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© 2020, Garzanti S.r.l., Milano
GIANNI BIONDILLO
ATTRAVERSARE IL BUIO
Scrivi, mi dicono. Solo l’idea mi ripugna. Giro attorno alla tastiera da giorni, guardandola in
cagnesco. La evito e ne vengo attratto. Vago di notte, al buio, di stanza in stanza, insonne,
apro la finestra, osservo le strade vuote, immobili, ho voglia di scendere, di camminare
così come sono, in pigiama, la barba sfatta, i capelli scarmigliati. In ciabatte, mi dico, e mi
sembra persino logico, sensato, valutare la possibilità di fare per davvero questa
passeggiata onirica, surreale, allucinata, col rischio di incontrare qualcuno, la polizia, i
vigili. Scrivi, mi dicono tutti. Ho un conato. Mi sento come un cane preso a calci, orecchie
basse. Guaisco, finestra aperta, occhi rivolti alla luna.
Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani.
Non so da quanti anni non riguardo quel film. M’è venuta voglia di accendere il
televisore, in piena notte. Lascio perdere, gironzolo ancora per un po’ in casa, cerco di
sgombrare la testa dalla conta dei morti, degli infetti, dei ricoverati. Vai a letto, obbligati a
dormire. Mantieni le abitudini, gli orari, le scadenze, datti una regola, imponila al resto
della famiglia.
Scrivi. Va bene.
È il 3 febbraio, decido di partire da qui, da questa data, senza una vera e propria
ragione. Del morbo già se ne parlava, da giorni, settimane, ma a ogni storia occorre dare
un inizio: è il 3 febbraio, insomma, ed è il mio compleanno. Vinicio mi telefona da Roma
per farmi gli auguri. Si scherza del più e del meno. Si parla anche di quello che sta
capitando in Cina, dall’altra parte del mondo. In un altro mondo. Siamo due cretini, ci
diciamo. Colpa della nostra pigrizia, concordiamo. Ora saremmo ricchi, ricchissimi. Ma
forse siamo ancora in tempo, se ci diamo da fare. Quando torno dalla Grecia ne
riparliamo, concludo.
Ho fretta, abbiamo prenotato al ristorante cinese sotto casa. Ci andiamo da quando ci
siamo trasferiti in via Padova. C’è un rapporto quasi familiare con i gestori, è capitato
spesso, negli anni, di ospitare Vanessa, la loro figlia più piccola, da noi, quando non
trovavano una baby-sitter per la sera. Ci vado, con la mia famiglia che mi vuole
festeggiare, perché si mangia bene, ovvio. Ma anche come gesto di solidarietà. Da
quando si parla di Coronavirus all’improvviso tutti hanno iniziato a evitare i ristoranti cinesi,
trattati come l’avamposto della peste, gli untori, le serpi in seno. Vanessa, un’untrice. Che
in Cina ci sarà stata una volta sola nella vita, chissà quanti anni fa. Il ristorante è
praticamente vuoto. Passo la serata a parlar male dei miei compatrioti, irrazionali e
razzisti. Faccio pure una fotografia al piatto di trippa alla fiamma e la metto su Instagram.
Scrivo: «Coronavirus, io me te magno!».
Probabilmente credo di essere simpatico. A guardarlo oggi sembra il post di un cretino.
A guardare da qui tutti sembravamo cretini. Poi, solo poi, si capiscono le cose. La Storia
irrompe nella tua vita, ti si precipita addosso, e quasi non te ne accorgi. Stai già ballando,
da tempo, sulla tolda della nave, il tuo destino è già scritto, non sai niente dell’iceberg.
Balli.
Il 5 febbraio esco dalla fermata della metropolitana Monastiraki e la prima cosa che
vedo sono le rovine della biblioteca di Adriano. Giro lo sguardo e lassù intuisco il profilo
del Partenone. Ho una specie di sindrome di Stendhal. Preso dalla smania faccio subito
un post. A corredo della foto aggiungo:#sempreingiro#perdigiorno #flaneur. Mi vanto del
mio viaggiare, del mio andare nel mondo a cercare la bellezza. Stavo già ballando e non
me ne ero reso conto. Intontito dalla normalità, dall’ordinarietà, dalla ragionevolezza, giro
© 2020, Garzanti S.r.l., Milano
per l’Acropoli e guardo con benevolenza le scolaresche asiatiche, tutte con la mascherina
al volto. Mi sembra più un modo di tranquillizzarci, a noi occidentali, che altro. Quella
mattina, all’aeroporto di Orio al Serio, bastava avere i tratti somatici orientali per essere
additati a vista. In fila all’imbarco, m’ero permesso battute grevi. A un certo punto ho
iniziato a tossire, vistosamente, lamentando ai miei compagni di viaggio che mi sentivo
così da quando ero tornato dalla Cina. Una battuta. Idiota. Attorno a me s’era fatto il vuoto,
era rimasto solo un ragazzo, occhi a mandorla. «Non sono cinese», continuava a dirmi in
un improbabile inglese, «sono giapponese», e per provarlo mi mostrava il passaporto,
sicuro così di convincermi. Come se la nazionalità bastasse d’incanto a evitare l’infezione,
come se la cosa non riguardasse nessuno di noi per illogiche ragioni etniche.
A mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio, per farsi coraggio, si
ripete: «Fino a qui tutto bene».
Domenica 9 febbraio. È mattina, sto tornando. Agli arrivi di Orio al Serio una batteria di
addetti sanitari coperti dalla testa ai piedi misura la temperatura a tutti quelli che sbarcano.
La situazione mi sembra surreale. Non stiamo esagerando? Vengo da Atene non da
Wuhan.
In quei giorni i social si stanno già scatenando su teorie complottiste, campagne no vax,
dichiarazioni di guerra, incitazioni al linciaggio. Io queste cose in realtà non le so, non ho
Facebook, non ho Twitter. Se non fosse stato per mia figlia non avrei neppure Instagram.
Che uso come deposito, promemoria, diario per immagini. Non faccio “storie”, seguo poca
gente, metto raramente fotografie che mi ritraggono. I deliri della rete me li racconta
Vinicio. «È proprio come ci eravamo immaginati», mi dice. «Forse siamo ancora in
tempo», aggiunge, ma lo fa con un tono stranamente sconsolato.
Io cerco di fare lo splendido. Insomma, dico, è un virus, lo sappiamo. Non è il primo,
non sarà l’ultimo. Ne muoiono a migliaia di raffreddore, ogni anno. Mi faceva stare bene
dire una cosa del genere. Oggi, visto da qui… Lo so, lo so, ma è facile, visto da qui,
giudicare qualunque cosa. È il maledetto senno del poi.
Gli impegni di lavoro si stanno affastellando. Devo correggere le bozze del saggio da
pubblicare in maggio, poi c’è da programmare il calendario per il corso di scrittura in
primavera, che non si sovrapponga alla conferenza da tenere in Pirelli e alla lettura
scenica da fare in Bocconi. E poi ci sono quegli incontri con Chiara Stoppa e Francesco
Frongia, per il monologo da scrivere e mettere in scena. Infine organizzare con Gianluca e
Carmelo l’appuntamento di fine marzo: un centinaio di persone che da mezza Europa
deve venire qui a Milano, per attraversare a piedi la città, con noi di Sentieri Metropolitani.
È per questo che siamo andati ad Atene, è per questo che a Parigi stanno preparando
l’evento di fine mese, è per questo che dopo di noi si dovrà andare a Colonia e Marsiglia:
per far camminare l’Europa, unita, solidale. Tutto normale, quindi.
Fino a qui tutto bene.
Quando è iniziato a crollarci tutto addosso? No, anzi: quando ci siamo resi conto che
tutto stava già crollando?
Il 21 febbraio identificano il “paziente 1” a Codogno (del “paziente 0” non si è mai
saputo nulla. L’hanno inseguito per settimane, come se trovarlo significasse avere la
possibilità di sacrificarlo su un’ara per placare gli animi furenti e capricciosi degli dei) e al
contempo c’è la prima vittima del virus a Padova. Sulla guida del pallottoliere si sposta il
primo anello. Inizia la conta. Si istituiscono due zone rosse circoscritte in Lombardia e in
Veneto. Si ventila la chiusura di cinema, teatri, luoghi pubblici, scuole. Il 23 febbraio,
domenica pomeriggio, vado a vedere un balletto al teatro Menotti, appena scampato,
grazie a una raccolta pubblica, dalla chiusura per essere trasformato in un parcheggio.
© 2020, Garzanti S.r.l., Milano
Parlo con Emilio Russo, il direttore artistico, sembra una beffa, gli dico. Ora che avete la
certezza di continuare dovete chiudere.
La mattina seguente le mie figlie restano a casa. Niente scuola, niente università. Due
settimane, dicono i telegiornali. All’inizio sembra la vivano come un’insperata vacanza.
Neppure io e mia moglie sappiamo bene cosa fare. I primi giorni le lasciamo poltrire a
letto, poi le obbligo ad alzarsi come se dovessero andarci per davvero, a scuola. Si studia,
a casa, ma si studia. Così come io sto lavorando, altrettanto dovete fare voi.
Perché «Milano non si ferma». Come diceva quel video, non ricordo neppure quando fu
messo in circolazione. Una prova d’orgoglio del comparto produttivo, una dichiarazione
volitiva. La dimostrazione di una fragilità esibita. Il 25 febbraio scrivo agli iscritti alla
camminata di marzo: «Fellowwalkers, first of all, let’sall stay calm and smile». Li
tranquillizzo. «Non sappiamo quali notizie vi giungano dai mezzi d’informazione. Noi
abbiamo ricevuto da amici di mezzo mondo e-mail preoccupate. Bene, non c’è nulla di cui
preoccuparsi. Il cordone sanitario che è stato previsto dal sistema nazionale della sanità è
una forma di garanzia per il contenimento di un’infezione che colpisce, in percentuali
bassissime, soprattutto persone anziane già compromesse da altre malattie. Non stiamo
vivendo una pandemia. Non ci sono morti per strada come in The Walking Dead.»
Scrivevo questo, giuro. Ne ero convinto? Non vedevo? Non volevo vedere? I morti sono
già dieci. Mi sembrano tanti, ma continuo a ripetermi che un raffreddore ne fa di più. Che
non devo preoccuparmi, basta seguire le disposizioni governative. E lavarsi le mani, di
continuo. Ma quello lo facevo già, quindi va tutto bene. Fino a qui.
Nel mentre tutti i ristoranti cinesi della città hanno chiuso. Faccio in tempo a scambiare
due parole con Elena, la mamma di Vanessa (non si chiamano così, lo so. Ma si fanno
chiamare in questo modo, è la loro maniera di venirci incontro). Ha la mascherina al volto.
Tanto era inutile continuare, non ci andava più nessuno, mi dice. Non sa neppure quando
riaprirà. Decidiamo con le mie figlie di andare in un alimentari cinese per comprare dei
ravioli da fare al vapore. Siamo gli unici italiani. Tutti gli altri, commessi e clienti, hanno la
mascherina al volto. Sono praticamente gli ultimi cinesi che vedrò. Dal giorno dopo
sembrano tutti scomparsi nel nulla. I negozi dei peruviani, degli italiani, degli egiziani, sono
ancora aperti. Quelli dei cinesi hanno fatto una serrata, in contemporanea, nessuno fa
concorrenza a nessuno, hanno tutti appeso lo stesso identico cartello, in italiano e in
cinese.
A Wuhan, dicono i notiziari, hanno chiuso un’area con una popolazione di circa
cinquanta milioni di persone. È come chiudere dall’oggi al domani tutta l’Italia, penso.
Ammetto di ammirarli. “Ne saremmo capaci noi?” mi chiedo. Fa ridere, da qui, oggi, vero?
Cos’è che non vedevo? Cos’è che non capivo? Di certo loro, i cinesi meneghini, avevano
visto: i loro compatrioti, che combattevano una battaglia feroce. I loro parenti, amici,
conoscenti. Che morivano.
Il primo di marzo i giornali diffondono la notizia che Luis Sepúlveda e Carmen Yáñez
sono stati ricoverati perché infettati. Lucio e Carmen. Ci eravamo visti l’ultima volta a
Parigi, per la festa dei quarant’anni del nostro editore francese. Mando subito un
messaggio su WhatsApp a Carmen. Todobien? Io e Elena ti stiamo vicini. Mi risponde il
giorno dopo: «Todomejor, recibiendotratamientoadecuado». I decessi in Italia sono 34.
Quanti sono in Spagna? Il virus non conosce confini, si sposta con calma, attecchisce
ovunque. Noi siamo arrivati prima, a chi toccherà adesso? Impareranno dai nostri errori?
Sapranno comportarsi nel modo giusto? Adecuado?
Il 5 marzo devo portare mia figlia Sara a fare delle visite sportive a Rozzano. Io non ho
la macchina, ci dobbiamo muovere con i mezzi pubblici. Le metropolitane sono ancora
© 2020, Garzanti S.r.l., Milano
troppo piene di persone, accalcate, cellulare alla mano, pochi quelli con le mascherine.
Sono tassativo sulle distanze. Mi sposto di continuo con mia figlia per evitare gli
assembramenti. Sto cadendo, lo sento. Sono stati gli amici cinesi a farmelo capire. Stiamo
cadendo, tutti. I morti sono 148. Nessuno nella comunità cinese, gli unici che sapevano
cosa bisognava fare: aspettare, sottocoperta, far passare la buriana. Smetterla con gli
egoismi, preservare i nostri anziani, i più fragili, i più esposti.
Tutti i miei appuntamenti saltano, o li faccio saltare. Me ne restano pochi, inderogabili.
Decido di spostarmi in bicicletta per evitare contatti ravvicinati. La città si sta svuotando a
vista d’occhio. La vivo come una ferita. Milano non sta nei suoi monumenti, nei suoi
parchi, nelle sue piazze. Milano è la frenesia del suo popolo, è il correre avanti e indietro,
è le agende fitte di impegni, di incontri.
Rallentare la produzione, proibire i contatti, chiudere le scuole, è un colpo al cuore, uno
shock, inutile negarlo. Tutto questo vuoto mi precipita addosso. Finalmente sto capendo:
sono un deficiente. Nel senso più puro del termine. Mi manca qualcosa, sono carente. Mi
permetto di fare battute, o commenti, su una cosa che non conosco, che non ho mai
vissuto. E se non la provi sulla tua pelle non puoi per davvero capirla. Cerco di dirlo al
telefono a Vinicio. A Roma è tutto tranquillo, mi riferisce, come se la cosa non fosse
neppure vera. Come se stesse accadendo in Cina, in un altro mondo, non qui. Ci guarda
dalla capitale, probabilmente convinto di essere fuori dalla bolla. Ma io lo so che è solo
una questione di consapevolezza. Nella bolla c’è già, ci siamo tutti. (…)
Gianni Biondillo (Milano, 1966), è architetto e scrittore. Presso Guanda ha pubblicato la serie
dedicata all’ispettore Ferraro: Per cosa si uccide, Con la morte nel cuore, Per sempre giovane, Il
giovane sbirro, I materiali del killer (Premio Scerbanenco e PrixVioleta Negra), Cronaca di un
suicidio, Nelle mani di Dio, L’incanto delle sirene e Il sapore del sangue. Per Guanda sono usciti
anche Metropoli per principianti, Nel nome del padre, Strane storie, Il mio amico Asdrubale,
L’Africa non esiste, Come sugli alberi le foglie (Premio Bergamo) e Pit, il bambino senza qualità.
Sempre per Guanda, Biondillo ha curato l’antologia di racconti Pene d’amore; ha scritto con
Severino Colombo Manuale di sopravvivenza del padre contemporaneo e con Michela
MoninaTangenziali. Scrive per il cinema e la televisione, pubblica su quotidiani e riviste nazionali.
Vive a Milano con la moglie e due figlie.

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Andrà tutto bene

  • 1. © 2020, Garzanti S.r.l., Milano GIANNI BIONDILLO ATTRAVERSARE IL BUIO Scrivi, mi dicono. Solo l’idea mi ripugna. Giro attorno alla tastiera da giorni, guardandola in cagnesco. La evito e ne vengo attratto. Vago di notte, al buio, di stanza in stanza, insonne, apro la finestra, osservo le strade vuote, immobili, ho voglia di scendere, di camminare così come sono, in pigiama, la barba sfatta, i capelli scarmigliati. In ciabatte, mi dico, e mi sembra persino logico, sensato, valutare la possibilità di fare per davvero questa passeggiata onirica, surreale, allucinata, col rischio di incontrare qualcuno, la polizia, i vigili. Scrivi, mi dicono tutti. Ho un conato. Mi sento come un cane preso a calci, orecchie basse. Guaisco, finestra aperta, occhi rivolti alla luna. Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Non so da quanti anni non riguardo quel film. M’è venuta voglia di accendere il televisore, in piena notte. Lascio perdere, gironzolo ancora per un po’ in casa, cerco di sgombrare la testa dalla conta dei morti, degli infetti, dei ricoverati. Vai a letto, obbligati a dormire. Mantieni le abitudini, gli orari, le scadenze, datti una regola, imponila al resto della famiglia. Scrivi. Va bene. È il 3 febbraio, decido di partire da qui, da questa data, senza una vera e propria ragione. Del morbo già se ne parlava, da giorni, settimane, ma a ogni storia occorre dare un inizio: è il 3 febbraio, insomma, ed è il mio compleanno. Vinicio mi telefona da Roma per farmi gli auguri. Si scherza del più e del meno. Si parla anche di quello che sta capitando in Cina, dall’altra parte del mondo. In un altro mondo. Siamo due cretini, ci diciamo. Colpa della nostra pigrizia, concordiamo. Ora saremmo ricchi, ricchissimi. Ma forse siamo ancora in tempo, se ci diamo da fare. Quando torno dalla Grecia ne riparliamo, concludo. Ho fretta, abbiamo prenotato al ristorante cinese sotto casa. Ci andiamo da quando ci siamo trasferiti in via Padova. C’è un rapporto quasi familiare con i gestori, è capitato spesso, negli anni, di ospitare Vanessa, la loro figlia più piccola, da noi, quando non trovavano una baby-sitter per la sera. Ci vado, con la mia famiglia che mi vuole festeggiare, perché si mangia bene, ovvio. Ma anche come gesto di solidarietà. Da quando si parla di Coronavirus all’improvviso tutti hanno iniziato a evitare i ristoranti cinesi, trattati come l’avamposto della peste, gli untori, le serpi in seno. Vanessa, un’untrice. Che in Cina ci sarà stata una volta sola nella vita, chissà quanti anni fa. Il ristorante è praticamente vuoto. Passo la serata a parlar male dei miei compatrioti, irrazionali e razzisti. Faccio pure una fotografia al piatto di trippa alla fiamma e la metto su Instagram. Scrivo: «Coronavirus, io me te magno!». Probabilmente credo di essere simpatico. A guardarlo oggi sembra il post di un cretino. A guardare da qui tutti sembravamo cretini. Poi, solo poi, si capiscono le cose. La Storia irrompe nella tua vita, ti si precipita addosso, e quasi non te ne accorgi. Stai già ballando, da tempo, sulla tolda della nave, il tuo destino è già scritto, non sai niente dell’iceberg. Balli. Il 5 febbraio esco dalla fermata della metropolitana Monastiraki e la prima cosa che vedo sono le rovine della biblioteca di Adriano. Giro lo sguardo e lassù intuisco il profilo del Partenone. Ho una specie di sindrome di Stendhal. Preso dalla smania faccio subito un post. A corredo della foto aggiungo:#sempreingiro#perdigiorno #flaneur. Mi vanto del mio viaggiare, del mio andare nel mondo a cercare la bellezza. Stavo già ballando e non me ne ero reso conto. Intontito dalla normalità, dall’ordinarietà, dalla ragionevolezza, giro
  • 2. © 2020, Garzanti S.r.l., Milano per l’Acropoli e guardo con benevolenza le scolaresche asiatiche, tutte con la mascherina al volto. Mi sembra più un modo di tranquillizzarci, a noi occidentali, che altro. Quella mattina, all’aeroporto di Orio al Serio, bastava avere i tratti somatici orientali per essere additati a vista. In fila all’imbarco, m’ero permesso battute grevi. A un certo punto ho iniziato a tossire, vistosamente, lamentando ai miei compagni di viaggio che mi sentivo così da quando ero tornato dalla Cina. Una battuta. Idiota. Attorno a me s’era fatto il vuoto, era rimasto solo un ragazzo, occhi a mandorla. «Non sono cinese», continuava a dirmi in un improbabile inglese, «sono giapponese», e per provarlo mi mostrava il passaporto, sicuro così di convincermi. Come se la nazionalità bastasse d’incanto a evitare l’infezione, come se la cosa non riguardasse nessuno di noi per illogiche ragioni etniche. A mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete: «Fino a qui tutto bene». Domenica 9 febbraio. È mattina, sto tornando. Agli arrivi di Orio al Serio una batteria di addetti sanitari coperti dalla testa ai piedi misura la temperatura a tutti quelli che sbarcano. La situazione mi sembra surreale. Non stiamo esagerando? Vengo da Atene non da Wuhan. In quei giorni i social si stanno già scatenando su teorie complottiste, campagne no vax, dichiarazioni di guerra, incitazioni al linciaggio. Io queste cose in realtà non le so, non ho Facebook, non ho Twitter. Se non fosse stato per mia figlia non avrei neppure Instagram. Che uso come deposito, promemoria, diario per immagini. Non faccio “storie”, seguo poca gente, metto raramente fotografie che mi ritraggono. I deliri della rete me li racconta Vinicio. «È proprio come ci eravamo immaginati», mi dice. «Forse siamo ancora in tempo», aggiunge, ma lo fa con un tono stranamente sconsolato. Io cerco di fare lo splendido. Insomma, dico, è un virus, lo sappiamo. Non è il primo, non sarà l’ultimo. Ne muoiono a migliaia di raffreddore, ogni anno. Mi faceva stare bene dire una cosa del genere. Oggi, visto da qui… Lo so, lo so, ma è facile, visto da qui, giudicare qualunque cosa. È il maledetto senno del poi. Gli impegni di lavoro si stanno affastellando. Devo correggere le bozze del saggio da pubblicare in maggio, poi c’è da programmare il calendario per il corso di scrittura in primavera, che non si sovrapponga alla conferenza da tenere in Pirelli e alla lettura scenica da fare in Bocconi. E poi ci sono quegli incontri con Chiara Stoppa e Francesco Frongia, per il monologo da scrivere e mettere in scena. Infine organizzare con Gianluca e Carmelo l’appuntamento di fine marzo: un centinaio di persone che da mezza Europa deve venire qui a Milano, per attraversare a piedi la città, con noi di Sentieri Metropolitani. È per questo che siamo andati ad Atene, è per questo che a Parigi stanno preparando l’evento di fine mese, è per questo che dopo di noi si dovrà andare a Colonia e Marsiglia: per far camminare l’Europa, unita, solidale. Tutto normale, quindi. Fino a qui tutto bene. Quando è iniziato a crollarci tutto addosso? No, anzi: quando ci siamo resi conto che tutto stava già crollando? Il 21 febbraio identificano il “paziente 1” a Codogno (del “paziente 0” non si è mai saputo nulla. L’hanno inseguito per settimane, come se trovarlo significasse avere la possibilità di sacrificarlo su un’ara per placare gli animi furenti e capricciosi degli dei) e al contempo c’è la prima vittima del virus a Padova. Sulla guida del pallottoliere si sposta il primo anello. Inizia la conta. Si istituiscono due zone rosse circoscritte in Lombardia e in Veneto. Si ventila la chiusura di cinema, teatri, luoghi pubblici, scuole. Il 23 febbraio, domenica pomeriggio, vado a vedere un balletto al teatro Menotti, appena scampato, grazie a una raccolta pubblica, dalla chiusura per essere trasformato in un parcheggio.
  • 3. © 2020, Garzanti S.r.l., Milano Parlo con Emilio Russo, il direttore artistico, sembra una beffa, gli dico. Ora che avete la certezza di continuare dovete chiudere. La mattina seguente le mie figlie restano a casa. Niente scuola, niente università. Due settimane, dicono i telegiornali. All’inizio sembra la vivano come un’insperata vacanza. Neppure io e mia moglie sappiamo bene cosa fare. I primi giorni le lasciamo poltrire a letto, poi le obbligo ad alzarsi come se dovessero andarci per davvero, a scuola. Si studia, a casa, ma si studia. Così come io sto lavorando, altrettanto dovete fare voi. Perché «Milano non si ferma». Come diceva quel video, non ricordo neppure quando fu messo in circolazione. Una prova d’orgoglio del comparto produttivo, una dichiarazione volitiva. La dimostrazione di una fragilità esibita. Il 25 febbraio scrivo agli iscritti alla camminata di marzo: «Fellowwalkers, first of all, let’sall stay calm and smile». Li tranquillizzo. «Non sappiamo quali notizie vi giungano dai mezzi d’informazione. Noi abbiamo ricevuto da amici di mezzo mondo e-mail preoccupate. Bene, non c’è nulla di cui preoccuparsi. Il cordone sanitario che è stato previsto dal sistema nazionale della sanità è una forma di garanzia per il contenimento di un’infezione che colpisce, in percentuali bassissime, soprattutto persone anziane già compromesse da altre malattie. Non stiamo vivendo una pandemia. Non ci sono morti per strada come in The Walking Dead.» Scrivevo questo, giuro. Ne ero convinto? Non vedevo? Non volevo vedere? I morti sono già dieci. Mi sembrano tanti, ma continuo a ripetermi che un raffreddore ne fa di più. Che non devo preoccuparmi, basta seguire le disposizioni governative. E lavarsi le mani, di continuo. Ma quello lo facevo già, quindi va tutto bene. Fino a qui. Nel mentre tutti i ristoranti cinesi della città hanno chiuso. Faccio in tempo a scambiare due parole con Elena, la mamma di Vanessa (non si chiamano così, lo so. Ma si fanno chiamare in questo modo, è la loro maniera di venirci incontro). Ha la mascherina al volto. Tanto era inutile continuare, non ci andava più nessuno, mi dice. Non sa neppure quando riaprirà. Decidiamo con le mie figlie di andare in un alimentari cinese per comprare dei ravioli da fare al vapore. Siamo gli unici italiani. Tutti gli altri, commessi e clienti, hanno la mascherina al volto. Sono praticamente gli ultimi cinesi che vedrò. Dal giorno dopo sembrano tutti scomparsi nel nulla. I negozi dei peruviani, degli italiani, degli egiziani, sono ancora aperti. Quelli dei cinesi hanno fatto una serrata, in contemporanea, nessuno fa concorrenza a nessuno, hanno tutti appeso lo stesso identico cartello, in italiano e in cinese. A Wuhan, dicono i notiziari, hanno chiuso un’area con una popolazione di circa cinquanta milioni di persone. È come chiudere dall’oggi al domani tutta l’Italia, penso. Ammetto di ammirarli. “Ne saremmo capaci noi?” mi chiedo. Fa ridere, da qui, oggi, vero? Cos’è che non vedevo? Cos’è che non capivo? Di certo loro, i cinesi meneghini, avevano visto: i loro compatrioti, che combattevano una battaglia feroce. I loro parenti, amici, conoscenti. Che morivano. Il primo di marzo i giornali diffondono la notizia che Luis Sepúlveda e Carmen Yáñez sono stati ricoverati perché infettati. Lucio e Carmen. Ci eravamo visti l’ultima volta a Parigi, per la festa dei quarant’anni del nostro editore francese. Mando subito un messaggio su WhatsApp a Carmen. Todobien? Io e Elena ti stiamo vicini. Mi risponde il giorno dopo: «Todomejor, recibiendotratamientoadecuado». I decessi in Italia sono 34. Quanti sono in Spagna? Il virus non conosce confini, si sposta con calma, attecchisce ovunque. Noi siamo arrivati prima, a chi toccherà adesso? Impareranno dai nostri errori? Sapranno comportarsi nel modo giusto? Adecuado? Il 5 marzo devo portare mia figlia Sara a fare delle visite sportive a Rozzano. Io non ho la macchina, ci dobbiamo muovere con i mezzi pubblici. Le metropolitane sono ancora
  • 4. © 2020, Garzanti S.r.l., Milano troppo piene di persone, accalcate, cellulare alla mano, pochi quelli con le mascherine. Sono tassativo sulle distanze. Mi sposto di continuo con mia figlia per evitare gli assembramenti. Sto cadendo, lo sento. Sono stati gli amici cinesi a farmelo capire. Stiamo cadendo, tutti. I morti sono 148. Nessuno nella comunità cinese, gli unici che sapevano cosa bisognava fare: aspettare, sottocoperta, far passare la buriana. Smetterla con gli egoismi, preservare i nostri anziani, i più fragili, i più esposti. Tutti i miei appuntamenti saltano, o li faccio saltare. Me ne restano pochi, inderogabili. Decido di spostarmi in bicicletta per evitare contatti ravvicinati. La città si sta svuotando a vista d’occhio. La vivo come una ferita. Milano non sta nei suoi monumenti, nei suoi parchi, nelle sue piazze. Milano è la frenesia del suo popolo, è il correre avanti e indietro, è le agende fitte di impegni, di incontri. Rallentare la produzione, proibire i contatti, chiudere le scuole, è un colpo al cuore, uno shock, inutile negarlo. Tutto questo vuoto mi precipita addosso. Finalmente sto capendo: sono un deficiente. Nel senso più puro del termine. Mi manca qualcosa, sono carente. Mi permetto di fare battute, o commenti, su una cosa che non conosco, che non ho mai vissuto. E se non la provi sulla tua pelle non puoi per davvero capirla. Cerco di dirlo al telefono a Vinicio. A Roma è tutto tranquillo, mi riferisce, come se la cosa non fosse neppure vera. Come se stesse accadendo in Cina, in un altro mondo, non qui. Ci guarda dalla capitale, probabilmente convinto di essere fuori dalla bolla. Ma io lo so che è solo una questione di consapevolezza. Nella bolla c’è già, ci siamo tutti. (…) Gianni Biondillo (Milano, 1966), è architetto e scrittore. Presso Guanda ha pubblicato la serie dedicata all’ispettore Ferraro: Per cosa si uccide, Con la morte nel cuore, Per sempre giovane, Il giovane sbirro, I materiali del killer (Premio Scerbanenco e PrixVioleta Negra), Cronaca di un suicidio, Nelle mani di Dio, L’incanto delle sirene e Il sapore del sangue. Per Guanda sono usciti anche Metropoli per principianti, Nel nome del padre, Strane storie, Il mio amico Asdrubale, L’Africa non esiste, Come sugli alberi le foglie (Premio Bergamo) e Pit, il bambino senza qualità. Sempre per Guanda, Biondillo ha curato l’antologia di racconti Pene d’amore; ha scritto con Severino Colombo Manuale di sopravvivenza del padre contemporaneo e con Michela MoninaTangenziali. Scrive per il cinema e la televisione, pubblica su quotidiani e riviste nazionali. Vive a Milano con la moglie e due figlie.