come l'avarizia, radice di ogni male, che non può essere diminuita né dall'abbondanza né dalla miseria, aumentava sempre più fra gli uomini, specie in coloro che avevano posti di comando, dove tutto si vendeva per denaro. Per lui era assai grave e difficile intervenire di fronte a costoro. Questo malcostume provocò una serie di mali all'Italia, mentre tutto degrada verso il peggio” (n. 41). Le stesse parole di Gregorio verso i ricchi e i poveri sembrano confermare questa impostazione. Gregorio esigeva dagli uomini di Chiesa sincero rispetto per le leggi dello Stato e leale attuazione dei loro doveri civici. Egli fu davvero quell'amministratore fedele e saggio messo dal Signore a capo dei suoi servi perché, a tempo opportuno, desse a ciascuno ciò di cui aveva bisogno. La sua capacità amministrativa rese possibile la stessa sopravvivenza di Roma, poiché il Papa attinse alle risorse della Chiesa per sfamare e difendere la città. Egli era giunto alla convinzione che la terra appartiene a tutti, per cui l'elemosina fatta con la rendita della terra non è che una restituzione. Nella “Regola Pastorale” si esprime così: “.... Quando si dà ai poveri ciò di cui essi hanno stretto bisogno, si compie un atto di restituzione più che un dono, si rende omaggio alla giustizia più che compiere un atto di generosità”. I suoi ideali erano: tutelare la giustizia e rispettare la libertà; (ovviamente non considerava opera di misericordia ciò che è dovuto per giustizia). Nel Commento a Giobbe dice: “dona in modo più autentico colui che mentre elargisce il dono a chi è nell'afflizione, ne assume anche lo stato d'animo; cioè prima fa sua la sofferenza di lui e, allora, lo aiuta soccorrendone il bisogno”. Gregorio tutti i giorni inviava per la città carri di vettovaglie cotte per i deboli e per gli infermi; invitava alla sua tavola dodici pellegrini, a cui prima del pranzo lavava egli stesso le mani. Una pia leggenda narra che una volta Gregorio vide sedere a mensa un tredicesimo commensale che si rivelò come un angelo del Signore venuto a dire quanto fosse gradita a Dio l'opera di Gregorio. Un giorno fu trovato morto sotto un portico un poveretto e si disse che fosse morto di fame. Fu tale il dolore del Papa, ch’egli si astenne per alcuni giorni dalla celebrazione dei divini misteri, come se lo avesse ucciso con le proprie mani. Gregorio operò per la giustizia lasciandosi vincere dalla pietà. Tra giustizia e carità egli vide un legame inscindibile: se non è fondata sulla giustizia, la carità è 31 J. I. Gonzalez Faus, I poveri, vicari di Cristo, p. 66-68. 32 Appunti per una marginalità, p.79, M. Mollat, I poveri nel Medioevo, p. 20
  • 10. 10 corrotta. A Giustino, pretore della Sicilia, scrisse fra l'altro: “... Non succeda che per qualche prospettiva di lucro siate trascinato all'ingiustizia: nè minacce nè amicizie riescano mai a distogliervi dalla linea della rettitudine”33 . La carità appartenne realmente all’azione di Gregorio poiché con lui, secondo quanto è attestato da Giovanni Diacono, “la chiesa universale sembrava una dispensa per tutti”. E ancora una volta nella sua vita e nei suoi scritti emerge forte il connubio tra povertà e ricerca di Dio, il significato spirituale di povertà. In un passo del commento a Giobbe si può intendere che la povertà per Gregorio è il modo per potersi dedicare meglio a Dio e alle cose interiori, in quanto per contrapposizione ”l'avarizia, quando il cuore, confuso, ha perso il bene della letizia interiore, cerca all'esterno motivi di consolazione e non potendo ricorrere alla gioia interiore, desidera tanto più ardentemente possedere i beni esteriori” (Gregorio Magno, Moralia in Iob, XXXI, XLV). Il rapporto tra povertà, necessità materiali e predicazione è molto presente in san Gregorio, in quanto “la parola della dottrina non penetra nella mente del bisognoso se una mano misericordiosa non la raccomanda al suo cuore” e i pastori, “ferventi degli interessi spirituali dei loro sudditi” non devono tralasciare in questo “di provvedere pure alla loro vita esteriore”34 . Secondo Lamendola, vi è stata una lunga epoca nella storia della nostra civiltà - l’epoca medievale - nella quale, per secoli e secoli, la povertà non è stata considerata affatto come una vergogna, un disonore, un vizio; e ciò non solo per la banale constatazione che essa era largamente diffusa, e si inscriveva in un quadro sociale complessivo caratterizzato da una forte tendenza alla sobrietà e al pieno utilizzo delle risorse (cioè l’esatto contrario della odierna civiltà dei consumi e dello spreco), ma anche per una ragione di fondo di tipo culturale e religioso: ossia in ragione della “imitatio Christi”, dell’essere simili a Gesù e in linea con la sua Buona Novella; per il fatto, cioè, di prendere molto sul serio l’ammonimento evangelico sulla difficoltà di entrare, da ricchi, nel regno dei Cieli, e sulla impossibilità di servire a due padroni, Dio e Mammona. Il vagabondo, il povero, il malato, si presentavano come l’immagine vivente del Cristo: “Se avrete fatto del bene all’ultimo dei vostri fratelli, l’avrete fatta a me”, aveva detto Gesù in persona, nella maniera più esplicita.35 Una lettura interessante del rapporto tra povertà, fede e ruolo sociale, viene data da Gregorio nel libro II,7 della sua Regola pastorale dal titolo significativo: “la guida delle anime non attenui la cura della vita interiore nelle occupazioni esterne, né tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene interiore”36 . Il papa monaco spiega che c’è una diversità di ruoli e di ‘attitudine’ nei confronti delle cose interiori e che perciò “all’amministrazione dei beni terreni servano quelli che sono non dotati di alcun dono spirituale”. Come se dicesse che “poiché alcuni non sanno penetrare le realtà interiori, operino almeno per le necessità esteriori”. Un modo per confermare la differenza sociale tra ruoli legati ai beni spirituali e quelli terreni, una chiara 33 sangregoriomagnopadova.it https://docs.google.com/viewer?url=http%3A%2F%2Fwww.sangregoriomagnopadova.it%2FStoriaSanGregorioMagno. pdf 34 Gregorio Magno, Regola pastorale, II,7. 35 Francesco Lamendola, La povertà diventa un crimine da reprimere quando tramonta il “buio” Medioevo 36 Gregorio Magno, Regola pastorale II,7, Città nuova editrice, p. 90.
  • 11. 11 indicazione del significato di povertà come strumento, condizione, status ideale per poter accedere alle verità spirituali del cristianesimo, in questo rifacendosi a san Paolo nella 2 lettera a Timoteo: “nessuno che militi per Dio si immischi in affari secolari per poter piacere a colui che l’ha arruolato” (2 Tm 2,4). Gregorio stesso ne da esempio, come raccontato da Gregorio di Tours nella Vita di Gregorio Magno: “il primo giorno di ogni mese distribuiva a tutti i poveri la parte dei redditi della chiesa pagati in natura: nella stagione adatta, il frumento e, a seconda delle stagioni, vino, formaggio, legumi, lardo, animali commestibili, pesce e olio venivano così assegnati con la massima discrezione da questo capo della famiglia del Signore.... Inoltre ogni giorno servendosi di corrieri adibiti a tale mansione inviava per vie e crocicchi di ogni regione della città alimenti cotti per i malati e gli invalidi. Prima di prendere lui stesso il cibo, aveva cura di inviare una scodella della sua mensa ai più poveri che non avevano coraggio di mostrarsi tali, di porta in porta”. Non a caso sul suo sepolcro fu inciso un epitaffio nel quale, fra l’altro, fu scritto: “Questa tomba contiene le membra di un Sommo Pontefice che sopravvive dovunque per innumerevoli opere grandi. Vinse la fame col cibo, il freddo con le vesti e con i divini insegnamenti protesse le anime dal nemico. Confermava con i fatti ciò che insegnava con le parole, esempio vivo della sua mistica dottrina”. La scelta della povertà ha un valore di libertà e di risveglio della coscienza, come Gregorio spiega nella sua omelia al brano evangelico del figliol prodigo (Lc., 15, 17).: “Dio quindi elegge quelli che il mondo disprezza, perché spesso proprio questo disprezzo fa ritornare l’uomo in sé[…]. Privo invece di beni terreni, cominciò a pensare a quelli spirituali che aveva perduto. I poveri e i deboli, i ciechi e gli zoppi vengono dunque chiamati e si presentano, come gli abbandonati e i disprezzati dal mondo che spesso accolgono con maggior prontezza la voce di Dio perché in questo mondo non sono incatenati dai piaceri. [Gregorio Magno, Omelia XXXVI, 7] Secondo E.K. Rand nei tre secoli V-VIII sono emerse alcune grandi figure che lui ha chiamato “i fondatori del Medioevo”, in quanto hanno fornito alcuni elementi basilari e i parametri culturali e intellettuali agli uomini dei secoli successivi. Si tratta di Boezio (morto nel 524), Cassiodoro (morto verso il 580) Gregorio Magno (papa dal 590 al 604), dello spagnolo Isidoo di Siviglia (mroto nel 636) e dell’inglese Beda (morto nel 735). Ha scritto in proposito Jean Pierre Gutton nella sua monografia «La società e i poveri» (Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1977, pp. 77-80): “In via di principio la civiltà medievale esalta la povertà come una virtù. La povertà in spirito è presentata come un ideale; la scelta volontaria della povertà costituisce un punto fondamentale delle regole dei grandi ordini monastici. La povertà di fatto, poi, è considerata una conseguenza del peccato, poiché le cause della miseria –guerre, calamità agricole…- sono altrettanti castighi inviati da Dio per punire l’umanità dei suoi peccati. Ma il Cristo, con la sua vita terrena, ha voluto santificare la povertà. Perciò i poveri si identificano con Cristo, sono le sue “membra sofferenti”, i suoi rappresentanti sulla terra. Pierre de Blois indica il povero con l’appellativo di “vicarius Christi” , e l’espressione “poveri di Gesù Cristo” è abituale. Una tale concezione valorizza la scelta
  • 12. 12 volontaria della povertà. Del povero essa fa un intercessore privilegiato presso Dio. La sua preghiera attirerà benedizioni particolari sul suo benefattore. Così si scelgono volentieri dei poveri per tenere a battesimo un bambino; così i membri di una confraternita fanno l’elemosina ai poveri affinché preghino per i loro confratelli defunti. Inoltre la povertà ha una sua utilità sciale: essa concorre alla redenzione degli uomini. Per i ricchi l’elemosina fatta ai poveri è una delle vie possibili di salvezza. Per i poveri l’umiltà e la rassegnazione sono mezzi per guadagnarsi il paradiso. Tuttavia, alla fine del Medioevo, queste teorie riguardo ai poveri e alla povertà non sono più le sole. Esse coesistono con una corrente di pensiero che nella povertà vede una maledizione e nei poveri dei pericoli per la società. La povertà degrada l’uomo, lo rende ozioso e inutile. Vi è di più: negli ultimi secoli del Medioevo si diffondono la criminalità, il furto e il brigantaggio. E poiché gli indiziati sono d frequente poveri o vagabondi, guadagna terreno l’idea che il povero sia un pericolo pubblico. Già nel Medioevo esiste dunque un atteggiamento ostile verso i poveri e la povertà. Questo atteggiamento è riassunto da una frase del “Roman de la Rose”: “Maledetta sia l’ora in cui fu concepito il povero”. È difficile dire quando e come questa seconda corrente di pensiero sia venuta a contrapporsi alla prima. Si è supposto, non senza ragione, che almeno sino alla fine del XII secolo, sino a che la povertà fu un fatto quasi esclusivamente rurale, essa venne considerata un segno d’elezione per niente affatto una maledizione….. L’idea che il povero è un “membro di Gesù Cristo” dominava dunque tutte le opere medievali di assistenza”37 . Quando si tenta di estrapolare la concreta condizione dei marginali e dei poveri nella società medievale, occorre fare molta attenzione per non cadere nell’anacronismo, avverte giustamente Bartoli: “è necessario non attribuire ai secoli passati idee e prassi sociali che sono proprie del nostro tempo1. In questo senso è evidente il fatto che i Padri della Chiesa prima e i teologi medievali poi avevano un’idea prevalentemente morale della riflessione sul povero. Le categorie politiche e sociali di oggi sono improprie per spiegare fenomeni di altre epoche.”38 E aggiungiamo la spiegazione di Brown per il quale “il cristianesimo non è mai stato rivoluzionario. Se c’è stata una rivoluzione del IV secolo questa non è certo stata sociale. I vescovi non hanno mai spinto i poveri a ribellarsi o a rivendicare i loro diritti. La «rivoluzione del IV secolo» è stata una rivoluzione culturale. I poveri che nei secoli precedenti erano invisibili, diventano non solo visibili, ma pietra di paragone per misurare l’umanità di tutta la società.”39 Le opere di Bolkestein, Veyne e della Patlagean chiariscono che ci troviamo di fronte a un profondo mutamento, nel corso dell'età tardoantica, dell'idea che di sé aveva la società antica… L'orgoglioso modello “civico” dell'età classica soggiacque, nel corso del IV e del V secolo, non alla predicazione o all'attività cristiana fra i poveri, ma ad una muta e irresistibile pressione dal basso. Le città si rivelarono incapaci di assorbire le nuove forme di povertà create, nelle province orientali dell'impero romano nel corso del IV, V e dei primi del VI secolo, da una costante crescita della popolazione. Questa imprevista rivoluzione demografica gravò sia la città sia la campagna di un numero di poveri senza precedenti. Le strutture esistenti della città - e il modello civico che era stato loro associato - crollarono semplicemente sotto il peso di un desolante surplus umano, allorché le città si riempirono di persone che erano tangibilmente “povere”. Esse non potevano essere trattate 37 Francesco Lamendola, La povertà diventa un crimine da reprimere quando tramonta il “buio” Medioevo 38 Marco Bartoli, Appunti per una storia della marginalità e della devianza nel Medioevo, Aracne edizioni, 2014, p.8 39 Marco Bartoli, idem p. 66
  • 13. 13 come “cittadini”, ma nemmeno potevano essere ignorati, come nel vecchio e più rigido modello “civico” di comunità. Brown contesta questa ricostruzione dei fatti, riconoscendo il merito agli studiosi citati di aver identificato e descritto l’evoluzione, ma non quello di averne dato un’esauriente spiegazione. In altri termini, secondo la Patlagean la carità cristiana rappresenta un sintomo, un effetto, delle trasformazioni sociali mentre per Brown essa rappresenta una delle cause di quelle stesse trasformazioni”40 . L’autore spiega che i vescovi, si impegnarono attivamente in forme di esercizio del potere che contribuirono a provocare tale transizione. I vescovi e i loro assistenti laici e chierici - rappresentano qualcosa di più che dei sintomi di un processo. Essi erano, in prima persona, agenti del cambiamento. Per dirla schiettamente: in un certo senso furono i vescovi cristiani ad aver inventato i poveri: ascesero a posizioni di potere nella società tardo-romana focalizzando sempre più l'attenzione sui poveri e presentavano le loro azioni come una risposta alle necessità di un'intera categoria di persone (i poveri) che sostenevano di rappresentare. Furono queste azioni a contribuire in maniera decisiva al cambiamento il cui significato generale Veyne e la Patlagean hanno descritto in maniera così convincente. Passo passo essi impregnarono aree significative della società tardo- antica della nozione di “amore per i poveri”. Si rovescia quindi il giudizio espresso soprattutto dalla Patlagean. La mobilità nelle campagne e l'immigrazione incontrollata nelle città sono state limpidamente descritte da Eve1yne Patlagean come particolarmente comuni in età tardo-antica: a suo giudizio avevano attivato il motore demografico che condusse alla sostituzione di una nozione classica di società con una medievale e bizantina. Ciò che contò, nella tarda antichità, potrebbe non essere stato l'aumento generale dell'immigrazione degli indigenti. Piuttosto, fu la maniera in cui la Chiesa cristiana dava un significato nuovo a una situazione antica. Essa designava i gruppi marginali che avevano sempre fatto pressione sulla città - persone scomode, molte delle quali erano ben lontane dall'essere povere - come “i poveri”, aventi diritto alla protezione e a un certo grado di integrazione nella comunità.41 Lo studioso fa un’avvertenza: il passaggio da un modello di società ad un altro non avviene all’improvviso e non va letto in chiave moralistica, “i benefattori dell'età classica non erano necessariamente più duri di cuore: guardavano semplicemente alla loro società e vedevano, soprattutto, cittadini e non cittadini, mentre ebrei e cristiani erano giunti piuttosto a vedere ricchi e poveri”42 . Per renderci conto della tradizione e del peso che aveva a Roma il sistema dell’annona, per cui anche i papi si sono trovati in qualche modo a risolvere un dato di fatto presente quasi fin dalla fondazione della città eterna, diciamo che tale sistema dell'annona aveva da sempre comportato la mobilitazione di grandi quantità di cibo perché fosse distribuito ai cittadini, gratis o a prezzo ridotto, e non ai poveri. Nella Roma del IV secolo, ad esempio, circa 150.000 cittadini ricevevano ancora l'annona civica, alimentati da circa venticinque milioni di modii (166.750.000 chilogrammi) di grano. Nel VI secolo, ne vennero trasportati via mare ventiquattro milioni di modii (160.080.000 chilogrammi), 40 P. Brown, Povertà e leadership, p. 12 41 Ibidem p. 14. 42 M. Bartoli, ibidem, p. 60
  • 14. 14 dall'Egitto a Costantinopoli. L'enorme sforzo amministrativo dedicato all'annona era mantenuto, che funzionasse o no all' atto pratico, perché serviva a far risaltare il ruolo degli imperatori. Gli imperatori erano rimasti euergétai, benefattori pubblici, alla vecchia maniera. La loro preoccupazione per l'annona mostrava che essi “amavano” ancora la loro città e i suoi cittadini43 . In questo contesto l’azione sociale della Chiesa si inserisce nel solco del sistema avviato da secoli e ne apporta una sua specificità, esercita una forte attrattiva e spinge la gente ad avvicinarsi al cristianesimo e, contemporaneamente, costituisce un fattore di evoluzione della società. Certamente, nei secoli IV, V e VI, soprattutto, vescovi, comunità e singoli individui intervengono concretamente in favore dei diseredati, come ammettono anche alcuni tra i loro avversari, che attribuiscono a ciò i progressi della nuova religione: Giuliano l’Apostata rende indirettamente omaggio ai cristiani dichiarando che i pagani non sono abbastanza generosi, mentre i cristiani soccorrono i bisognosi senza distinzione di religione44 . CONCLUSIONI Gregorio Magno, può ben dirsi, insieme ad Agostino, il “padre spirituale e il dottore del Medioevo, e anche se la sua opera non raggiunse mai l’altezza di quella del vescovo di Ippona, nondimeno la sua attività di uomo vissuto in un periodo segnato da profonde trasformazioni storiche e di precursore di tempi nuovi fu straordinariamente imponente”45 . Dal percorso storico e religioso si vede come l’atteggiamento di Gregorio verso la povertà sia conforme alla tradizione ecclesiale e romana allo stesso tempo. Forse questa è la prima grande novità e originalità del pontefice che seppe unire nella sua persona e nel suo ruolo di capo della chiesa le due grandi correnti culturali del tempo: la cura del popolo romano, attraverso una efficace organizzazione amministrativa e gestione economica del patrimonium Petri, secondo la tradizione dell’annona imperiale, e la cura spirituale del proprio gregge, ad immagine del Buon Pastore, in cui la parte spirituale è strettamente congiunta al bene materiale. Papa Gregorio unisce, grazie anche alla sua formazione culturale e alle sue vicende personali, la qualità organizzativa dello spirito romano classico e l’apertura ed empatia gratuita e generosa verso il prossimo dello spirito autenticante cristiano. Un altro aspetto significativo e in linea con la tradizione cristina a è l’adesione pesonale al valore della povertà come strumetno di maggiore efficacia per l’annuncio evangelico. Più volte ribadisce la necessità che l’uomo ha bisogno di soddisfare in maniera sufficiente i suoi bisogni materiali per poter accogliere la Parola, la novità del Vangelo. Gregorio, inoltre, è consapevole del ruolo politico del vescovo e della chiesa di Roma nelle vicende storiche del tempo, suo malgrado, cioè per la concomitanza di due fattori: il grande patrimonio latifondistico della chiesa di Roma e il ‘disinteresse’, per non dire incapacità, sia dell’esarca di Ravenna che dell’imperatore di Costantinopoli, ad essere politicamente presenti ed efficaci con la minaccia longobarda e degli altri popoli germanici del nord Europa. Il papa-monaco seppe colmare questo “vuoto di potere”, anche a volte contestato dalle autorità politiche imperiali, e nella logica della difesa del popolo romano e della chiesa, in quel momento deboli e indifesi, utilizzò tutte le sue 43 M. Bartoli, ididem, p. 61 44 M. Bortoli, ibidem, p. 70 45 A: Franzen, Breve storia della Chiesa, p.98
  • 15. 15 ‘armi’ per poter mantenere fede alla responsabilità che si era assunto con il papato. Forse in questo lo si definisce il prio papa del Medioevo. Non ha paura di coinvolgersi nelle “faccende secolari” se queste minacciano l’ordine sociale, la vita delle persone. Proprio questa concezione rigida e predefinita della società in cui ci sono precisi ruoli, responsabilità per ciascuno, lo rende forse un po’ lontano dalla nostra sensibilità e quindi poco moderno, ma pur in questo contesto storico la sua grandezza e novità è di aver saputo “valorizzare” ciascuno proprio dentro lo spazio assegnato. La visione che se ognuno facesse bene il suo compito, in quanto assegnato da Dio, la società sarebbe ‘perfetta’. La povertà concepita e vissuta da papa Gregorio non ha mia nulla di moralistico ma è sempre funzionale alla salvezza cristiana, all’ordine della società, alla giustizia del diritto romano, alla responsabilità del ruolo. La struttura della società necessità che ognuno faccia il suo compito con onestà, impegno e responsabilità. La povertà non è del cittadino romano ma del cristiano. La scelta della povertà come virtù personale è pienamente coerente con la tradizione cristiana che dal suo inizio vede tale come uno dei segni della ‘sequela Christi’. Già sant’Antonio, il primo eremita, a vent’anni dona tutti i suoi beni ai poveri così come faranno tanti altri monaci, vescovi nel corso dei secoli. Interessante e per certi aspetti mi sembra nuova, che diventerà istituita negli ordini monastici successivi, la scelta di Gregorio di essere povero personalmente ma restare ‘ricco’ di beni materiali a titolo di vescovo di Roma, cioè aver mantenuto e in parte addirittura accresciuto il patrimonium Petri. Ha certamente amministrato con grande oculatezza l’immenso patrimonio solo e sempre a favore dei poveri e non per bisogni o interessi personali. Ha diviso chiaramente i beni della chiesa, utili per aiutare i poveri, dai beni personali che vanno donati ai poveri. Il vescovo, il monaco, il prete deve essere povero. Il primato dello spirituale sul materiale è chiaramente di impronta cristiana e in qualche modo platonica, per cui “tocca ai sudditi svolgere le attività di grado inferiore e alle guide delle anime meditare le verità somme affinché il darsi alla cura della polvere non oscuri l’occhio preposto a fare da guida nel cammino”46 . La povertà rende l’uomo libero di dedicarsi a Dio, di “non contaminare la vita con attività terrestri”47 . BIBLIOGRAFIA G. Cracco Gregorio ‘morale’ la costruzione di un’identità, in Gregorio Magno nel XIV centenario della morte (Roma 2004), p 171-198, nota 90 Ullmann, Il papato nel Medioevo, Laterza 1987 Il Papato e l’Europa, a cura di Garbiele De Rosa e Giorgio Cracco, Rubbettino 2001 E. Caliri, I mancipia nel registrum epistularum di Gregorio pp. 349-369. Atti dell’Accademia romanistica costantiniana, XVIII convegno internazionale in onore di Remo Martini Roberta Rizzo, Papa Gregorio Magno e la nobiltà in Sicilia, (Biblioteca dell’Officina di Studi Medievali, 8) 2008 46 Gregorio Magno, Regola pastorale, II,7 47 Ibidem
  • 16. 16 Strutture monastiche, gestione e momenti di vita quotidiana nel Registrum epistularum di Gregorio Magno, Carmelina Urso V. Paglia, Storia della povertà, Rizzoli 2014 Gregorio Magno, La regola pastorale, Città nuova editrice, 1990 Marina Benedetti a cura di, Storia del Cristianesimo, II L’età Medievale, , Carocci editore 2006 J. Danielou, H. Marrou, Nuova Storia della Chiesa Dalle origini a s. Gregorio Magno, Marietti 1970 S. Gasparri, Italia Longobarda, Editori Laterza 2012 Brown P., Povertà e leadership nel tardo impero romano, Laterza Ed., Roma – Bari 2003 G. L. Potestà- G.Vian, Storia del cristianesimo, il Mulino, 2010 H-C. Puech, Storia del cristianesimo, Mondadori Oscar, 1992 J. Lortz, Storia della Chiesa nello sviluppo delle sue idee, Paoline 1966 O. Bazzichi, Alle radici del capitalismo Medioevo e scienza economica, Effatà editrice, 2003 L. Bruni- A. Smerilli, Benedetta economia, Benedetto da Norcia e Francesco d’Assisi nella storia economica europea, Città Nuova, 2010 K. A. Fink, Chiesa e papato nel Medioevo, il Mulino, 1998 Marcello Semeraro, vescovo, Lettera per il XIV centenario della morte di Gregorio Magno, Manduria 2004 G. Como, La figura spirituale di Gregorio Magno, https://docs.google.com/viewer?url=https%3A%2F%2Fwww.chiesadimilano.it%2Fformazioneper manenteclero%2Ffiles%2F2017%2F05%2FCOMO-Gregorio__1.24454.pdf www.festivaldelmedioevo.it/portal/i-doveri-verso-i-poveri-allalba-del-medioevo/ www.treccani.it/enciclopedia/santo-gregorio-i (Enciclopedia-dei-Papi)/